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La carità cristiana

Catechesi di Don Nicola De Rogatis 

 

Parleremo della carità cristiana e non della carità in genere per un semplice motivo: come la speranza è la virtù teologale più misconosciuta ai nostri giorni, la carità è la virtù più inflazionata nel nostro linguaggio comune e, spesso se non sempre, viene identificata con l’elemosina.

Invece, la carità, dal punto di vista della Rivelazione, è la più alta e la più ambita virtù a cui l’uomo possa aspirare.

 

- La carità in san Paolo

 

Paolo, nella I Lettera alle comunità di Corinto (13, 1-13)[1] la definisce come il più grande carisma[2] a cui un cristiano possa tendere: la pone al di sopra del dono della povertà, dello spogliarsi di tutti i beni, al di sopra della scienza e della conoscenza della verità e, perfino, al di sopra del martirio che, a quei tempi, era probabilmente la testimonianza più alta alla quale erano chiamate le prime comunità.

In parole molto semplici, l’apostolo dice che a nulla vale essere un assiduo frequentatore della Chiesa, un energico ed intrepido catechista, un ottimo vescovo e pastore, può essere inutile anche offrire il proprio corpo in libagione sugli altari dei tribunali pagani, se non si ha la carità.

E’ uno di quegli scritti paolini che spesso si preferisce accantonare o, che è ancora peggio, interpretare secondo le proprie esigenze; si accomuna la carità al volersi bene, a compiere qualche opera di misericordia corporale, ad essere tollerante, non adirarsi con nessuno, non bestemmiare mai, avere sempre l’occhio languido su un volto stoicamente teso a dimostrare la propria pratica cristiana addolcito da una smorfia di sorriso.

Spesso ci si sente giustificati dalle buone opere che compiamo (o pensiamo di compiere); crediamo che dare la mille lire al povero o versare una cospicua somma sul conto corrente della Telethon sia necessario e sufficiente per entrare nelle grazie di Dio ed essere ammessi in Paradiso al termine del nostro passaggio su questa terra. E invece siamo solo degli ipocriti[3]!

In questa lettera, dal capitolo I all’XI, Paolo è molto duro nel prendere posizione su questioni molto delicate: a) le divisioni nella Chiesa tra chi parteggiava per Paolo e chi per Apollo; b) problemi morali riguardanti i casi di incesto, di fornicazione e di appello ai tribunali; c) matrimonio e verginità; d) l’idolatria; e) l’abbigliamento delle donne nell’assemblea[4].

Nel XII capitolo l’apostolo inserisce la sua dottrina sui carismi, con al centro il famoso paragone della Chiesa con il corpo umano, e conclude la sua lettera con l’inno alla carità (rimane solo il discorso sulla resurrezione dei morti che conclude in modo brillante l’epistola).

Cosa spinge Paolo a porre tanto l’accento su questa virtù? A metterla, addirittura, su un piano più elevato del martirio? A nominarla, esplicitamente, oltre tredici volte nelle sue lettere? Che cos’è, insomma la carità?

 

La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità; non si vanta, non si gonfia; non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia ma si compiace della verità.

Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. La carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno; il dono delle lingue cesserà e la scienza svanirà. Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà.

Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità! (I Cor 13, 4-8. 10. 13)

 

Questo inno stupendo descrive, in modo chiaro e inequivocabile, la manifestazione della carità dicendo, alla fine, senza possibilità di dubbio, che essa è la più grande delle tre virtù teologali. Ma qual è la sua essenza? E’ un’idea? E’ un sentimento? E’ un atteggiamento interiore di tipo metafisico, trascendente? E’ un moto dell’animo umano?

Questa parola, che viene nominata esplicitamente circa 25 volte nel N.T. e, in modo implicito, in molte altre occasioni (basti pensare al discorso sulle beatitudini di Matteo e Luca o a quello sull’amore ai nemici di Lc 6) è una dottrina filosofica (basti pensare al contemporaneo stoicismo e a tutte le sue derivazioni e ramificazioni[5]) o è qualcosa di più?

Cosa ha spinto un uomo come Paolo, fariseo figlio di farisei, allevato nella rigida scuola di Gamaliele, uno dei maggiori rabbini del suo tempo, strenuo difensore della tradizione ebraica, convinto persecutore dei cristiani, a cambiare così radicalmente la sua vita, anche a costo di sopportare percosse, persecuzioni, incomprensioni e, come ben sappiamo, la morte stessa?

 

L’incontro con Gesù di Nazareth[6], il Cristo, l’Unto, il Messia, Colui che è risuscitato! Un incontro che lo renderà dapprima cieco (cfr. At 9, 3-9) per acquistare, poi, la luce vera, quella che gli farà vedere le cose in un modo nuovo, svincolato dai bavagli della Legge, in una visione universalistica della Salvezza, rendendolo l’apostolo delle genti, senza il quale, probabilmente, il cristianesimo sarebbe rimasto una delle tante correnti ebraiche del tempo.

 

Un incontro decisivo, quindi, l’incontro con una persona: Gesù Cristo, che a noi, stasera, dice due cose molto importanti:

1)  la carità non è un’idea, una filosofia o un pio sentimento, ma è l’incontro esperienziale, esistenziale con Dio;

2)  la carità non può essere imbrigliata nei nostri canoni mentali (come amore, affetto, solidarietà, ecc.) ma va vissuta e compresa ogni giorno, così come l’incontro con una persona cara dà sempre nuove emozioni e nuove conoscenze reciproche.

 

Infine, teniamo ben presente che non siamo noi che andiamo incontro a Dio ma è Lui che viene verso di noi,  non siamo noi che abbiamo scelto Lui ma è Cristo che ha scelto noi e ci ha costituito come Chiesa perché portiamo frutto abbondante e duraturo (cfr. Gv 15, 16).

 

- Eros, philia e agape

 

Il N.T. distingue la carità dalle altre forme umane di amore, utilizzando, per la prima, il termine agape, e per le seconde, i termini eros e philia.

 

L’eros è l’amore sensibile passionale, che vorrebbe godere e avere per sé la creatura umana verso cui è portato. Esso raggiunge il suo vertice nell’ebbrezza sensibile. Nel mondo greco era personificato nel dio Eros[7] e veniva desiderato e onorato con entusiasmo religioso. A sua volta la religione include l’eros come sua parte costitutiva, poiché attraverso di esso l’uomo entra in comunione con gli dei (per esempio, attraverso la prostituzione sacra).

La philia presenta un carattere altruista, mentre l’eros cerca la pienezza e la sublimazione della propria vita, sia in forma sensibile sia in forma sublimata. Colui che è mosso dalla philia si preoccupa della persona amata. E’ così che gli dei si prendono cura degli uomini e l’amico dell’amico; è così che tutti gli uomini dovrebbero comportarsi gli uni verso gli altri. L’eros si rivolge al bello, la philia al bene, soprattutto al bene morale della persona amata[8]. A differenza dell’eros, che è in ampia misura sensibile, la philia è amore personale spirituale.

L’agape (caritas in latino) rappresenta qualcosa di nuovo di fronte all’eros e alla philia e precisamente a motivo della sua origine e della sua essenza soprannaturale, divina. La sua patria va ricercata nel Dio trino, ove essa unisce il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo come una corrente, per poi comprendere e redimere in Cristo e nello Spirito Santo anche gli uomini. In coloro che si lasciano conquistare da tale corrente d’amore essa fa ritorno alla propria origine nel Dio trino in una dedizione piena di gratitudine e si dirige verso il prossimo con benevolenza effettiva. Colui che ama così, ama in una maniera molto diversa da colui che è soltanto ripieno di eros, fosse anche nella sua forma più alta, poiché non aspira più in prima linea al suo proprio perfezionamento, ma si rivolge e rimane rivolto in primo luogo al Dio che in Cristo si è rivelato e donato come amore. L’origine da Dio e la permanente dedizione a Dio, anche nel rivolgersi al prossimo, distinguono nettamente l’agape anche da ogni genere di philia orientata in senso puramente intramondano e umanistico.[9]

 

Ma al contrario di quanto potrebbe sembrare, i tre aspetti non sono incompatibili tra loro, ma, anzi, sono ordinati l’uno all’altro in molteplici modi, nonostante la loro diversità. Come la grazia divina non distrugge e non elimina la natura, ma la sana e la perfeziona, così l’agape purifica, ordina ed eleva l’eros e la philia. Allo stesso tempo, chi esclude in maniera assoluta e in ogni caso l’eros, anche nelle sue forme ordinate, dall’agape, finisce per fare di quest’ultima un amore inumano, freddo e privo di sentimenti. Così come chi non è capace di incontrare personalmente il prossimo sul piano umano nelle forme di una philia ordinata, difficilmente sarà capace di uscire da sé e di elevarsi a Dio e al prossimo nell’agape in vera apertura e dedizione.[10]

 

Lungi, quindi, da qualsiasi strumentalizzazione della Parola di Dio, il rapporto tra uomo e uomo e uomo e Dio va rivisto e rivissuto alla luce di questi tre aspetti di quella parola che noi chiamiamo amore, ma che non sappiamo bene cosa significhi. Non esiste un amore solo spirituale, così come non esiste un amore solo passionale; entrambi si completano a vicenda ed entrambi hanno bisogno dell’amore divino come il viaggiatore ha bisogno della bussola, il bambino della mamma e la terra dell’acqua.

Per troppi anni abbiamo idealizzato l’amore vero nell’amore spirituale, angelico, asessuato di Dante e Beatrice e abbiano considerato quello di Romeo e Giulietta troppo volgare e profano; abbiamo condotto ai margini della cristianità l’amore sponsale ritenendolo un atto dovuto per la  procreazione e per evitare le tentazioni della carne mentre abbiamo dato il primo posto alle scelte verginali di monaci e suore i quali, staccati dal mondo, cercavano con tutti i modi di evitare tutto ciò che sapeva di carnalità e  mondanità dimenticando la stupenda passione che si legge nel libro del Cantico dei cantici, testo che l’Ebraismo prima e la Chiesa poi hanno inserito nel canone dei testi sacri, ispirati da Dio.

L’amore carnale, passionale e di amicizia non è peccaminoso se vissuto nella pienezza di un amore vero, spontaneo, genuino, figlio di un reciproco scambio di sguardi, di relazioni, di ricerca l’uno dell’altra, di mutuo soccorso e comprensione, di scambievole aiuto nei momenti difficili e di bilaterale esaltazione nei momenti di gioia. L’amore carnale, passionale e di amicizia riceve la sua piena legittimazione nel tacito scambio dell’amore divino laddove nessuna etica umana può arrogarsi il diritto di dichiarare cosa è sporco e cosa è pulito. “Io in te e tu in me” dice Gesù nell’ultimo discorso ai discepoli riferendosi al Padre; “Io in te e tu in me” dice l’amato all’amata.

Qual è la differenza morale tra l’uno e l’altro tipo d’amore? In base a quale principio possiamo definire l’uno puro e l’altro peccaminoso? Perché non posso amare la mia sposa con la stessa intensità e lo stesso amore con il quale il Figlio ama il Padre? La carità è corrente d’amore nella terra come lo è in cielo, o no? Esiste una simbiosi profonda tra l’eternità e il finito o per quest’ultimo non c’è scampo? E se è vero che posso amare come ama Dio, se è vero che il mio amore è eterno, se è vero che la carità non avrà mai fine (I Cor 13, 8) dove posso vederlo realizzato?

- La santa famiglia di Nazareth

 

A Nazareth[11], un paesino sperduto della Galilea, a circa 200 km a nord di Gerusalemme. Nazareth è il luogo fisico e storico dove la carità divina si è realizzata, è la dimora di Dio con gli uomini (Ap 21, 3) dove l’onnipotenza dell'Altissimo si rende compagna di lavoro, lotta, sudore, ansie, speranze e gioie di ogni uomo sotto le spoglie di un bambino prima, e di un falegname poi.

Nazareth è il luogo dove Gesù vivrà circa trent’anni senza compiere miracoli, senza sbalordire i suoi compaesani, senza dare nessun segno che possa far trapelare la sua divinità (cfr. Lc 4, 16-30).

Fabbricando sedie, realizzando porte, aggiustando gli aratri di legno, sistemando le coperture delle case, il figlio di Dio si guadagnerà il pane con il sudore della propria fronte (cfr. Gen 3, 17-19) dall’alba al mattino, non da povero né da ricco, non elemosinando né vivendo agiatamente, ma con uno stile di vita comune a buona parte dell’umanità, sottomesso ai suoi genitori (cfr. Lc 3, 51-52).  

 

Santa e dolce dimora dove Gesù fanciullo nasconde la sua gloria!

Giuseppe addestra all’umile arte del falegname il figlio dell’Altissimo.

Accanto a lui Maria fa lieta la sua casa di una limpida gioia.

La mano del Signore li guida e li protegge nei giorni della prova.

O famiglia di Nazareth, esperta del soffrire, dona al mondo la pace.[12]

 

Questo meraviglioso inno dipinge una scena forse troppo idealista, ma che non è molto lontana dalla verità. Sicuramente Giuseppe, Maria e Gesù vivevano un buon rapporto tra loro, sia nel ruolo di genitore e figlio, sia in quello di marito e moglie; ma erano anche persone incarnate nella storia, dove i problemi di lavoro e di salute erano frequenti come in qualunque altra famiglia umana.

Eppure, dietro le quinte, nascondevano una realtà di santità, volutamente non manifestata, tenuta nascosta per motivi che a noi risultano sconosciuti[13], ma che non possono lasciarci indifferenti; d’altronde, cosa ha spinto i vari Basilio, Benedetto, Macario e tanti altri a scegliere una vita umile, semplice, scandita dal ritmo del lavoro manuale e della preghiera se non lo spirito della Santa famiglia di Nazareth? Lo stesso spirito che ha fatto nascere tanti ordini religiosi di clausura, maschili e femminili, anche in epoche recenti, seppure adattati alle esigenze del mondo che cambia[14].

 

 

- Vivere il proprio Nazareth

 

L’imperativo di oggi è godi tutto e subito perché non si vive in eterno e “tutto quello che si lascia è perduto”. È la banalizzazione dell’attimo fuggente, di cogliere tutto quello che capita, di godere dei piccoli e grandi momenti della vita come attori di un film: quando è finito, si spegne la televisione e si va a dormire!

Il senso della vita odierna è sempre più immanente, sempre più materialista, sempre più pragmatico: tutto è valido se serve a qualcosa oggi, tutto è buono se può essere dimostrato, tutto mi può essere utile se mi elimina quest’angoscia che mi porto dentro.

La nostra vita inizia quando usciamo dall’utero di nostra madre (almeno per ora: domani, forse, usciremo tutti dalla memoria di un computer) e finisce quando chiudiamo gli occhi.

Anche se ci definiamo cristiani, siamo, di fatto, degli atei perché viviamo come se Dio non esistesse e, quindi, ci affanniamo per conquistare una condizione economica sempre migliore (cfr. Lc 12,22-32) che ci possa garantire, in caso di malattia grave, le cure migliori e più costose.

Abbiamo perso il senso di parole come provvidenza, pazienza, attesa, speranza[15]; niente più ci soddisfa perché i rapporti interpersonali, i sentimenti, le varie esperienze vengono tutte consumate come un pasto in un fast-food.

In nome della globalità planetaria stiamo facendo di tutto per uniformare l’occidente e l’oriente ad un unico modello di sviluppo: il capitalismo! Siamo invasi dai Mc Donald’s ed affine da Stoccolma a Città del Capo, da Sidney a New York; tutto è massimilizzato e uniformato e chi rimane fuori dal giro è perduto.

 

La venuta del Figlio di Dio ci spinge a guardare oltre il finito, ad alzare gli occhi verso il cielo (cfr. Sal 120), a porre il senso della nostra esistenza nel mistero di un amore gratuito e immenso come mai l’uomo ne abbia fatto esperienza; un amore che ci viene incontro nella semplicità di un bambino e di una comune famiglia; un amore che si dona sotto le spoglie di un pezzo di pane; un amore che non s’impone ma che si offre; un amore che non distoglie il suo sguardo al primo rifiuto ma che è fedele alla sua essenza fino alla morte; un amore unico, mai conosciuto da occhi umani ma che si è svelato negli ultimi tempi per farsi conoscere e che noi siamo chiamati ad annunziare:

 

Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito,

ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi,

ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato,

ossia il Verbo della vita (poiché la vita si è fatta visibile,

 noi l’abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza

 e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi),

 quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi,

perché anche voi siate in comunione con noi. (I Gv 1, 1-3a)

 

In  questa stupenda introduzione alla sua prima lettera, Giovanni racchiude tutta l’esperienza della Chiesa come un’esperienza concreta, verificabile, basata su un incontro che ha cambiato la vita a lui e i suoi fratelli.

Anche qui c’è un incontro come per Paolo, dal quale nasce una comunione, un agape, che spinge l’apostolo ad annunciarlo agli altri perché anch’essi siano in comunione con lui e con tutta la Chiesa.

In poche righe sono sintetizzati i tre momenti della rivelazione:

a)   Dio si china sulle miserie umane e va incontro all’uomo per liberarlo (cfr. Es 3, 7 e segg.);

b)  l’uomo accoglie quest’amore e ne gioisce (cfr. Lc 1, 67-79); 

c)   spinto da esso non può fare a meno di testimoniarlo ai quattro angoli della terra (cfr. Mt 28, 18-20).

 

Dirà Paolo, scrivendo una seconda volta alle comunità di Corinto: Poiché l’amore di Cristo ci spinge ..... Vi supplichiamo: lasciatevi riconciliare con Dio! (cfr. II Cor 5, 14-21). Quando si vive nell’agape non si può fare a meno di comunicarlo agli altri; l’agape è contagioso, è un fuoco che brucia chiunque gli è affianco, è il tesoro nascosto che chiede di essere condiviso con tutti i poveri della terra. Solo chi lo conosce sa cosa significa.

Francesco lo sapeva bene, per questo ha abbandonato tutto e tutti per seguire l’amato sugli alti monti della conoscenza della verità e nelle valli profonde dell’abbandono supremo alla vertiginosa volontà divina.

 

Tutto questo è meravigliosamente sintetizzato nella Santa famiglia di Nazareth. Non è solo un angolo di Paradiso per l’armonia che in essa regna ma è qualcosa di più: è la Trinità in missione fra gli uomini! E sul suo esempio, con il suo aiuto, anche le nostre famiglie (e ognuno di noi) sono chiamate ad essere testimoni ed evangelizzatori, ma soprattutto testimoni.

Infatti, l’opera di carità più grande che possiamo fare è dire al nostro prossimo che la sua carne non è destinata alla corruzione (cfr. Sal 16) ma che lui è eterno e che tutti i suoi sensi di colpa e le sue angosce, anche se fanno ancora sentire il loro morso, non sono più assoluti, perché lui è amato da un Dio che non ha avuto schifo dei suoi peccati.

Ma questo va detto anzitutto con la vita, vivendo quello che si dice[16] altrimenti le nostre parole cadono in contraddizione con le nostre opere (cfr. Gc 2, 14-26) rendendoci colpevoli di un peccato terribile: ridurre l’amore di Dio ad una dottrina o una filosofia che non è possibile vivere! È l’opposto dell’evangelizzazione, è come dire ad un uomo: “Vedi questo tesoro? Io ti dico che esiste, ma contemporaneamente ti testimonio che è una falsità, perché anch’io, che tanto te ne parlo, non so dov’è né se vale la pena cercarlo”. È come mostrare a un malato di aids  una fiala dov’è racchiusa la medicina che può guarirlo e poi gettarla per terra davanti ai suoi occhi.

Quante persone sono state scandalizzate dalle nostre opere! Al riguardo Gesù è molto duro, tanto da dire, per chi crea lo scandalo: Sarebbe meglio per lui che gli fosse messa una macina da mulino al collo e fosse gettato in mare, piuttosto che scandalizzare uno di questi piccoli (Lc 17, 2).

 

La carità ci spinge, quindi, ad andare agli estremi confini del mondo per gridarla a tutti, ma c’invita, nel contempo, a guardarci dentro ogni giorno, a porci alla presenza dell’Altissimo così come siamo perché non sprechiamo la perla preziosa che ci ha donato, perché non rendiamo vana la croce di Cristo, perché non poniamo ostacoli all’azione dello Spirito Santo.

Metterci ogni giorno alla sua presenza è per ogni cristiano una necessità più del mangiare, del bere e del fare l’amore. Riceviamo la Vita perché renda viva la nostra vita. E così non staremo più a lamentarci della nostra condizione, della moglie che ci fa arrabbiare, dei figli che non ci capiscono, del lavoro che non ci realizza, dei soldi che non bastano mai.

Credete, forse, che Maria, Giuseppe e Gesù campavano di aria? Anche loro, come noi, si alzavano ogni giorno, lavoravano per guadagnarsi il pane, si ammalavano, soffrivano e gioivano; ma, ne cono certo, una cosa non facevano: non si ribellavano alla volontà del Padre!

 

L’agape è vivere ogni giorno come se fosse il primo e l’ultimo della nostra vita; l’agape è porre attenzione ad ogni piccolo avvenimento; l’agape è guardare il nostro prossimo negli occhi e scoprirne il volto di Cristo; l’agape è sapere che non si è migliori di nessun altro ma che anzi, come dicevano tanti santi, si è l’ultimo degli uomini ed è solo per grazia divina che possiamo vivere e parlare di Lui ai nostri fratelli.

Ecco: questa è la carità, l’amore, l’agape! Questa è la Santa famiglia di Nazareth! Questa è la vita nascosta! Questo è il senso della nostra esistenza! Questo è il motivo per cui viviamo!

 

“Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri”. (Gv 13, 34-35) dice Gesù ai suoi discepoli la sera prima di morire. È antico in quanto già Israele aveva ricevuto nella Torah[17], primo fra tutti i comandamenti, quello di amare Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze e amare il prossimo come se stesso; ma è, allo stesso tempo, nuovo perché il Signore, per primo, ha dimostrato come viverlo, dando se stesso sulla croce, e perché l’amore di cui si parla nei vangeli deve essere rivolto ad ogni uomo. Il prossimo dell’A.T. era colui che faceva parte del popolo dell’alleanza mentre nel N.T. prossimo diventa ogni uomo, vicino o lontano, bianco o nero, cristiano o non cristiano.

L’amore per Dio deve essere concretizzato nell’amore per l’uomo. Ancora una volta l’apostolo Giovanni ci viene in aiuto: “Se uno dicesse: io amo Dio, e odiasse il suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede non può amare Dio che non vede! (I Gv 4, 20)”. L’amore deve essere palpabile, si deve toccare con mano, in una parola: deve essere vero!

Come già è stato detto, siamo pieni di parole, spesso insulse; abbiamo bisogno di fatti. L’amore è la parola più inflazionata, come dicevo all’inizio, ed è la parola che ha bisogno, più delle altre, di diventare vita concreta. L’amore, l’agape, si è fatto uomo in Gesù di Nazareth e dall’incontro con lui possiamo anche noi diventare pane spezzato per i fratelli.

Nell’incontro con il Figlio di Dio,  la speranza si alimenta, la carità si rende visibile e la fede nasce e si consolida. È l’incontro la vera realtà che andiamo cercando e nell’incontro troveremo la risposta alle nostre più profonde e, a volte, nascoste domande.



[1]  Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna. E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sono nulla.   E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per esser bruciato, ma non avessi la carità, niente mi giova. La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si  gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell'ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. La carità non avrà mai fine.....Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità!

 

[2] Carisma: dono di Dio dato al singolo credente o a un gruppo di persone per il bene di tutta la collettività. L’apostolo Paolo ne individua i principali nei carismi di governare, profetizzare, ammaestrare, parlare in lingue, interpretarle e compiere guarigioni (cfr. I Cor 12,28-31).

 

[3] Ipocrisia: capacità di simulare sentimenti lodevoli allo scopo di ingannare qualcuno per ottenerne la simpatia o i favori.

 

[4] Più che altrove, nella I lettera ai Corinti, l’apostolo è molto duro verso i cristiani di sesso femminile.

 

[5] Stoicismo: Una delle tre grandi scuole filosofiche dell'età ellenistica, insieme all'epicureismo e allo scetticismo. Storia: La scuola stoica fu fondata ad Atene intorno al 300 a .C. da Zenone di Cizio e trae il nome dal luogo, la stoa poikíle ("portico dipinto"), dove Zenone teneva le sue lezioni. Storicamente lo stoicismo viene suddiviso in tre periodi: Antica, Media e Nuova Stoà. Oltre a Zenone, i pensatori del primo periodo (300- 200 a .C.) della filosofia stoica furono Cleante di Asso, il cui Inno a Zeus, pervenutoci intatto, esprime l'unità, l'onnipotenza e il primato morale della divinità suprema, e Crisippo di Soli (Cilicia). Il secondo periodo (200- 50 a .C.) vide una grande diffusione dello stoicismo in tutta l'area mediterranea. A Crisippo seguirono Zenone di Tarso, Diogene di Babilonia e Antipatro di Tarso, maestro di Panezio di Rodi. Quest'ultimo introdusse lo stoicismo a Roma ed ebbe tra i suoi discepoli Posidonio di Apamea (Siria), che fu maestro dell'oratore Cicerone. La Nuova Stoà , infine, fiorì soprattutto a Roma ed ebbe tra i protagonisti Catone l'Uticense e, durante il periodo imperiale, Lucio Anneo Seneca, Epitteto e l'imperatore Marco Aurelio, gli unici filosofi stoici di cui siano pervenuti gli scritti. Principi:  Gli stoici, come gli epicurei, fecero dell'etica il campo fondamentale della conoscenza, ma, come ausilio alle loro teorie etiche, svilupparono teorie di logica e di fisica. In logica il loro contributo più importante fu la scoperta del sillogismo ipotetico; in fisica, essi sostennero che tutta la realtà è materiale, ma che la materia inerte è distinguibile dal principio attivo o vivificatore, il logos, che concepirono sia come ragione divina sia come principio che materialmente anima la natura, identificato con uno spirito vivificante e onnipervasivo, il pneuma. Anche l'anima umana è una manifestazione del logos: vivere secondo natura o secondo ragione significa vivere conformemente all'ordine divino dell'universo. La fondazione dell'etica stoica è il principio, già proclamato dai cinici, che il bene non si trova in un oggetto esterno, ma nella condizione dell'anima e nella saggezza offerta dall'assenza delle passioni e dai desideri che turbano l'esistenza (apatia). Elemento distintivo dello stoicismo è il cosmopolitismo: tutti gli esseri umani sono manifestazioni di un unico spirito universale e dovrebbero vivere in accordo fraterno e aiutarsi reciprocamente. Gli stoici sostenevano che differenze esteriori, come la posizione sociale e il censo, non avessero importanza nelle relazioni sociali. Di conseguenza, prima dell'avvento del cristianesimo, essi riconobbero e sostennero la fratellanza umana e la naturale uguaglianza di tutti gli esseri umani.

 

[6] Il discorso sull’incontro tra l’uomo e Dio, nella persona di Gesù Cristo, non sarà approfondito in questa catechesi perché costituisce motivo dominante della catechesi sulla fede (cfr. Gv 4; Mt 19,16-22; Mt 2,1-12; Lc 7,1-10).

 

[7] Eros:  Nella mitologia greca, dio dell'amore, corrispondente al Cupido dei romani. Nella mitologia più antica era rappresentato come una delle forze primitive della natura, figlio del Caos e personificazione dell'armonia e della potenza creativa dell'universo; ben presto, tuttavia, venne identificato con un giovane bello e affascinante, accompagnato da Foto ("bramosia") e Imero ("desiderio"). Nella mitologia più tarda appare inseparabile dalla madre, Afrodite, dea dell'amore. Nell'arte greca Eros veniva descritto come un giovane alato, piccolo ma bellissimo, dagli occhi frequentemente bendati per simboleggiare la cecità dell'amore. A volte aveva in mano un fiore, ma più spesso arco e frecce d'argento, con cui lanciava dardi di desiderio nel petto degli dei e degli uomini. Nell'arte e nella leggenda romane, Eros degenerò in un ragazzino dispettoso e fu spesso raffigurato come un paffuto fanciullino alato armato di arco e faretra.

 

[8] Nell’A.T. abbiamo un esempio elevato di philia, tra Davide e Gionata, figlio di Saul, i quali furono legati da una profonda amicizia dalla quale non si separarono mai se non a causa della morte in battaglia di Gionata (cfr. I Sam capp. 19, 20 e 25).

 

[9] Tratto da Anselm Gunthor : “Chiamata e risposta - Una nuova teologia morale II” - Edizioni Paoline - pagg. 256-258.

 

[10] A. Gunthor - Op.cit.

 

[11] Nazareth: Città di Israele sulle alture che dominano la piana di Esdraelon, capoluogo del distretto settentrionale e maggiore centro della Galilea. È sede di industrie meccaniche, alimentari e tessili. Araba già nel VII secolo, la città rimase sotto l'impero ottomano fino alla prima guerra mondiale e nel 1949 fu occupata e annessa dallo stato di Israele. Secondo il Nuovo Testamento, Nazareth ospitò la casa di Maria e Giuseppe e fu il luogo in cui Gesù trascorse l'infanzia. Per i numerosi luoghi sacri di memoria biblica, parzialmente ricostruiti dopo i mutamenti operati dai musulmani nel Medioevo, Nazareth è oggi meta di pellegrinaggi e di turismo. La chiesa dell'Annunciazione sorge nel luogo in cui si ritiene che l'arcangelo Gabriele sia apparso alla Vergine, mentre la chiesa dedicata a San Giuseppe occuperebbe il sito della sua bottega di falegname. Abitanti: 49.800 (1991).

 

[12] Tratto dall’inno delle lodi  mattutine nella celebrazione della Domenica della Santa Famiglia.

 

[13] Perché di Giuseppe non si parla più nei Vangeli quando Gesù inizia la sua vita pubblica? Perché Egli non si poteva manifestare pubblicamente quale figlio di Dio a vent’anni (considerato che a quell’età molti avevano diversi  figli nonché posti di lavoro prestigiosi e di  responsabilità) invece di attenderne trenta? Perché gli evangelisti sono così aridi di notizie sulla sua vita di questo periodo (ad eccezione di Luca che, comunque, non ci dice granché di più rispetto agli altri)?

 

[14] Ricordiamo, tra gli altri, quello fondato da Charles de Foucald agli inizi del XX secolo conosciuto come le fraternità dei Piccoli Fratelli e delle Piccole Sorelle di Gesù.

 

[15] Vedi catechesi del 4 dicembre 1998 sulla Speranza.

 

[16] Paolo VI diceva: il mondo di oggi ha bisogno di testimoni e non di maestri!

 

[17] Torah (In ebraico "legge" o "dottrina"), nell'ebraismo, il Pentateuco, soprattutto in forma di rotolo di pergamena da leggere nella sinagoga. La Torah è composta dai cinque "libri di Mosè": Genesi, Esodo, Levitico, Numeri e Deuteronomio, ed è il fondamento della religione e della legge ebraiche. I rotoli, considerati sacri, sono oggetto di culto; ogni sinagoga ne conserva molti, ciascuno protetto da una copertina di materiale prezioso e decorata in argento. Una speciale festa in onore della Torah, nota come Simhath Torah (dall'ebraico "felicità nella Legge"), viene celebrata nella sinagoga con canti e danze. Il termine "Torah" può includere anche le compilazioni e i commenti al diritto orale del Talmud e del Mishnah, estendendosi talvolta al Midrash e ad altri commentari sul diritto.