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La carità
cristiana Parleremo della carità cristiana
e non della carità in genere per un semplice motivo: come la speranza
è la virtù teologale più misconosciuta ai nostri giorni, la carità
è la virtù più inflazionata nel nostro linguaggio comune e, spesso se
non sempre, viene identificata con l’elemosina. Invece, la
carità, dal punto di vista della Rivelazione, è la più alta e la più
ambita virtù a cui l’uomo possa aspirare. - La carità in
san Paolo Paolo, nella I
Lettera alle comunità di Corinto (13, 1-13)[1]
la definisce come il più grande carisma[2]
a cui un cristiano possa tendere: la pone al di sopra del dono della
povertà, dello spogliarsi di tutti i beni, al di sopra della scienza e
della conoscenza della verità e, perfino, al di sopra del martirio che,
a quei tempi, era probabilmente la testimonianza più alta alla quale
erano chiamate le prime comunità. In parole molto
semplici, l’apostolo dice che a nulla vale essere un assiduo
frequentatore della Chiesa, un energico ed intrepido catechista, un
ottimo vescovo e pastore, può essere inutile anche offrire il proprio
corpo in libagione sugli altari dei tribunali pagani, se non si ha la
carità. E’ uno di
quegli scritti paolini che spesso si preferisce accantonare o, che è
ancora peggio, interpretare secondo le proprie esigenze; si accomuna la
carità al volersi bene, a compiere qualche opera di misericordia
corporale, ad essere tollerante, non adirarsi con nessuno, non
bestemmiare mai, avere sempre l’occhio languido su un volto
stoicamente teso a dimostrare la propria pratica cristiana addolcito da
una smorfia di sorriso. Spesso ci si
sente giustificati dalle buone opere che compiamo (o pensiamo di
compiere); crediamo che dare la mille lire al povero o versare una
cospicua somma sul conto corrente della Telethon sia necessario e
sufficiente per entrare nelle grazie di Dio ed essere ammessi in
Paradiso al termine del nostro passaggio su questa terra. E invece siamo
solo degli ipocriti[3]!
In questa
lettera, dal capitolo I all’XI, Paolo è molto duro nel prendere
posizione su questioni molto delicate: a) le divisioni nella Chiesa tra
chi parteggiava per Paolo e chi per Apollo; b) problemi morali
riguardanti i casi di incesto, di fornicazione e di appello ai
tribunali; c) matrimonio e verginità; d) l’idolatria; e)
l’abbigliamento delle donne nell’assemblea[4].
Nel XII
capitolo l’apostolo inserisce la sua dottrina sui carismi, con al
centro il famoso paragone della Chiesa con il corpo umano, e conclude la
sua lettera con l’inno alla carità (rimane solo il discorso sulla
resurrezione dei morti che conclude in modo brillante l’epistola). Cosa spinge
Paolo a porre tanto l’accento su questa virtù? A metterla,
addirittura, su un piano più elevato del martirio? A nominarla,
esplicitamente, oltre tredici volte nelle sue lettere? Che cos’è,
insomma la carità? La
carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità;
non si vanta, non si gonfia; non manca di rispetto, non cerca il suo
interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode
dell’ingiustizia ma si compiace della verità. Tutto
copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. La carità non avrà
mai fine. Le profezie scompariranno; il dono delle lingue cesserà e la
scienza svanirà. Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è
imperfetto scomparirà. Queste
dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma
di tutte più grande è la carità! (I Cor 13, 4-8. 10. 13) Questo inno
stupendo descrive, in modo chiaro e inequivocabile, la manifestazione
della carità dicendo, alla fine, senza possibilità di dubbio, che essa
è la più grande delle tre virtù teologali. Ma qual è la sua essenza?
E’ un’idea? E’ un sentimento? E’ un atteggiamento interiore di
tipo metafisico, trascendente? E’ un moto dell’animo umano? Questa parola,
che viene nominata esplicitamente circa 25 volte nel N.T. e, in modo
implicito, in molte altre occasioni (basti pensare al discorso sulle
beatitudini di Matteo e Luca o a quello sull’amore ai nemici di Lc 6)
è una dottrina filosofica (basti pensare al contemporaneo stoicismo e a
tutte le sue derivazioni e ramificazioni[5])
o è qualcosa di più? Cosa ha spinto
un uomo come Paolo, fariseo figlio di farisei, allevato nella rigida
scuola di Gamaliele, uno dei maggiori rabbini del suo tempo, strenuo
difensore della tradizione ebraica, convinto persecutore dei cristiani,
a cambiare così radicalmente la sua vita, anche a costo di sopportare
percosse, persecuzioni, incomprensioni e, come ben sappiamo, la morte
stessa? L’incontro con Gesù di Nazareth[6],
il Cristo, l’Unto, il Messia, Colui che è risuscitato! Un incontro
che lo renderà dapprima cieco (cfr. At 9, 3-9) per acquistare, poi, la
luce vera, quella che gli farà vedere le cose in un modo nuovo,
svincolato dai bavagli della Legge, in una visione universalistica della
Salvezza, rendendolo l’apostolo
delle genti, senza il quale, probabilmente, il cristianesimo sarebbe
rimasto una delle tante correnti ebraiche del tempo. Un incontro
decisivo, quindi, l’incontro con una persona: Gesù Cristo, che a noi,
stasera, dice due cose molto importanti: 1)
la
carità non è un’idea, una filosofia o un pio sentimento, ma è
l’incontro esperienziale, esistenziale con Dio; 2)
la
carità non può essere imbrigliata nei nostri canoni mentali (come
amore, affetto, solidarietà, ecc.) ma va vissuta e compresa ogni
giorno, così come l’incontro con una persona cara dà sempre nuove
emozioni e nuove conoscenze reciproche. Infine, teniamo
ben presente che non siamo noi che andiamo incontro a Dio ma è Lui che
viene verso di noi, non
siamo noi che abbiamo scelto Lui ma è Cristo che ha scelto noi e ci ha
costituito come Chiesa perché portiamo frutto abbondante e duraturo (cfr.
Gv 15, 16). - Eros, philia
e agape Il N.T.
distingue la carità dalle altre forme umane di amore, utilizzando, per
la prima, il termine agape, e per le seconde, i termini eros e philia. L’eros è
l’amore sensibile passionale, che vorrebbe godere e avere per sé la
creatura umana verso cui è portato. Esso raggiunge il suo vertice
nell’ebbrezza sensibile. Nel mondo greco era personificato nel dio
Eros[7] e veniva desiderato e
onorato con entusiasmo religioso. A sua volta la religione include
l’eros come sua parte costitutiva, poiché attraverso di esso l’uomo
entra in comunione con gli dei (per esempio, attraverso la prostituzione
sacra). La philia
presenta un carattere altruista, mentre l’eros cerca la pienezza e la
sublimazione della propria vita, sia in forma sensibile sia in forma
sublimata. Colui che è mosso dalla philia si preoccupa della persona
amata. E’ così che gli dei si prendono cura degli uomini e l’amico
dell’amico; è così che tutti gli uomini dovrebbero comportarsi gli
uni verso gli altri. L’eros si rivolge al bello, la philia al bene,
soprattutto al bene morale della persona amata[8]. A differenza dell’eros,
che è in ampia misura sensibile, la philia è amore personale
spirituale. L’agape (caritas
in latino) rappresenta qualcosa di nuovo di fronte all’eros e alla
philia e precisamente a motivo della sua origine e della sua essenza
soprannaturale, divina. La sua patria va ricercata nel Dio trino, ove
essa unisce il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo come una corrente,
per poi comprendere e redimere in Cristo e nello Spirito Santo anche gli
uomini. In coloro che si lasciano conquistare da tale corrente d’amore
essa fa ritorno alla propria origine nel Dio trino in una dedizione
piena di gratitudine e si dirige verso il prossimo con benevolenza
effettiva. Colui che ama così, ama in una maniera molto diversa da
colui che è soltanto ripieno di eros, fosse anche nella sua forma più
alta, poiché non aspira più in prima linea al suo proprio
perfezionamento, ma si rivolge e rimane rivolto in primo luogo al Dio
che in Cristo si è rivelato e donato come amore. L’origine da Dio e
la permanente dedizione a Dio, anche nel rivolgersi al prossimo,
distinguono nettamente l’agape anche da ogni genere di philia
orientata in senso puramente intramondano e umanistico.[9] Ma al contrario
di quanto potrebbe sembrare, i tre aspetti non sono incompatibili tra
loro, ma, anzi, sono ordinati l’uno all’altro in molteplici modi,
nonostante la loro diversità. Come
la grazia divina non distrugge e non elimina la natura, ma la sana e la
perfeziona, così l’agape purifica, ordina ed eleva l’eros e la
philia. Allo stesso tempo, chi esclude in maniera assoluta e in ogni
caso l’eros, anche nelle sue forme ordinate, dall’agape, finisce per
fare di quest’ultima un amore inumano, freddo e privo di sentimenti.
Così come chi non è capace di incontrare personalmente il prossimo sul
piano umano nelle forme di una philia ordinata, difficilmente sarà
capace di uscire da sé e di elevarsi a Dio e al prossimo nell’agape
in vera apertura e dedizione.[10] Lungi, quindi,
da qualsiasi strumentalizzazione della Parola di Dio, il rapporto tra
uomo e uomo e uomo e Dio va rivisto e rivissuto alla luce di questi tre
aspetti di quella parola che noi chiamiamo amore, ma che non sappiamo
bene cosa significhi. Non esiste un amore solo spirituale, così come
non esiste un amore solo passionale; entrambi si completano a vicenda ed
entrambi hanno bisogno dell’amore divino come il viaggiatore ha
bisogno della bussola, il bambino della mamma e la terra dell’acqua. Per troppi anni
abbiamo idealizzato l’amore vero nell’amore spirituale, angelico,
asessuato di Dante e Beatrice e abbiano considerato quello di Romeo e
Giulietta troppo volgare e profano; abbiamo condotto ai margini della
cristianità l’amore sponsale ritenendolo un atto dovuto per la
procreazione e per evitare le tentazioni della carne mentre
abbiamo dato il primo posto alle scelte verginali di monaci e suore i
quali, staccati dal mondo, cercavano con tutti i modi di evitare tutto
ciò che sapeva di carnalità e mondanità
dimenticando la stupenda passione che si legge nel libro del Cantico dei
cantici, testo che l’Ebraismo prima e L’amore
carnale, passionale e di amicizia non è peccaminoso se vissuto nella
pienezza di un amore vero, spontaneo, genuino, figlio di un reciproco
scambio di sguardi, di relazioni, di ricerca l’uno dell’altra, di
mutuo soccorso e comprensione, di scambievole aiuto nei momenti
difficili e di bilaterale esaltazione nei momenti di gioia. L’amore
carnale, passionale e di amicizia riceve la sua piena legittimazione nel
tacito scambio dell’amore divino laddove nessuna etica umana può
arrogarsi il diritto di dichiarare cosa è sporco e cosa è pulito.
“Io in te e tu in me” dice Gesù nell’ultimo discorso ai discepoli
riferendosi al Padre; “Io in te e tu in me” dice l’amato
all’amata. Qual è la
differenza morale tra l’uno e l’altro tipo d’amore? In base a
quale principio possiamo definire l’uno puro e l’altro peccaminoso?
Perché non posso amare la mia sposa con la stessa intensità e lo
stesso amore con il quale il Figlio ama il Padre? La carità è corrente
d’amore nella terra come lo è in cielo, o no? Esiste una simbiosi
profonda tra l’eternità e il finito o per quest’ultimo non c’è
scampo? E se è vero che posso amare come ama Dio, se è vero che il mio
amore è eterno, se è vero che la
carità non avrà mai fine (I Cor 13, 8) dove posso vederlo
realizzato? - La santa
famiglia di Nazareth A Nazareth[11],
un paesino sperduto della Galilea, a circa Nazareth è il
luogo dove Gesù vivrà circa trent’anni senza compiere miracoli,
senza sbalordire i suoi compaesani, senza dare nessun segno che possa
far trapelare la sua divinità (cfr. Lc 4, 16-30). Fabbricando
sedie, realizzando porte, aggiustando gli aratri di legno, sistemando le
coperture delle case, il figlio di Dio si guadagnerà il pane con il
sudore della propria fronte (cfr. Gen 3, 17-19) dall’alba al mattino,
non da povero né da ricco, non elemosinando né vivendo agiatamente, ma
con uno stile di vita comune a buona parte dell’umanità, sottomesso
ai suoi genitori (cfr. Lc 3, 51-52).
Santa
e dolce dimora dove Gesù fanciullo nasconde la sua gloria! Giuseppe
addestra all’umile arte del falegname il figlio dell’Altissimo. Accanto
a lui Maria fa lieta la sua casa di una limpida gioia. La
mano del Signore li guida e li protegge nei giorni della prova. O famiglia di Nazareth, esperta del soffrire, dona al
mondo la pace.[12] Questo meraviglioso inno dipinge una scena forse troppo idealista, ma
che non è molto lontana dalla verità. Sicuramente Giuseppe, Maria e
Gesù vivevano un buon rapporto tra loro, sia nel ruolo di genitore e
figlio, sia in quello di marito e moglie; ma erano anche persone
incarnate nella storia, dove i problemi di lavoro e di salute erano
frequenti come in qualunque altra famiglia umana. Eppure, dietro le quinte, nascondevano una realtà di santità,
volutamente non manifestata, tenuta nascosta per motivi che a noi
risultano sconosciuti[13],
ma che non possono lasciarci indifferenti; d’altronde, cosa ha spinto
i vari Basilio, Benedetto, Macario e tanti altri a scegliere una vita
umile, semplice, scandita dal ritmo del lavoro manuale e della preghiera
se non lo spirito della Santa famiglia di Nazareth? Lo stesso spirito
che ha fatto nascere tanti ordini religiosi di clausura, maschili e
femminili, anche in epoche recenti, seppure adattati alle esigenze del
mondo che cambia[14]. - Vivere il proprio Nazareth L’imperativo di oggi è godi
tutto e subito perché non si vive in eterno e “tutto quello che
si lascia è perduto”. È la banalizzazione dell’attimo fuggente, di
cogliere tutto quello che capita, di godere dei piccoli e grandi momenti
della vita come attori di un film: quando è finito, si spegne la
televisione e si va a dormire! Il senso della vita odierna è sempre più immanente, sempre più
materialista, sempre più pragmatico: tutto è valido se serve a
qualcosa oggi, tutto è buono se può essere dimostrato, tutto mi può
essere utile se mi elimina quest’angoscia che mi porto dentro. La nostra vita inizia quando usciamo dall’utero di nostra madre
(almeno per ora: domani, forse, usciremo tutti dalla memoria di un
computer) e finisce quando chiudiamo gli occhi. Anche se ci definiamo cristiani, siamo, di fatto, degli atei perché
viviamo come se Dio non esistesse e, quindi, ci affanniamo per
conquistare una condizione economica sempre migliore (cfr. Lc 12,22-32)
che ci possa garantire, in caso di malattia grave, le cure migliori e più
costose. Abbiamo perso il senso di parole come provvidenza, pazienza, attesa, speranza[15]; niente più ci
soddisfa perché i rapporti interpersonali, i sentimenti, le varie
esperienze vengono tutte consumate come un pasto in un fast-food. In nome della globalità
planetaria stiamo facendo di tutto per uniformare l’occidente e
l’oriente ad un unico modello di sviluppo: il capitalismo! Siamo
invasi dai Mc Donald’s ed affine da Stoccolma a Città del Capo, da
Sidney a New York; tutto è massimilizzato e uniformato e chi rimane
fuori dal giro è perduto. La venuta del Figlio di Dio ci spinge a guardare oltre il finito, ad alzare
gli occhi verso il cielo (cfr. Sal 120), a porre il senso della
nostra esistenza nel mistero di un amore gratuito e immenso come mai
l’uomo ne abbia fatto esperienza; un amore che ci viene incontro nella
semplicità di un bambino e di una comune famiglia; un amore che si dona
sotto le spoglie di un pezzo di pane; un amore che non s’impone ma che
si offre; un amore che non distoglie il suo sguardo al primo rifiuto ma
che è fedele alla sua essenza fino alla morte; un amore unico, mai
conosciuto da occhi umani ma che si è svelato negli ultimi tempi per
farsi conoscere e che noi siamo chiamati ad annunziare: Ciò
che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò
che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò
che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia
il Verbo della vita (poiché la vita si è fatta visibile, noi
l’abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e
vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa
visibile a noi), quello
che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché
anche voi siate in comunione con noi. (I Gv 1, 1-3a) In
questa stupenda introduzione alla sua prima lettera, Giovanni
racchiude tutta l’esperienza della Chiesa come un’esperienza
concreta, verificabile, basata su un incontro che ha cambiato la vita a
lui e i suoi fratelli. Anche qui c’è
un incontro come per Paolo, dal quale nasce una comunione, un agape, che
spinge l’apostolo ad annunciarlo agli altri perché anch’essi siano
in comunione con lui e con tutta In poche righe
sono sintetizzati i tre momenti della rivelazione: a)
Dio
si china sulle miserie umane e va incontro all’uomo per liberarlo (cfr.
Es 3, 7 e segg.); b)
l’uomo
accoglie quest’amore e ne gioisce (cfr. Lc 1, 67-79);
c)
spinto
da esso non può fare a meno di testimoniarlo ai quattro angoli della
terra (cfr. Mt 28, 18-20). Dirà Paolo,
scrivendo una seconda volta alle comunità di Corinto: Poiché l’amore di Cristo ci spinge ..... Vi supplichiamo: lasciatevi
riconciliare con Dio! (cfr. II Cor 5, 14-21). Quando si vive
nell’agape non si può fare a meno di comunicarlo agli altri;
l’agape è contagioso, è un fuoco che brucia chiunque gli è
affianco, è il tesoro nascosto che chiede di essere condiviso con tutti
i poveri della terra. Solo chi lo conosce sa cosa significa. Francesco lo
sapeva bene, per questo ha abbandonato tutto e tutti per seguire
l’amato sugli alti monti della conoscenza della verità e nelle valli
profonde dell’abbandono supremo alla vertiginosa volontà divina. Tutto questo è
meravigliosamente sintetizzato nella Santa famiglia di Nazareth. Non è
solo un angolo di Paradiso per l’armonia che in essa regna ma è
qualcosa di più: è Infatti,
l’opera di carità più grande che possiamo fare è dire al nostro
prossimo che la sua carne non è destinata alla corruzione (cfr. Sal 16)
ma che lui è eterno e che tutti i suoi sensi di colpa e le sue angosce,
anche se fanno ancora sentire il loro morso, non sono più assoluti,
perché lui è amato da un Dio che non ha avuto schifo dei suoi peccati. Ma questo va
detto anzitutto con la vita, vivendo quello che si dice[16]
altrimenti le nostre parole cadono in contraddizione con le nostre opere
(cfr. Gc 2, 14-26) rendendoci colpevoli di un peccato terribile: ridurre
l’amore di Dio ad una dottrina o una filosofia che non è possibile
vivere! È l’opposto dell’evangelizzazione, è come dire ad un uomo:
“Vedi questo tesoro? Io ti dico che esiste, ma contemporaneamente ti
testimonio che è una falsità, perché anch’io, che tanto te ne
parlo, non so dov’è né se vale la pena cercarlo”. È come mostrare
a un malato di aids una
fiala dov’è racchiusa la medicina che può guarirlo e poi gettarla
per terra davanti ai suoi occhi. Quante persone
sono state scandalizzate dalle nostre opere! Al riguardo Gesù è molto
duro, tanto da dire, per chi crea lo scandalo: Sarebbe
meglio per lui che gli fosse messa una macina da mulino al collo e fosse
gettato in mare, piuttosto che scandalizzare uno di questi piccoli (Lc
17, 2). La carità ci
spinge, quindi, ad andare agli estremi confini del mondo per gridarla a
tutti, ma c’invita, nel contempo, a guardarci dentro ogni giorno, a
porci alla presenza dell’Altissimo così come siamo perché non
sprechiamo la perla preziosa che ci ha donato, perché non rendiamo vana
la croce di Cristo, perché non poniamo ostacoli all’azione dello
Spirito Santo. Metterci ogni
giorno alla sua presenza è per ogni cristiano una necessità più del
mangiare, del bere e del fare l’amore. Riceviamo Credete, forse,
che Maria, Giuseppe e Gesù campavano di aria? Anche loro, come noi, si
alzavano ogni giorno, lavoravano per guadagnarsi il pane, si ammalavano,
soffrivano e gioivano; ma, ne cono certo, una cosa non facevano: non si
ribellavano alla volontà del Padre! L’agape è
vivere ogni giorno come se fosse il primo e l’ultimo della nostra
vita; l’agape è porre attenzione ad ogni piccolo avvenimento;
l’agape è guardare il nostro prossimo negli occhi e scoprirne il
volto di Cristo; l’agape è sapere che non si è migliori di nessun
altro ma che anzi, come dicevano tanti santi, si è l’ultimo degli
uomini ed è solo per grazia divina che possiamo vivere e parlare di Lui
ai nostri fratelli. Ecco: questa è
la carità, l’amore, l’agape! Questa è “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni
gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli
altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete
amore gli uni per gli altri”. (Gv 13, 34-35) dice Gesù ai suoi discepoli la sera prima di morire. È antico
in quanto già Israele aveva ricevuto nella Torah[17],
primo fra tutti i comandamenti, quello di amare Dio con tutto il cuore,
con tutta l’anima e con tutte le forze e amare il prossimo come se
stesso; ma è, allo stesso tempo, nuovo
perché il Signore, per primo, ha dimostrato come viverlo, dando se
stesso sulla croce, e perché l’amore di cui si parla nei vangeli deve
essere rivolto ad ogni uomo. Il prossimo dell’A.T. era colui che
faceva parte del popolo dell’alleanza mentre nel N.T. prossimo diventa
ogni uomo, vicino o lontano, bianco o nero, cristiano o non cristiano. L’amore per
Dio deve essere concretizzato nell’amore per l’uomo. Ancora una
volta l’apostolo Giovanni ci viene in aiuto: “Se
uno dicesse: io amo Dio, e odiasse il suo fratello, è un mentitore. Chi
infatti non ama il proprio fratello che vede non può amare Dio che non
vede! (I Gv 4, 20)”. L’amore deve essere palpabile, si deve
toccare con mano, in una parola: deve essere vero! Come già è
stato detto, siamo pieni di parole, spesso insulse; abbiamo bisogno di
fatti. L’amore è la parola più inflazionata, come dicevo
all’inizio, ed è la parola che ha bisogno, più delle altre, di
diventare vita concreta. L’amore, l’agape, si è fatto uomo in Gesù
di Nazareth e dall’incontro con lui possiamo anche noi diventare pane
spezzato per i fratelli. Nell’incontro
con il Figlio di Dio, la
speranza si alimenta, la carità si rende visibile e la fede nasce e si
consolida. È l’incontro la vera realtà che andiamo cercando e
nell’incontro troveremo la risposta alle nostre più profonde e, a
volte, nascoste domande. [1] Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna. E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sono nulla. E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per esser bruciato, ma non avessi la carità, niente mi giova. La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell'ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. La carità non avrà mai fine.....Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità! [2] Carisma: dono di Dio dato al singolo credente o a un gruppo di persone per il bene di tutta la collettività. L’apostolo Paolo ne individua i principali nei carismi di governare, profetizzare, ammaestrare, parlare in lingue, interpretarle e compiere guarigioni (cfr. I Cor 12,28-31). [3] Ipocrisia: capacità di simulare sentimenti lodevoli allo scopo di ingannare qualcuno per ottenerne la simpatia o i favori. [4] Più che altrove, nella I lettera ai Corinti, l’apostolo è molto duro verso i cristiani di sesso femminile. [5]
Stoicismo: Una delle tre
grandi scuole filosofiche dell'età ellenistica, insieme
all'epicureismo e allo scetticismo. Storia:
La scuola stoica fu fondata ad Atene intorno al [6] Il discorso sull’incontro tra l’uomo e Dio, nella persona di Gesù Cristo, non sarà approfondito in questa catechesi perché costituisce motivo dominante della catechesi sulla fede (cfr. Gv 4; Mt 19,16-22; Mt 2,1-12; Lc 7,1-10). [7]
Eros:
Nella mitologia greca, dio dell'amore, corrispondente al
Cupido dei romani. Nella mitologia più antica era rappresentato
come una delle forze primitive della natura, figlio del Caos e
personificazione dell'armonia e della potenza creativa
dell'universo; ben presto, tuttavia, venne identificato con un
giovane bello e affascinante, accompagnato da Foto
("bramosia") e Imero ("desiderio"). Nella
mitologia più tarda appare inseparabile dalla madre, Afrodite, dea
dell'amore. Nell'arte greca Eros veniva descritto come un giovane
alato, piccolo ma bellissimo, dagli occhi frequentemente bendati per
simboleggiare la cecità dell'amore. A volte aveva in mano un fiore,
ma più spesso arco e frecce d'argento, con cui lanciava dardi di
desiderio nel petto degli dei e degli uomini. Nell'arte e nella
leggenda romane, Eros degenerò in un ragazzino dispettoso e fu
spesso raffigurato come un paffuto fanciullino alato armato di arco
e faretra. [8] Nell’A.T. abbiamo un esempio elevato di philia, tra Davide e Gionata, figlio di Saul, i quali furono legati da una profonda amicizia dalla quale non si separarono mai se non a causa della morte in battaglia di Gionata (cfr. I Sam capp. 19, 20 e 25). [9] Tratto da Anselm Gunthor : “Chiamata e risposta - Una nuova teologia morale II” - Edizioni Paoline - pagg. 256-258. [10]
A. Gunthor - Op.cit. [11]
Nazareth: Città di
Israele sulle alture che dominano la piana di Esdraelon, capoluogo
del distretto settentrionale e maggiore centro della Galilea. È
sede di industrie meccaniche, alimentari e tessili. Araba già nel
VII secolo, la città rimase sotto l'impero ottomano fino alla prima
guerra mondiale e nel 1949 fu occupata e annessa dallo stato di
Israele. Secondo il Nuovo Testamento, Nazareth ospitò la casa di
Maria e Giuseppe e fu il luogo in cui Gesù trascorse l'infanzia.
Per i numerosi luoghi sacri di memoria biblica, parzialmente
ricostruiti dopo i mutamenti operati dai musulmani nel Medioevo,
Nazareth è oggi meta di pellegrinaggi e di turismo. La chiesa
dell'Annunciazione sorge nel luogo in cui si ritiene che l'arcangelo
Gabriele sia apparso alla Vergine, mentre la chiesa dedicata a San
Giuseppe occuperebbe il sito della sua bottega di falegname.
Abitanti: 49.800 (1991). [12] Tratto dall’inno delle lodi mattutine nella celebrazione della Domenica della Santa Famiglia. [13] Perché di Giuseppe non si parla più nei Vangeli quando Gesù inizia la sua vita pubblica? Perché Egli non si poteva manifestare pubblicamente quale figlio di Dio a vent’anni (considerato che a quell’età molti avevano diversi figli nonché posti di lavoro prestigiosi e di responsabilità) invece di attenderne trenta? Perché gli evangelisti sono così aridi di notizie sulla sua vita di questo periodo (ad eccezione di Luca che, comunque, non ci dice granché di più rispetto agli altri)? [14] Ricordiamo, tra gli altri, quello fondato da Charles de Foucald agli inizi del XX secolo conosciuto come le fraternità dei Piccoli Fratelli e delle Piccole Sorelle di Gesù. [17]
Torah
(In ebraico "legge" o
"dottrina"), nell'ebraismo, il Pentateuco, soprattutto in
forma di rotolo di pergamena da leggere nella sinagoga.
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