Cristo,
la fede e la sfida
delle
culture
Meglio
dire "inculturazione"
o
"inter-culturalità"?
card.
Joseph Ratzinger
Testo della conferenza tenuta all’incontro dei vescovi
della Fabc (Federazione delle Conferenze episcopali asiatiche),
Hong Kong, 2-6 marzo 1993
Con le sue ultime
parole, il Signore risorto manda i suoi Apostoli fino agli ultimi
confini della terra: "Andate e fate discepole tutte le
nazioni, battezzandole ... e insegnate ad esse tutto quello che ho
insegnato a voi" (Mt 28, 19 segg.; At 1, 8). Il cristianesimo
entra nel mondo conscio di una missione universale. Fin
dall’inizio i seguaci di Gesù Cristo sono coscienti del loro
dovere di trasmettere la fede a tutti gli uomini. Essi vedevano
nella fede un bene che non apparteneva solo a loro, ma che tutti
avevano diritto di ricevere. Gli Apostoli sarebbero stati infedeli
al loro Maestro, se non avessero portato fino agli estremi confini
della terra ciò che avevano ricevuto.
Il punto di partenza
dell’universalismo cristiano non è un desiderio di potere, ma
la certezza di aver ricevuto la conoscenza che salva e l’amore
che redime, che tutti gli uomini hanno diritto di ricevere ed a
cui aspirano fin dal profondo del loro essere. La missione non era
percepita come un’operazione di conquista per esercitare il
potere, ma come la trasmissione obbligatoria di quel bene che era
stato dato per tutti e di cui tutti hanno bisogno.
Oggi sono sorti dei
dubbi circa l’universalità della fede cristiana. Molti non
vedono più la storia della missione mondiale come la storia della
diffusione della verità che libera e dell’amore, ma una storia
di alienazione e di violenza. Questa nuova consapevolezza chiede a
noi cristiani di riconsiderare radicalmente chi siamo e chi non
siamo, cosa crediamo e cosa non crediamo, cosa abbiamo da dare
agli altri e cosa non abbiamo da dare. Nel quadro di questa
conversazione, posso solo tentare di compiere un piccolo passo in
una così vasta problematica.
La mia intenzione è
di considerare il diritto e la capacità della fede cristiana di
comunicare se stessa alle altre culture, di assimilarle e di
diffondersi in esse. Essenzialmente, questo include tutti i
problemi che riguardano il fondamento dell’esistenza cristiana.
Perché credere in qualcosa? Esiste la verità, una verità
raggiungibile dall’uomo e che tutti possono conoscere? Oppure
siamo destinati, attraverso vari simboli, a scorgere solo alcuni
bagliori della verità, che in realtà non ci è mai stata
rivelata? Parlare della verità della fede è presunzione o
dovere? Anche questi interrogativi non possono essere presi di
petto e discussi nella loro integrale profondità. Noi li teniamo
presenti nell’impostare la nostra discussione su fede e cultura.
1 - CULTURA -
INCULTURAZIONE - INCONTRO DELLE CULTURE
Il nostro primo
interrogativo è questo: cos’è la cultura? In quale rapporto
sta con la religione e in che modo può essere in contatto con
forme religiose che originariamente le erano estranee? Prima di
tutto dobbiamo notare che è stata l’Europa moderna ad inventare
un concetto di cultura nel quale la cultura appare come un campo
distinto o anche in opposizione alla religione. In tutte le
culture storicamente conosciute, la religione è l’elemento
essenziale della cultura, anzi il nucleo determinante,
caratterizzante. È la religione che determina le strutture dei
valori e perciò dà ad essi la loro logica interna. Ma se questo
è vero, l’inculturazione della fede cristiana nelle altre
culture appare ancor più difficile, poiché non si capisce come
una cultura, che vive e respira la religione con cui è
profondamente interconnessa, possa essere trapiantata in
un’altra religione, senza che ambedue vadano in rovina. Se da
una cultura togliete la religione che l’ha generata, la private
del suo cuore. Potete metterle un nuovo cuore, il cuore cristiano,
ma sembra inevitabile che l’organismo che non è orientato a
ricevere questo nuovo cuore, debba alla fine rigettarlo come un
corpo estraneo.
Una soluzione
positiva è difficile da immaginare. L’operazione può solo aver
senso se la fede cristiana e l’altra religione, con la cultura
che essa ha originato, non sono in una situazione di radicale
differenza e opposizione; se esse sono interiormente aperte
l’una all’altra o, per dirla in altro modo, se esse
naturalmente tendono ad avvicinarsi e ad unirsi. Perciò l’inculturazione
presuppone la potenziale universalità di ogni cultura, che in
tutte le culture la stessa natura umana sia al lavoro e che
cercare l’unità è la comune verità della condizione umana
come si esprime nelle culture. In altre parole, il programma di
inculturazione ha senso solo se non si compie nessuna ingiustizia
nei confronti di una cultura quando, data l’universale
disposizione dell’uomo a cercare la verità, la cultura è
aperta e viene sviluppata da una nuova potenza culturale. Ne
consegue che ogni elemento che in una cultura esclude questa
apertura e scambio va giudicato come una deficienza di quella
cultura, poiché l’esclusione degli altri va contro la natura
dell’uomo. Il segno della nobiltà di una cultura è la sua
apertura, la sua capacità di dare e di ricevere, che le permetta
di essere purificata e di diventare più conforme alla verità e
all’uomo.
Vorrei tentare di
dare una definizione di cultura: è quella forma comune di
espressione delle intuizioni e dei valori che storicamente s’è
sviluppata e che caratterizza la vita di una comunità. Esaminiamo
ora più da vicino gli elementi di questa definizione per
comprendere meglio la possibilità di inter-comunicazione delle
culture, secondo quanto indica il termine "inculturazione".
a) Anzitutto, la
cultura ha a che fare con la conoscenza e i valori.
È un tentativo di
comprendere il mondo e l’esistenza dell’uomo nel mondo, non in
un senso puramente teorico, ma orientato agli interessi
fondamentali dell’esistenza umana. La comprensione ci dovrebbe
indicare come essere uomini, come l’uomo deve prendere il suo
posto in questo mondo e come deve vivere per realizzare se stesso
nella sua ricerca di successo e di felicità. Tuttavia, nelle
grandi culture, questo problema non è posto ai singoli individui,
come se ciascuno debba pensare ad un modello di vita per venire a
patti col mondo e con l’esistenza. Il singolo può riuscire solo
con gli altri: il problema della retta conoscenza è dunque un
problema di adeguata formazione della comunità. D’altra parte,
la comunità è la condizione primaria, indispensabile per la
realizzazione dell’individuo. Nella cultura noi trattiamo di una
comprensione che è conoscenza, da cui nasce la prassi della vita,
il modo di vivere; in altre parole, noi stiamo trattando di una
conoscenza che comprende l’indispensabile dimensione dei valori
o morale. Possiamo aggiungere qualcosa d’altro che era evidente
per tutti nel mondo antico. I problemi dell’uomo e del mondo
sempre contengono la questione fondamentale di Dio. Non si può
capire il mondo né vivere onestamente, se la domanda su Dio
rimane senza risposta. In realtà, andando alla radice delle
grandi culture possiamo dire che esse interpretano il mondo per
ordinarlo alla divinità.
b) La cultura, in un
senso classico, include l’andare oltre le cose visibili per
raggiungere le cause reali: così la cultura, nel suo nucleo più
profondo, significa un’apertura al divino.
A ciò, come già
abbiamo visto, è collegata la nozione secondo cui l’individuo
trascende se stesso nella cultura e si trova portato in un
soggetto sociale più vasto, di cui eredita le intuizioni, dà ad
esse continuità e le sviluppa. La cultura è sempre unita ad un
soggetto sociale che da un lato assume le esperienze
dell’individuo e, dall’altro, aiuta a formarle. Il soggetto
comune conserva e sviluppa le intuizioni che superano le capacità
di un individuo; intuizioni che possono essere definite
pre-razionali e super-razionali. In questo modo, le culture
richiamano la sapienza degli "antenati", che furono più
vicini agli dèi; esse richiamano le primordiali tradizioni che
hanno carattere di rivelazione, cioè non vengono da un’indagine
e decisione umana, ma da un originario contatto con la radice di
tutte le cose. In altre parole, le culture indicano una
comunicazione da parte della divinità (1).
La crisi di una
cultura, di conseguenza, viene quando quella cultura non è più
capace di portare avanti l’eredità sopra-razionale, mettendola
in relazione in modo convincente con una nuova conoscenza critica.
In questo caso, la verità ereditata viene messa in questione;
quello che una volta era verità diventa solo abitudine, costume e
perde la sua vitalità.
c) Un altro punto
importante è questo: le società camminano e le culture hanno a
che fare con la storia. Nel suo viaggio attraverso il tempo, la
cultura si sviluppa incontrando nuove realtà e con l’emergere
di nuove intuizioni.
La cultura non è
isolata dal fiume dinamico del tempo, formato da tante correnti
culturali che muovono verso l'unità. La storicità di una cultura
significa la sua capacità di progredire e questo dipende dalla
sua capacità di essere aperta e di trasformarsi attraverso
l’incontro. In realtà, si potrebbe distinguere tra culture
cosmico-statiche e culture storiche. Le antiche culture, come si
dice, descrivono il mistero del cosmo che è sempre uguale, mentre
il mondo culturale giudeo-cristiano concepisce il rapporto con Dio
come storia. La storia è dunque fondamentale a questo mondo
culturale. La distinzione fra culture statiche e culture dinamiche
è corretta, ma non dice tutto, in quanto le culture statiche
credono nella morte e nella rinascita, alla condizione umana come
cammino. Come cristiani noi diciamo che esse contengono una
dinamica messianica, ma questo è un tema su cui ritorneremo in
seguito (2).
I nostri piccoli
sforzi per chiarificare le categorie di base del concetto di
cultura ci aiutano a capire meglio come le culture possono
incontrarsi e intercomunicare. Possiamo ora dire che
l’attaccamento ad una identità culturale, ad una particolare
espressione culturale, è la base per la molteplicità delle
culture e le loro rispettive caratteristiche. D’altra parte
possiamo constatare che la storicità di una cultura, il suo
movimento attraverso il tempo, comprende il suo essere aperta. Una
singola cultura non vive solamente la propria esperienza di Dio,
del mondo e dell’uomo. Piuttosto, necessariamente, incontra
sulla sua via altre culture con le loro esperienze tipicamente
differenti, e deve confrontarsi con esse. Così, una cultura
approfondisce e raffina le proprie intuizioni e valori, nella
misura in cui è aperta o chiusa, internamente vasta o stretta.
Questo può portare ad una profonda evoluzione della sua primitiva
configurazione culturale e questa trasformazione non può in
nessun modo essere definita alienazione o violazione. Una
trasformazione ben riuscita è spiegata dall’universalità
potenziale di tutte le culture, che diventa concreta in una data
cultura attraverso l’assimilazione delle altre e la sua interna
trasformazione. Un tale procedimento può anche risolvere
l’alienazione latente dell’uomo dalla verità e da se stesso,
che una cultura può albergare. Può significare
la Pasqua
di salvezza di una cultura: mentre sembra morire, la cultura
realmente nasce, ritrovando pienamente se stessa per la prima
volta.
Per questo motivo
noi non dovremmo più parlare di "inculturazione", ma di
incontro di culture o "inter-culturalità", se vogliamo
forgiare una nuova espressione. Infatti l’inculturazione presume
che la fede, liberata dalla cultura, sia trapiantata in un’altra
cultura religiosamente indifferente, dove due soggetti,
sconosciuti l’uno all’altro, si incontrano e si fondono. Ma
questo modo di concepire l’incontro della fede con le culture è
anzitutto artificiale e irrealistico, perché, con l’eccezione
della civiltà moderna tecnologica, non esiste una fede senza
cultura o una cultura senza fede. È difficile immaginare come due
organismi, estranei l’uno all’altro, possano diventare
improvvisamente un insieme coerente in un trapianto che arresta lo
sviluppo di ambedue. Invece, se è vero che le culture sono
potenzialmente universali e aperte l’una all’altra, l’inter-culturalità
può portare a una fioritura di nuove forme.
Fino a questo punto
abbiamo espresso considerazioni che possono essere definite
fenomenologiche, cioè abbiamo notato come le culture agiscono e
si sviluppano. Facendo questo, abbiamo ragionato sulla potenziale
universalità di tutte le culture, come espressione fondamentale
dell’idea che la storia va verso l’unificazione. Ma allora noi
ci chiediamo: perché è così? Perché tutte le culture sono
particolari e quindi diverse l’una dall’altra? Perché esse
sono, allo stesso tempo, aperte a tutte le altre culture e capaci
di reciproco scambio, purificazione, perfezionamento? Non voglio
dare una risposta positivista a questi interrogativi, anche se
esiste. A me sembra che proprio nel nostro caso il riferimento
alla metafisica non può essere evitato. L’incontro delle
culture è possibile perché l’uomo, nonostante tutte i
divergenti cammini della sua storia e dei suoi sistemi sociali,
rimane un unico ed identico essere. Quest’unico uomo, tuttavia,
è segnato in profondità nella sua esistenza dalla verità. La
fondamentale apertura di ogni persona all’altra può essere
spiegata solo dal fatto misterioso che le nostre anime sono state
toccate dalla verità; e questo spiega la sostanziale concordanza
che esiste anche fra le culture più lontane l’una dall’altra.
D’altra parte, la diversità che porta all’isolamento è
attribuibile alla limitatezza dello spirito umano. Nessuno afferra
il tutto. Le miriadi di intuizioni e di forme sono una specie di
mosaico che rivela la loro complementarietà e la loro
interconnessione. Per essere se stesso, ciascuno ha bisogno
dell’altro. L’uomo si avvicina all’unità e alla totalità
del suo essere solo nella reciprocità di tutte le grandi
realizzazioni culturali.
In realtà dobbiamo
riconoscere che questa diagnosi ottimistica non corrisponde alla
realtà dei fatti. La potenziale universalità delle culture si
scontra sempre di nuovo con ostacoli insormontabili, quando
tentiamo di tradurla in un’universalità pratica, poiché non si
tratta solo della forza dinamica di ciò che noi abbiamo in
comune. Dobbiamo anche considerare gli elementi di separazione, le
barriere e le contraddizioni, l’impossibilità di raggiungere
l’altra sponda perché le acque che ci dividono sono troppo
profonde e non esistono ponti. Abbiamo parlato dell’unità
dell’essere umano, toccato da Dio in modo misterioso attraverso
la verità. Ma ci rendiamo anche conto che esiste un fattore
negativo nell’esistenza umana, un’alienazione che ostacola la
conoscenza e taglia fuori l’uomo, almeno in modo parziale, dalla
verità e, perciò, impedisce agli uomini di incontrarsi. In
questo innegabile fattore di alienazione sta la povertà dei
nostri sforzi per promuovere l’incontro delle culture. Da questo
fatto, mentre possiamo dedurre che è sbagliato accusare tutte le
religioni della terra di idolatria, sarebbe anche scorretto
considerare tutte le religioni solo in modo positivo. Non dobbiamo
dimenticare la critica della religione che non solo Feuerbach e
Marx, ma anche grandi teologi come Karl Barth e Bonhoeffer hanno
acceso come un fuoco nelle nostre anime.
2 - FEDE E CULTURA
Veniamo alla seconda
parte delle nostre considerazioni. Abbiamo discusso l’essenza
della cultura e le condizioni che permettono l’incontro delle
culture, il loro reciproco influsso che origina la nascita di
nuove forme culturali. Dal piano dei princìpi dobbiamo ora
scendere a quello dei fatti.
Ma prima riassumiamo
i risultati essenziali delle nostre riflessioni e chiediamoci cosa
può unire le culture in modo che non siano solo superficialmente
appiccicate l’una all’altra, ma il loro incontro diventi
occasione per il mutuo arricchimento e perfezionamento. Il mezzo
che può unire le culture non può essere altro che la verità
partecipata sull’uomo, la quale necessariamente chiama in gioco
la verità su Dio e sulla realtà del mondo nel suo complesso. Una
cultura, più è umana e più è grande, più esprimerà la verità
che in precedenza ignorava e più sarà capace di assimilare la
verità e sarà essa stessa assimilata dalla verità. A questo
punto, la speciale comprensione di se stessa della fede cristiana
diventa manifesta. La fede cristiana, se è vigile e onesta, sa
benissimo che c’è una buona parte di umano nelle sue
espressioni culturali particolari, molto del quale necessita di
essere purificato e aperto. Ma la fede cristiana è anche certa
che il suo nucleo fondamentale è la rivelazione della verità
stessa e perciò è la redenzione. Poiché la vera povertà
dell’uomo è essere all’oscuro della verità, il che falsifica
le nostre azioni e ci scatena l’un contro l’altro, appunto
perché siamo corrotti, alienati da noi stessi, tagliati fuori
dalla radice del nostro essere, che è Dio. La comunicazione della
verità porta alla liberazione dall’alienazione e dalla
divisione, ci dà il criterio universale di giudizio, che non fa
violenza ad alcuna cultura, anzi conduce ciascuna al suo proprio
centro, dato che ogni cultura è in fondo attesa della verità.
Questo non significa uniformità. Proprio l’opposto. Solo quando
questo si verifica l’opposizione tra le culture può diventare
complementarietà poiché ogni cultura, basata su un comune
criterio di giudizio, può ora portare i suoi frutti particolari.
Questo è il grande
mandato col quale la fede cristiana venne al mondo; esso
sottolinea l’intimo impegno di mandare tutti i popoli alla
scuola di Gesù, poiché Egli è la verità in persona e quindi la
via dell’umanità. Non è qui il caso di discutere la legittimità
del mandato missionario, ma ritorneremo su questo punto.
Chiediamoci ora: quali conclusioni possiamo trarre da quanto detto
finora riguardo al concreto rapporto della fede cristiana con le
culture del mondo?
Primo, possiamo dire
che la fede stessa è cultura. Non esiste la nuda fede o la pura
religione. In termini concreti, quando la fede dice all’uomo chi
egli è e come deve incominciare ad essere uomo, la fede crea
cultura. La fede è essa stessa cultura. La parola fede non è
un’astrazione; è maturata attraverso una lunga storia e
rapporti interculturali nei quali essa ha formato un organico
sistema di vita, l’interazione dell’uomo con se stesso, i suoi
vicini, il mondo e Dio. Questo significa anche che la fede è, in
se stessa, una comunità che vive in una cultura, che noi
chiamiamo "Popolo di Dio". Il carattere storico della
fede come soggetto può essere forse più chiaramente espresso da
questo concetto. Significa questo che la fede si pone come una
cultura fra le altre, così che uno debba scegliere se appartenere
a questo popolo, come comunità culturale, o ad un altro? No. A
questo punto appare evidente ciò che è speciale e proprio di una
cultura. Il soggetto culturale "Popolo di Dio"
differisce dalle culture classiche, che sono definite dalla tribù,
dal popolo o dai confini di una comune regione, mentre il Popolo
di Dio esiste nelle diverse culture le quali, pur diventando
cristiane, non cessano di essere culture in modo primario e non
relativo.
Il cristiano non
cessa di essere francese, tedesco, americano, indiano, ecc. Nel
mondo pre-cristiano, anche nelle grandi culture dell’India, Cina
e Giappone, l’identità e l’indivisibilità del soggetto
culturale rimane. Una doppia appartenenza è impossibile, con
l’eccezione del buddhismo, capace di inserirsi in altre culture
come una specie di principio interno. Ma la doppia appartenenza
culturale incomincia in modo consistente con la cristianità, così
che l’uomo vive oggi in due mondi culturali, la sua cultura
storica e quella nuova della fede: ambedue contribuiscono a
formare la sua identità. Questa interazione non porterà mai ad
una sintesi compiuta, poiché essa include la necessità di
continui sforzi verso la riconciliazione e la perfezione. Sempre
di nuovo l’uomo deve imparare la trascendenza verso la totalità
e l’universalità che sono proprie non di un popolo specifico,
ma precisamente del Popolo di Dio che abbraccia tutti gli uomini.
D’altra parte, sempre più quanto è posseduto in comune dev’essere
ricevuto nel campo del particolare e vissuto o anche sofferto
nella storia concreta.
Da tutto questo
deriva qualcosa di molto importante. Si potrebbe pensare che la
cultura è un problema della storia di ogni singolo paese
(Germania, America, Francia, ecc.), mentre la fede per parte sua
è alla ricerca di un’espressione culturale. Le singole culture
dovrebbero quindi fornire alla fede un corpo culturale per
esprimersi. Di conseguenza, la fede dovrebbe sempre vivere in
culture imprestate che rimangono alla fine in qualche modo esterne
e corrono il rischio di essere gettate via. Soprattutto, una forma
culturale imprestata non potrebbe parlare a chi vive in un’altra
cultura. Così l’universalità diventerebbe alla fine fittizia.
Questo modo di pensare è, alla sua radice, manicheo. La cultura
è svilita, diventa un guscio intercambiabile, e la fede è
ridotta ad uno spirito disincarnato, ultimamente privo di realtà.
Una simile visione è tipica della mentalità post-illuministica.
La cultura è ridotta ad una pura forma e la religione a mero
sentimento inesprimibile o puro pensiero. Si perde la feconda
tensione che dovrebbe caratterizzare la coesistenza di due
soggetti. Se la cultura è più di una pura forma o principio
estetico, se essa è piuttosto l’ordinamento di valori in una
forma storica e vivente e non può prescindere dal problema di
Dio, allora noi non possiamo evitare che
la Chiesa
sia per il fedele il suo proprio soggetto culturale. Questo
soggetto culturale: Chiesa, Popolo di Dio, non coincide con alcun
altro soggetto culturale storico, anche in tempi di apparente
piena cristianizzazione, come si pensa sia stata raggiunta
nell’Europa del passato. Piuttosto
la Chiesa
mantiene, significativamente, la sua forma culturale come una
volta, un arco al di sopra di tutte le altre culture.
Se le cose stanno
così, quando la fede e la sua cultura incontrano un’altra
cultura fino a quel momento ad essa estranea, non si tratta di
dissolvere la dualità delle culture a vantaggio di una o
dell’altra. Entrare in una cristianità privata del suo
carattere umano, al prezzo di perdere la propria eredità
culturale, sarebbe un errore allo stesso modo che se la fede
abbandonasse la sua propria fisionomia culturale. Veramente la
tensione è fruttuosa, poiché essa rinnova la fede e guarisce la
cultura. Sarebbe dunque insensato offrire una sorta di
cristianesimo pre-culturale o deculturato, che dovrebbe privare se
stesso della sua forza storica e degradarsi ad un vuoto
contenitore di idee. Non dobbiamo dimenticare che già nel Nuovo
Testamento il cristianesimo è frutto di una storia culturale,
storia di accettazione e di rifiuto, di incontro e cambiamento. La
storia della fede in Israele, che è stata assunta dal
cristianesimo, trovò la sua propria forma nel confronto con le
culture egiziana, ittita, sumera, babilonese, persiana e greca.
Tutte queste culture erano allo stesso tempo religioni,
totalizzanti forme storiche di modi di vivere. Israele, con
sofferenza, le adottò e trasformò nel corso della sua lotta con
Dio e con i grandi profeti, in modo da preparare un vaso più puro
per la novità della rivelazione dell’unico Dio. Così, queste
altre culture raggiunsero la loro definitiva realizzazione. Esse
sarebbero scomparse nel lontano passato, se non fossero state
purificate ed elevate nella fede della Bibbia, raggiungendo così
la loro permanenza.
In verità, la
storia della fede in Israele incomincia con la chiamata di Abramo:
"Esci dalla tua terra, dalla tua stirpe e dalla casa di tuo
padre" (Gen 12, 1): incomincia con una rottura culturale.
Questa rottura con la sua storia precedente, questo andare oltre
segnerà sempre l’inizio di una nuova epoca nella storia della
fede. Ma questo nuovo inizio si manifesta come un potere risanante
e capace di attirare a sé tutto quello che è umano, tutto ciò
che viene realmente da Dio. "Quando sarò elevato da terra,
attirerò a me tutti gli uomini" (Gv 12, 31): queste parole
del Signore risorto si applicano anche qui. La croce è prima di
tutto rottura, espulsione, elevazione dalla terra, ma proprio per
questo diventa un nuovo centro di attrazione magnetica, che
orienta la storia del mondo verso l’alto e raduna gli uomini
divisi.
Chiunque entra nella
Chiesa deve essere cosciente di entrare in un soggetto culturale
con la sua inter-culturalità che s’è sviluppata nella storia
con molteplici manifestazioni. Non si può diventare cristiani
senza un certo "esodo", una rottura con la precedente
vita in tutti i suoi aspetti. La fede non è una via privata a
Dio, essa conduce dentro al Popolo di Dio e nella sua storia. Dio
ha legato se stesso ad una storia che ora è anche la sua e che
noi non possiamo rifiutare. Cristo resta uomo in eterno, egli
conserva il suo corpo nell’eternità. Essendo uomo e avendo un
corpo, inevitabilmente questo include una storia e una cultura,
una particolare storia e cultura, lo vogliamo o no. Noi non
possiamo replicare l’avvenimento dell’incarnazione per
accontentare noi stessi, nel senso di rimuovere la carne di Cristo
e offrirgliene un’altra. Cristo rimane Se stesso, col Suo vero
corpo. Ma Egli ci attira a sé. Questo significa che, poiché il
Popolo di Dio non è una particolare entità culturale, ma invece
è stato tratto da tutti i popoli, perciò la sua stessa primaria
identità culturale, nata dalla rottura, ha il suo posto. Ma non
solo questo. La prima identità è necessaria per permettere
all’Incarnazione di Cristo, del Logos, di raggiungere la sua
pienezza. La tensione dei molti soggetti nell’unico soggetto
appartiene essenzialmente al dramma non ancora completato
dell’Incarnazione del Figlio. Questa tensione è il reale e
intimo dinamismo della storia, che si sviluppa sotto il segno
della Croce, cioè, sempre deve lottare contro le spinte contrarie
della chiusura mentale e del rifiuto.
3 - FEDE CRISTIANA E
RELIGIONI NON CRISTIANE NELL’ATTUALE SITUAZIONE STORICA
Se Gesù di Nazareth
è veramente l’Incarnazione del senso della storia, il Logos,
l’auto-manifestazione della verità, allora è chiaro che questa
verità è il luogo dove ciascuno può essere riconciliato e non
perde nulla della propria dignità e del proprio valore. Ma a
questo punto oggi si sollevano varie obiezioni. Affermare che le
concrete asserzioni di una religione sono vere è considerato oggi
non solo presunzione, ma un segno di non essere illuminati. Hans
Kelsen esprime lo spirito del nostro tempo quando sostiene che la
questione posta da Pilato "Cosa è la verità?" è il
solo punto di vista adeguato di fronte ai gravi problemi morali e
religiosi dell’umanità. La verità è sostituita dalla
decisione della maggioranza, egli dice, precisamente perché non
c’è alcun modello vincolante e accessibile per l’uomo (3).
Così la molteplicità delle culture diventa la prova della loro
relatività. La cultura è messa in opposizione alla verità.
Questo relativismo, sentimento basilare dell’uomo illuminista
che oggi è penetrato profondamente nella teologia, è il più
grave problema del nostro tempo. È anche il motivo fondamentale
per cui la prassi ha preso il posto della verità e così ha
spostato l’asse delle religioni.
Noi non sappiamo
cosa è vero, ma noi sappiamo cosa dobbiamo fare, cioè annunziare
una società migliore, il "regno", come spesso si dice,
prendendo una parola biblica ed usandola in un senso profano,
utopico. La centralità della Chiesa, di Cristo e di Dio, tutto
questo sembra essere sostituito dalla centralità del regno, come
compito comune a tutte le religioni, in cui tutte si possono
incontrare (4).
Così non c’è più
motivo per cui le religioni debbano essere conosciute nel loro
nucleo essenziale o che si debbano mettere in relazione reciproca
nei loro messaggi morali e religiosi. Al contrario, le religioni
sono distorte nella loro profonda essenza, in quanto ci si attende
che esse servano come mezzi per una futura struttura che in realtà
è estranea ad esse e le svuota di contenuto.
Il dogma del
relativismo agisce anche in un’altra direzione.
L’universalismo cristiano portato avanti nella missione non è
più la doverosa trasmissione di un bene, cioè della verità e
dell’amore validi per tutti gli uomini. La missione diventa
invece l’arrogante presunzione di una cultura che si ritiene
superiore alle altre e così le spoglia di ciò che hanno di buono
e di caratteristico.
Le conclusioni che
derivano da questo relativismo differiscono da cultura a cultura,
anche se la spinta di base è comune. Nell’America Latina vi è
oggi un movimento sotterraneo che si definisce "teologia
india", in riferimento ai popoli indigeni. Il movimento
lamenta la scomparsa delle antiche religioni di questo continente
e vorrebbe in qualche modo richiamarle in vita. Le religioni sono
viste come vie dei differenti popoli a Dio, egualmente e
fondamentalmente valide per la salvezza. Ogni popolo ha il diritto
alla sua propria via. L’America Latina deve al fine essere
liberata dall’alienazione che ha sperimentato quando il
cristianesimo occidentale fu imposto su di essa. La situazione è
abbastanza diversa in Africa dove, in contrasto con l’America
Latina, le religioni tribali originali sono ancora vigorose. Ma
anche qui si verifica un movimento di ritorno al passato, dovuto
al dubbio su di sé che affligge oggi il cristianesimo e alla
riduzione della sua essenza religiosa a puri imperativi morali.
Perché l’Africa dovrebbe gettar via la sua identità religiosa,
in favore di una religione la cui proclamazione e impiantazione
appare a molti, in una visione retrospettiva, come un altro
aspetto alienante della colonizzazione imposta agli africani?
Chiunque esamina
questi problemi da vicino, si rende subito conto che non può
esserci alcun semplice ritorno al passato. Non solo perché la
convergenza dell’umanità verso una singola comunità con una
vita e un destino comune è un movimento inarrestabile (essendo
questa tendenza fondata nell’essenza dell’essere umano), ma
anche perché la diffusione della civiltà tecnologica è
irrevocabile. È un sogno romantico quello di preservare isole
pre-tecnologiche nel mare dell’umanità. Non potete chiudere
uomini e culture in una specie di riserva naturale spirituale. In
pratica nessuno, sia in America Latina che in Asia e in Africa,
vuole seriamente escludere se stesso dalla scienza naturale e
dalla tecnologia che ebbero origine in Occidente. Ma poiché la
tecnologia come scienza naturale appare neutrale, alcuni dicono:
perché non accettare le realizzazioni dell’epoca moderna,
mantenendo allo stesso tempo le religioni indigene? Quest’idea
così apparentemente illuminata non funziona. Poiché in realtà
la moderna civiltà non è pura moltiplicazione di conoscenza e di
metodi. Essa è profondamente fondata sul modo di intendere
l’uomo, il mondo e Dio; essa cambia i modelli e i comportamenti
e capovolge l’interpretazione del mondo alla base. La visione
sacrale del cosmo è necessariamente scossa. L’arrivo di queste
nuove possibilità di esistenza è come un terremoto che scuote il
panorama intellettuale fin dalle sue fondamenta.
In ogni modo,
succede sempre più di frequente che la fede cristiana è scartata
come un’eredità culturale europea e le antiche religioni sono
ripristinate, mentre, allo stesso tempo, la tecnologia, sebbene
indubbiamente occidentale, viene adottata e utilizzata con
passione. Questa divisione dell’eredità occidentale
nell’utile che viene accettato e nello straniero che viene
rifiutato, non porterà le antiche culture alla salvezza. Oggi si
può vedere che quello che è grande e profetico, cioè la
dimensione messianica delle antiche religioni, entra in crisi
perché sembra incompatibile con la nuova conoscenza del mondo e
dell’uomo, mentre il magico (nel senso lato della parola), tutto
quello che promette potere sul mondo, rimane intatto e diventa per
la prima volta determinante per la vita. Così le religioni
perdono la loro dignità, poiché quello che in esse è il meglio
viene eliminato e resta solo quello che è pericoloso.
La situazione
dell’Asia riguardo al cristianesimo è diversa da quella
dell’America Latina e dell’Africa nera. Qui infatti non
abbiamo a che fare con culture tribali senza scrittura, ma con
alte culture religiose, che hanno anche prodotto un vasto
patrimonio di testi sacri e scritti filosofici e di riflessione
teologica. In Africa, il cristianesimo incontrò le religioni
indigene in un momento in cui le stesse, piene di giovanile
vigore, erano ancora alla ricerca di una definitiva parola. Si può
riconoscere una certa analogia con la situazione del mondo
mediterraneo nel momento del suo incontro con Cristo, anche se
l’analogia contiene tante differenze quante sono le somiglianze,
come in tutte le analogie. La prima proclamazione del
cristianesimo al mondo greco-romano si trovò di fronte a
religioni che erano moribonde, avevano perso la loro credibilità
e vitalità. La gente era alla ricerca di un qualcosa di nuovo.
Possiamo dire che c’era un’aspirazione al monoteismo, a
conoscere l’unico Dio sopra tutti gli dei. La filosofia lo
vedeva da lontano, ma non era in grado di indicare il cammino
verso di Lui; come filosofia, non poteva sostituire la religione.
Qui la proclamazione cristiana fu la risposta interiormente attesa
che afferrò il pensiero filosofico e lo riempì con una realtà
religiosa. In Africa esisteva e tuttora c’è una simile esigenza
di autotrascendenza delle religioni tribali. Anche queste non sono
adeguate alle esigenze del momento storico. L’islam e il
cristianesimo stanno tentando di rispondere ai problemi posti
dalle religioni stesse.
La situazione è
diversa in Cina e Giappone, poiché le religioni tradizionali
hanno prodotto sistemi filosofici che interpretano il mondo nel
suo complesso e inquadrano razionalmente la religione nella
struttura della vita e della cultura. Perciò qui il cristianesimo
non ha potuto essere sperimentato come nel Mediterraneo o anche
nell’Africa nera, come un nuovo passo avanti nel cammino di
questi popoli, che già va in quella direzione. Invece, il
cristianesimo è apparso più come una cultura e una religione
straniera che si è collocata accanto a quelle asiatiche,
minacciando di soppiantarle. Per questo motivo, le conversioni al
cristianesimo sono rimaste largamente marginali nel quadro
dell’intera società.
Tuttavia, il
confronto tra i mondi religiosi cristiano e asiatico non è
rimasto senza effetto, ma ha condotto ad un profondo processo di
trasformazione, specie nella religiosità. Il neo-induismo come
rappresentato da Radhakrishnan, ad esempio, viene dalla fusione
delle tradizioni indiane con una tarda forma di cristianesimo
occidentale. Senza dubbio si può definire una sintesi di cultura
e religione, ma forse può essere meglio compresa come una forma
di filosofia della religione, in cui il moderno relativismo
occidentale si fonde con la spiritualità orientale ed offre una
specie di base razionale per prospettive religiose e cultuali che
di sicuro hanno perso in gran parte il loro senso originario in
questa nuova visione. Se in questo caso il momento indiano è
determinante nella sintesi, si può dire che in Panikkar si
verifica un’unione in cui l’accento è posto sulla componente
cristiana. Ma anche qui si tratta più di filosofia della
religione che di religione.
Al di là di questi
tentativi, bisogna trovare una via di incontro autentico di
culture e religioni, caratterizzato non dalla perdita di fede o di
verità ma da un più profondo contatto con la verità, che renda
possibile dare a tutto ciò che è maturato in passato il suo
pieno e profondo significato. Questa sintesi di verità non può
essere inventata a tavolino, altrimenti non supererà lo status di
filosofia o di pura teoria. Piuttosto è indispensabile un
processo di fede vissuta, che crei la capacità di incontrare
nella verità e così, come dice il Salmo, "porre le cose in
un vasto spazio" (31, 8). Ma naturalmente questo processo
deve essere guidato e ordinato a pensare la fede.
Questo è il grande
compito che la teologia in Asia nel nostro tempo deve affrontare,
un compito che nello stesso tempo riguarda tutta
la Chiesa. Il
nostro incontro qui a Hong Kong dovrebbe essere un incoraggiamento
a intraprendere questo lavoro e nello stesso tempo aiutarci a
chiarificare i necessari principi che ne sono coinvolti. I Padri
della Chiesa possono mostrarci la via per conseguire i retti
principi poiché essi hanno affrontato un simile compito nel loro
incontro con le religioni dell’area del Mediterraneo, con le
loro endemiche filosofie della religione. Infatti, sebbene la fede
negli dei e quindi il significato immediato degli antichi culti si
fossero disintegrati, vennero concepite nuove giustificazioni
filosofiche delle religioni pagane che mostrano caratteristiche
molto simili alle filosofie della religione del nostro secolo, per
esempio a quella di Radhakrishnan. Citerò soltanto due esempi
notevoli. Il primo ce lo fornisce il retore romano Simmaco (ca.
345-402), che difese appassionatamente la preservazione
dell’antica religione romana. Egli divenne famoso soprattutto
per la sua richiesta a Cesare di reinstallare la statua della dea
Vittoria nel Senato romano. La frase chiave del suo memorandum
contenente la richiesta recita: uno itinere non potest veniri ad
tam grande secretum, non si può accedere a un così grande
mistero per un’unica strada. Questa frase è una classica
espressione dell’idea romana di religione: il mistero divino è
così grande che nessuna via umana può esaurirlo, nessuna
religione può circoscriverlo. Può essere accostato solo da lati
diversi e deve essere rappresentato in varie forme. Simmaco non
voleva abolire il cristianesimo, voleva soltanto integrarlo nella
sua concezione di religione. Il cristianesimo doveva imparare a
considerarsi come un modo di vedere, cercare e parlare di Dio,
ammettendo che ci sono anche altri modi. Anche il cristianesimo
non può pretendere di esaurire il grande mistero.
Forse la questione
si può capire ancora meglio nel caso dell’imperatore Giuliano
l’Apostata (332-363), che voleva nuovamente sopprimere il
cristianesimo e ristabilire gli antichi culti, collocando come
fondale la filosofia neoplatonica. Giuliano criticava l’Antico
Testamento e la fede cristiana dallo stesso punto di vista di
Simmaco. La sua principale critica al cristianesimo e la sua
decisa obiezione all’ebraismo riguardavano il primo
comandamento. Non poteva e non voleva ammettere l’unicità
dell’unico Dio. Anche il Dio di Israele, il Dio di Gesù Cristo,
era per lui soltanto una manifestazione del divino, che non
esauriva il "grande mistero".
Per questo motivo,
il Dio dell’Antico Testamento, il Dio dei cristiani doveva
tollerare altri dei oltre a Sé. Per questa ragione, il Nazareno
non poteva essere riconosciuto come il Logos incarnato che è
l’unico mediatore per tutta l’umanità. Nella polemica col
politeismo filosofico illuminato i Padri della Chiesa hanno
individuato i fondamenti della fede biblica: relativizzarli
significa annullare questa fede e privarla della sua identità. Ciò
che resterebbe dopo l’abbandono sarebbero elementi selezionati
di tradizione biblica, ma non la fede della Bibbia in quanto tale.
Tenterò brevemente di indicare questi elementi fondamentali che i
Padri hanno derivato dalle Sacre Scritture.
a) Il primo grande
comandamento è allo stesso tempo il primo articolo di fede e il
principio fondativo di identità della fede: "Il Signore,
nostro Dio, è un solo Signore". Tutti gli "dei"
non sono Dio. Pertanto solo l’unico Dio può essere adorato
nella verità; adorare altri dei è idolatria. Senza questa
fondamentale decisione non c’è cristianesimo. Dove essa è
dimenticata o relativizzata, ci si trova fuori della fede
cristiana. Cristologia, ecclesiologia, adorazione e sacramento
possono essere correttamente trattati solo quando esiste questa
decisione. Il cristianesimo rivoluzionò il mondo antico con
questa confessione di fede. Il mondo antico aveva preso le mosse
dal principio esattamente opposto, nuovamente formulato
dall’imperatore Giuliano alla fine dell’antichità.
Certamente l’unico
Dio non è un tema sconosciuto nella storia della religione. In
realtà si può dire che la grande maggioranza delle religioni ne
ha nozione. Pertanto esse sanno che gli dei non rappresentano la
potenza ultima, ma solo potenze relative. In generale le religioni
sono anche coscienti che gli "dei" non sono
"Dio". Allo stesso tempo, l’unico Dio è spesso privo
di culto, o almeno è privo di importanza livello di culto, poiché
è troppo lontano dalla vita dell’uomo. Pertanto le pratiche
cultuali sono indirizzate agli dei, dimodoché nelle religioni Dio
è spesso nascosto quasi interamente dietro gli dei per quanto
riguarda tutti gli aspetti pratici. La fede cristiana è
consistita, per il mondo mediterraneo e poi ancora per l’America
latina e per l’Africa, in una liberazione dagli dei perché ora
l’unico Dio si è mostrato ed è diventato il "Dio con
noi". Le parole cruciali con cui Gesù respinge Satana, il
tentatore dell’umanità, recitano: "Adorerai il Signore Dio
tuo e Lui solo servirai" (Mt 4,10; Lc 4,8; Dt 5,9; 6,13).
Senza l’accettazione di questo comando non ci si può collocare
dalla parte di Gesù Cristo nella religione professata dalla
Bibbia.
b) L’esistenza
cristiana comincia con questa decisione fondamentale e si fonda
sempre su di essa. Quando scompare la differenza fra adorazione e
idolatria, il cristianesimo è distrutto.
La Bibbia
e il linguaggio dei Padri chiamano "conversione" (metanoia)
la necessaria decisione. Una teologia che omettesse il concetto di
conversione trascurerebbe la categoria decisiva della religione
biblica. La fede cristiana è un nuovo inizio, e non semplicemente
una nuova variante culturale di una strutture religiosa sempre in
via di svolgimento. Per questo motivo i Padri sottolineavano con
enfasi la novità del cristianesimo. L’atto della conversione è
essenziale alla speciale comprensione della verità dei cristiani.
In un grande numero di religioni, come abbiamo visto, la realtà
del Dio unico non è certamente sconosciuta, ma questo Dio unico
è troppo distante. Il suo mistero è inaccessibile. Così i
contenuti concreti della religione possono essere solo di natura
simbolica. Essi non sono la verità, ma manifestazioni parziali al
di là delle quali sono possibili altre manifestazioni. La fede
cristiana riconosce nel Dio di Israele, nel Dio di Gesù Cristo,
l’unico vero Dio, la verità stessa che si manifesta. Pertanto
la conversione cristiana è nella sua essenza fede nel fatto della
rivelazione di sé che la verità attua. Mentre il mistero non è
per questo abolito, il relativismo è senza dubbio escluso, poiché
esso separa l’uomo dalla verità facendone uno schiavo. La reale
povertà dell’uomo consiste nell’oscurità rispetto alla verità.
Egli diventa libero per la prima volta quando è obbligato a
servire la sola verità.
Tuttavia un altro
punto è importante in questa riflessione. I Padri hanno anzitutto
enfatizzato con molto vigore il carattere della conversione come
decisione e di conseguenza il carattere della fede come esodo. Una
volta garantito questo punto, hanno sempre più sottolineato il
secondo aspetto, cioè che la conversione è trasformazione, non
distruzione. La conversione non distrugge le religioni e le
culture, ma le trasforma. Sulla base di questa intuizione, i Padri
giunsero sempre più a opporsi all’iconoclastia di fanatici
cristiani dalla visuale ristretta. I templi non furono più
smantellati, ma trasformati in chiese. La profonda continuità fra
le religioni e la fede cristiana divenne visibile. Essa condusse
alla resurrezione del meglio delle antiche religioni. Non fu una
filosofia della religione relativistica che diede ad esse
esistenza continuata; in realtà, proprio questa filosofia in un
primo momento le aveva rese inutili. La fede diede alle religioni
lo spazio in cui la loro verità potè svilupparsi e dare frutti.
Entrambi gli aspetti dell’atto di conversione sono importanti,
ma solo dopo che è stato compiuto il primo passo, cioè la svolta
decisiva verso l’unico Dio, può seguire il secondo, la
conservazione trasformante.
c) Il mistero di Gesù
Cristo può essere compreso solo in questo contesto del primo
comandamento e dell’atto di conversione che esso esige. Per Gesù,
che non abolì il Vecchio Testamento ma lo portò a compimento, il
primo comandamento rimase il fondamento di ogni cosa ulteriore;
rimase il contenuto che sta alla base della fede: "Ascolta,
Israele: il Signore nostro Dio è un solo Signore". Oso
sostenere che la centralità di questo passo per tutta la
letteratura dell’Antico Testamento è anche la ragione
essenziale del posto unico che l’Antico Testamento tiene nella
fede cristiana. Poiché l’intero Antico Testamento è costruito
attorno a questa singola frase, per questo motivo esso rappresenta
un "canone" per i cristiani, quindi Sacra Scrittura.
Solo per questa ragione esso rende testimonianza a Gesù e
viceversa. Gesù è la chiave all’Antico Testamento perché egli
rende concreta questa frase nella Sua stessa carne.
Sfortunatamente, la
mancanza di tempo non ci permette di presentare la questione
cristologica come meriterebbe. Per questo motivo mi piace tanto più
rimandare all’enciclica Redemptoris Missio, in cui gli argomenti
essenziali sono esposti in maniera vivida e chiara. Questa
enciclica deve costituire il modello per ogni ulteriore ricerca di
Teologia delle religioni e della missione. Non sarà mai studiata
e accolta abbastanza intensamente.
Qui mi devo limitare
a una breve allusione. Il problema che si pone in India ma anche
altrove trova espressione nella famosa frase di Panikkar:
"Gesù è Cristo, ma Cristo non è (soltanto) Gesù".
Per capire tutta
l’ampiezza del problema dovremmo sostituire la parola
"Cristo" con Logos o Figlio di Dio, dal momento che
Cristo è un titolo storico-salvifico nel quale l’intera
profondità metafisica del mistero di Gesù non viene ancora alla
luce. Nella sua vita storica, Gesù fu reticente sull’uso di
questo titolo. La tradizione post-pasquale spiega il titolo sempre
più decisamente col titolo di Figlio, che infine lo sostituisce e
che allora di nuovo Giovanni interpreta in profondità per mezzo
del concetto di Logos. Questo processo dello sviluppo della
rivelazione, comunque, è già molto evidente nella tradizione
sinottica. La confessione di Pietro suona molto semplicemente in
Marco: "Tu sei il Cristo (il Messia)". In Matteo
leggiamo: "Tu sei il Cristo (il Messia), il Figlio del Dio
vivente" (Mc 8, 29; Mt 16, 16). Gesù dice espressamente a
Pietro che quest’ultimo non aveva appreso questa confessione
dalla carne e dal sangue, cioè dalla sua cultura o dalla sua
tradizione religiosa, ma "te l’ha rivelata il Padre mio che
sta nei cieli" (Mt 16, 17).
Pertanto questa
confessione, la fondamentale confessione di tutta
la Chiesa
di ogni tempo e luogo, è espressamente dichiarata estranea alle
semplici tradizioni umane e definita come una rivelazione nel
senso stretto del termine. Ogni interpretazione che non perviene
ad essa rappresenta un ritorno al puramente umano. Il
cristianesimo sta o cade sulla base di questa confessione. Essa
non può essere separata dalla confessione fondamentale di
Israele: "Il Signore nostro Dio è un solo Signore".
L’unico Dio mostra Se stesso a noi nel Suo unico Figlio e
desidera essere adorato come l’unico Dio in Lui. Ciò risponde
in via di principio alla questione della reversibilità delle
formule cristologiche. Quando Panikkar nega la semplice
reversibilità, egli ha ragione nella misura in cui le due nature,
divina ed umana, rimangono distinte. La natura umana di Gesù ha
il suo inizio nel tempo, la natura divina del Logos è eterna. Le
due sono tanto diverse come sono diversi creatore e creatura, e
perciò non sono intercambiabili. Tuttavia, nell’Incarnazione il
Logos eterno ha legato Se stesso a Gesù in modo tale che la
reversibilità delle formule deriva dalla Sua persona. Il Logos
non può essere più pensato indipendentemente dalla Sua
connessione con l’uomo Gesù. Il Logos ha tratto a Sé Gesù e
ha unito Se stesso a Lui in modo tale che essi sono solo
un’unica persona nella dualità delle nature. Chiunque entra in
contatto col Logos tocca Gesù di Nazareth. Gesù è più del
sacramento del Logos. Egli è il Logos stesso che nell’uomo Gesù
è un soggetto storico. Certamente Dio tocca l’uomo in molti
modi anche al di fuori dei sacramenti.
Ma Egli lo tocca
sempre attraverso l’uomo Gesù che è
la Sua
automediazione nella storia e la nostra mediazione nell’eternità.
Cristo non è una semplice teofania, una manifestazione di Dio, ma
piuttosto in Lui l’essere di Dio stesso entra in unità con
l’essere dell’uomo. Se noi - con Pietro, con tutto il Nuovo
Testamento, con l’intera Chiesa - confessiamo Gesù come Cristo,
Figlio del Dio vivente, allora noi non vogliamo solo dire che
questo Gesù è diventato la più alta manifestazione del divino
per noi, mentre altri altrove possono ben aver trovato i loro
propri salvatori.
La Fede
, nel senso del Nuovo Testamento, significa esattamente che
veniamo distolti dalle nostre valutazioni puramente
umano-culturali, che Colui che ci prende per mano è Colui che
attraversa il mare del tempo senza affondare perché Egli è
Signore del tempo. La fede come atto trascende ogni esperienza. È
un atto di assenso che possiamo fare solo al Dio vivente, che è
verità in persona. Non possiamo tributare, questa obbedienza a
nessuna realtà relativa. È quel che Pietro vuole significare
quando dice ai capi e agli anziani del popolo di Israele:
"... non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il
cielo nel quale sia stabilito che possiamo salvarci" (At
4,12).
Nelle sue lettere
dalla prigione Paolo sviluppa il significato cosmico di Cristo e
così dischiude per noi una cristologia nel senso di quanto
abbiamo prima detto a proposito dalla conversione. La fede in Gesù
Cristo diventa un nuovo principio di vita e dischiude un nuovo
spazio di vita. Il vecchio non è distrutto, ma trova la sua forma
definitiva e il suo pieno significato. Questa conservazione
trasformante, praticata dai Padri in modo splendido
nell’incontro fra la fede biblica e le sue culture, è il
contenuto reale dell’"inculturazione", dell’incontro
e dell’interfecondazione di culture e religioni sotto il potere
di mediazione della fede. È qui che si collocano i grandi compiti
dell’attuale momento storico. Senza dubbio la missione cristiana
deve capire ed accogliere le religioni in un modo molto più
profondo di quanto abbia fatto fino ad ora. D’altra parte le
religioni, per vivere in modo autentico, devono riconoscere il
loro proprio carattere messianico che le sospinge in avanti verso
Cristo.
Se procediamo in
questo senso verso una ricerca interculturale di indizi
dell’unica verità comune, scopriremo qualcosa di inatteso: gli
elementi che il cristianesimo ha in comune con le antiche culture
dell’umanità sono più grandi di quelli che esso ha in comune
col mondo razionalistico-relativistico. Quest’ultimo ha tagliato
i ponti con le fondamentali intuizioni comuni che sono di sostegno
all’umanità e ha condotto l’uomo in un vuoto esistenziale che
lo minaccia di rovina se non giungerà una risposta. Infatti la
conoscenza della dipendenza dell’uomo da Dio e dall’eternità,
la conoscenza del peccato, della penitenza e del perdono, la
conoscenza della comunione con Dio e con la vita eterna, e infine
la conoscenza dei precetti morali fondamentali come hanno preso
forma nel decalogo, tutte queste conoscenze permeano le culture.
Non è certo il relativismo a trovare conferma. Al contrario, è
l’unità della condizione umana, l’unità dell’uomo che è
stata toccata da una verità più grande di lui.
Traduzione di Piero
Gheddo e Rodolfo Casadei
Tratto da ASIA NEWS,
n. 141, 1-15 gennaio 1994
NOTE.
1) Cfr. Josef Pieper,
Überlieferung: Begriff und Anspruch, Monaco 1970; e Über die
platonischen Mythen, Monaco 1965.
2) Soprattutto T. Häcker
ha sottolineato il concetto del messianico nel precristiano. Cfr.
T. Häcker, Vergil: Vater des Abendlandes Lipsia 1931; ristampato
Monaco 1947.
3) Cfr. V. Possenti,
Le società liberali al bivio: Lineamenti di filosofia della
società, Marietti 1991, pp. 315-345, spec. 345.
4) Cfr. le
indicazioni di J. Dupuis in The Kingdom of God and World Religions
in Vidyajyoti, Journal of Theological Reflection n. 51 (1987), pp.
530-544.
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