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PARTE TERZA - LA VITA IN CRISTO

SEZIONE PRIMA -  LA VOCAZIONE DELL'UOMO : LA VITA NELLO SPIRITO

 

1699 La vita nello Spirito Santo realizza la vocazione dell'uomo (capitolo primo). E' fatta di carità divina e di solidarietà umana (capitolo secondo). E' gratuitamente concessa come una Salvezza (capitolo terzo).

 

CAPITOLO PRIMO -  LA DIGNITA' DELLA PERSONA UMANA

 

1700 La dignità della persona umana si radica nella creazione ad immagine e somiglianza di Dio (articolo 1); ha il suo compimento nella vocazione alla beatitudine divina (articolo 2). E' proprio dell'essere umano tendere liberamente a questo compimento (articolo 3). Con i suoi atti liberi (articolo 4), la persona umana si conforma, o no, al bene promesso da Dio e attestato dalla coscienza morale (articolo 5). Gli esseri umani si edificano da se stessi e crescono interiormente: di tutta la loro vita sensibile e spirituale fanno un materiale per la loro crescita (articolo 6). Con l'aiuto della grazia progrediscono nella virtù (articolo 7), evitano il peccato e, se l'hanno commesso, si affidano, come il figlio prodigo, [Cf Lc 15,11-31 ] alla misericordia del nostro Padre dei cieli (articolo 8). Così raggiungono la perfezione della carità.

 

 

 Articolo 1

 L'UOMO IMMAGINE DI DIO

 

 

 1701 “Cristo. . ., proprio rivelando il mistero del Padre e del suo Amore, svela anche pienamente l'uomo all'uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione” [Conc. Ecum. Vat. II, Gaudium et spes, 22]. E' in Cristo,“immagine del Dio invisibile” ( Col 1,15 ) [Cf 2Cor 4,4 ] che l'uomo è stato creato ad “immagine e somiglianza” del Creatore. E' in Cristo, Redentore e Salvatore, che l'immagine divina, deformata nell'uomo dal primo peccato, è stata restaurata nella sua bellezza originale e nobilitata dalla grazia di Dio [Cf Conc. Ecum. Vat. II, Gaudium et spes, 22].

 

 

  1702 L 'immagine divina è presente in ogni uomo. Risplende nella comunione delle persone, a somiglianza dell'unità delle persone divine tra loro.

 

 1703 Dotata di “un'anima spirituale ed immortale”, [Conc. Ecum. Vat. II, Gaudium et spes, 14] la persona umana è in terra “la sola creatura che Dio abbia voluto per se stessa” [Conc. Ecum. Vat. II, Gaudium et spes, 14]. Fin dal suo concepimento è destinata alla beatitudine eterna.

 

 1704 La persona umana partecipa alla luce e alla forza dello Spirito divino. Grazie alla ragione è capace di comprendere l'ordine delle cose stabilito dal Creatore. Grazie alla sua volontà è capace di orientarsi da sé al suo vero bene. Trova la propria perfezione nel “cercare” e nell'“amare il vero e il bene” [Conc. Ecum. Vat. II, Gaudium et spes, 14].

 

  1705 In virtù della sua anima e delle sue potenze spirituali d'intelligenza e di volontà, l'uomo è dotato di libertà, “segno altissimo dell'immagine divina” [Conc. Ecum. Vat. II, Gaudium et spes, 14].

 

 1706 Con la sua ragione l'uomo conosce la voce di Dio che lo “chiama sempre. . . a fare il bene e a fuggire il male” [Conc. Ecum. Vat. II, Gaudium et spes, 14]. Ciascuno è tenuto a seguire questa legge che risuona nella coscienza e che trova il suo compimento nell'amore di Dio e del prossimo. L'esercizio della vita morale attesta la dignità della persona.

 

 

 1707 “L'uomo però, tentato dal Maligno, fin dagli inizi della storia abusò della libertà sua” [Conc. Ecum. Vat. II, Gaudium et spes, 14]. Egli cedette alla tentazione e commise il male. Conserva il desiderio del bene, ma la sua natura porta la ferita del peccato originale. E' diventato incline al male e soggetto all'errore:

 

 Così l'uomo si trova in se stesso diviso. Per questo tutta la vita umana, sia individuale che collettiva, presenta i caratteri di una lotta drammatica tra il bene e il male, tra la luce e le tenebre [Conc. Ecum. Vat. II, Gaudium et spes, 14].

 

 

 1708 Con la sua Passione Cristo ci ha liberati da Satana e dal peccato. Ci ha meritato la vita nuova nello Spirito Santo. La sua grazia restaura ciò che il peccato aveva in noi deteriorato.

 

 

 1709 Chi crede in Cristo diventa figlio di Dio. Questa adozione filiale lo trasforma dandogli la capacità di seguire l'esempio di Cristo. Lo rende capace di agire rettamente e di compiere il bene. Nell'unione con il suo Salvatore, il discepolo raggiunge la perfezione della carità, la santità. La vita morale, maturata nella grazia, sboccia in vita eterna, nella gloria del cielo.

 

 

In sintesi

 

 1710 “Cristo. . . svela pienamente l'uomo all'uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione” [Conc. Ecum. Vat. II, Gaudium et spes, 22].

 

 1711 Dotata di un'anima spirituale, d'intelligenza e di volontà, la persona umana fin dal suo concepimento è ordinata a Dio e destinata alla beatitudine eterna. Essa raggiunge la propria perfezione nel “cercare” ed “amare il vero e il bene” [Conc. Ecum. Vat. II, Gaudium et spes, 22].

 

 1712 La vera libertà è nell'uomo “segno altissimo dell'immagine divina” [Conc. Ecum. Vat. II, Gaudium et spes, 22].

 

  1713 L 'uomo è tenuto a seguire la legge morale che lo spinge “a fare il bene e a fuggire il male” [Conc. Ecum. Vat. II, Gaudium et spes, 22]. Questa legge risuona nella sua coscienza.

 

  1714 L 'uomo, ferito nella propria natura dal peccato originale, è soggetto all'errore ed incline al male nell'esercizio della sua libertà.

 

 1715 Chi crede in Cristo ha la vita nuova nello Spirito Santo. La vita morale, cresciuta e maturata nella grazia, arriva a compimento nella gloria del cielo.

 

 

 Articolo 2

  LA NOSTRA VOCAZIONE ALLA BEATITUDINE

 

I. Le beatitudini

 

 1716 Le beatitudini sono al centro della predicazione di Gesù. La loro proclamazione riprende le promesse fatte al popolo eletto a partire da Abramo. Le porta alla perfezione ordinandole non più al solo godimento di una terra, ma al Regno dei cieli:

 

 Beati i poveri in spirito, perché di essi è il Regno dei cieli.

 

 Beati gli afflitti, perché saranno consolati.

 

 Beati i miti, perché erediteranno la terra.

 

 Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati.

 

 Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia.

 

 Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio.

 

 Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio.

 

 Beati i perseguitati a causa della giustizia, perché di essi è il Regno dei cieli.

 

 Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli ( Mt 5,3-12 ).

 

 

 1717 Le beatitudini dipingono il volto di Gesù Cristo e ne descrivono la carità; esse esprimono la vocazione dei fedeli associati alla gloria della sua Passione e della sua Risurrezione; illuminano le azioni e le disposizioni caratteristiche della vita cristiana; sono le promesse paradossali che, nelle tribolazioni, sorreggono la speranza; annunziano le benedizioni e le ricompense già oscuramente anticipate ai discepoli; sono inaugurate nella vita della Vergine e di tutti i Santi.

 

 

II. Il desiderio della felicità

 

 1718 Le beatitudini rispondono all'innato desiderio di felicità. Questo desiderio è di origine divina: Dio l'ha messo nel cuore dell'uomo per attirarlo a sé, perché egli solo lo può colmare.

 Noi tutti certamente bramiamo vivere felici, e tra gli uomini non c'è nessuno che neghi il proprio assenso a questa affermazione, anche prima che venga esposta in tutta la sua portata [Sant'Agostino, De moribus ecclesiae catholicae, 1, 3, 4: PL 32, 1312].

 Come ti cerco, dunque, Signore? Cercando Te, Dio mio, io cerco la felicità. Ti cercherò perché l'anima mia viva. Il mio corpo vive della mia anima e la mia anima vive di Te [Sant'Agostino, Confessiones, 10, 20, 29].

 Dio solo sazia [San Tommaso d'Aquino, Expositio in symbolum apostolicum, 1].

 

 

 1719 Le beatitudini svelano la mèta dell'esistenza umana, il fine ultimo cui tendono le azioni umane: Dio ci chiama alla sua beatitudine. Tale vocazione è rivolta a ciascuno personalmente, ma anche all'insieme della Chiesa, popolo nuovo di coloro che hanno accolto la promessa e di essa vivono nella fede.

 

 

III. La beatitudine cristiana

 

 1720 Il Nuovo Testamento usa parecchie espressioni per caratterizzare la beatitudine alla quale Dio chiama l'uomo: l'avvento del Regno di Dio; [Cf Mt 4,17 ] la visione di Dio: “Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio” ( Mt 5,8 ); [Cf 1Gv 3,2; 1Cor 13,12 ] l'entrata nella gioia del Signore; [Cf Mt 25,21; 1720 Mt 25,23 ] l'entrata nel Riposo di Dio: [Cf Eb 4,7-11 ]

 

 Là noi riposeremo e vedremo; vedremo e ameremo; ameremo e loderemo. Ecco ciò che alla fine sarà, senza fine. E quale altro fine abbiamo, se non di giungere al regno che non avrà fine? [Sant'Agostino, De civitate Dei, 22, 30]

 

 1721 Dio infatti ci ha creati per conoscerlo, servirlo e amarlo, e così giungere in Paradiso. La beatitudine ci rende partecipi della natura divina [Cf 2Pt 1,4 ] e della vita eterna [Cf Gv 17,3 ]. Con essa, l'uomo entra nella gloria di Cristo [Cf Rm 8,18 ] e nel godimento della vita trinitaria.

 

 

 1722 Una tale beatitudine oltrepassa l'intelligenza e le sole forze umane. Essa è frutto di un dono gratuito di Dio. Per questo la si dice soprannaturale, come la grazia che dispone l'uomo ad entrare nella gioia di Dio.

 

 “Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio”; tuttavia nella sua grandezza e nella sua mirabile gloria, “nessun uomo può vedere Dio e restare vivo”. Il Padre, infatti, è incomprensibile; ma nel suo amore, nella sua bontà verso gli uomini, e nella sua onnipotenza, arriva a concedere a coloro che lo amano il privilegio di vedere Dio. . . poiché “ciò che è impossibile agli uomini, è possibile a Dio” [Sant'Ireneo di Lione, Adversus haereses, 4, 20, 5].

 

 1723 La beatitudine promessa ci pone di fronte alle scelte morali decisive. Essa ci invita a purificare il nostro cuore dai suoi istinti cattivi e a cercare l'amore di Dio al di sopra di tutto. Ci insegna che la vera felicità non si trova né nella ricchezza o nel benessere, né nella gloria umana o nel potere, né in alcuna attività umana, per quanto utile possa essere, come le scienze, le tecniche e le arti, né in alcuna creatura, ma in Dio solo, sorgente di ogni bene e di ogni amore:

 

 La ricchezza è la grande divinità del presente; alla ricchezza la moltitudine, tutta la massa degli uomini, tributa un omaggio istintivo. Per gli uomini il metro della felicità è la fortuna, e la fortuna è il metro dell'onorabilità. . . Tutto ciò deriva dalla convinzione che in forza della ricchezza tutto è possibile. La ricchezza è quindi uno degli idoli del nostro tempo, e un altro idolo è la notorietà. . . La notorietà, il fatto di essere conosciuti e di far parlare di sé nel mondo (ciò che si potrebbe chiamare fama da stampa), ha finito per essere considerata un bene in se stessa, un bene sommo, un oggetto, anch'essa, di vera venerazione [John Henry Newman, Discourses to mixed congregations, 5, sulla santità].

 

 1724 Il Decalogo, il Discorso della Montagna e la catechesi apostolica ci descrivono le vie che conducono al Regno dei cieli. Noi ci impegniamo in esse passo passo, mediante azioni quotidiane, sostenuti dalla grazia dello Spirito Santo. Fecondati dalla Parola di Cristo, lentamente portiamo frutti nella Chiesa per la gloria di Dio [Cf Mt 13,3-23 ].

 

 

In sintesi

 

 1725 Le beatitudini riprendono e portano a perfezione le promesse di Dio fatte a partire da Abramo, ordinandole al Regno dei cieli. Esse rispondono al desiderio di felicità che Dio ha posto nel cuore dell'uomo.

 

 1726 Le beatitudini ci insegnano il fine ultimo al quale Dio ci chiama: il Regno, la visione di Dio, la partecipazione alla natura divina, la vita eterna, la filiazione, il riposo in Dio.

 

 1727 La beatitudine della vita eterna è un dono gratuito di Dio: è soprannaturale al pari della grazia che ad essa conduce.

 

 1728 Le beatitudini ci mettono di fronte a scelte decisive riguardo ai beni terreni; esse purificano il nostro cuore per renderci capaci di amare Dio al di sopra di tutto.

 

 1729 La beatitudine del Cielo determina i criteri di discernimento nell'uso dei beni terreni in conformità alla Legge di Dio.

 

 

 Articolo 3

  LA LIBERTA' DELL'UOMO

 

 1730 Dio ha creato l'uomo ragionevole conferendogli la dignità di una persona dotata dell'iniziativa e della padronanza dei suoi atti. “Dio volle, infatti, lasciare l'uomo "in mano al suo consiglio"( Sir 15,14 ) così che esso cerchi spontaneamente il suo Creatore e giunga liberamente, con l'adesione a lui, alla piena e beata perfezione”: [Conc. Ecum. Vat. II, Gaudium et spes, 17]

 

 L'uomo è dotato di ragione, e in questo è simile a Dio, creato libero nel suo arbitrio e potere [Sant'Ireneo di Lione, Adversus haereses, 4, 4, 3].

 

 

I. Libertà e responsabilità

 

 1731 La libertà è il potere, radicato nella ragione e nella volontà, di agire o di non agire, di fare questo o quello, di porre così da se stessi azioni deliberate. Grazie al libero arbitrio ciascuno dispone di sé. La libertà è nell'uomo una forza di crescita e di maturazione nella verità e nella bontà. La libertà raggiunge la sua perfezione quando è ordinata a Dio, nostra beatitudine.

 

 1732 Finché non si è definitivamente fissata nel suo bene ultimo che è Dio, la libertà implica la possibilità di scegliere tra il bene e il male, e conseguentemente quella di avanzare nel cammino di perfezione oppure di venir meno e di peccare. Essa contraddistingue gli atti propriamente umani. Diventa sorgente di lode o di biasimo, di merito o di demerito.

 

 

 1733 Quanto più si fa il bene, tanto più si diventa liberi. Non c'è vera libertà se non al servizio del bene e della giustizia. La scelta della disobbedienza e del male è un abuso della libertà e conduce alla schiavitù del peccato [Cf Rm 6,17 ].

 

 

 1734 La libertà rende l'uomo responsabile dei suoi atti, nella misura in cui sono volontari. Il progresso nella virtù, la conoscenza del bene e l'ascesi accrescono il dominio della volontà sui propri atti.

 

  1735 L 'imputabilità e la responsabilità di un'azione possono essere sminuite o annullate dall'ignoranza, dall'inavvertenza, dalla violenza, dal timore, dalle abitudini, dagli affetti smodati e da altri fattori psichici oppure sociali.

 

 1736 Ogni atto voluto direttamente è da imputarsi a chi lo compie.

 

Il Signore infatti chiede ad Adamo dopo il peccato nel giardino: “Che hai fatto?” ( Gen 3,13 ). Così pure a Caino [Cf Gen 4,10 ]. Altrettanto fa il profeta Natan con il re Davide dopo l'adulterio commesso con la moglie di Uria e l'assassinio di quest'ultimo [Cf 2Sam 12,7-15 ].

 Un'azione può essere indirettamente volontaria quando è conseguenza di una negligenza riguardo a ciò che si sarebbe dovuto conoscere o fare, per esempio un incidente provocato da una ignoranza del codice stradale.

 

 

 1737 Un effetto può essere tollerato senza che sia voluto da colui che agisce; per esempio lo sfinimento di una madre al capezzale del figlio ammalato. L'effetto dannoso non è imputabile se non è stato voluto né come fine né come mezzo dell'azione, come può essere la morte incontrata nel portare soccorso a una persona in pericolo. Perché l'effetto dannoso sia imputabile, bisogna che sia prevedibile e che colui che agisce abbia la possibilità di evitarlo; è il caso, per esempio, di un omicidio commesso da un conducente in stato di ubriachezza.

 

 1738 La libertà si esercita nei rapporti tra gli esseri umani. Ogni persona umana, creata ad immagine di Dio, ha il diritto naturale di essere riconosciuta come un essere libero e responsabile. Tutti hanno verso ciascuno il dovere di questo rispetto. Il diritto all'esercizio della libertà è un'esigenza inseparabile dalla dignità della persona umana, particolarmente in campo morale e religioso [Cf Conc. Ecum. Vat. II, Dignitatis humanae, 2]. Tale diritto deve essere civilmente riconosciuto e tutelato nei limiti del bene comune e dell'ordine pubblico [Cf Conc. Ecum. Vat. II, Dignitatis humanae, 2].

 

 

II. La libertà umana nell'Economia della Salvezza

 

 1739 Libertà e peccato. La libertà dell'uomo è finita e fallibile. Di fatto, l'uomo ha sbagliato. Liberamente ha peccato. Rifiutando il disegno d'amore di Dio, si è ingannato da sé; è divenuto schiavo del peccato. Questa prima alienazione ne ha generate molte altre. La storia dell'umanità, a partire dalle origini, sta a testimoniare le sventure e le oppressioni nate dal cuore dell'uomo, in conseguenza di un cattivo uso della libertà.

 

 

 1740 Minacce per la libertà. L'esercizio della libertà non implica il diritto di dire e di fare qualsiasi cosa. E' falso pretendere che l'uomo, soggetto della libertà, sia un “individuo sufficiente a se stesso ed avente come fine il soddisfacimento del proprio interesse nel godimento dei beni terrestri” [Congregazione per la Dottrina della Fede, Istr. Libertatis conscientia, 13, AAS 79 (1987), 554-599]. Peraltro, le condizioni d'ordine economico e sociale, politico e culturale richieste per un retto esercizio della libertà troppo spesso sono misconosciute e violate. Queste situazioni di accecamento e di ingiustizia gravano sulla vita morale ed inducono tanto i forti quanto i deboli nella tentazione di peccare contro la carità. Allontanandosi dalla legge morale, l'uomo attenta alla propria libertà, si fa schiavo di se stesso, spezza la fraternità coi suoi simili e si ribella contro la volontà divina.

 

 

 1741 Liberazione e salvezza. Con la sua croce gloriosa Cristo ha ottenuto la salvezza di tutti gli uomini. Li ha riscattati dal peccato che li teneva in schiavitù. “Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi” ( Gal 5,1 ). In lui abbiamo comunione con “la verità” che ci fa “liberi” ( Gv 8,32 ). Ci è stato donato lo Spirito Santo e, come insegna l'Apostolo, “dove c'è lo Spirito del Signore c'è libertà” ( 2Cor 3,17 ). Fin d'ora ci gloriamo della “libertà. .. dei figli di Dio” ( Rm 8,21 ).

 

 

 1742 Libertà e grazia. La grazia di Cristo non si pone affatto in concorrenza con la nostra libertà, quando questa è in sintonia con il senso della verità e del bene che Dio ha messo nel cuore dell'uomo. Al contrario, e l'esperienza cristiana lo testimonia specialmente nella preghiera, quanto più siamo docili agli impulsi della grazia, tanto più cresce la nostra libertà interiore e la sicurezza nelle prove come pure di fronte alle pressioni e alle costrizioni del mondo esterno. Con l'azione della grazia, lo Spirito Santo ci educa alla libertà spirituale per fare di noi dei liberi collaboratori della sua opera nella Chiesa e nel mondo:

 

 Dio grande e misericordioso, allontana ogni ostacolo nel nostro cammino verso di Te, perché, nella serenità del corpo e dello spirito, possiamo dedicarci liberamente al tuo servizio [Messale Romano, colletta della trentaduesima domenica].

 

In sintesi

 

 1743 Dio “lasciò” l'uomo “in balia del suo proprio volere” ( Sir 15,14 ), perché potesse aderire al suo Creatore liberamente e così giungere alla beata perfezione [Cf Conc. Ecum. Vat. II, Gaudium et spes, 17].

 

 1744 La libertà è il potere di agire o di non agire e di porre così da se stessi azioni libere. Essa raggiunge la perfezione del suo atto quando è ordinata a Dio, Bene supremo.

 

 1745 La libertà caratterizza gli atti propriamente umani. Rende l'essere umano responsabile delle azioni che volontariamente compie. Il suo agire libero gli appartiene in proprio.

 

  1746 L 'imputabilità e la responsabilità di una azione può essere sminuita o annullata dall'ignoranza, dalla violenza, dal timore e da altri fattori psichici o sociali.

 

 1747 Il diritto all'esercizio della libertà è un'esigenza inseparabile dalla dignità dell'uomo, particolarmente in campo religioso e morale. Ma l'esercizio della libertà non implica il supposto diritto di dire e di fare qualsiasi cosa.

 

 1748 “Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi” ( Gal 5,1 ).

 

 

Articolo 4

  LA MORALITA' DEGLI ATTI UMANI

 

 1749 La libertà fa dell'uomo un soggetto morale. Quando agisce liberamente, l'uomo è, per così dire, il padre dei propri atti. Gli atti umani, cioè gli atti liberamente scelti in base ad un giudizio di coscienza, sono moralmente qualificabili. Essi sono buoni o cattivi.

 

 

I. Le fonti della moralità

 

 1750 La moralità degli atti umani dipende:

 - dall'oggetto scelto;

 - dal fine che ci si prefigge o dall'intenzione;

 - dalle circostanze dell'azione.

 L'oggetto, l'intenzione e le circostanze rappresentano le “fonti”, o elementi costitutivi, della moralità degli atti umani.

 

  1751 L 'oggetto scelto è un bene verso il quale la volontà si dirige deliberatamente. E' la materia di un atto umano. L'oggetto scelto specifica moralmente l'atto del volere, in quanto la ragione lo riconosce e lo giudica conforme o no al vero bene. Le norme oggettive della moralità enunciano l'ordine razionale del bene e del male, attestato dalla coscienza.

 

 1752 Di fronte all'oggetto, l' intenzione si pone dalla parte del soggetto che agisce. Per il fatto che sta alla sorgente volontaria dell'azione e la determina attraverso il fine, l'intenzione è un elemento essenziale per la qualificazione morale dell'azione. Il fine è il termine primo dell'intenzione e designa lo scopo perseguito nell'azione. L'intenzione è un movimento della volontà verso il fine; riguarda il termine dell'agire. E' l'orientamento al bene che ci si aspetta dall'azione intrapresa. Non si limita ad indirizzare le nostre singole azioni, ma può ordinare molteplici azioni verso un medesimo scopo; può orientare l'intera vita verso il fine ultimo. Per esempio, un servizio reso ha come scopo di aiutare il prossimo, ma, al tempo stesso, può essere ispirato dall'amore di Dio come fine ultimo di tutte le nostre azioni. Una medesima azione può anche essere ispirata da diverse intenzioni; così, per esempio, si può rendere un servizio per procurarsi un favore o per trarne motivo di vanto.

 

 1753 Un'intenzione buona (per esempio, aiutare il prossimo) non rende né buono né giusto un comportamento in se stesso scorretto (come la menzogna e la maldicenza). Il fine non giustifica i mezzi. Così, non si può giustificare la condanna di un innocente come un mezzo legittimo per salvare il popolo. Al contrario, la presenza di un'intenzione cattiva (quale la vanagloria), rende cattivo un atto che, in sé, può essere buono [Cf Mt 6,2-4 ].

 

 1754 Le circostanze, ivi comprese le conseguenze, sono gli elementi secondari di un atto morale. Concorrono ad aggravare oppure a ridurre la bontà o la malizia morale degli atti umani (per esempio, l'ammontare di una rapina). Esse possono anche attenuare o aumentare la responsabilità di chi agisce (agire, per esempio, per paura della morte). Le circostanze, in sé, non possono modificare la qualità morale degli atti stessi; non possono rendere né buona né giusta un'azione intrinsecamente cattiva.

 

 

II. Gli atti buoni e gli atti cattivi

 

  1755 L 'atto moralmente buono suppone, ad un tempo, la bontà dell'oggetto, del fine e delle circostanze. Un fine cattivo corrompe l'azione, anche se il suo oggetto, in sé, è buono (come il pregare e il digiunare “per essere visti dagli uomini”: Mt 6,5 ).

 L'oggetto della scelta può da solo viziare tutta un'azione. Ci sono dei comportamenti concreti - come la fornicazione - che è sempre sbagliato scegliere, perché la loro scelta comporta un disordine della volontà, cioè un male morale.

 

 1756 E' quindi sbagliato giudicare la moralità degli atti umani considerando soltanto l'intenzione che li ispira, o le circostanze (ambiente, pressione sociale, costrizione o necessità di agire, ecc) che ne costituiscono la cornice. Ci sono atti che per se stessi e in se stessi, indipendentemente dalle circostanze e dalle intenzioni, sono sempre gravemente illeciti a motivo del loro oggetto; tali la bestemmia e lo spergiuro, l'omicidio e l'adulterio. Non è lecito compiere il male perché ne derivi un bene.

 

 

In sintesi

 

  1757 L 'oggetto, l'intenzione e le circostanze costituiscono le tre “fonti” della moralità degli atti umani.

 

  1758 L 'oggetto scelto specifica moralmente l'atto del volere, in quanto la ragione lo riconosce e lo giudica buono o cattivo.

 

 1759 “Non può essere giustificata un'azione cattiva compiuta con una buona intenzione” [San Tommaso d'Aquino, Collationes in decem praeceptis, 6]. Il fine non giustifica i mezzi.

 

  1760 L 'atto moralmente buono suppone la bontà dell'oggetto, del fine e delle circostanze.

 

 1761 Vi sono comportamenti concreti che è sempre sbagliato scegliere, perché la loro scelta comporta un disordine della volontà, cioè un male morale. Non è lecito compiere il male perché ne derivi un bene.

 

 

 Articolo 5

  LA MORALITA' DELLE PASSIONI

 

 1762 La persona umana si ordina alla beatitudine con i suoi atti liberi: le passioni o sentimenti che prova possono disporla a ciò e contribuirvi.

 

I. Le passioni

 

 1763 Il termine “passioni” appartiene al patrimonio cristiano. Per sentimenti o passioni si intendono le emozioni o moti della sensibilità, che spingono ad agire o a non agire in vista di ciò che è sentito o immaginato come buono o come cattivo.

 

 1764 Le passioni sono componenti naturali dello psichismo umano; fanno da tramite e assicurano il legame tra la vita sensibile e la vita dello spirito. Nostro Signore indica il cuore dell'uomo come la sorgente da cui nasce il movimento delle passioni [Cf Mc 7,21 ].

 

 1765 Le passioni sono molte. Quella fondamentale è l'amore provocato dall'attrattiva del bene. L'amore suscita il desiderio del bene che non si ha e la speranza di conseguirlo. Questo movimento ha il suo termine nel piacere e nella gioia del bene posseduto. Il timore del male causa l'odio, l'avversione e lo spavento del male futuro. Questo movimento finisce nella tristezza del male presente o nella collera che vi si oppone.

 

 1766 “Amare è volere del bene a qualcuno” [San Tommaso d'Aquino, Summa theologiae, I-II, 26, 4]. Qualsiasi altro affetto ha la sua sorgente in questo moto originario del cuore dell'uomo verso il bene. Non si ama che il bene [Cf Sant'Agostino, De Trinitate, 8, 3, 4]. “Le passioni sono cattive se l'amore è cattivo, buone se l'amore è buono” [Sant'Agostino, De civitate Dei, 14, 7].

 

 

II. Passioni e vita morale

 

 1767 Le passioni, in se stesse, non sono né buone né cattive. Non ricevono qualificazione morale se non nella misura in cui dipendono effettivamente dalla ragione e dalla volontà. Le passioni sono dette volontarie “o perché sono comandate dalla volontà, oppure perché la volontà non vi resiste” [San Tommaso d'Aquino, Summa theologiae, I-II, 24, 1]. E' proprio della perfezione del bene morale o umano che le passioni siano regolate dalla ragione [Cf ibid., I-II, 24, 3].

 

 1768 Non sono i grandi sentimenti a decidere della moralità o della santità delle persone; essi sono la riserva inesauribile delle immagini e degli affetti nei quali si esprime la vita morale. Le passioni sono moralmente buone quando contribuiscono ad un'azione buona; sono cattive nel caso contrario. La volontà retta ordina al bene e alla beatitudine i moti sensibili che essa assume; la volontà cattiva cede alle passioni disordinate e le inasprisce. Le emozioni e i sentimenti possono essere assunti nelle virtù, o pervertiti nei vizi.

 

 1769 Nella vita cristiana, lo Spirito Santo compie la sua opera mobilitando tutto l'essere, compresi i suoi dolori, i suoi timori e le sue tristezze, come è evidente nell'Agonia e nella Passione del Signore. In Cristo, i sentimenti umani possono ricevere la loro perfezione nella carità e nella beatitudine divina.

 

 

 1770 La perfezione morale consiste nel fatto che l'uomo non sia indotto al bene soltanto dalla volontà, ma anche dal suo appetito sensibile, secondo queste parole del Salmo: “Il mio cuore e la mia carne esultano nel Dio vivente” ( Sal 84,3 ).

In sintesi

 

 1771 Il termine “passioni” indica gli affetti o i sentimenti. Attraverso le sue emozioni, l'uomo ha il presentimento del bene e il sospetto del male.

 

 1772 Le principali passioni sono l'amore e l'odio, il desiderio e il timore, la gioia, la tristezza e la collera.

 

 1773 Nelle passioni, intese come moti della sensibilità, non c'è né bene né male morale. Ma nella misura in cui dipendono o no dalla ragione e dalla volontà, c'è in esse il bene o il male morale.

 

 1774 Le emozioni e i sentimenti possono essere assunti nelle virtù, o pervertiti nei vizi.

 

 1775 La perfezione del bene morale si ha quando l'uomo non è indotto al bene dalla sola volontà, ma anche dal suo “cuore”.

 

 

Articolo 6

  LA COSCIENZA MORALE

 

 1776 “Nell'intimo della coscienza l'uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve obbedire e la cui voce, che lo chiama sempre ad amare e a fare il bene e a fuggire il male, quando occorre, chiaramente parla alle orecchie del cuore. . . L'uomo ha in realtà una legge scritta da Dio dentro al suo cuore. . . La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell'uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell'intimità propria” [Conc. Ecum. Vat. II, Gaudium et spes, 16].

 

 

I. Il giudizio della coscienza

 

 1777 Presente nell'intimo della persona, la coscienza morale [Cf Rm 2,14-16 ] le ingiunge, al momento opportuno, di compiere il bene e di evitare il male. Essa giudica anche le scelte concrete, approvando quelle che sono buone, denunciando quelle cattive [Cf Rm 1,32 ]. Attesta l'autorità della verità in riferimento al Bene supremo, di cui la persona umana avverte l'attrattiva ed accoglie i comandi. Quando ascolta la coscienza morale, l'uomo prudente può sentire Dio che parla.

 

 

 1778 La coscienza morale è un giudizio della ragione mediante il quale la persona umana riconosce la qualità morale di un atto concreto che sta per porre, sta compiendo o ha compiuto. In tutto quello che dice e fa, l'uomo ha il dovere di seguire fedelmente ciò che sa essere giusto e retto. E' attraverso il giudizio della propria coscienza che l'uomo percepisce e riconosce i precetti della legge divina:

 

 La coscienza è una legge del nostro spirito, ma che lo supera, che ci dà degli ordini, che indica responsabilità e dovere, timore e speranza. . . la messaggera di Colui che, nel mondo della natura come in quello della grazia, ci parla velatamente, ci istruisce e ci guida. La coscienza è il primo di tutti i vicari di Cristo [John Henry Newman, Lettera al Duca di Norfolk, 5].

 

  1779 L 'importante per ciascuno è di essere sufficientemente presente a se stesso al fine di sentire e seguire la voce della propria coscienza. Tale ricerca di interiorità è quanto mai necessaria per il fatto che la vita spesso ci mette in condizione di sottrarci ad ogni riflessione, esame o introspezione:

 

 Ritorna alla tua coscienza, interrogala. . . Fratelli, rientrate in voi stessi e in tutto ciò che fate, fissate lo sguardo sul Testimone, Dio [Sant'Agostino, In epistulam Johannis ad Parthos tractatus, 8, 9].

 

 1780 La dignità della persona umana implica ed esige la rettitudine della coscienza morale. La coscienza morale comprende la percezione dei principi della moralità [sinderesi”], la loro applicazione nelle circostanze di fatto mediante un discernimento pratico delle ragioni e dei beni e, infine, il giudizio riguardante gli atti concreti che si devono compiere o che sono già stati compiuti. La verità sul bene morale, dichiarata nella legge della ragione, è praticamente e concretamente riconosciuta attraverso il giudizio prudente della coscienza. Si chiama prudente l'uomo le cui scelte sono conformi a tale giudizio.

 

 

 1781 La coscienza permette di assumere la responsabilità degli atti compiuti. Se l'uomo commette il male, il retto giudizio della coscienza può rimanere in lui il testimone della verità universale del bene e, al tempo stesso, della malizia della sua scelta particolare. La sentenza del giudizio di coscienza resta un pegno di speranza e di misericordia. Attestando la colpa commessa, richiama al perdono da chiedere, al bene da praticare ancora e alla virtù da coltivare incessantemente con la grazia di Dio:

 

 Davanti a lui rassicureremo il nostro cuore qualunque cosa esso ci rimproveri. Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa ( 1Gv 3,19-20 ).

 

  1782 L 'uomo ha il diritto di agire in coscienza e libertà, per prendere personalmente le decisioni morali. L'uomo non deve essere costretto “ad agire contro la sua coscienza. Ma non si deve neppure impedirgli di operare in conformità ad essa, soprattutto in campo religioso” [Conc. Ecum. Vat. II, Dignitatis humanae, 3].

 

 

II. La formazione della coscienza

 

 1783 La coscienza deve essere educata e il giudizio morale illuminato. Una coscienza ben formata è retta e veritiera. Essa formula i suoi giudizi seguendo la ragione, in conformità al vero bene voluto dalla sapienza del Creatore. L'educazione della coscienza è indispensabile per esseri umani esposti a influenze negative e tentati dal peccato a preferire il loro proprio giudizio e a rifiutare gli insegnamenti certi.

 

  1784 L 'educazione della coscienza è un compito di tutta la vita. Fin dai primi anni dischiude al bambino la conoscenza e la pratica della legge interiore, riconosciuta dalla coscienza morale. Un'educazione prudente insegna la virtù; preserva o guarisce dalla paura, dall'egoismo e dall'orgoglio, dai risentimenti della colpevolezza e dai moti di compiacenza, che nascono dalla debolezza e dagli sbagli umani. L'educazione della coscienza garantisce la libertà e genera la pace del cuore.

 

 1785 Nella formazione della coscienza la Parola di Dio è la luce sul nostro cammino; la dobbiamo assimilare nella fede e nella preghiera e mettere in pratica. Dobbiamo anche esaminare la nostra coscienza rapportandoci alla Croce del Signore. Siamo sorretti dai doni dello Spirito Santo, aiutati della testimonianza o dai consigli altrui, e guidati dall'insegnamento certo della Chiesa [Cf ibid., 14].

 

 

III. Scegliere secondo coscienza

 

 1786 Messa di fronte ad una scelta morale, la coscienza può dare sia un giudizio retto in accordo con la ragione e con la legge divina, sia, al contrario, un giudizio erroneo che da esse si discosta.

 

  1787 L 'uomo talvolta si trova ad affrontare situazioni che rendono incerto il giudizio morale e difficile la decisione. Egli deve sempre ricercare ciò che è giusto e buono e discernere la volontà di Dio espressa nella legge divina.

 

 

  1788 A tale scopo l'uomo si sforza di interpretare i dati dell'esperienza e i segni dei tempi con la virtù della prudenza, con i consigli di persone avvedute e con l'aiuto dello Spirito Santo e dei suoi doni.

 

 1789 Alcune norme valgono in ogni caso:

 

 - Non è mai consentito fare il male perché ne derivi un bene.

 

 - La “regola d'oro”: “Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro” ( Mt 7,12 ) [Cf Lc 6,31; Tb 4,15 ].

 

 - La carità passa sempre attraverso il rispetto del prossimo e della sua coscienza: Parlando “così contro i fratelli e ferendo la loro coscienza..., voi peccate contro Cristo” ( 1Cor 8,12 ). “Perciò è bene” astenersi... da tutto ciò per cui “il tuo fratello possa scandalizzarsi” ( Rm 14,21 ).

 

 

IV. Il giudizio erroneo

 

  1790 L 'essere umano deve sempre obbedire al giudizio certo della propria coscienza. Se agisse deliberatamente contro tale giudizio, si condannerebbe da sé. Ma accade che la coscienza morale sia nell'ignoranza e dia giudizi erronei su azioni da compiere o già compiute.

 

 1791 Questa ignoranza spesso è imputabile alla responsabilità personale. Ciò avviene “quando l'uomo non si cura di cercare la verità e il bene, e quando la coscienza diventa quasi cieca in seguito all'abitudine del peccato” [Conc. Ecum. Vat. II, Gaudium et spes, 16]. In tali casi la persona è colpevole del male che commette.

 

 1792 All'origine delle deviazioni del giudizio nella condotta morale possono esserci la non conoscenza di Cristo e del suo Vangelo, i cattivi esempi dati dagli altri, la schiavitù delle passioni, la pretesa ad una malintesa autonomia della coscienza, il rifiuto dell'autorità della Chiesa e del suo insegnamento, la mancanza di conversione e di carità.

1793 Se - al contrario - l'ignoranza è invincibile, o il giudizio erroneo è senza responsabilità da parte del soggetto morale, il male commesso dalla persona non può esserle imputato. Nondimento resta un male, una privazione, un disordine. E' quindi necessario adoperarsi per correggere la coscienza morale dai suoi errori.

 

 

 1794 La coscienza buona e pura è illuminata dalla fede sincera. Infatti la carità “sgorga”, ad un tempo, “da un cuore puro, da una buona coscienza e da una fede sincera” ( 1Tm 1,5 ): [Cf 1Tm 3,9; 2Tm 1,3; 1794 1Pt 3,21; At 24,16 ]

 

 Quanto più prevale la coscienza retta, tanto più le persone e i gruppi sociali si allontanano dal cieco arbitrio e si sforzano di conformarsi alle norme oggettive della moralità [Conc. Ecum. Vat. II, Gaudium et spes, 16].

 

 

In sintesi

 

 1795 “La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell'uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell'intimità propria” [Conc. Ecum. Vat. II, Gaudium et spes, 16].

 

 1796 La coscienza morale è un giudizio della ragione, con il quale la persona umana riconosce la qualità morale di un atto concreto.

 

 1797 Per l'uomo che ha commesso il male, la sentenza della propria coscienza rimane un pegno di conversione e di speranza.

 

 1798 Una coscienza ben formata è retta e veritiera. Formula i suoi giudizi seguendo la ragione, in conformità al vero bene voluto dalla sapienza del Creatore. Ciascuno deve valersi dei mezzi atti a formare la propria coscienza.

 

 1799 Messa di fronte ad una scelta morale, la coscienza può dare sia un retto giudizio in accordo con la ragione e con la legge divina, sia, all'opposto, un giudizio erroneo che se ne discosta.

 

  1800 L 'essere umano deve sempre obbedire al giudizio certo della propria coscienza.

 

 1801 La coscienza morale può rimanere nell'ignoranza o dare giudizi erronei. Tali ignoranze e tali errori non sempre sono esenti da colpevolezza.

 

 1802 La Parola di Dio è una luce sui nostri passi. La dobbiamo assimilare nella fede e nella preghiera e mettere in pratica. In tal modo si forma la coscienza morale.

 

 

Articolo 7

 LE VIRTU'

 

 1803 “Tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto dei vostri pensieri” ( Fil 4,8 ).

 La virtù è una disposizione abituale e ferma a fare il bene. Essa consente alla persona, non soltanto di compiere atti buoni, ma di dare il meglio di sé. Con tutte le proprie energie sensibili e spirituali la persona virtuosa tende verso il bene; lo ricerca e lo sceglie in azioni concrete.

 

 Il fine di una vita virtuosa consiste nel divenire simili a Dio [San Gregorio di Nissa, Orationes de beatitudinibus, 1: PG 44, 1200D].

 

 

I. Le virtù umane

 

 1804 Le virtù umane sono attitudini ferme, disposizioni stabili, perfezioni abituali dell'intelligenza e della volontà che regolano i nostri atti, ordinano le nostre passioni e guidano la nostra condotta secondo la ragione e la fede. Esse procurano facilità, padronanza di sé e gioia per condurre una vita moralmente buona. L'uomo virtuoso è colui che liberamente pratica il bene.

 Le virtù morali vengono acquisite umanamente. Sono i frutti e i germi di atti moralmente buoni; dispongono tutte le potenzialità dell'essere umano ad entrare in comunione con l'amore divino.

 

 

Distinzione delle virtù cardinali

 

 1805 Quattro virtù hanno funzione di cardine. Per questo sono dette “cardinali”; tutte le altre si raggruppano attorno ad esse. Sono: la prudenza, la giustizia, la fortezza e la temperanza. “Se uno ama la giustizia, le virtù sono il frutto delle sue fatiche. Essa insegna infatti la temperanza e la prudenza, la giustizia e la fortezza” ( Sap 8,7 ). Sotto altri nomi, queste virtù sono lodate in molti passi della Scrittura.

 

 1806 La prudenza è la virtù che dispone la ragione pratica a discernere in ogni circostanza il nostro vero bene e a scegliere i mezzi adeguati per compierlo. L'uomo “accorto controlla i suoi passi” ( Pr 14,15 ). “Siate moderati e sobri per dedicarvi alla preghiera” ( 1Pt 4,7 ). La prudenza è la “retta norma dell'azione”, scrive san Tommaso [San Tommaso d'Aquino, Summa theologiae, II-II, 47, 2] sulla scia di Aristotele. Essa non si confonde con la timidezza o la paura, né con la doppiezza o la dissimulazione. E' detta “auriga virtutum” - cocchiere delle virtù: essa dirige le altre virtù indicando loro regola e misura. E' la prudenza che guida immediatamente il giudizio di coscienza. L'uomo prudente decide e ordina la propria condotta seguendo questo giudizio. Grazie alla virtù della prudenza applichiamo i principi morali ai casi particolari senza sbagliare e superiamo i dubbi sul bene da compiere e sul male da evitare.

 

 1807 La giustizia è la virtù morale che consiste nella costante e ferma volontà di dare a Dio e al prossimo ciò che è loro dovuto. La giustizia verso Dio è chiamata “virtù di religione”. La giustizia verso gli uomini dispone a rispettare i diritti di ciascuno e a stabilire nelle relazioni umane l'armonia che promuove l'equità nei confronti delle persone e del bene comune. L'uomo giusto, di cui spesso si fa parola nei Libri sacri, si distingue per l'abituale dirittura dei propri pensieri e per la rettitudine della propria condotta verso il prossimo. “Non tratterai con parzialità il povero, né userai preferenze verso il potente; ma giudicherai il tuo prossimo con giustizia” ( Lv 19,15 ). “Voi, padroni, date ai vostri servi ciò che è giusto ed equo, sapendo che anche voi avete un padrone in cielo” ( Col 4,1 ).

 

 1808 La fortezza è la virtù morale che, nelle difficoltà, assicura la fermezza e la costanza nella ricerca del bene. Essa rafforza la decisione di resistere alle tentazioni e di superare gli ostacoli nella vita morale. La virtù della fortezza rende capaci di vincere la paura, perfino della morte, e di affrontare la prova e le persecuzioni. Dà il coraggio di giungere fino alla rinuncia e al sacrificio della propria vita per difendere una giusta causa. “Mia forza e mio canto è il Signore” ( Sal 118,14 ). “Voi avrete tribolazione nel mondo, ma abbiate fiducia; io ho vinto il mondo” ( Gv 16,33 ).

 

 1809 La temperanza è la virtù morale che modera l'attrattiva dei piaceri e rende capaci di equilibrio nell'uso dei beni creati. Essa assicura il dominio della volontà sugli istinti e mantiene i desideri entro i limiti dell'onestà. La persona temperante orienta al bene i propri appetiti sensibili, conserva una sana discrezione, e non segue il proprio “istinto” e la propria “forza assecondando i desideri” del proprio “cuore” ( Sir 5,2 ) [Cf Sir 37,27-31 ]. La temperanza è spesso lodata nell'Antico Testamento: “Non seguire le passioni; poni un freno ai tuoi desideri” ( Sir 18,30 ). Nel Nuovo Testamento è chiamata “moderazione” o “sobrietà”. Noi dobbiamo “vivere con sobrietà, giustizia e pietà in questo mondo” ( Tt 2,12 ).

 

 Vivere bene altro non è che amare Dio con tutto il proprio cuore, con tutta la propria anima, e con tutto il proprio agire. Gli si dà (con la temperanza) un amore totale che nessuna sventura può far vacillare (e questo mette in evidenza la fortezza), un amore che obbedisce a lui solo (e questa è la giustizia), che vigila al fine di discernere ogni cosa, nel timore di lasciarsi sorprendere dall'astuzia e dalla menzogna (e questa è la prudenza) [Sant'Agostino, De moribus ecclesiae catholicae, 1, 25, 46: PL 32, 1330-1331].

Le virtù e la grazia

 

 1810 Le virtù umane acquisite mediante l'educazione, mediante atti deliberati e una perseveranza sempre rinnovata nello sforzo, sono purificate ed elevate dalla grazia divina. Con l'aiuto di Dio forgiano il carattere e rendono spontanea la pratica del bene. L'uomo virtuoso è felice di praticare le virtù.

 

 1811 Per l'uomo ferito dal peccato non è facile conservare l'equilibrio morale. Il dono della salvezza fattoci da Cristo ci dà la grazia necessaria per perseverare nella ricerca delle virtù. Ciascuno deve sempre implorare questa grazia di luce e di forza, ricorrere ai sacramenti, cooperare con lo Spirito Santo, seguire i suoi inviti ad amare il bene e a stare lontano dal male.

 

 

II. Le virtù teologali

 

 1812 Le virtù umane si radicano nelle virtù teologali, le quali rendono le facoltà dell'uomo idonee alla partecipazione alla natura divina [Cf 2Pt 1,4 ]. Le virtù teologali, infatti, si riferiscono direttamente a Dio. Esse dispongono i cristiani a vivere in relazione con la Santissima Trinità. Hanno come origine, causa ed oggetto Dio Uno e Trino.

 

 1813 Le virtù teologali fondano, animano e caratterizzano l'agire morale del cristiano. Esse informano e vivificano tutte le virtù morali. Sono infuse da Dio nell'anima dei fedeli per renderli capaci di agire quali suoi figli e meritare la vita eterna. Sono il pegno della presenza e dell'azione dello Spirito Santo nelle facoltà dell'essere umano. Tre sono le virtù teologali: la fede, la speranza e la carità [Cf 1Cor 13,13 ].

 

 

La fede

 

 1814 La fede è la virtù teologale per la quale noi crediamo in Dio e a tutto ciò che egli ci ha detto e rivelato, e che la Santa Chiesa ci propone da credere, perché egli è la stessa verità. Con la fede “l'uomo si abbandona tutto a Dio liberamente” [Conc. Ecum. Vat. II, Dei Verbum, 5]. Per questo il credente cerca di conoscere e di fare la volontà di Dio. “Il giusto vivrà mediante la fede” ( Rm 1,17 ). La fede viva “opera per mezzo della carità” ( Gal 5,6 ).

 

 1815 Il dono della fede rimane in colui che non ha peccato contro di essa [Cf Concilio di Trento: Denz. -Schönm., 1545]. Ma “la fede senza le opere è morta” ( Gc 2,26 ): se non si accompagna alla speranza e all'amore, la fede non unisce pienamente il fedele a Cristo e non ne fa un membro vivo del suo Corpo.

 

 1816 Il discepolo di Cristo non deve soltanto custodire la fede e vivere di essa, ma anche professarla, darne testimonianza con franchezza e diffonderla: “Devono tutti essere pronti a confessare Cristo davanti agli uomini, e a seguirlo sulla via della Croce attraverso le persecuzioni, che non mancano mai alla Chiesa” [Conc. Ecum. Vat. II, Lumen gentium, 42; cf Id. , Dignitatis humanae, 14]. Il servizio e la testimonianza della fede sono indispensabili per la salvezza: “Chi mi riconoscerà davanti agli uomini, anch'io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch'io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli” ( Mt 10,32-33 ).

 

 

La speranza

 

 1817 La speranza è la virtù teologale per la quale desideriamo il Regno dei cieli e la vita eterna come nostra felicità, riponendo la nostra fiducia nelle promesse di Cristo e appoggiandoci non sulle nostre forze, ma sull'aiuto della grazia dello Spirito Santo. “Manteniamo senza vacillare la professione della nostra speranza, perché è fedele colui che ha promesso”( Eb 10,23 ). Lo Spirito è stato “effuso da lui su di noi abbondantemente per mezzo di Gesù Cristo, Salvatore nostro, perché, giustificati dalla sua grazia, diventassimo eredi, secondo la speranza, della vita eterna” ( Tt 3,6-7 ).

 

 

 1818 La virtù della speranza risponde all'aspirazione alla felicità, che Dio ha posto nel cuore di ogni uomo; essa assume le attese che ispirano le attività degli uomini; le purifica per ordinarle al Regno dei cieli; salvaguarda dallo scoraggiamento; sostiene in tutti i momenti di abbandono; dilata il cuore nell'attesa della beatitudine eterna. Lo slancio della speranza preserva dall'egoismo e conduce alla gioia della carità.

 

 1819 La speranza cristiana riprende e porta a pienezza la speranza del popolo eletto, la quale trova la propria origine ed il proprio modello nella speranza di Abramo, colmato in Isacco delle promesse di Dio e purificato dalla prova del sacrificio [Cf Gen 17,4-8; Gen 22,1-18 ]. “Egli ebbe fede sperando contro ogni speranza e così divenne padre di molti popoli” ( Rm 4,18 ).

 

 1820 La speranza cristiana si sviluppa, fin dagli inizi della predicazione di Gesù, nell'annuncio delle beatitudini. Le beatitudini elevano la nostra speranza verso il Cielo come verso la nuova Terra promessa; ne tracciano il cammino attraverso le prove che attendono i discepoli di Gesù. Ma per i meriti di Gesù Cristo e della sua Passione, Dio ci custodisce nella “speranza” che “non delude” ( Rm 5,5 ). La speranza è l'“àncora della nostra vita, sicura e salda, la quale penetra. . . ” là “dove Gesù è entrato per noi come precursore” ( Eb 6,19-20 ). E' altresì un'arma che ci protegge nel combattimento della salvezza: “Dobbiamo essere. . . rivestiti con la corazza della fede e della carità, avendo come elmo la speranza della salvezza” ( 1Ts 5,8 ). Essa ci procura la gioia anche nella prova: “lieti nella speranza, forti nella tribolazione” ( Rm 12,12 ). Si esprime e si alimenta nella preghiera, in modo particolarissimo in quella del Pater, sintesi di tutto ciò che la speranza ci fa desiderare.

 

 1821 Noi possiamo, dunque, sperare la gloria del cielo promessa da Dio a coloro che lo amano [Cf Rm 8,28-30 ] e fanno la sua volontà [Cf Mt 7,21 ]. In ogni circostanza ognuno deve sperare, con la grazia di Dio, di perseverare “sino alla fine” [Cf Mt 10,22; 1821 cf Concilio di Trento: Denz. -Schönm., 1541] e ottenere la gioia del cielo, quale eterna ricompensa di Dio per le buone opere compiute con la grazia di Cristo. Nella speranza la Chiesa prega che “tutti gli uomini siano salvati” ( 1Tm 2,4 ). Essa anela ad essere unita a Cristo, suo Sposo, nella gloria del cielo:

 

 Spera, anima mia, spera. Tu non conosci il giorno né l'ora. Veglia premurosamente, tutto passa in un soffio, sebbene la tua impazienza possa rendere incerto ciò che è certo, e lungo un tempo molto breve. Pensa che quanto più lotterai, tanto più proverai l'amore che hai per il tuo Dio e tanto più un giorno godrai con il tuo Diletto, in una felicità ed in un'estasi che mai potranno aver fine [Santa Teresa di Gesù, Esclamazioni dell'anima a Dio, 15, 3].

 

 

La carità

 

 1822 La carità è la virtù teologale per la quale amiamo Dio sopra ogni cosa per se stesso, e il nostro prossimo come noi stessi per amore di Dio.

 

 1823 Gesù fa della carità il comandamento nuovo [Cf Gv 13,34 ]. Amando i suoi “sino alla fine” ( Gv 13,1 ), egli manifesta l'amore che riceve dal Padre. Amandosi gli uni gli altri, i discepoli imitano l'amore di Gesù, che essi ricevono a loro volta. Per questo Gesù dice: “Come il Padre ha amato me, così anch'io ho amato voi. Rimanete nel mio amore” ( Gv 15,9 ). E ancora: “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati” ( Gv 15,12 ).

 

 

 1824 La carità, frutto dello Spirito e pienezza della legge, osserva i comandamenti di Dio e del suo Cristo: “Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore” ( Gv 15,9-10 ) [Cf Mt 22,40; Rm 13,8-10 ].

 1825 Cristo è morto per amore verso di noi, quando eravamo ancora “nemici” ( Rm 5,10 ). Il Signore ci chiede di amare come lui, perfino i nostri nemici , [Cf Mt 5,44 ] di farci il prossimo del più lontano, [Cf Lc 10,27-37 ] di amare i bambini[Cf Mc 9,37 ] e i poveri come lui stesso [Cf Mt 25,40; 1825 Mt 25,45 ].

 

 L'Apostolo san Paolo ha dato un ineguagliabile quadro della carità: “La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell'ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta” ( 1Cor 13,4-7 ).

 

 1826 “Se non avessi la carità, dice ancora l'Apostolo, non sono nulla. . . ”. E tutto ciò che è privilegio, servizio, perfino virtù. . . senza la carità, “niente mi giova” ( 1Cor 13,1-4 ). La carità è superiore a tutte le virtù. E' la prima delle virtù teologali: “Queste le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità” ( 1Cor 13,13 ).

 

  1827 L 'esercizio di tutte le virtù è animato e ispirato dalla carità. Questa è il “vincolo di perfezione” ( Col 3,14 ); è la forma delle virtù; le articola e le ordina tra loro; è sorgente e termine della loro pratica cristiana. La carità garantisce e purifica la nostra capacità umana di amare. La eleva alla perfezione soprannaturale dell'amore divino.

 

 1828 La pratica della vita morale animata dalla carità dà al cristiano la libertà spirituale dei figli di Dio. Egli non sta davanti a Dio come uno schiavo, nel timore servile, né come il mercenario in cerca del salario, ma come un figlio che corrisponde all'amore di colui che “ci ha amati per primo” ( 1Gv 4,19 ):

 

 O ci allontaniamo dal male per timore del castigo e siamo nella disposizione dello schiavo. O ci lasciamo prendere dall'attrattiva della ricompensa e siamo simili ai mercenari. Oppure è per il bene in se stesso e per l'amore di colui che comanda che noi obbediamo. . . e allora siamo nella disposizione dei figli [San Basilio di Cesarea, Regulae fusius tractatae, prol. 3: PG 31, 896B].

 

 1829 La carità ha come frutti la gioia, la pace e la misericordia; esige la generosità e la correzione fraterna; è benevolenza; suscita la reciprocità, si dimostra sempre disinteressata e benefica; è amicizia e comunione:

 

 Il compimento di tutte le nostre opere è l'amore. Qui è il nostro fine; per questo noi corriamo, verso questa meta corriamo; quando saremo giunti, vi troveremo riposo [Sant'Agostino, In epistulam Johannis ad Parthos tractatus, 10, 4].

 

 

III. I doni e i frutti dello Spirito Santo

 

 1830 La vita morale dei cristiani è sorretta dai doni dello Spirito Santo. Essi sono disposizioni permanenti che rendono l'uomo docile a seguire le mozioni dello Spirito Santo.

 

 1831 I sette doni dello Spirito Santo sono la sapienza, l'intelletto, il consiglio, la fortezza, la scienza, la pietà e il timore di Dio. Appartengono nella loro pienezza a Cristo, Figlio di Davide [Cf Is 11,1-2 ]. Essi completano e portano alla perfezione le virtù di coloro che li ricevono. Rendono i fedeli docili ad obbedire con prontezza alle ispirazioni divine.

 

 Il tuo Spirito buono mi guidi in terra piana ( Sal 143,10 ).

 Tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio. . . Se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo ( Rm 8,14; Rm 8,17 ).

 

 

 1832 I frutti dello Spirito sono perfezioni che lo Spirito Santo plasma in noi come primizie della gloria eterna. La Tradizione della Chiesa ne enumera dodici: “amore, gioia, pace, pazienza, longanimità, bontà, benevolenza, mitezza, fedeltà, modestia, continenza, castità” ( Gal 5,22-23 vulg).

 

 

In sintesi

 

 1833 La virtù è una disposizione abituale e ferma a compiere il bene.

 

 1834 Le virtù umane sono disposizioni stabili dell'intelligenza e della volontà, che regolano i nostri atti, ordinano le nostre passioni e indirizzano la nostra condotta in conformità alla ragione e alla fede. Possono essere raggruppate attorno a quattro virtù cardinali: la prudenza, la giustizia, la fortezza e la temperanza.

 

 1835 La prudenza dispone la ragione pratica a discernere, in ogni circostanza, il nostro vero bene e a scegliere i mezzi adeguati per attuarlo.

 

 1836 La giustizia consiste nella volontà costante e ferma di dare a Dio e al prossimo ciò che è loro dovuto.

 

 1837 La fortezza assicura, nelle difficoltà, la fermezza e la costanza nella ricerca del bene.

 

 1838 La temperanza modera l'attrattiva dei piaceri sensibili e rende capaci di equilibrio nell'uso dei beni creati.

 

 1839 Le virtù morali crescono per mezzo dell'educazione, di atti deliberati e della perseveranza nello sforzo. La grazia divina le purifica e le eleva.

 

 1840 Le virtù teologali dispongono i cristiani a vivere in relazione con la Santissima Trinità. Hanno Dio come origine, motivo e oggetto, Dio conosciuto mediante la fede, sperato e amato per se stesso.

 

 1841 Tre sono le virtù teologali: la fede, la speranza e la carità [Cf 1Cor 13,13 ]. Esse informano e vivificano tutte le virtù morali.

 

 1842 Per la fede noi crediamo in Dio e crediamo tutto ciò che egli ci ha rivelato e che la Santa Chiesa ci propone a credere.

 

 1843 Per la speranza noi desideriamo e aspettiamo da Dio, con ferma fiducia, la vita eterna e le grazie per meritarla.

 

 1844 Per la carità noi amiamo Dio al di sopra di tutto e il nostro prossimo come noi stessi per amore di Dio. Essa è “il vincolo di perfezione” ( Col 3,14 ) e la forma di tutte le virtù.

 

 1845 I sette doni dello Spirito Santo dati ai cristiani sono la sapienza, l'intelletto, il consiglio, la fortezza, la scienza, la pietà e il timore di Dio.

 

Articolo 8

 IL PECCATO

 

I. La misericordia e il peccato

 

 1846 Il Vangelo è la rivelazione, in Gesù Cristo, della misericordia di Dio verso i peccatori [Cf Lc 15 ]. L'angelo lo annunzia a Giuseppe: “Tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati” ( Mt 1,21 ). La stessa cosa si può dire dell'Eucaristia, sacramento della Redenzione: “Questo è il mio sangue dell'Alleanza, versato per molti in remissione dei peccati” ( Mt 26,28 ).

 

 1847 “Dio, che ci ha creati senza di noi, non ha voluto salvarci senza di noi” [Sant'Agostino, Sermones, 169, 11, 13: PL 38, 923].

 L'accoglienza della sua misericordia esige da parte nostra il riconoscimento delle nostre colpe. “Se diciamo che siamo senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. Se riconosciamo i nostri peccati, egli che è fedele e giusto ci perdonerà i peccati e ci purificherà da ogni colpa” ( 1Gv 1,8-9 ).

 

 1848 Come afferma san Paolo: “Laddove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia”. La grazia però, per compiere la sua opera, deve svelare il peccato per convertire il nostro cuore e accordarci “la giustizia per la vita eterna, per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore” ( Rm 5,20-21 ). Come un medico che esamina la piaga prima di medicarla, Dio, con la sua Parola e il suo Spirito, getta una viva luce sul peccato:

 

 La conversione richiede la convinzione del peccato, contiene in sé il giudizio interiore della coscienza, e questo, essendo una verificadell'azione dell'azione dello Spirito di verità nell'intimo dell'uomo, diventa nello stesso tempo il nuovo inizio dell'elargizione della grazia e dell'amore: “Ricevete lo Spirito Santo”. Così in questo “convincere quanto al peccato” scopriamo una duplice elargizione: il dono della verità della coscienza e il dono della certezza della redenzione. Lo Spirito di verità è il Consolatore [Giovanni Paolo II, Lett. enc. Dominum et Vivificantem, 31].

II. La definizione di peccato

 

 1849 Il peccato è una mancanza contro la ragione, la verità, la retta coscienza; è una trasgressione in ordine all'amore vero, verso Dio e verso il prossimo, a causa di un perverso attaccamento a certi beni. Esso ferisce la natura dell'uomo e attenta alla solidarietà umana. E' stato definito “una parola, un atto o un desiderio contrari alla legge eterna” [Sant'Agostino, Contra Faustum manichaeum, 22: PL 42, 418; San Tommaso d'Aquino, Summa theologiae, I-II, 71, 6].

 

 

 1850 Il peccato è un'offesa a Dio: “Contro di te, contro te solo ho peccato. Quello che è male ai tuoi occhi, io l'ho fatto” ( Sal 51,6 ). Il peccato si erge contro l'amore di Dio per noi e allontana da esso i nostri cuori. Come il primo peccato, è una disobbedienza, una ribellione contro Dio, a causa della volontà di diventare “come Dio” ( Gen 3,5 ), conoscendo e determinando il bene e il male. Il peccato pertanto è “amore di sé fino al disprezzo di Dio” [Sant'Agostino, De civitate Dei, 14, 28]. Per tale orgogliosa esaltazione di sé, il peccato è diametralmente opposto all'obbedienza di Gesù, che realizza la salvezza [Cf Fil 2,6-9 ].

 

 1851 E' proprio nella Passione, in cui la misericordia di Cristo lo vincerà, che il peccato manifesta in sommo grado la sua violenza e la sua molteplicità: incredulità, odio omicida, rifiuto e scherno da parte dei capi e del popolo, vigliaccheria di Pilato e crudeltà dei soldati, tradimento di Giuda tanto pesante per Gesù, rinnegamento di Pietro, abbandono dei discepoli. Tuttavia, proprio nell'ora delle tenebre e del Principe di questo mondo, [Cf Gv 14,30 ] il sacrificio di Cristo diventa segretamente la sorgente dalla quale sgorgherà inesauribilmente il perdono dei nostri peccati.

 

 

III. La diversità dei peccati

 

 1852 La varietà dei peccati è grande. La Scrittura ne dà parecchi elenchi. La Lettera ai Galati contrappone le opere della carne al frutto dello Spirito: “Le opere della carne sono ben note: fornicazione, impurità, libertinaggio, idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere; circa queste cose vi preavviso, come già ho detto, che chi le compie non erediterà il Regno di Dio” ( Gal 5,19-21 ) [Cf Rm 1,28-32; 1Cor 6,9-10; Ef 5,3-5; 1852 Col 3,5-8; 1Tm 1,9-10; 2Tm 3,2-5 ].

 

 

 1853 I peccati possono essere distinti secondo il loro oggetto, come si fa per ogni atto umano, oppure secondo le virtù alle quali si oppongono, per eccesso o per difetto, oppure secondo i comandamenti cui si oppongono. Si possono anche suddividere secondo che riguardano Dio, il prossimo o se stessi; si possono distinguere in peccati spirituali e carnali, o ancora in peccati di pensiero, di parola, di azione e di omissio ne. La radice del peccato è nel cuore dell'uomo, nella sua libera volontà, secondo quel che insegna il Signore: “Dal cuore, infatti, provengono i propositi malvagi, gli omicidi, gli adultèri, le prostituzioni, i furti, le false testimonianze, le bestemmie. Queste sono le cose che rendono immondo l'uomo” ( Mt 15,19-20 ). Il cuore è anche la sede della carità, principio delle opere buone e pure, che il peccato ferisce.

 

 

IV. La gravità del peccato: peccato mortale e veniale

 

 1854 E' opportuno valutare i peccati in base alla loro gravità. La distinzione tra peccato mortale e peccato veniale, già adombrata nella Scrittura, [Cf 1Gv 5,16-17 ] si è imposta nella Tradizione della Chiesa. L'esperienza degli uomini la convalida.

 

 1855 Il peccato mortale distrugge la carità nel cuore dell'uomo a causa di una violazione grave della legge di Dio; distoglie l'uomo da Dio, che è il suo fine ultimo e la sua beatitudine, preferendo a lui un bene inferiore.

 Il peccato veniale lascia sussistere la carità, quantunque la offenda e la ferisca.

 

 1856 Il peccato mortale, in quanto colpisce in noi il principio vitale che è la carità, richiede una nuova iniziativa della misericordia di Dio e una conversione del cuore, che normalmente si realizza nel sacramento della Riconciliazione:

 

 Quando la volontà si orienta verso una cosa di per sé contraria alla carità, dalla quale siamo ordinati al fine ultimo, il peccato, per il suo stesso oggetto, ha di che essere mortale... tanto se è contro l'amore di Dio, come la bestemmia, lo spergiuro ecc., quanto se è contro l'amore del prossimo, come l'omicidio, l'adulterio, ecc... Invece, quando la volontà del peccatore si volge a una cosa che ha in sé un disordine, ma tuttavia non va contro l'amore di Dio e del prossimo, è il caso di parole oziose, di riso inopportuno, ecc., tali peccati sono veniali [San Tommaso d'Aquino, Summa Tommaso d'Aquino, Summa theologiae, I-II, 88, 2].

 

 1857 Perché un peccato sia mortale si richiede che concorrano tre condizioni: “E' peccato mortale quello che ha per oggetto una materia grave e che, inoltre, viene commesso con piena consapevolezza e deliberato consenso” [Giovanni Paolo II, Esort. ap. Reconciliatio et paenitentia, 17].

 

 

 1858 La materia grave è precisata dai Dieci comandamenti, secondo la risposta di Gesù al giovane ricco: “Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non dire falsa testimonianza, non frodare, onora il padre e la madre” ( Mc 10,19 ). La gravità dei peccati è più o meno grande: un omicidio è più grave di un furto. Si deve tener conto anche della qualità delle persone lese: la violenza esercitata contro i genitori è di per sé più grave di quella fatta ad un estraneo.

 

 1859 Perché il peccato sia mortale deve anche essere commesso con piena consapevolezza e totale consenso. Presuppone la conoscenza del carattere peccaminoso dell'atto, della sua opposizione alla Legge di Dio. Implica inoltre un consenso sufficientemente libero perché sia una scelta personale. L'ignoranza simulata e la durezza del cuore [Cf Mc 3,5-6; Lc 16,19-31 ] non diminuiscono il carattere volontario del peccato ma, anzi, lo accrescono.

 

 

  1860 L ' ignoranza involontaria può attenuare se non annullare l'imputabilità di una colpa grave. Si presume però che nessuno ignori i principi della legge morale che sono iscritti nella coscienza di ogni uomo. Gli impulsi della sensibilità, le passioni possono ugualmente attenuare il carattere volontario e libero della colpa; come pure le pressioni esterne o le turbe patologiche. Il peccato commesso con malizia, per una scelta deliberata del male, è il più grave.

 

 

 1861 Il peccato mortale è una possibilità radicale della libertà umana, come lo stesso amore. Ha come conseguenza la perdita della carità e la privazione della grazia santificante, cioè dello stato di grazia. Se non è riscattato dal pentimento e dal perdono di Dio, provoca l'esclusione dal Regno di Cristo e la morte eterna dell'inferno; infatti la nostra libertà ha il potere di fare scelte definitive, irreversibili. Tuttavia, anche se noi possiamo giudicare che un atto è in sé una colpa grave, dobbiamo però lasciare il giudizio sulle persone alla giustizia e alla misericordia di Dio.

 

 

 1862 Si commette un peccato veniale quando, trattandosi di materia leggera, non si osserva la misura prescritta dalla legge morale, oppure quando si disobbedisce alla legge morale in materia grave, ma senza piena consapevolezza e senza totale consenso.

 

 

 1863 Il peccato veniale indebolisce la carità; manifesta un affetto disordinato per dei beni creati; ostacola i progressi dell'anima nell'esercizio delle virtù e nella pratica del bene morale; merita pene temporali. Il peccato veniale deliberato e che sia rimasto senza pentimento, ci dispone poco a poco a commettere il peccato mortale. Tuttavia il peccato veniale non rompe l'Alleanza con Dio. E' umanamente riparabile con la grazia di Dio. “Non priva della grazia santificante, dell'amicizia con Dio, della carità, né quindi della beatitudine eterna” [Giovanni Paolo II, Esort. ap. Reconciliatio et paenitentia, 17].

 

 L'uomo non può non avere almeno peccati lievi, fin quando resta nel corpo. Tuttavia non devi dar poco peso a questi peccati, che si definiscono lievi. Tu li tieni in poco conto quando li soppesi, ma che spavento quando li numeri! Molte cose leggere, messe insieme, ne formano una pesante: molte gocce riempiono un fiume e così molti granelli fanno un mucchio. Quale speranza resta allora? Si faccia anzitutto la confessione. . [Sant'Agostino, In epistulam Johannis ad Parthos tractatus, 1, 6].

 

 1864 “Qualunque peccato o bestemmia sarà perdonata agli uomini, ma la bestemmia contro lo Spirito non sarà perdonata” (Mt 12,31). La misericordia di Dio non conosce limiti, ma chi deliberatamente rifiuta di accoglierla attraverso il pentimento, respinge il perdono dei propri peccati e la salvezza offerta dallo Spirito Santo [Cf Giovanni Paolo II, Lett. enc. Dominum et Vivificantem, 46]. Un tale indurimento può portare alla impenitenza finale e alla rovina eterna.

 

 

V. La proliferazione del peccato

 

 1865 Il peccato trascina al peccato; con la ripetizione dei medesimi atti genera il vizio. Ne derivano inclinazioni perverse che ottenebrano la coscienza e alterano la concreta valutazione del bene e del male. In tal modo il peccato tende a riprodursi e a rafforzarsi, ma non può distruggere il senso morale fino alla sua radice.

 

 1866 I vizi possono essere catalogati in parallelo alle virtù alle quali si oppongono, oppure essere collegati ai peccati capitali che l'esperienza cristiana ha distinto, seguendo san Giovanni Cassiano e san Gregorio Magno [San Gregorio Magno, Moralia in Job, 31, 45: PL 76, 621A]. Sono chiamati capitali perché generano altri peccati, altri vizi. Sono la superbia, l'avarizia, l'invidia, l'ira, la lussuria, la golosità, la pigrizia o accidia.

 

 1867 La tradizione catechistica ricorda pure che esistono “ peccati che gridano verso il cielo ”. Gridano verso il cielo: il sangue di Abele; [Cf Gen 4,10 ] il peccato dei Sodomiti; [Cf Gen 18,20; 1867 Gen 19,13 ] il lamento del popolo oppresso in Egitto; [Cf Es 3,7-10 ] il lamento del forestiero, della vedova e dell'orfano; [Cf Es 22,20-22 ] l'ingiustizia verso il salariato [Cf Dt 24,14-15; Gc 5,4 ].

 

 1868 Il peccato è un atto personale. Inoltre, abbiamo una responsabilità nei peccati commessi dagli altri, quando vi cooperiamo:

 - prendendovi parte direttamente e volontariamente;

 - comandandoli, consigliandoli, lodandoli o approvandoli;

 - non denunciandoli o non impedendoli, quando si è tenuti a farlo;

 - proteggendo coloro che commettono il male.

 

 1869 Così il peccato rende gli uomini complici gli uni degli altri e fa regnare tra di loro la concupiscenza, la violenza e l'ingiustizia. I peccati sono all'origine di situazioni sociali e di istituzioni contrarie alla Bontà divina. Le “strutture di peccato” sono l'espressione e l'effetto dei peccati personali. Inducono le loro vittime a commettere, a loro volta, il male. In un senso analogico esse costituiscono un “peccato sociale” [Cf Giovanni Paolo II, Esort. ap. Reconciliatio et paenitentia, 16].

 

 

In sintesi

 

 1870 “Dio ha rinchiuso tutti nella disobbedienza per usare a tutti misericordia” ( Rm 11,32 ).

 1871 Il peccato è “una parola, un atto o un desiderio contrari alla legge eterna” [Sant'Agostino, Contra Faustum manichaeum, 22: PL 42, 418; San Tommaso d'Aquino, Summa theologiae, I-II, 71, 6]. E' un'offesa a Dio. Si erge contro Dio in una disobbedienza contraria all'obbedienza di Cristo.

 

 1872 Il peccato è un atto contrario alla ragione. Ferisce la natura dell'uomo ed attenta alla solidarietà umana.

 

 1873 La radice di tutti i peccati è nel cuore dell'uomo. Le loro specie e la loro gravità si misurano principalmente in base al loro oggetto.

 

 1874 Scegliere deliberatamente, cioè sapendolo e volendolo, una cosa gravemente contraria alla legge divina e al fine ultimo dell'uomo, è commettere un peccato mortale. Esso distrugge in noi la carità, senza la quale la beatitudine eterna è impossibile. Se non ci si pente, conduce alla morte eterna.

 

 1875 Il peccato veniale rappresenta un disordine morale riparabile per mezzo della carità che tale peccato lascia sussistere in noi.

 

 1876 La ripetizione dei peccati, anche veniali, genera i vizi, tra i quali si distinguono i peccati capitali.