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La
speranza cristiana La speranza
è la seconda delle tre virtù
teologali, dette così perché vengono direttamente da Dio e donate
all’uomo perché possa essere partecipe della sua natura divina, ed è
sicuramente, tra le tre, la più misconosciuta. Infatti, mentre è
facile parlare della fede e
della carità, farsi capire e
capire in quanto sono termini e immagini che fanno parte della nostra
formazione culturale durante gli ultimi quindici secoli, per la speranza
le cose sono un po’ più difficili. - L’esperienza umana Avete mai
sentito il detto popolare “chi di speranza vive disperato muore”? Ecco, questa la
dice lunga sul senso che diamo alla speranza: d’altronde essa fa parte
di una serie di categorie mentali che non ci appartengono più. La
speranza indica qualcosa da venire, è l’attesa di un evento che,
nella fede, è certo che accadrà (come l’avvento del Messia per gli
Ebrei) ma dal punto di vista prettamente umano potrebbe anche non
accadere. Il fatto è che
la società in cui viviamo ci spinge sempre più verso uno stile di vita
pragmatico[1],
utilitaristico, dal riscontro immediato; perciò la fede e la carità
sono più comprensibili: se hai un figlio condannato su una sedia a
rotelle, sei senza lavoro e tua moglie ti ha lasciato con il primo
venuto, e, nonostante tutto, sei ancora sorridente e pieno di fiducia
nella vita, allora, anche per chi non è credente, puoi apparire un uomo
di fede. Allo stesso modo, nessuno metterà, né ha messo mai, in dubbio
che Madre Teresa è il prototipo della carità fatta uomo (anzi donna):
solo chi nutre tanto amore per il suo prossimo può spendere tutta la
sua vita nei sobborghi fetidi e dannati di una città come Calcutta
senza aspettarsi niente in cambio, anzi mettendo a repentaglio la
propria vita e quella delle sue sorelle. Quindi la fede
e la carità si possono vedere incarnate in un uomo, una donna, una
situazione, senza rimanere pure idee o immagini, seppure elevate, di
categorie mentali che appartengono al passato: sono, cioè,
verificabili. La speranza, invece, non lo è, almeno non
nell’immediato. Chi pensava,
nella prima metà del nostro secolo, che il muro di Berlino sarebbe
stato abbattuto[2]?
Forse, qualcuno, come in un sogno avrà visto quest’evento e
probabilmente sarà morto molto prima, ma ha, comunque, sperato e forse
questa sua speranza lo ha tenuto in vita molto più a lungo di quanto
egli stesso avrebbe mai potuto immaginare. Comunque,
nell’immediato o negli anni più prossimi, quello che promette la
speranza non si vede quasi mai; la speranza è come quel tesoro nascosto
che l’uomo custodisce gelosamente ma non lo utilizza fino a quando non
è certo che possa essere utile a se stesso e agli altri. Chi ha nel
proprio cuore questa virtù è un uomo assai fortunato che, attraverso
anche momenti di profondo sconforto e di sfiducia (cfr. Elia in cammino
verso il monte Oreb I Re 19) non perderà mai di vista la strada da
percorrere, né la fiducia in se stesso e nelle sue capacità. La speranza è,
probabilmente, la più laica delle virtù teologali per il semplice
motivo che sperare anche
solo in un bene terreno (l’affetto di una donna, il calore di una
famiglia, un credo politico, lottare per le ingiustizie sociali, ecc.)
è fonte di speranza nei momenti bui della vita. Victor Frankl[3],
psicoterapeuta austriaco, aveva notato che non tutti i suoi compagni di
prigionia, nel campo di Auschwitz, sopportavano le sofferenze allo
stesso modo: chi aveva qualcosa in cui credere (una donna, una fede, un
ideale) viveva più a lungo di chi, invece, senza alcuna speranza, si
lasciava morire più rapidamente degli altri.
E’ un po' come il personaggio tipico di quei film americani
che, ingiustamente condannato, sconta anni di carcere fino al momento
giusto per poter fuggire e tornare dalla donna che lo aspetta. Da questa
valutazione, Frankl ha elaborato un nuovo modo di fare psicoterapia, che
si chiama logoterapia, che
tenta di mettere il paziente nella condizione di scoprire dentro di sé
che cosa lo mantiene in vita per poter fare leva e uscire dalla sua
situazione di depressione. L’uomo ha
bisogno di sperare: da molti considerato un animale intelligente, fin
dalle sue origini si è evoluto, lentamente ma costantemente, fino ad
arrivare alle moderne tecniche scientifiche per le quali sarebbe
addirittura possibile la creazione di altri esseri umani in laboratorio
(scoperta sicuramente eccezionale al di là di tutti i problemi di
carattere etico che comporterebbe)[4].
Dal suo primo
apparire sulla Terra (secondo alcuni 90.000 anni fa, secondo altri più
di 200.000 anni fa) l’uomo ha sempre cercato di migliorare la propria
condizione di creatura di passaggio: dalla conquista della posizione
eretta, alla scoperta del fuoco, alla costruzione delle prime case di
legno, fino alla scoperta del computer e del telefonino che ha
sicuramente rivoluzionato il suo modo di vivere. Cosa lo ha
condotto su strade spesso sconosciute? Perché tanto affannarsi sotto il
sole nella ricerca della conoscenza e della verità? A che serve questa
perenne costruzione della Torre di Babele per raggiungere il Cielo se
poi il Cielo è sempre più lontano?[5]
E perché continua a mettere al mondo dei figli se questa società gli
appare sempre più assurda e nevrotica, dove un futuro migliore non si
vede da nessuna parte? La speranza
pone l’uomo nella condizione di vivere: per un amore, per una fede,
per un ideale, per la realizzazione dei propri sogni, per quello che
volete, ma comunque per qualcosa che migliori la sua condizione morale e
materiale (da qualunque punto di vista) e per questo si affanna, lotta,
indaga, ricerca, fa le guerre, mette al mondo figli. La sua vita non ha
senso se non si dà da fare in qualunque campo: da quello morale a
quello scientifico, dal filosofico al materialista, ecc. La sua vita ha
valore solo se la sera, adagiando le stanche membra sul suo giaciglio,
sente di non aver sprecato la giornata che gli è stata data. Oggi, la
mancanza di lavoro per molti giovani e non, costituisce un grosso
ostacolo alla realizzazione dell’individuo; anche Perciò, oggi
più di ieri, il pensiero cristiano deve anche influenzare la società e
collaborare con tutti gli uomini di buona volontà alla costruzione di
una mentalità nuova del lavoro e alla realizzazione dello stesso,
attraverso una politica[6]
che rispetti il suo nome e la costituzione di gruppi, cooperative ed
associazioni che siano di stimolo e di proposta alle amministrazioni
locali, nazionali e internazionali per un valido inserimento dei giovani
nel mondo del lavoro e attuare, finalmente, l’articolo 1 della
Costituzione della Repubblica Italiana[7]. Ma la speranza
è anche necessaria all’uomo per lottare contro quella che gli sembra
il nemico più assurdo e imbattibile che da sempre lo segue passo passo
fino all’epilogo: l’idea della morte! Questa sorella
dagli occhi di teschio[8]
che san Francesco chiamava sorella
nostra morte corporale ha sempre oscurato i sogni dell’uomo; il
suo sforzo di creare qualcosa, di trovare
nuovi orizzonti, di darsi una discendenza sono sempre stati
dettati anche dalla necessità di sconfiggere quest’idea mostruosa che
ha sempre popolato i suoi incubi e dalla quale, nonostante tutti gli
sforzi, non è mai riuscito a sfuggire. La morte è il
confine tra i nostri sogni e la realtà: non c’è niente di più reale
della morte! E’ la discrimante tra quello che siamo (polvere sei e in polvere tornerai - Gen. 3, 19) e quello che
vorremmo essere (io sono divino!
gridava Tom Hanks nel
film Philadelphia). La morte ci ricorda che non siamo infiniti ma che siamo destinati alla
corruzione, a sparire da questa Terra, ad essere dimenticati da tutto e
da tutti: solo le nostre idee, le nostre azioni importanti, le nostre
scoperte verranno ricordate e per esse noi diventiamo eterni. Per questo la
fatica della conquista del Cielo; per questo il bisogno degli affetti,
della trasmissione dei nostri geni ai figli; per questo la speranza di
riuscire a fare un piccolo passettino verso la verità; per questo ci
alziamo, lavoriamo, sudiamo, ci arrabbiamo, ma, comunque, viviamo: è la
speranza nella vita che ci tiene vivi fin dal nostro primo vagito; è la
speranza in un domani migliore che ci fa mettere ancora al mondo dei
figli; è la speranza di essere ricordato da qualcuno che amiamo una
donna per tutta la vita. La speranza è
l’ossigeno della nostra esistenza e chi non spera non vive: vegeta.
Chi fa uso di droghe quotidianamente ha perso il senso della speranza
nella sua vita, pensa che non può cambiare modo di vivere, che nessuno
gli vuol bene e che a nessuno può dare un affetto vero; sa che nel suo
futuro c’è solo la morte per overdose o per una partita di droga
tagliata male, ma non gliene frega niente: non ha paura della morte
perché è già morto! Che tristezza pensare che molti uomini, anche di
una certa levatura intellettuale, preferiscono sostenere questi morti
viventi fino alla fine (purchè non diano fastidio con scippi per le
strade e furti negli appartamenti) piuttosto che dare loro
un’iniezione di speranza (mi riferisco alle proposte di legge
antiproibizioniste che, per fortuna, il Parlamento Europeo, nel mese di
settembre In conclusione,
la seconda virtù teologale, così misconosciuta e incompresa, è
l’elemento essenziale della nostra vita, anche solo dal punto di vista
umano, senza volerne analizzare l’essenza teologica. Basta guardarsi
intorno, nel quotidiano, riflettere solo sulla giornata di oggi che sta
per passare per renderci conto di quanto sia vitale la speranza, di
quanto sia indispensabile per una vita vissuta veramente. Sarebbe
sufficiente fermare il nostro pensiero su come abbiamo lavorato,
su come abbiamo guardato nostra moglie o nostro marito, su come
abbiamo parlato ai nostri figli o ai nostri genitori, per capire che
tutto quello che facciamo, tutto quello per cui viviamo, tutto il sudore
e le lacrime che mettiamo nel nostro vivere, sono retti dalla speranza
in una vita migliore, in un affetto vero, in un’azione che rimarrà
nella storia affinchè possiamo dire a noi stessi, al termine di questa
vita: muoio soddisfatto, ho seminato quel che ho potuto e, se anche non
ho raccolto, qualcun altro raccoglierà; in ogni caso, la vita che ho
vissuto ne valeva la pena! - L’esperienza cristiana Alla luce della
Rivelazione le cose diventano un po’ più complicate, ma estremamente
più interessanti perché tutta la vita umana è più interessante
quando è illuminata dall’amore di Dio.
“Lampada ai miei passi è la tua parola, Signore” recita il salmo
118. L’amore
divino rende tutto più chiaro, anche quando non capiamo, anche quando
siamo avvolti dalle tenebre del
peccato e della morte (cfr. Sal 115): allora la speranza diventa
qualcosa di più del motore dell’esistenza (come abbiamo visto prima
che, però, potrebbe dare anche adito a qualche interpretazione
fatalistica della vita - cfr. Qoelet 1.2,1-12). Essa entra in un
processo più vasto che abbraccia la storia dell’umanità fin dalla
sua nascita, ma in particolare dalla chiamata di Abramo (Gen 12 e segg.).
La speranza cristiana è parte integrante della storia del popolo di
Israele[9],
l’attesa del Messia[10]
è mantenuta viva dai numerosi profeti[11]
sia nel periodo pre-esilico (primo Isaia, parte di Geremia, Osea,
Sofonia, ecc.) che
post-esilico (secondo e terzo Isaia, Ezechiele, Amos, Aggeo,
Malachia, ecc.); il popolo ebraico attendeva un nuovo liberatore
dalle sue schiavitù storiche (Assiri, Babilonesi, Romani) il quale, in
nome di Dio e con la sua potenza, doveva ricondurre il paese agli
antichi splendori dei regni di Davide e Salomone. Quindi, non
tanto una guida spirituale (per questo bastava la Torah[12]
con le diverse scuole rabbiniche) ma un vero e proprio condottiero,
colui che avrebbe instaurato su questa Terra la legge di Dio e fatto di
Israele un popolo che sarebbe stato riconosciuto pastore e guida per
tutti gli altri popoli della Terra (cfr. Is 2,1-5. 66,15-24; Mi 4,1-3). Tuttavia,
soprattutto nel periodo post-esilico, i profeti hanno
richiamato lo stesso popolo ad
un’osservanza interiore della legge: l’amore di Dio con tutto il
cuore, con tutta l’anima e con tutte le proprie forze e l’amore del
prossimo al di sopra di tutto valgono più di mille olocausti e
sacrifici. In questo clima
di attesa, sotto l’impero Romano, con le varie scuole rabbiniche
(Farisei[13]
e Sadducei[14]
in particolare), esperienze spiritualiste e di vita comune più diverse
tra loro fra cui spicca quella degli Esseni[15]
e con chi, come gli Zeloti[16],
voleva ribellarsi con la forza al potere straniero, in questo scenario
nasce Gesù di Nazareth. Un’altra
componente molto importante del popolo ebraico che non si riconosceva in
nessuno dei gruppi precedenti, ed era la stragrande maggioranza, che
potremmo definire maggioranza silenziosa, sono i poveri di Jahvè, gli smarriti di
cuore, i ciechi e gli storpi di Isaia (cfr. Is 40), quelli che L’evangelista
Matteo, nel suo prologo, descrive quest’attesa come compiuta e, per
darne una valenza storica, compone una genealogia di Gesù che va da
Abramo fino al Cristo passando per regno di Davide e la deportazione in
Babilonia. L’ebreo Matteo è preoccupato di dimostrare ai suoi
fratelli che realmente Gesù di Nazareth è il Messia atteso da Israele
e che l’uscita di Abramo dalla sua terra, la schiavitù in Egitto e la
sua uscita, gli splendori dei regni davidici con tutte le successive
decadenze morali e politiche, la deportazione in Babilonia, il ritorno
nella terra promessa con la ricostruzione del Tempio e l’ancora
attuale dominio dell’Impero Romano non sono stati periodi di
sofferenza inutili, ma, anzi, avevano
preparato il terreno affinchè il seme della giustizia e della pace di
Dio potesse mettere solide radici e germogliare fino a diventare un
albero tra i cui rami gli uccelli
del cielo avrebbero fatto il loro nido (cfr. Lc 13,19). Insomma, la
promessa fatta ai padri si è adempiuta:
Dio si è ricordato del suo popolo (cfr. Lc 1,54-55), ha mantenuto
le sue promesse e si è preso cura egli stesso, tramite il suo unico
Figlio, di intervenire direttamente nella storia dell’umanità. Nella sua
genealogia, Matteo nomina cinque donne: Tamar, Betsabea e Maria che
appartengono al popolo ebraico e Racab e Rut
le quali, pur non facendone parte dalle origini (Racab era la
prostituta di Gerico che salva le spie mandate da Giosuè e Rut era la
moabita, nuora di Noemi che sposò Booz e diede alla luce Obed, padre di
Iesse, padre di Davide) ne diventarono partecipi per parentela e diedero
il loro assenso alla continuazione della discendenza. La presenza di
una prostituta, Racab, non deve scandalizzare: infatti, Dio non guarda
alla condizione sociale dei suoi eletti, ma al loro cuore; anche Davide
non era altro che un giovane pastore, tenuto in così poco conto anche
dai suo familiari che non fu neanche presentato a Samuele quando questi
chiese al padre, Iesse, di radunare la sua famiglia. Esempi del genere
ce ne sono molti anche nel N.T.: basti ricordare Anche Luca
compone una genealogia di Gesù, di respiro, però, più universalistica
(non dimentichiamo che Luca proviene dal paganesimo) risalendo fino ad
Adamo; entrambe, però, finiscono con il nome di Giuseppe, padre legale
ed ufficiale del Cristo e mediante il quale i due evangelisti vogliono
esprimere come il Messia abbia il certificato di autenticità essendo
veramente discendente della stirpe di Davide, da cui discende Giuseppe[17].
Questo era importante perché nelle scritture è detto che il Messia
deve essere figlio di Davide. Dopo aver
stipulato il certificato di origine di Gesù, Matteo ne descrive la
nascita soffermandosi sulla figura di Giuseppe, definito giusto. Che senso vuole dare l’autore a questo termine? In primo
luogo riguardo all’atteggiamento
verso Maria come promessa sposa: la legge permetteva di ripudiare
una donna che, nel tempo del fidanzamento, risultava incinta e queste
donne, spesso, finivano lapidate nella pubblica piazza; Giuseppe decise
di ripudiarla in segreto per salvarle la vita. In secondo luogo, e
principalmente, riguardo all’atteggiamento verso Maria come soggetto di una promessa;
sicuramente Giuseppe non sapeva bene come erano andate le cose tra lei e
l’angelo, ma intuiva che c’era qualcosa di non molto chiaro e,
quindi, meditava dentro di sé sull’accaduto ed, a scanso di equivoci,
aveva scelto la strada meno dolorosa. Ma quest’atteggiamento
di attesa, di attenzione verso i fatti, di meditazione interiore lo pone
nella condizione di capire meglio quale sarebbe stato il suo ruolo in
tutta la storia. Giuseppe è
giusto perché non agisce impulsivamente: riflette sui fatti, lascia che
la pioggia penetri nella sua terra arida e dia frutto. Giuseppe è
giusto perché, nonostante la sua formazione ebraica, nella quale
l’uomo era tutto e la donna solo una fattrice per dare figli alla
patria (un po’ come ai tempi di Mussolini), si ferma di fronte a
questa fanciulla (stando alla tradizione aveva all’incirca 14 anni),
alla sua storia, al suo aspetto di cerbiatta impaurita ma, nello stesso
tempo, dignitosa nella sua fierezza di donna ebraica che non ha tradito
il suo promesso sposo e non è venuta meno alla legge, e ne prova
compassione. Giuseppe è
giusto, anche e soprattutto, perché con questo suo atteggiamento dà a
Dio la possibilità di spiegare il suo progetto e gli permette di farne
parte, senza violenza, potremmo dire, parafrasando il titolo di un bel
film: per amore, solo per amore.
Il giusto,
nella scrittura, è colui che prende parte al progetto di Dio; è colui
che di fronte agli avvenimenti più raccapriccianti, si ferma e
riflette; il giusto è colui che cosciente della sua profonda indegnità,
dice il suo amen a una storia
più grande di lui, anche se non la comprende appieno; il giusto è
colui che al mattino si reca al lavoro con uno spirito lieto, sapendo
che oggi non è ieri e che domani non sarà oggi, ma che tutt’e tre
sono parte dell’eternità di Dio; il giusto è colui che sposa una
donna anche se non ha una casa né un lavoro, ma sa che in quel gesto è
il compimento delle promesse dell’Altissimo; il giusto è colui che,
con un tumore al fegato, conforta il suo amico che ha un’influenza. Il giusto è
colui che spera, che crede e che ama (lo ritroveremo, perciò,
anche negli altri due incontri sulla fede e la carità); è colui
che vive illuminato dai riflettori della Provvidenza. Il giusto è
colui che, come Mosè e Giuseppe, non vedrà il compimento della
promessa ma ciò non lo distoglie dall’agire: egli semina, un altro
annaffierà e un altro mieterà (cfr. I Cor 3,5-9; Gv 4,35-38). In
questo senso, come si diceva all’inizio, la speranza non è
comprensibile per noi uomini del XX secolo, figli di una mentalità
pragmatista e utilitarista che vuole vedere tutto annunziato, svolto e
compiuto nel giro di pochi mesi o, addirittura, di poche ore (oggi i
ragazzi parlano dei loro fidanzamenti come storie
che durano qualche settimane o anche solo qualche ora in un locale
notturno). Pensiamo ai
personaggi della genealogia di Gesù vissuti tanti secoli prima, pedine
consapevoli o meno, della grande scacchiera della storia della salvezza;
e pensiamo a noi, oggi, qui riuniti ad ascoltare queste catechesi, con
le nostre gioie e le nostre speranze, ma anche con i nostri fallimenti e
le nostre angosce. Ci piaccia o no, siamo parte di questo mosaico,
membra vive della Chiesa, con il gravoso compito sulle spalle di gridare
al mondo: Dio esiste e ti ama!
Siamo degni di
stare qui? Sono degno, io, di predicare? È degno il nostro parroco di
consacrare il pane e il vino? Erano degni Abramo, Isacco, Giacobbe, Rut,
Iesse, Roboamo, Giosafat, Amos, Zorobabele e tutti gli altri personaggi
descritti da Matteo? Erano degni Noè, Mosè, Samuele, Davide, Isaia,
Geremia, Elia e tutti i re e profeti della storia di Israele? Erano
degni padre Massimiliano Kolbe, Madre Teresa di Calcutta, monsignor
Romero, papa Giovanni, Isaac Rabin, Arafat, Gorbaciov e tutti gli altri
operatori di pace del nostro secolo? La dignità,
per come la intendiamo noi, non c’entra niente con la chiamata di Dio,
così come la speranza cristiana non c’entra niente con la speranza di
vincere il super-enalotto: si pronunciano solo allo stesso modo ma sono
distanti anni luce. La chiamata di
Dio, per il mistero del suo amore gratuito, ci inserisce in un progetto
di salvezza, per noi e per il nostro prossimo, e noi siamo chiamati a
rispondere, come il giovane Samuele: “Parla, Signore, il tuo servo ti
ascolta” (cfr. I Sam 3) o come Francesco: “Signore, cosa vuoi che io
faccia?”. Sperare vuol
dire anche perseverare (cfr. Lc 21), credere fino in fondo che quello
che stai facendo è giusto, anche quando ti senti profondamente solo: tu
non agisci per libera iniziativa o per realizzare un tuo progetto, ma
sei come una matita di cui Dio si serve per scrivere la sua storia (come
piaceva definirsi Madre Teresa). C’è un canto
che dice, pressappoco: “Dio non ha mani, non ha braccia, non ha bocca;
siamo noi le sue mani, le sua braccia, la sua bocca”. Lo so, sembrano
concetti scontati che siamo anche riusciti a svuotare del loro
significato più profondo: li abbiamo banalizzati, ma se ci riconosciamo
nel senso che abbiamo dato, stasera, alla speranza, forse ci rendiamo
conto che nella vita e, in particolare, nella scrittura non c’è
niente di banale; ogni evento, ogni atto, ogni parola, ogni virgola ha
la sua importanza. Anche perché,
se banalizziamo questi concetti, alla fine banalizziamo noi stessi, il
nostro essere battezzati, il nostro essere uomini e donne. E’ la
nostra vita che rendiamo banale e limitiamo il nostro orizzonte a pochi
metri da noi. Banalizziamo la nostra dignità di figli di Dio e leghiamo
le mani al Padre celeste impedendogli di agire. Il figlio della
parabola lucana che scappa dal padre non fa dispetto a lui, bensì a se
stesso; è il figlio che prova la fame, la sete, il freddo, la
solitudine e l’angoscia. Se noi saltiamo giù dalla scena dicendo che
tutto questo non c’interessa più, Dio troverà anche un altro attore
che ci sostituisca, così come Gesù sarebbe nato lo stesso anche se
Maria avesse detto no e sarebbe morto lo stesso anche se Giuda non lo
avesse tradito (cfr. Is 55.10-11), ma noi saremmo fuori da questo
progetto[18].
Pertanto,
l’unica disperazione vera, è quella di tirarsi fuori volontariamente
dalla storia che Dio vuol fare con noi e poi rendercene conto. E’
l’unica, vera disperazione; è, forse, quello che i vangeli
definiscono peccato contro lo Spirito Santo; è sentire una chiamata, un fuoco
che ti brucia dentro, e dire no! buttare acqua affinchè si spenga,
gettare nelle fogne il vino nuovo del Regno e accontentarsi della nostra
vita incolorore, inodore e insapore, come l’acqua (cfr. Gv 2, 1-12). La speranza ci
dice che i nostri peccati sono perdonati, che Dio non si rimangerà
quello che ci ha promesso e che, alla fine dei tempi, il male sparirà
in modo definitivo dal mondo anche perché le opere dei santi[19]
lo hanno sgretolato, a poco a poco, come la goccia sul sasso, nei
secoli. Vogliamo, noi,
essere questa goccia o preferiamo essere il fiume della stupidità
umana? Vogliamo ragionare con la nostra testa o preferiamo lasciarci
trasportare dalla testa degli altri? Vogliamo
sentirci dire, nel giudizio finale: “Venite,
o benedetti dal Padre mio; possedete il regno che vi è stato preparato
fin dalla fondazione del mondo. Perché io ebbi fame e voi mi deste da
mangiare; ebbi sete e mi deste da bere; fui pellegrino e m'avete
accolto; fui nudo e m'avete
rivestito; fui infermo e mi visitaste; fui in prigione e mi veniste a
trovare”; oppure preferiamo queste altre parole: “Andate
via da me, maledetti, nel fuoco eterno, che è preparato per il diavolo
e i suoi angeli. Perché io ebbi fame e voi non mi deste da mangiare;
ebbi sete e non mi deste da bere; fui pellegrino e non mi avete accolto;
nudo, e non mi rivestiste; infermo e in prigione e non mi veniste a
trovare”? (cfr. Mt 25,31-46) A noi la
scelta: siamo liberi! Dio non ci violenta, ma, come il padre del figliol
prodigo, ci attende sulla soglia di casa e manda i suoi messaggeri nel
mondo lontano che ci siamo scelti per invitarci a ritornare a lui; anzi,
spesso è proprio Lui che ci rende la vita difficile perché lontano
dall’Amore non si sta bene. Così anche
noi, un giorno, potremo dire: “Padre,
ho peccato contro il cielo e contro te; non sono più degno d'esser
chiamato tuo figlio!” (Lc 15,21) ed egli metterà anche a noi la veste più bella, l’anello al dito e i calzari ai piedi .......
e il vitello grasso? L’ha già ammazzato,
2.000 anni fa, sul monte Golgota, fuori le mura di Gerusalemme,
il suo figlio più bello, l’unigenito, l’amato che si lasciava
amare, e che noi, ogni domenica, mangiamo nella sua casa, il cui cibo è
vero nutrimento e il cui sangue è vera bevanda. In questo tempo
d’Avvento viviamo con questa speranza: il Signore ha compiuto le sue
promesse; oggi un bimbo ci è stato donato e vuole venire ad abitare in
mezzo a noi. Maranà tha! Vieni Signore Gesù! (Ap 22,20) BIBLIOGRAFIA P.Rossano
- G.Ravasi - A.Girlanda “Nuovo dizionario di teologia biblica” AA.VV.
“ J.Radermarkers
“Lettura pastorale del vangelo di Matteo” AA.VV.
“Enciclopedia multimediale Microsoft Encarta” [1]
Pragmatismo
Dottrina filosofica elaborata dai filosofi statunitensi del XIX
secolo Charles Sanders Peirce, William James e altri, secondo cui la
verifica della verità di una proposizione si identifica con la sua
utilità pratica: il fine del pensiero è guidare l'azione e
l'effetto di un'idea è più importante della sua causa. Il pragmatismo fu la prima filosofia americana elaborata autonomamente, che si oppose alla speculazione riguardante problemi privi di applicazione pratica. Il pragmatismo asserisce che la verità è relativa al tempo, al luogo e allo scopo della ricerca e il suo valore riguarda sia i mezzi che i fini. Il pragmatismo fu lo stile filosofico prevalente negli Stati Uniti durante il primo quarto del XX secolo. Il filosofo e pedagogista americano John Dewey trasformò il pragmatismo in una nuova filosofia che chiamò strumentalismo. [2] Abbattuto, notiamo bene, non caduto perché sennò sembrerebbe che sia caduto da solo, mentre è stato abbattuto dalla caparbietà, dalla tenacia e dal sangue di tanti politici, intellettuali, uomini di fede e semplici contadini, che hanno creduto che un giorno il mondo intero avrebbe assistito a quello che è accaduto il 9 novembre 1989. [3]
Frankl, Victor (Vienna
1905- ), psicoterapeuta austriaco. Sviluppò il concetto di
logoterapia, sulla base della teoria secondo cui il bisogno
sottostante l'esistenza umana è la ricerca del significato della
vita. Prigioniero dal 1942 nei campi di concentramento nazisti,
durante la detenzione Frankl scrisse Dai
campi della morte all'esistenzialismo (1959). Professore di
neurologia e psichiatria dal 1947, è ricordato anche per il libro La
ricerca umana di significato: un'introduzione alla logoterapia
(1962). [4] Clonazione Processo che permette di ottenere una o più copie identiche di una cellula o di un intero organismo senza l'intervento della fecondazione o della riproduzione sessuata. Una nuova tecnica sviluppata di recente permette di introdurre geni clonati direttamente nel genoma delle cellule degli organismi superiori. Questa procedura, chiamata terapia genica e attualmente in corso di sperimentazione su animali di laboratorio, potrebbe venire usata in futuro anche sull'uomo per correggere gravi patologie come la talassemia o alcuni tipi di diabete mellito. Alla primavera del 1997 risale la prima clonazione di un mammifero, la pecora Dolly, ottenuta al Roslin Institute di Edimburgo. La riuscita dell'esperimento, che ha suscitato molto clamore nell'opinione pubblica e nella comunità scientifica, ha anche dato origine ad accese discussioni sulle implicazioni etiche di tale risultato (in particolare, in prospettiva della possibilità della clonazione umana), oltre che sulla necessità di una regolamentazione giuridica di tali procedure. [5] Lo sanno bene gli astrofisici quando constatano come l’universo si allontani quanto più si scopre una nuova stella o una nuova galassia. [6] Politica: scienza e arte di governare lo Stato. [7] L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. [8] Espressione tratta dal musical “Forza venite gente” ispirata alla vita di san Francesco. [9]
Nell’A.T. le parole speranza e attesa (di cui è sinonimo)
appaiono più di 100 volte e il compito dei profeti è sempre stato
quello di mantenere viva nel popolo la certezza che Dio avrebbe
sempre vinto il male, anche nei momenti più duri della sua storia
(come la deportazione in Babilonia 586- [10]
Messia: nella teologia
cristiana, l'Unto, il Cristo, nome ebraico dell'atteso liberatore
dell'umanità, assunto da Gesù e riconosciutogli dai cristiani. La
parola deriva dall'ebraico mashiah,
"unto", e nella versione greca della Bibbia, i Settanta,
è tradotto con Christòs,
da cui "Cristo". Il nome "Gesù Cristo", dunque,
identifica Gesù come il Messia, mentre l'ebraismo afferma che il
Messia deve ancora giungere. [11]
Profezia: fenomeno
religioso per cui un messaggio viene inviato da una divinità agli
esseri umani tramite un intermediario, il profeta. Il messaggio può
riferirsi a eventi futuri, ma è spesso una mera ammonizione, un
incoraggiamento o un'informazione. Della profezia sono parte
divinazione e oracolo, tecniche tramite le quali si ritiene di poter
apprendere la volontà degli dei. Spesso la profezia avviene durante
un'estasi indotta dalla danza, dalla musica o con altri mezzi. La
profezia acquisì un valore religioso senza precedenti nell'ebraismo
e nel cristianesimo: secondo l'ebraismo il profeta è un individuo
scelto da Dio, spesso contro la sua volontà, che patisce la
persecuzione o persino la morte per rivelare al popolo i disegni di
Dio. Gli autori dei libri profetici dell'Antico Testamento si
suddividono in tre profeti maggiori e dodici profeti minori, che
hanno scritto libri più brevi. Il cristianesimo ereditò
dall'ebraismo l'idea di profezia, riconoscendola come dono sin dai
tempi apostolici; la sua importanza diminuì tuttavia già a partire
dal I secolo. [12]
Torah: (In ebraico
"legge" o "dottrina"), nell'ebraismo, il
Pentateuco, soprattutto in forma di rotolo di pergamena da leggere
nella sinagoga. [13]
Farisei:
corrente dell'ebraismo, emersa
probabilmente nel II secolo a.C. nell'ambito del movimento
d'opposizione alla politica di contaminazione della tradizione
ebraica con la cultura greca. Il termine "farisei"
significa "separati" e fu usato per definire gli
appartenenti a questa corrente a causa dell'atteggiamento di
particolare rigore da loro assunto come fazione estremista che si
oppose strenuamente alla politica di compromesso adottata da altri
gruppi come i sadducei, rifugiandosi nella pratica integrale e
minuziosa delle prescrizioni della legge antica - oltre 600 - come
unico mezzo per garantire la sopravvivenza della religione dei
padri. Questa tendenza legalistica contribuì effettivamente a
trasmettere i principi dell'ebraismo anche dopo la distruzione del
tempio di Gerusalemme nel 70 d.C. e fu adottata dai rabbini nei
secoli successivi. I farisei compaiono nei Vangeli come avversari di
Gesù Cristo, che, impegnandosi in frequenti dispute con loro,
finisce con il condannare severamente (cfr. Mt 23) il loro
formalismo come motivo di autocompiacimento ipocrita e di rinuncia a
un autentico impegno etico e religioso. [14] Sadducei: corrente rabbinica che si rifaceva solo al Pentateuco e non accettava le modifiche e le aggiunte che erano state fatte alla Legge in epoche successive, soprattutto verso il II sec. A.C. da movimenti come i Farisei; i sadducei non credevano, tra l’altro, alla resurrezione dei morti e per questo entrarono in contrasto con Gesù. Sul piano politico si schieravano sempre a favore dei potenti di turno. [15] Esseni: membri di una corrente ebraica dedita alle pratiche dell'ascetismo e diffusa in Palestina, soprattutto sulle rive del mar Morto, fra il II secolo a.C. e il II secolo d.C. Il nome deriva dall'aramaico e significa "i puri". Ignoti alla Bibbia e alla letteratura rabbinica, gli esseni sono citati nelle opere di Filone di Alessandria, dello storico romano Plinio il Vecchio e di Giuseppe Flavio. Caratteristiche essenziali del movimento erano la comunità dei beni e la stretta osservanza delle norme di purificazione rituale, con la pratica scrupolosa delle abluzioni; ai fedeli, inoltre, era proibito fabbricare e utilizzare armi, dedicarsi ad attività commerciali e prestare qualsiasi forma di giuramento differente da quello di fedeltà ai principi della comunità, pronunciato dopo un breve periodo di noviziato. Gli esseni erano tenuti al vincolo della segretezza e all'osservanza di una rigorosa disciplina che comportava punizioni per ogni infrazione. [16]
Zeloti:
movimento politico-religioso ebraico, noto per la sua strenua
resistenza al dominio romano in Palestina nel I secolo d.C.
Organizzatosi durante il regno (37- [17] Probabilmente anche Maria era di discendenza davidica, ma gli evangelisti non ne parlano anche perché era importante la paternità e non tanto la maternità. [18]
Attenzione: questo non
vuol dire essere dannati, perché la salvezza di Dio interviene al
di là delle nostre categorie mentali. [19] I santi, nella scrittura, non sono quelli che stanno con il collo torto ai lati degli altari, ma tutti i battezzati, i cristiani (cfr. Rm 15,25-26; I Cor 16, 1.15; II Cor 9, 1.12; Fil 4, 21-22; I Pt 1, 15-16; Ap 8,3-4; Gd 1,3.14; At 9,13.32.41; ecc.).
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