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 LECTIO DIVINA SU GB 29-31

 

GIOBBE Capitolo 29

 

5. CONCLUSIONE DEL DIALOGO

Lamenti e apologia di Giobbe:

 

A. I giorni passati

 

1 Giobbe continuò a pronunziare le sue sentenze e disse:

2 Oh, potessi tornare com'ero ai mesi di un tempo,

ai giorni in cui Dio mi proteggeva,

3 quando brillava la sua lucerna sopra il mio capo

e alla sua luce camminavo in mezzo alle tenebre;

4 com'ero ai giorni del mio autunno,

quando Dio proteggeva la mia tenda,

5 quando l'Onnipotente era ancora con me

e i miei giovani mi stavano attorno;

6 quando mi lavavo in piedi nel latte

e la roccia mi versava ruscelli d'olio!

7 Quando uscivo verso la porta della città

e sulla piazza ponevo il mio seggio:

8 vedendomi, i giovani si ritiravano

e i vecchi si alzavano in piedi;

9 i notabili sospendevano i discorsi

e si mettevan la mano sulla bocca;

10 la voce dei capi si smorzava

e la loro lingua restava fissa al palato;

11 con gli orecchi ascoltavano e mi dicevano felice,

con gli occhi vedevano e mi rendevano testimonianza,

12 perché soccorrevo il povero che chiedeva aiuto,

l'orfano che ne era privo.

13 La benedizione del morente scendeva su di me

e al cuore della vedova infondevo la gioia.

14 Mi ero rivestito di giustizia come di un  vestimento;

come mantello e turbante era la mia equità.

15 Io ero gli occhi per il cieco,

 

 

ero i piedi per lo zoppo.

16 Padre io ero per i poveri

ed esaminavo la causa dello sconosciuto;

17 rompevo la mascella al perverso

e dai suoi denti strappavo la preda.

18 Pensavo: «Spirerò nel mio nido

e moltiplicherò come sabbia i miei giorni».

19 La mia radice avrà adito alle acque

e la rugiada cadrà di notte sul mio ramo.

20 La mia gloria sarà sempre nuova

e il mio arco si rinforzerà nella mia mano.

21 Mi ascoltavano in attesa fiduciosa

e tacevano per udire il mio consiglio.

22 Dopo le mie parole non replicavano

e su di loro scendevano goccia a goccia i miei detti.

23 Mi attendevano come si attende la pioggia

e aprivano la bocca come ad acqua primaverile.

24 Se a loro sorridevo, non osavano crederlo,

né turbavano la serenità del mio volto.

25 Indicavo loro la via da seguire e sedevo come capo,

e vi rimanevo come un re fra i soldati

o come un consolatore d'afflitti.

 

GIOBBE Capitolo 30

 

B. Angoscia presente

 

1 Ora invece si ridono di me

i più giovani di me in età,

i cui padri non avrei degnato

di mettere tra i cani del mio gregge.

2 Anche la forza delle loro mani a che mi giova?

Hanno perduto ogni vigore;

3 disfatti dalla indigenza e dalla fame,

brucano per l'arido deserto,

4 da lungo tempo regione desolata,

raccogliendo l'erba salsa accanto ai cespugli

e radici di ginestra per loro cibo.

5 Cacciati via dal consorzio umano,

a loro si grida dietro come al ladro;

6 sì che dimorano in valli orrende,

nelle caverne della terra e nelle rupi.

7 In mezzo alle macchie urlano

e sotto i roveti si adunano;

8 razza ignobile, anzi razza senza nome,

sono calpestati più della terra.

9 Ora io sono la loro canzone,

sono diventato la loro favola!

10 Hanno orrore di me e mi schivano

e non si astengono dallo sputarmi in faccia!

11 Poiché egli ha allentato il mio arco

e mi ha abbattuto,

essi han rigettato davanti a me ogni freno.

12 A destra insorge la ragazzaglia;

smuovono i miei passi

e appianano la strada contro di me per perdermi.

13 Hanno demolito il mio sentiero,

cospirando per la mia disfatta

e nessuno si oppone a loro.

14 Avanzano come attraverso una larga breccia,

sbucano in mezzo alle macerie.

15 I terrori si sono volti contro di me;

si è dileguata, come vento, la mia grandezza

e come nube è passata la mia felicità.

16 Ora mi consumo

e mi colgono giorni d'afflizione.

17 Di notte mi sento trafiggere le ossa

e i dolori che mi rodono non mi danno riposo.

18 A gran forza egli mi afferra per la veste,

mi stringe per l'accollatura della mia tunica.

19 Mi ha gettato nel fango:

son diventato polvere e cenere.

20 Io grido a te, ma tu non mi rispondi,

insisto, ma tu non mi dai retta.

21 Tu sei un duro avversario verso di me

e con la forza delle tue mani mi perseguiti;

22 mi sollevi e mi poni a cavallo del vento

e mi fai sballottare dalla bufera.

23 So bene che mi conduci alla morte,

alla casa dove si riunisce ogni vivente.

24 Ma qui nessuno tende la mano alla preghiera,

né per la sua sventura invoca aiuto.

25 Non ho pianto io forse con chi aveva i giorni duri

e non mi sono afflitto per l'indigente?

26 Eppure aspettavo il bene ed è venuto il male,

aspettavo la luce ed è venuto il buio.

27 Le mie viscere ribollono senza posa

e giorni d'affanno mi assalgono.

28 Avanzo con il volto scuro, senza conforto,

nell'assemblea mi alzo per invocare aiuto.

29 Sono divenuto fratello degli sciacalli

e compagno degli struzzi.

30 La mia pelle si è annerita, mi si stacca

e le mie ossa bruciano dall'arsura.

31 La mia cetra serve per lamenti

e il mio flauto per la voce di chi piange.

 

GIOBBE Capitolo 31

 

Apologia di Giobbe

 

1 Avevo stretto con gli occhi un patto

di non fissare neppure una vergine.

2 Che parte mi assegna Dio di lassù

e che porzione mi assegna l'Onnipotente dall'alto?

3 Non è forse la rovina riservata all'iniquo

e la sventura per chi compie il male?

4 Non vede egli la mia condotta

e non conta tutti i miei passi?

5 Se ho agito con falsità

e il mio piede si è affrettato verso la frode,

6 mi pesi pure sulla bilancia della giustizia

e Dio riconoscerà la mia integrità.

7 Se il mio passo è andato fuori strada

e il mio cuore ha seguito i miei occhi,

se alla mia mano si è attaccata sozzura,

8 io semini e un altro ne mangi il frutto

e siano sradicati i miei germogli.

9 Se il mio cuore fu sedotto da una donna

e ho spiato alla porta del mio prossimo,

10 mia moglie macini per un altro

e altri ne abusino;

11 difatti quello è uno scandalo,

un delitto da deferire ai giudici,

12 quello è un fuoco che divora fino alla

distruzione

e avrebbe consumato tutto il mio raccolto.

13 Se ho negato i diritti del mio schiavo

e della schiava in lite con me,

14 che farei, quando Dio si alzerà,

e, quando farà l'inchiesta, che risponderei?

15 Chi ha fatto me nel seno materno,

non ha fatto anche lui?

Non fu lo stesso a formarci nel seno?

16 Mai ho rifiutato quanto brama il povero,

né ho lasciato languire gli occhi della vedova;

17 mai da solo ho mangiato il mio tozzo di pane,

senza che ne mangiasse l'orfano,

18 poiché Dio, come un padre, mi ha allevato fin

dall'infanzia

e fin dal ventre di mia madre mi ha guidato.

19 Se mai ho visto un misero privo di vesti

o un povero che non aveva di che coprirsi,

20 se non hanno dovuto benedirmi i suoi fianchi,

o con la lana dei miei agnelli non si è riscaldato;

21 se contro un innocente ho alzato la mano,

perché vedevo alla porta chi mi spalleggiava,

22 mi si stacchi la spalla dalla nuca

e si rompa al gomito il mio braccio,

23 perché mi incute timore la mano di Dio

e davanti alla sua maestà non posso resistere.

24 Se ho riposto la mia speranza nell'oro

e all'oro fino ho detto: «Tu sei la mia fiducia»;

25 se godevo perché grandi erano i miei beni

e guadagnava molto la mia mano;

26 se vedendo il sole risplendere

e la luna chiara avanzare,

27 si è lasciato sedurre in segreto il mio cuore

e con la mano alla bocca ho mandato un bacio,

28 anche questo sarebbe stato un delitto da tribunale,

perché avrei rinnegato Dio che sta in alto.

29 Ho gioito forse della disgrazia del mio nemico

e ho esultato perché lo colpiva la sventura,

30 io che non ho permesso alla mia lingua di peccare,

augurando la sua morte con imprecazioni?

31 Non diceva forse la gente della mia tenda:

«A chi non ha dato delle sue carni per saziarsi?».

32 All'aperto non passava la notte lo straniero

e al viandante aprivo le mie porte.

33 Non ho nascosto, alla maniera degli uomini, la mia colpa,

tenendo celato il mio delitto in petto,

34 come se temessi molto la folla,

e il disprezzo delle tribù mi spaventasse,

sì da starmene zitto senza uscire di casa.

38 Se contro di me grida la mia terra

e i suoi solchi piangono con essa;

39 se ho mangiato il suo frutto senza pagare

e ho fatto sospirare dalla fame i suoi coltivatori,

40 in luogo di frumento, getti spine,

ed erbaccia al posto dell'orzo.

35 Oh, avessi uno che mi ascoltasse!

Ecco qui la mia firma! L'Onnipotente mi risponda!

Il documento scritto dal mio avversario

36 vorrei certo portarlo sulle mie spalle

e cingerlo come mio diadema!

37 Il numero dei miei passi gli manifesterei

e mi presenterei a lui come sovrano.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


&    Breve nota introduttiva

 

“Come tenere nelle mani un’anguilla!”. Sono le famose parole di san Girolamo: “Come tentare di tenere nelle mani un’anguilla o una piccola murena: più forte la si preme, più velocemente sfugge di mano”[1], così è per lo studioso la comprensione di questo testo dell’A.T. La sua poliedricità, la vastità dei discorsi, il suo spessore morale, la sua vena poetica, i continui riferimenti a teorie sapienziali del tempo, precedenti o successive, la sua universalità con il problema della sofferenza comune a tutti gli uomini, di ogni latitudine e di ogni epoca, rendono il libro di Giobbe sicuramente uno dei più affascinanti di tutta la letteratura sapienziale, biblica e non, ma anche uno dei testi più difficili da incapsulare in categorie mentali ben definite.

Nella tradizione religiosa, Giobbe è stato sempre raffigurato come il paziente per eccellenza, colui che di fronte ad una sofferenza atroce ed ingiusta non si è ribellato a Dio; a causa di ciò, i Padri della Chiesa lo hanno visto come icona del Cristo sofferente. Come Giobbe non si è ribellato al suo creatore neanche nei momenti più bui quando tutto e tutti lo invitavano a farlo (la moglie, gli amici, le sofferenze fisiche, ecc.), così il Figlio di Dio, agnello innocente[2], non si è ribellato alle sofferenze inflittegli dal Padre per la salvezza dell’umanità. Per i Padri, Giobbe è anche icona della Chiesa la quale è anch’essa sottoposta, nella sua storia, a varie e profonde sofferenze quale corpo mistico di Cristo, a causa delle persecuzioni e del martirio. Anche Maria, agnella senza macchia[3], ritta ai piedi della croce con tutto il suo dolore, è simboleggiata in Giobbe.

Certamente, l’immagine della pazienza infinita e della capacità di non ribellarsi alla volontà divina pur fra tante sofferenze (la perdita dei figli, di tutti i beni materiali, l’orrenda malattia, la decadenza sociale, l’incomprensione della moglie), è ben evidente in tutto il libro e sembra che ne sia il leit motiv. Ma così non è! Ritornando a san Girolamo, ci si accorge davvero che dietro le pieghe di una pagina ce ne sono tante altre e dietro un apparente significato principale ed assoluto ce ne sono molti altri che lo giustificano ma che, anche, lo superano.

Senza volerci soffermare sugli aspetti storici, redazionali e poetici del libro, ci sembra doveroso spendere ancora qualche parola sui suoi protagonisti. Il primo è Giobbe, un personaggio immaginario che doveva rivestire, intorno al V sec. a.C., la carica di notabile della città, di colui che era chiamato a dirimere questioni importanti poiché godeva della stima e del rispetto di tutto il popolo, in particolare per la sua generosità a favore dei poveri e degli oppressi (cfr. Gb 29,7-17).

Poi ci sono i tre amici Elifaz, Bildad e Zofar a cui si aggiunge Eliu; quindi Satana che con la sua opera rende la vita impossibile a Giobbe e, infine, Dio che sembra stia solo a guardare ma che poi entra in scena in modo imponente, con una lunga arringa finale accompagnata da teofanie tipiche dell’antichità.

Ma il protagonista vero del testo è l’autore (o gli autori) soprattutto alla luce della domanda: perché questo libro? Secondo alcuni l’autore ha tentato di dare una risposta esistenziale al senso della vita in modo individuale, nel periodo post-esilico dove, anche in rapporto alle correnti sapienziali del tempo, la riflessione sulla salvezza del popolo stava lasciando spazio alla riflessione sulla salvezza dell’uomo singolo, alla sua retribuzione (in particolare su questa terra ma anche nell’aldilà) per le opere buone o malvagie che egli compie lungo tutto l’arco dell’esistenza. Per Israele la vita eterna non era scontata, c’era una corrente di pensiero come quella dei Sadducei[4] che la negava decisamente (cfr. Mt 22,23-33) mentre altri, come gli Zeloti[5], tendevano alla liberazione di Israele dagli oppressori terreni in vista della restaurazione del glorioso regno di Davide.

Certamente, sia i Sadducei che gli Zeloti, storicamente nascono in periodi successivi alla stesura del libro di Giobbe, ma niente c’impedisce di pensare che già nel V secolo a.C. erano diffuse teorie che si discostavano da quella classica della risurrezione dei corpi che il Cristianesimo ha fatto propria alla luce dell’evento pasquale.

 

$    Giobbe legge e interroga la sua storia (capp. 29-30)

 

Sempre l’uomo si è posto la domanda: cosa c’è oltre la morte fisica? e sempre ha cercato una risposta in qualunque cultura. Ma l’autore del libro di Giobbe sembra porre l’accento più sulla retribuzione  finale che sulla sopravvivenza dell’anima. Per lui, il senso della risurrezione (dell’anima o dell’intero corpo umano) pare legata alla ricompensa data in base alle opere dell’uomo su questa terra: il premio finale per una vita vissuta nel bene e la condanna eterna per una vita vissuta nel male. Anche Giobbe, a un certo punto, sembra avvalorare questa tesi quando, all’inizio delle sue sofferenze e dopo una lunga serie di discorsi fattigli dai suoi amici, esplode in un inno di speranza:

 

Oh, se le mie parole si scrivessero,

se si fissassero in un libro,

fossero impresse con stilo di ferro sul piombo,

per sempre s'incidessero sulla roccia!

Io lo so che il mio Vendicatore è vivo

e che, ultimo, si ergerà sulla polvere!

Dopo che questa mia pelle sarà distrutta,

senza la mia carne, vedrò Dio.

Io lo vedrò, io stesso,

e i miei occhi lo contempleranno non da straniero (Gb 19, 23-27).

 

Anch’egli, in un certo senso, è certo che la sua retribuzione finale è di salvezza e non di condanna: guardando alla sua vita passata, alla sua rettitudine morale e alle sue buone opere, Giobbe non può attendere altro che il premio finale del giusto (cfr. Sal 1; Mt 25, 31-46); ma rimane, comunque, la situazione attuale di sofferenza vissuta da un uomo che non aveva fatto che del bene in tutta la sua vita.

È questa la pietra di scandalo di tutto il libro che sconvolge la logica del dare ed avere che sempre nella storia del popolo ebraico ha avuto ampia cittadinanza (cfr. Sal 1; Sal 28, 4-5; Sal 37; Sal 62, 12-13; Pr 12, 14; Sap 3, 14-15; Sir 7, 32-36; Gv 9, 1 e segg.; I Pt 1, 17; ecc.). Sì, va bene – sembra dire Giobbe – il mio premio finale sarà la visione di Dio, quindi la gioia assoluta, ma ora soffro più di quanto ogni uomo possa immaginare e non riesco a trovare una spiegazione.

Abbiamo sostenuto che Giobbe era un uomo importante e stimato, consigliere nelle questioni più scabrose, non si sottraeva mai a dare un aiuto al povero, all’orfano e alla vedova (cfr. Gb 29, 12-17) ed era certo di morire nella pace della sua casa dopo una lunga vita felice e serena (cfr. Gb 29, 18).

Ma ora la sua esistenza è stata stravolta: ha perso tutto, una malattia repellente lo ha costretto a letto ed anche la moglie, che ha condiviso con lui tutte le sue buone opere ed ha conosciuto la sua saggezza, ora lo schernisce: Allora sua moglie disse: «Rimani ancor fermo nella tua integrità? Benedici Dio e muori!» (Gb 2, 9). La sua risposta non convince: «Come parlerebbe una stolta tu hai parlato! Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremo accettare il male?» (Gb 2, 10), altrimenti il libro potrebbe anche finire qui.

Quante volte, di fronte a calamità inaspettate ci siamo sentiti rispondere: E’ Dio che lo vuole, accettalo per amore suo. Ci ha soddisfatti questa risposta? Penso di no: anzi, ci siamo ritrovati ancora più depressi di fronte a questo Dio che manda a suo piacimento il bene e il male nella vita degli uomini senza chiedere il permesso o dare spiegazioni. Ma, purtroppo, per secoli non siamo riusciti ad andare oltre, l’immagine della croce da portare come il Cireneo (cfr. Mt 27, 32) ci ha accompagnato sempre nei momenti bui della nostra esistenza fino a quando, dall’Illuminismo in poi, abbiamo cominciato a combattere con Dio per esclamare, nella nostra smania di onnipotenza: Dio è morto e noi l’abbiamo ucciso!

E se consideriamo che nel nostro testo siamo di fronte ad un uomo giusto (non  abbiamo motivo di dubitarne vista la lusinghiera descrizione che egli fa di se stesso in tutto il cap. 29) allora le cose si mettono veramente male: se Dio è giusto perché punisce chi opera il bene? Quale misteriosa motivazione può averlo spinto a sottoporre Giobbe ad una tale serie di sofferenze? Lui che indicava ai suoi concittadini la via da seguire e sedeva come un capo (29, 25) ora è schernito da giovani e bambini, i cui padri non avrebbe degnato di mettere tra i cani del suo gregge (30, 1) tanto è scesa in basso la sua reputazione ed è diventato la loro canzone, la loro favola (30, 9). Addirittura non si astengono dallo sputargli in faccia (30, 10) e la ragazzaglia insorge contro di lui (30, 12).

Giobbe sente molto la sofferenza, potremmo dire, sociale: è diventato un emarginato, è solo polvere e cenere (30, 19) e sembra che questo sia ancora più insopportabile della sofferenza fisica.

In qualunque società l’uomo cerca di salire i gradini della scala dell’umana ambizione sia per esercitare potere sia per essere ammirato e rispettato dagli altri. Tutto sommato è un modo come un altro per ricevere amore, per dare un senso alla propria vita e sentirsi quasi immortale. Per di più, in una società semitica il grado di ricchezza e di influenza sociale che viveva un uomo era anche segno della benevolenza di Dio, proprio alla luce della teoria della retribuzione. Perciò Giobbe non riesce a darsi una ragione: aspettavo il bene ed è venuto il male, aspettavo la luce ed è venuto il buio (30, 26), sa solo che all’origine di tutto è Dio: Tu sei un duro avversario verso di me e con la forza delle tue mani mi perseguiti …… … So bene che mi conduci alla morte (30, 21-23).  

Echeggiano le parole di Geremia:

 

Guarda, Signore, la mia miseria,  perché il nemico ne trionfa (Lam 1, 9).

Voi tutti che passate per la via,  considerate e osservate 
se c'è un dolore simile al mio dolore, 

al dolore che ora mi tormenta,  e con cui il Signore mi ha punito  nel giorno della

sua ira ardente.

Dall'alto egli ha scagliato un fuoco e nelle mie ossa lo ha fatto penetrare; 

ha teso una rete ai miei piedi,  mi ha fatto cadere all'indietro (1, 12-13).

Senti come sospiro,  nessuno mi consola.

Tutti i miei nemici han saputo della mia sventura,

ne hanno gioito, perché tu hai fatto ciò (1, 21).

Io sono l'uomo che ha provato la miseria  sotto la sferza della sua ira.

Egli mi ha guidato, mi ha fatto camminare  nelle tenebre e non nella luce.

Solo contro di me egli ha volto e rivolto la sua mano tutto il giorno.

Egli ha consumato la mia carne e la mia pelle,  ha rotto le mie ossa.

Ha costruito sopra di me, mi ha circondato di veleno e di affanno.

Mi ha fatto abitare in luoghi tenebrosi come i morti da lungo tempo.

Mi ha costruito un muro tutt'intorno, perché non potessi più uscire;

ha reso pesanti le mie catene.

Anche se grido e invoco aiuto, egli soffoca la mia preghiera………

Son diventato lo scherno di tutti i popoli, la loro canzone d'ogni giorno.

Mi ha saziato con erbe amare, mi ha dissetato con assenzio.

Mi ha spezzato con la sabbia i denti, mi ha steso nella polvere.

Son rimasto lontano dalla pace, ho dimenticato il benessere.

E dico: «E' sparita la mia gloria, la speranza che mi veniva dal Signore».

Il ricordo della mia miseria e del mio vagare è come assenzio e veleno.

Ben se ne ricorda e si accascia dentro di me la mia anima (3, 1-20).

 

A prima vista sembra che Giobbe e Geremia siano parenti stretti, pare che abbiano avuto un’esperienza molto simile ed entrambi sono convinti che la causa dei loro guai è solo Dio, anche se non sanno dare una spiegazione.

Una prima nota da rilevare può essere la seguente: analizzando il personaggio Giobbe, anche se si tratta di un uomo, sebbene fantasioso, relazionato ad un ambiente semitico fortemente influenzato dalla dottrina ebraica soprattutto per quanto riguarda il modo di rapportarsi con il prossimo[6], tuttavia non può essere catalogato in un ambiente esclusivo ben determinato in luoghi e tempi e, per questo, possiamo dire che la sua vita e la sua esperienza di dolore sono assolutamente universali, al di là di ogni categoria spazio-temporale e culturale-religiosa.

L’esperienza di Geremia, inoltre, non è l’esperienza di un singolo uomo, ma quella di tutto il popolo:

 

I miei occhi grondano lacrime notte e giorno, senza cessare,

perché da grande calamità è stata colpita la figlia del mio popolo,

da una ferita mortale.

Se esco in aperta campagna, ecco i trafitti di spada;

se percorro la città, ecco gli orrori della fame.

Anche il profeta e il sacerdote si aggirano per il paese e non sanno che cosa fare.

Hai forse rigettato completamente Giuda, oppure ti sei disgustato di Sion?

Perché ci hai colpito, e non c'è rimedio per noi?

Aspettavamo la pace, ma non c'è alcun bene,

l'ora della salvezza ed ecco il terrore!

Riconosciamo, Signore, la nostra iniquità,

l'iniquità dei nostri padri: abbiamo peccato contro di te.

Ma per il tuo nome non abbandonarci,

non render spregevole il trono della tua gloria (Ger 14, 17-21).

Gerusalemme ha peccato gravemente,

per questo è divenuta un panno immondo;

quanti la onoravano la disprezzano,

perché hanno visto la sua nudità;

anch'essa sospira e si volge indietro.

La sua sozzura è nei lembi della sua veste,

non pensava alla sua fine;

essa è caduta in modo sorprendente

e ora nessuno la consola (Lam 1, 8-9).

 

Leggendo il testo si riesce anche a capire le cause di queste sventure: Israele si è allontanato da Dio, pervertendosi dietro gli idoli degli altri popoli e per questo il Signore ha lasciato via libera agli Assiri perché lo distruggessero e deportassero tutti i suoi figli migliori, lasciando nel paese solo donne, anziani ed handicappati. Di nuovo siamo nell’ottica della retribuzione e, letta così, l’esperienza di Geremia e di Israele ha una sua spiegazione, anche se atroce nella sua lucidità, ma è pur sempre una spiegazione.

Il profeta spesso è stato visto come figura di Gesù Cristo perché nella sua vita ha assunto il compito arduo di portare la parola del Signore senza peli sulla lingua, anche a rischio della stessa vita, ma nello stesso tempo ha sempre vissuto una profonda compassione per il suo popolo fino a sentire nella sua carne l’indicibile sofferenza di tutti i suoi concittadini deportati a Babilonia.

Inoltre, a differenza di Giobbe, Geremia è realmente vissuto e la sua esistenza è stata sempre un punto di riferimento nella storia di Israele, specialmente nei momenti più bui.

In poche parole, lo possiamo sentire più vicino a noi soprattutto se rapportato a storie di popoli i cui diritti alla libertà di espressione, di autonomia, a possedere e coltivare una terra sono stati sempre negati (penso ai paesi dell’America Latina[7], al popolo palestinese, a quello curdo oltre che allo stesso popolo ebraico che negli ultimi duemila anni non se l’è passata tanto bene). In Geremia la nostra sete di ragioni è data dalla più volte ripetuta teoria della retribuzione, anche se a pagare i peccati dei re e dei governanti sono stati anche uomini, donne e bambini innocenti; ma si sa, il peccato del re ricade sull'intero popolo così come le sue virtù danno a tutti pace e prosperità (cfr. Rom 5,12)[8].

Ma nell’esperienza di Giobbe come facciamo a ritrovarci? O meglio, come facciamo a darci una spiegazione? Perché questo libro che nei secoli è arrivato a noi uomini del terzo millennio, eppure così vicini all’esperienza di Giobbe? Perché l’innocente paga per colpe che non ha commesso? Perché i bambini nascono menomati? Perché milioni di essi muoiono di fame ogni giorno? Perché la sposa strappata al suo sposo ancora in tenera età? Perché l’orgoglio dei ricchi affama tre quarti della popolazione mondiale? Perché lo strapotere di un gruppetto di dittatori soffoca le giuste istanze di libertà di interi popoli? Perché le discriminazioni di razza, religione, cultura, ecc.? Quale colpa può avere un bambino che nasce paraplegico? O una donna che non riesce a mettere al mondo un figlio? O quale grande peccato può aver commesso un tredicenne che viene investito da un camion in corsa? O un ventenne nel fiore degli anni che per una banale caduta è costretto a passare il resto della vita su una sedia a rotelle? Perché Signore? Perché? Perché? sembra urlare Giobbe a nome di tutta l’umanità.

 

Ë    Giobbe si difende e contesta Dio (cap. 31)

 

Il cap. 31 rappresenta certamente uno dei più alti testi di morale veterotestamentaria meravigliosamente vicina a quella evangelica (cfr. 31, 9-14; 31, 24-25; 31, 29-31). Nella sua apologia Giobbe pone davanti a Dio tutta la sua vita, anche se non nega di avere mai peccato[9]. Ma ciò che più lo rattrista è la sproporzione tra le sue colpe e la condanna inflittagli: il suo mondo è quello della sofferenza assurda e ingiustificata[10], è quello della sofferenza degli innocenti e per noi, uomini del nostro secolo, è un invito a rileggere il senso che diamo alla nostra esistenza, visto che il dolore, il pianto e la malattia hanno una serie di appuntamenti con ognuno di noi, fin dalla nostra stessa nascita (cfr. Gb 1, 20).

Il cap. 31 è l’ultimo capitolo in cui Giobbe parla: l’autore, prima di dare la parola a Jahvè,  inserisce una lunga parentesi del discorso di Eliu che tenta di convincere il suo amico che Dio è onnipotente e incomprensibile e non deve giustificarsi per le sue azioni (cfr. Gb 37, 23-24). Ma a parte quest’ultimo intervento, possiamo dire che il libro si avvia verso la scena finale dando la parola al Creatore dell’universo, la cui risposta spiazzerà tutti i presenti ed aprirà un orizzonte di interpretazione nuovo sul senso della vita, della sofferenza e della religiosità.

Nell’Antico Testamento ci sono molti episodi in cui l’uomo supplica Dio perché lo liberi da situazioni incomprensibilmente dolorose: ad esempio alcuni passi dell’Esodo (cfr. Es 17, 1-7; 32, 31-32), dei profeti (Geremia[11] e Giona[12] che in un primo tempo fa tutto l’opposto di quello che Jahvè gli comanda: la sua ribellione non è a parole ma nei fatti!) e poi i salmi imprecatori (44, 54, 55, 108, ecc.) dove, però, l’imprecazione non è tanto contro Dio, ma contro il  mancato intervento a favore dei suoi fedeli percossi dagli empi; più che altro sono salmi di richiesta di aiuto divino e tutti terminano con una grande fiducia nell’essere esauditi.

Ma in Giobbe questa fiducia non c’è, oppure è velata in modo tale da non essere palpabile; anche l’inno del cap. 19, prima citato, è solo un episodio tra i tanti,  se pur di ottima levatura. È l’atteggiamento di chi, di fronte all’inconoscibile e all’inspiegabile, si rifugia nella speranza della ricompensa nell’al di là (cfr. Ap 21, 1-4 e segg.). Anche nel Buddismo, la religione sicuramente più lontana dalle tre monoteiste, la speranza in una vita migliore sostiene il fedele nella ricerca di una rettitudine morale assoluta affinchè le sue buone azioni (karma[13]) possano farlo reincarnare in una vita agiata. È l’accusa che spesso in passato (oggi non tanto, in verità) i marxisti facevano ai cristiani, di proiettare, cioè, tutta la propria vita terrena verso quella soprannaturale che ci attende quando avremo lasciato questo mondo, disincarnandosi, così, dai problemi quotidiani del lavoro, dei diritti umani, delle rivendicazioni sociali.

In Giobbe questa tematica appare solo a sprazzi, come abbiamo detto, ma non trasuda dalle pagine del libro; egli mantiene viva la speranza della ricompensa dell’al di là, ma non è sufficiente a spiegargli perché soffre nell’al di qua. Un altro personaggio misterioso, Qoelet, ha cercato di spiegare il senso della vita, ma non è riuscito ad andare al di là della famosa affermazione vanità delle vanità, tutto è vanità (Qo 1, 2.14; 2, 11; 6, 9; 9, 1; 12, 8)  teorema che in certo qual modo ritroviamo anche in Giobbe se, dopo tante buone opere, è ricompensato così.

Egli cerca qualcuno che non ancora conosce, forse il volto di Dio quale ce lo presenta il salmo 145:

 

Alleluia. Loda il Signore, anima mia:

loderò il Signore per tutta la mia vita,

finché vivo canterò inni al mio Dio.

Non confidate nei potenti,

in un uomo che non può salvare.

Esala lo spirito e ritorna alla terra;

in quel giorno svaniscono tutti i suoi disegni.

Beato chi ha per aiuto il Dio di Giacobbe,

chi spera nel Signore suo Dio,

creatore del cielo e della terra,

del mare e di quanto contiene.

Egli è fedele per sempre,

rende giustizia agli oppressi,

dà il pane agli affamati.

Il Signore libera i prigionieri,

il Signore ridona la vista ai ciechi,

il Signore rialza chi è caduto,

il Signore ama i giusti,

il Signore protegge lo straniero,

egli sostiene l'orfano e la vedova,

ma sconvolge le vie degli empi.

Il Signore regna per sempre,

il tuo Dio, o Sion, per ogni generazione.

 

È il Dio che soccorre gli afflitti, rialza chi è caduto, libera gli oppressi fin da adesso. È il Dio che si affaccia dal cielo per guardare l’iniquità dell’uomo (cfr. Gen 18, 20-21), che ascolta il grido del suo popolo (cfr. Es 3, 7-12), che cammina per le strade del mondo nei suoi angeli (cfr. Tob 3, 16-17; 8, 1 e segg.; ecc.) e che, nella pienezza dei tempi (Gal 4, 4-5), s’incarna nel misero figlio di un falegname per rendere definibile il mistero, conoscibile l’assoluto e accoglibile l’amore perfetto.

Giobbe non può conoscerne ancora il vero volto: egli ricorda quanto gli hanno insegnato i rabbini del paese, che l’Onnipotente, il Dio fedele è lento all’ira e grande nell’amore (cfr. Dt 7, 9-10; Ez 18, 30-32) ma fa scontare le colpe dei padri nei figli fino alla quarta generazione (cfr. Es 34, 6-7; I Re 11, 9-13; Ger 32, 18; Gv 9, 1-2). Ma questo Dio non placa la sete di giustizia di Giobbe: la sua sofferenza, la sua speranza hanno bisogno di qualcosa di più di una semplice dottrina rabbinica.

 

U      Perché Giobbe?

 

Come il mare le cui onde si intrecciano tra loro dando un movimento apparentemente uniforme ma che, invece, è composto da  correnti superficiali e da correnti profonde che si muovono in diverse direzioni, così in Giobbe ritornano esperienze e parole del passato e del futuro, personaggi come Geremia,  Mosè, Qoelet, i salmisti e tanti altri sono lì a guardare il nostro amico preso tra i grovigli della sofferenza fisica e morale, della disperazione e del vuoto profondo, del dubbio sull’esistenza di Dio e sulla reale bontà della sua vita precedente. Tutto questo è in Giobbe, tutte le tematiche sviscerate fino ad ora, tutti questi riferimenti storico-biblici, tutti i personaggi citati, ma non solo; in Giobbe c’è qualcosa di più che appartiene solo a lui e che arricchisce originalmente il panorama sapienziale di tutto l’Antico Testamento; è qualcosa che racchiude tutta la teoria della retribuzione, ma che, allo stesso tempo, la sorpassa se non, addirittura, la rende vana in quanto la partita si gioca tutta su questa terra.

La novità del libro di Giobbe va cercata nella sua capacità di vivere la sofferenza di fronte alla quale, come abbiamo visto, l’uomo comune pare abbia solo due possibilità: l’accettazione passiva disperata per chi punta tutto sulla realizzazione individuale e sociale su questa terra, e l’accettazione passiva non disperata per chi tenta di credere che esiste una vita migliore nell’al di là.

Né l’una né l’altra, comunque, soddisfano l’uomo né, tantomeno, Giobbe il quale, nel ricordare, per l’ennesima volta, a Dio la sua condotta irreprensibile chiude il discorso con una domanda ben precisa: Oh, avessi uno che mi ascoltasse! Ecco qui la mia firma! L'Onnipotente mi risponda! (Gb 31, 35) alla quale ben difficilmente il suo avversario potrà sottrarsi. E infatti non si sottrarrà: Dio risponderà a Giobbe di mezzo al turbine (40, 6) e gli darà ogni soddisfazione possibile, compreso il reintegrarlo nella sua primordiale ricchezza e assicurargli una vita ancora lunga e sazia di anni (cfr. 42, 16-17).

Innanzitutto notiamo che anche in questo brano, come in altri di tutto il libro, Giobbe ha ben chiaro che il suo avversario è lo stesso Jahvè, che è lui la causa di tutti i suoi mali ma che, allo stesso tempo, è l’unico con cui possa dialogare e da cui aspettare una risposta vera, esauriente e definitiva, non come quelle dei suoi amici. Il suo avversario è uno con il quale conviene disputare fino alla fine, senza complessi di inferiorità, a tu per tu, a viso aperto, come Abramo, l’amico dell’Onnipotente (cfr. Gen 18, 16-33) per almeno una ragione: è lui l’autore della vita e della morte ed è solo a lui che un uomo si può rivolgere con la certezza di essere sollevato dai suoi dubbi e dalle sue angosce.

E questo Giobbe lo sa bene,  ha una sola certezza: la sua vita non è finita (anche se più volte ha invocato la morte) e, come per il passato ha fatto bene a confidare in Dio ricevendone sapienza e ricchezza, così ora sente di insistere nelle sue richieste anche a costo di apparire insolente.

Se c’è un passo nel Nuovo Testamento che può rendere l’idea della tenacia di Giobbe, penso sia il seguente:

 

Sorgeranno molti falsi profeti e inganneranno molti;

per il dilagare dell'iniquità, l'amore di molti si raffredderà.

Ma chi persevererà sino alla fine, sarà salvato (Mt 24, 11-13).

 

Senza volerlo, il nostro amico anticipa quella che sarà la caratteristica di tutti i martiri della Chiesa: andare fino in fondo nella testimonianza della fede anche a costo della vita. Giobbe non perde mai la speranza nel suo Salvatore, anche se ci sono dei momenti in cui questo sembra accadere; inoltre, è circondato da falsi profeti i quali, pensando di interpretare il pensiero di Dio, si arrogano il diritto di condannare il loro amico ad una situazione di angosciosa solitudine ricevendo, alla fine, un aspro rimprovero dallo stesso Dio che tentano di difendere (cfr. Gb 42, 7-9).

L’amore di Giobbe per Jahvè ha corso veramente il rischio di raffreddarsi a causa di tutti i tragici avvenimenti a cui è stato sottoposto: davvero l’iniquità ha dilagato nella sua vita! Chi lo avrebbe condannato se avesse perso la fede? Chi avrebbe potuto rimproverarlo se si fosse lasciato morire d’inedia? Chi ne avrebbe  parlato male se avesse fatto ricorso a qualche mago per alleviare le sue pene? Certe cose bisogna provarle prima di giudicare mentre, tante volte, noi cristiani siamo come Elifaz, Bildad e Zofar, ben seduti nelle nostre comodità che tentiamo di dare delle risposte preconfezionate a chi sta veramente male: presentiamo un’immagine deformata di quel Dio che diciamo di conoscere ed amare.

Giobbe è andato al di là dei suoi amici, al di là delle tradizioni, al di là della sofferenza, al di là della sua presunta fede (cfr. Gb 42, 5) e al di là di ogni umana speranza per incontrare il suo avversario faccia a faccia e capire il perché di tutto. Egli è il prototipo dell’uomo che non si stanca mai di cercare, che non mette a tacere i suoi dubbi ma che, anzi, dà loro ampio spazio nella propria vita al fine di cercare la verità vera, non quella liofilizzata.

Giobbe è colui che cade e si rialza, ogni giorno; è colui che è disposto a tutto pur di capire; è colui che quando non capisce prega e quando non prega geme; è colui che, preso dai morsi della sofferenza, è pronto anche a rinnegare il suo Dio, per poi ricercarlo subito dopo.

Giobbe assomiglia un po’ a Giuda[14], ma a differenza di questi, non va ad impiccarsi, non si lascia sopraffare dal rimorso, preferisce aggiungere alla sua sofferenza anche quella che deriva dal proprio autogiudizio (che è forse la più atroce) pur di non chiudere definitivamente il rapporto con Dio.

Giobbe è colui, come dice Jean Louis Ska, che rischia la vita per poter parlare davanti a Dio e difendere la propria causa[15]: non si sottrae al processo e neanche rinuncia a difendersi. Egli si erge davanti al suo Signore con la dignità della creatura fatta a sua immagine e somiglianza (Gen 1, 27) e vuole capire. Non gl’importa se ha torto o ragione, per lui conta solo una cosa: conoscere il suo Creatore anche a costo della stessa vita.

In definitiva, Giobbe non si arrende alle avversità della vita: a noi, figli del ventesimo secolo, la sua testimonianza dice molto, in un’epoca in cui ci si vende l’anima per delle certezze immediate, in cui non si è capaci di attendere e di cercare, in cui spesso svendiamo i nostri talenti per un piatto di lenticchie pur di ottenere subito dei risultati, anche se di poco conto (cfr. Gen 25, 29-34). Non siamo più capaci di capire e vivere le nostre aspirazioni se questo ci costa sofferenza[16]: tutto ci è dovuto, tutto ci appartiene ma niente ci soddisfa.

Giobbe c’invita a mettere a frutto i nostri talenti (cfr. Mt 25, 14-30; Lc 19, 11-27) cercando la verità in se stessa, senza malformazioni, anche a costo di apparire reazionari, fuori del mondo o, addirittura, matti. Non c’è niente che soddisfa più Dio se non la nostra capacità di cercarlo nelle strade polverose del mondo e nei labirinti della nostra coscienza malata (cfr. Lc 11, 9-13).

Come il padre buono della parabola lucana (Lc 15, 11-32), egli ci attende sull’uscio delle nostre speranze per rivestirci dell’abito della sua misericordia e saziarci al banchetto della carità.

Cos’è stata, d’altronde, la vita di Gesù di Nazareth se non questa ricerca spasmodica del vero volto del Padre che conosceva bene come Figlio di Dio, ma del quale doveva impadronirsene come Figlio dell’Uomo per mostrarlo ai suoi discepoli? Il Servo di Jahvè, l’Unto, il Crocifisso ha riassunto in sé tutta la ricerca della verità e dell’amore che ogni uomo ha compiuto, compie e compirà su questa terra; le ha dato compimento nella sua carne, unendo l’assoluto al relativo e l’infinito al temporale affinchè ogni sofferenza, anche la più assurda, possa avere una ragione, seppure velata e difficile da accettare, ma che nella fede diventa senso dell’esistere e nella carità testimonianza di una vita vissuta in pienezza.

Perciò i Padri hanno visto in Giobbe l’icona del Cristo, perché ogni uomo possa esclamare, come lui: Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono (Gb 42, 5).

 

 

 

 

 

 

 

 


BIBLIOGRAFIA

P.Rossano – G.Ravasi – A.Girlanda: Nuovo dizionario di teologia biblica - Ed. San Paolo 1988:

Jean Louis Ska: I volti insoliti di Dio nell’Antico Testamento - Istituto di Scienze Religiose di Avellino 1998;

Carlos Mesters: Il profeta Geremia: bocca di Dio, bocca del popolo - Ed. Cittadella Assisi 1994;

Carlo Carretto: Perché Signore? -  Ed. Morcelliana EDB 1985;

Herman Hesse: Narciso e Boccadoro – Ed. Oscar Mondadori 1989;

Giuseppe Berto: La gloria – Ed. Arnoldo Mondadori 1978;

Gerardo Picardo: La morte di Giuda Iscariota – Ed. Fausto Fiorentino 1999;

Comunità di Bose: Breviario monastico.



[1] P.Rossano – G.Ravasi – A.Girlanda: Nuovo dizionario di teologia biblica - Ed. San Paolo 1988.

 

[2] Cfr. “Omelia sulla Pasqua” di Melitone di Sardi (Capp. 65-67; SC 123, 95-101)

 

[3] Op.cit.

 

[4] Membri dell'aristocrazia ebraica connessa al ceto sacerdotale del Tempio, che si erano allontanati da una rigida lettura e applicazione della Torah lasciandosi contaminare dalla cultura greca.

 

[5] Movimento politico-religioso ebraico, noto per la sua strenua resistenza al dominio romano in Palestina nel I secolo d.C. Organizzatosi durante il regno (37- 4 a .C.) di Erode il Grande, il gruppo, guidato da Giuda Galileo, passò alla rivolta armata dopo la sottomissione della Giudea alla sovranità diretta di Roma, sancita nel 6 d.C.: riconoscere l'autorità pagana dell'imperatore romano significava, per gli adepti, ripudiare l'autorità di Dio e sottomettersi alla schiavitù. Una frangia estremista, nota con il nome di "sicari" (latino sica, "pugnale") praticava atti di terrorismo, colpendo i cittadini romani e le autorità ebraiche accusate di collaborazione con l’oppressore.

 

[6] Cfr. anche il bellissimo libro di Tobia: Al tempo di Salmanàssar facevo spesso l'elemosina a quelli della mia gente;  donavo il pane agli affamati, gli abiti agli ignudi e, se vedevo qualcuno dei miei connazionali morto e gettato dietro le mura di Ninive, io lo seppellivo (Tb 1, 16-17); Non fare a nessuno ciò che non piace a te. Dà il tuo pane a chi ha fame e fa’ parte dei tuoi vestiti agli ignudi. Dà in elemosina quanto ti sopravanza e il tuo occhio non guardi con malevolenza, quando fai l'elemosina (4, 15-16).

 

[7] Vedi “Il profeta Geremia: bocca di Dio, bocca del popolo” di Carlos Mesters (Cittadella Editrice 1994).

[8] Vedi anche la storia di re Salomone sotto il cui regno Israele arrivò al massimo dello splendore e della pace (cfr. I Re capp. 2-10) fino a quando il re non si prostituì agli idoli adorati dai popoli vicini per cui Jahvè gli levò il regno (cfr. I Re 11, 1 e segg.)

 

[9] Se ho peccato, che cosa ti ho fatto, o custode dell'uomo?  Perché m'hai preso a bersaglio e ti son diventato di peso? (Gb 7, 20); Tu mi sorvegli, se pecco, e non mi lasci impunito per la mia colpa. Se sono colpevole, guai a me! (10, 14-15); Mentre ora tu conti i miei passi non spieresti più il mio peccato: in un sacchetto, chiuso, sarebbe il mio misfatto  e tu cancelleresti la mia colpa (14, 16-17).

 

[10] Cfr. Jean Louis Ska “I volti insoliti di Dio nell’Antico testamento” (Istituto di Scienze Religiose di Avellino – 1998).

 

[11] Mi fu rivolta la parola del Signore: «Prima di formarti nel grembo materno, ti conoscevo, prima che tu uscissi alla luce, ti avevo consacrato; ti ho stabilito profeta delle nazioni». Risposi: «Ahimè, Signore Dio, ecco io non so parlare,  perché sono giovane». Ma il Signore mi disse: «Non dire: Sono giovane, ma va’ da coloro a cui ti manderò e annunzia ciò che io ti ordinerò. Non temerli, perché io sono con te per proteggerti» (Ger 1, 4-8).

 

[12] Fu rivolta a Giona figlio di Amittai questa parola del Signore: «Alzati, va’ a Ninive la grande città e in essa proclama che la loro malizia è salita fino a me». Giona però si mise in cammino per fuggire a Tarsis, lontano dal Signore. Scese a Giaffa, dove trovò una nave diretta a Tarsis. Pagato il prezzo del trasporto, s'imbarcò con loro per Tarsis, lontano dal Signore (Gn 1, 1-3).

 

[13] Karma (Sanscrito, "azioni"): nella filosofia indiana la somma delle azioni individuali, buone o cattive, unite all'anima nella trasmigrazione: ogni nuova incarnazione (e ogni vicenda sperimentata dal corpo) è determinata dal karma precedente. La credenza nel karma, che si può rintracciare nelle Upanishad (scritti esoterici e mistici indù), è accolta da tutti gli indù, anche se con molte distinzioni.

[14] Vedi i libri di Giuseppe Berto: La gloria – Ed. Arnoldo Mondadori 1978 e di   Gerardo Picardo: La morte di Giuda Iscariota – Ed. Fausto Fiorentino 1999.

 

[15] Op. Cit.

 

[16] Vedi il capolavoro di Herman Hesse “Narciso e Boccadoro” del 1930 (Ed. Oscar Mondadori – 1989).