COSTITUZIONE
DOGMATICA LUMEN GENTIUM SULLA
CHIESA
CAPITOLO I
IL MISTERO DELLA CHIESA
La Chiesa è sacramento in
Cristo
1. Cristo è la luce delle genti: questo santo Concilio,
adunato nello Spirito Santo, desidera dunque ardentemente, annunciando il
Vangelo ad ogni creatura (cfr. Mc 16,15), illuminare tutti gli uomini con
la luce del Cristo che risplende sul volto della Chiesa. E siccome la
Chiesa è, in Cristo, in qualche modo il sacramento, ossia il segno e lo
strumento dell'intima unione con Dio e dell'unità di tutto il genere
umano, continuando il tema dei precedenti Concili, intende con maggiore
chiarezza illustrare ai suoi fedeli e al mondo intero la propria natura e
la propria missione universale. Le presenti condizioni del mondo rendono
più urgente questo dovere della Chiesa, affinché tutti gli uomini, oggi
più strettamente congiunti dai vari vincoli sociali, tecnici e culturali,
possano anche conseguire la piena unità in Cristo.
Disegno salvifico universale del
Padre
2. L'eterno Padre, con liberissimo e arcano disegno di
sapienza e di bontà, creò l'universo; decise di elevare gli uomini alla
partecipazione della sua vita divina; dopo la loro caduta in Adamo non li
abbandonò, ma sempre prestò loro gli aiuti per salvarsi, in considerazione
di Cristo redentore, “ il quale è l'immagine dell'invisibile Dio, generato
prima di ogni creatura ” (Col 1,15). Tutti infatti quelli che ha scelto,
il Padre fino dall'eternità “ li ha distinti e li ha predestinati a essere
conformi all'immagine del Figlio suo, affinché egli sia il primogenito tra
molti fratelli ” (Rm 8,29). I credenti in Cristo, li ha voluti chiamare a
formare la santa Chiesa, la quale, già annunciata in figure sino dal
principio del mondo, mirabilmente preparata nella storia del popolo
d'Israele e nell'antica Alleanza, stabilita infine “ negli ultimi tempi ”,
è stata manifestata dall'effusione dello Spirito e avrà glorioso
compimento alla fine dei secoli. Allora, infatti, come si legge nei santi
Padri, tutti i giusti, a partire da Adamo, “ dal giusto Abele fino
all'ultimo eletto ”, saranno riuniti presso il Padre nella Chiesa
universale.
Missione del Figlio
3. È venuto quindi il Figlio, mandato dal Padre, il
quale ci ha scelti in lui prima della fondazione del mondo e ci ha
predestinati ad essere adottati in figli, perché in lui volle accentrare
tutte le cose (cfr. Ef 1,4-5 e 10). Perciò Cristo, per adempiere la
volontà del Padre, ha inaugurato in terra il regno dei cieli e ci ha
rivelato il mistero di lui, e con la sua obbedienza ha operato la
redenzione. La Chiesa, ossia il regno di Cristo già presente in mistero,
per la potenza di Dio cresce visibilmente nel mondo. Questo inizio e
questa crescita sono significati dal sangue e dall'acqua, che uscirono dal
costato aperto di Gesù crocifisso (cfr. Gv 19,34), e sono preannunziati
dalle parole del Signore circa la sua morte in croce: “ Ed io, quando sarò
levato in alto da terra, tutti attirerò a me ” (Gv 12,32). Ogni volta che
il sacrificio della croce, col quale Cristo, nostro agnello pasquale, è
stato immolato (cfr. 1 Cor 5,7), viene celebrato sull'altare, si rinnova
l'opera della nostra redenzione. E insieme, col sacramento del pane
eucaristico, viene rappresentata ed effettuata l'unità dei fedeli, che
costituiscono un solo corpo in Cristo (cfr. 1 Cor 10,17). Tutti gli uomini
sono chiamati a questa unione con Cristo, che è la luce del mondo; da lui
veniamo, per mezzo suo viviamo, a lui siamo diretti.
Lo Spirito santificatore della
Chiesa
4. Compiuta l'opera che il Padre aveva affidato al
Figlio sulla terra (cfr. Gv 17,4), il giorno di Pentecoste fu inviato lo
Spirito Santo per santificare continuamente la Chiesa e affinché i
credenti avessero così attraverso Cristo accesso al Padre in un solo
Spirito (cfr. Ef 2,18). Questi è lo Spirito che dà la vita, una sorgente
di acqua zampillante fino alla vita eterna (cfr. Gv 4,14; 7,38-39); per
mezzo suo il Padre ridà la vita agli uomini, morti per il peccato, finché
un giorno risusciterà in Cristo i loro corpi mortali (cfr. Rm 8,10-11). Lo
Spirito dimora nella Chiesa e nei cuori dei fedeli come in un tempio (cfr.
1 Cor 3,16; 6,19) e in essi prega e rende testimonianza della loro
condizione di figli di Dio per adozione (cfr. Gal 4,6; Rm 8,15-16 e 26).
Egli introduce la Chiesa nella pienezza della verità (cfr. Gv 16,13), la
unifica nella comunione e nel ministero, la provvede e dirige con diversi
doni gerarchici e carismatici, la abbellisce dei suoi frutti (cfr. Ef
4,11-12; 1 Cor 12,4; Gal 5,22). Con la forza del Vangelo la fa
ringiovanire, continuamente la rinnova e la conduce alla perfetta unione
col suo Sposo. Poiché lo Spirito e la sposa dicono al Signore Gesù: “
Vieni ” (cfr. Ap 22,17).
Così la Chiesa universale si presenta come “ un popolo
che deriva la sua unità dall'unità del Padre, del Figlio e dello Spirito
Santo ”.
Il regno di Dio
5. Il mistero della santa Chiesa si manifesta nella sua
stessa fondazione. Il Signore Gesù, infatti, diede inizio ad essa
predicando la buona novella, cioè l'avvento del regno di Dio da secoli
promesso nella Scrittura: “ Poiché il tempo è compiuto, e vicino è il
regno di Dio ” (Mc 1,15; cfr. Mt 4,17). Questo regno si manifesta
chiaramente agli uomini nelle parole, nelle opere e nella presenza di
Cristo. La parola del Signore è paragonata appunto al seme che viene
seminato nel campo (cfr. Mc 4,14): quelli che lo ascoltano con fede e
appartengono al piccolo gregge di Cristo (cfr. Lc 12,32), hanno accolto il
regno stesso di Dio; poi il seme per virtù propria germoglia e cresce fino
al tempo del raccolto (cfr. Mc 4,26-29). Anche i miracoli di Gesù provano
che il regno è arrivato sulla terra: “ Se con il dito di Dio io scaccio i
demoni, allora è già pervenuto tra voi il regno di Dio ” (Lc 11,20;
cfr.
Mt 12,28). Ma innanzi tutto il regno si manifesta nella stessa persona di
Cristo, figlio di Dio e figlio dell'uomo, il quale è venuto “ a servire, e
a dare la sua vita in riscatto per i molti ” (Mc 10,45). Quando poi
Gesù,
dopo aver sofferto la morte in croce per gli uomini, risorse, apparve
quale Signore e messia e sacerdote in eterno (cfr. At 2,36; Eb 5,6;
7,17-21), ed effuse sui suoi discepoli lo Spirito promesso dal Padre (cfr.
At 2,33). La Chiesa perciò, fornita dei doni del suo fondatore e
osservando fedelmente i suoi precetti di carità, umiltà e abnegazione,
riceve la missione di annunziare e instaurare in tutte le genti il regno
di Cristo e di Dio, e di questo regno costituisce in terra il germe e
l'inizio. Intanto, mentre va lentamente crescendo, anela al regno perfetto
e con tutte le sue forze spera e brama di unirsi col suo re nella
gloria.
Le immagini della Chiesa
6. Come già nell'Antico Testamento la rivelazione del
regno viene spesso proposta in figure, così anche ora l'intima natura
della Chiesa ci si fa conoscere attraverso immagini varie, desunte sia
dalla vita pastorale o agricola, sia dalla costruzione di edifici o anche
dalla famiglia e dagli sponsali, e che si trovano già abbozzate nei libri
dei profeti.
La Chiesa infatti è un ovile, la cui porta unica e
necessaria è Cristo (cfr. Gv 10,1-10). È pure un gregge, di cui Dio stesso
ha preannunziato che ne sarebbe il pastore (cfr. Is 40,11; Ez 34,11 ss), e
le cui pecore, anche se governate da pastori umani, sono però
incessantemente condotte al pascolo e nutrite dallo stesso Cristo, il buon
Pastore e principe dei pastori (cfr. Gv 10,11; 1 Pt 5,4), il quale ha dato
la vita per le pecore (cfr. Gv 10,11-15).
La Chiesa è il podere o campo di Dio (cfr. 1 Cor 3,9).
In quel campo cresce l'antico olivo, la cui santa radice sono stati i
patriarchi e nel quale è avvenuta e avverrà la riconciliazione dei Giudei
e delle Genti (cfr. Rm 11,13-26). Essa è stata piantata dal celeste
agricoltore come vigna scelta (Mt 21,33-43, par.; cfr. Is 5,1 ss). Cristo
è la vera vite, che dà vita e fecondità ai tralci, cioè a noi, che per
mezzo della Chiesa rimaniamo in lui, e senza di lui nulla possiamo fare
(cfr. Gv 15,1-5).
Più spesso ancora la Chiesa è detta edificio di Dio
(cfr. 1 Cor 3,9). Il Signore stesso si paragonò alla pietra che i
costruttori hanno rigettata, ma che è divenuta la pietra angolare (Mt
21,42 par.). Sopra quel fondamento la Chiesa è costruita dagli apostoli (cfr. 1 Cor 3,11) e da esso riceve stabilità e coesione. Questo edificio
viene chiamato in varie maniere: casa di Dio (cfr. 1 Tm 3,15), nella quale
cioè abita la sua famiglia, la dimora di Dio nello Spirito (cfr. Ef
2,19-22), la dimora di Dio con gli uomini (cfr. Ap 21,3), e soprattutto
tempio santo, il quale, rappresentato dai santuari di pietra, è l'oggetto
della lode dei santi Padri ed è paragonato a giusto titolo dalla liturgia
alla città santa, la nuova Gerusalemme. In essa infatti quali pietre
viventi veniamo a formare su questa terra un tempio spirituale (cfr. 1 Pt
2,5). E questa città santa Giovanni la contempla mentre, nel momento in
cui si rinnoverà il mondo, scende dal cielo, da presso Dio, “ acconciata
come sposa adornatasi per il suo sposo ” (Ap 21,1s).
La Chiesa, chiamata “ Gerusalemme celeste ” e “ madre
nostra ” (Gal 4,26; cfr. Ap 12,17), viene pure descritta come l'immacolata
sposa dell'Agnello immacolato (cfr. Ap 19,7; 21,2 e 9; 22,17), sposa che
Cristo “ ha amato.. . e per essa ha dato se stesso, al fine di
santificarla ” (Ef 5,26), che si è associata con patto indissolubile ed
incessantemente “ nutre e cura ” (Ef 5,29), che dopo averla purificata,
volle a sé congiunta e soggetta nell'amore e nella fedeltà (cfr. Ef 5,24),
e che, infine, ha riempito per sempre di grazie celesti, onde potessimo
capire la carità di Dio e di Cristo verso di noi, carità che sorpassa ogni
conoscenza (cfr. Ef 3,19). Ma mentre la Chiesa compie su questa terra il
suo pellegrinaggio lontana dal Signore (cfr. 2 Cor 5,6), è come un esule,
e cerca e pensa alle cose di lassù, dove Cristo siede alla destra di Dio,
dove la vita della Chiesa è nascosta con Cristo in Dio, fino a che col suo
sposo comparirà rivestita di gloria (cfr. Col 3,1-4).
La Chiesa, corpo mistico di
Cristo
7. Il Figlio di Dio, unendo a sé la natura umana e
vincendo la morte con la sua morte e resurrezione, ha redento l'uomo e
l'ha trasformato in una nuova creatura (cfr. Gal 6,15; 2 Cor 5,17).
Comunicando infatti il suo Spirito, costituisce misticamente come suo
corpo i suoi fratelli, che raccoglie da tutte le genti.
In quel corpo la vita di Cristo si diffonde nei
credenti che, attraverso i sacramenti si uniscono in modo arcano e reale a
lui sofferente e glorioso. Per mezzo del battesimo siamo resi conformi a
Cristo: “ Infatti noi tutti “ fummo battezzati in un solo Spirito per
costituire un solo corpo ” (1 Cor 12,13). Con questo sacro rito viene
rappresentata e prodotta la nostra unione alla morte e resurrezione di
Cristo: “ Fummo dunque sepolti con lui per l'immersione a figura della
morte ”; ma se, fummo innestati a lui in una morte simile alla sua, lo
saremo anche in una resurrezione simile alla sua ” (Rm 6,4-5).
Partecipando realmente del corpo del Signore nella frazione del pane
eucaristico, siamo elevati alla comunione con lui e tra di noi: “ Perché
c'è un solo pane, noi tutti non formiamo che un solo corpo, partecipando
noi tutti di uno stesso pane” (1 Cor 10,17). Così noi tutti diventiamo
membri di quel corpo (cfr. 1 Cor 12,27), “e siamo membri gli uni degli
altri” (Rm 12,5).
Ma come tutte le membra del corpo umano, anche se
numerose, non formano che un solo corpo così i fedeli in Cristo (cfr. 1
Cor 12,12). Anche nella struttura del corpo mistico di Cristo vige una
diversità di membri e di uffici. Uno è lo Spirito, il quale per l'utilità
della Chiesa distribuisce la varietà dei suoi doni con magnificenza
proporzionata alla sua ricchezza e alle necessità dei ministeri (cfr. 1
Cor 12,1-11). Fra questi doni eccelle quello degli apostoli, alla cui
autorità lo stesso Spirito sottomette anche i carismatici (cfr. 1 Cor 14).
Lo Spirito, unificando il corpo con la sua virtù e con l'interna
connessione dei membri, produce e stimola la carità tra i fedeli. E quindi
se un membro soffre, soffrono con esso tutte le altre membra; se un membro
è onorato, ne gioiscono con esso tutte le altre membra (cfr. 1 Cor 12,26).
Capo di questo corpo è Cristo. Egli è l'immagine
dell'invisibile Dio, e in lui tutto è stato creato. Egli è anteriore a
tutti, e tutte le cose sussistono in lui. È il capo del corpo, che è la
Chiesa. È il principio, il primo nato di tra i morti, affinché abbia il
primato in tutto (cfr. Col 1,15-18). Con la grandezza della sua potenza
domina sulle cose celesti e terrestri, e con la sua perfezione e azione
sovrana riempie delle ricchezze della sua gloria tutto il suo corpo (cfr.
Ef 1,18-23).
Tutti i membri devono a lui conformarsi, fino a che
Cristo non sia in essi formato (cfr. Gal 4,19). Per ciò siamo collegati ai
misteri della sua vita, resi conformi a lui, morti e resuscitati con lui,
finché con lui regneremo (cfr. Fil 3,21; 2 Tm 2,11; Ef 2,6). Ancora
peregrinanti in terra, mentre seguiamo le sue orme nella tribolazione e
nella persecuzione, veniamo associati alle sue sofferenze, come il corpo
al capo e soffriamo con lui per essere con lui glorificati (cfr. Rm 8,17).
Da lui “ tutto il corpo ben fornito e ben compaginato, per mezzo di
giunture e di legamenti, riceve l'aumento voluto da Dio ” (Col 2,19). Nel
suo corpo, che è la Chiesa, egli continuamente dispensa i doni dei
ministeri, con i quali, per virtù sua, ci aiutiamo vicendevolmente a
salvarci e, operando nella carità conforme a verità, andiamo in ogni modo
crescendo verso colui, che è il nostro capo (cfr. Ef 5,11-16 gr.).
Perché poi ci rinnovassimo continuamente in lui
(cfr.
Ef 4,23), ci ha resi partecipi del suo Spirito, il quale, unico e identico
nel capo e nelle membra, dà a tutto il corpo vita, unità e moto, così che
i santi Padri poterono paragonare la sua funzione con quella che il
principio vitale, cioè l'anima, esercita nel corpo umano. Cristo inoltre
ama la Chiesa come sua sposa, facendosi modello del marito che ama la
moglie come il proprio corpo (cfr. Ef 5,25-28); la Chiesa poi è soggetta
al suo capo. E poiché “in lui abita congiunta all'umanità la pienezza
della divinità ” (Col 2,9), egli riempie dei suoi doni la Chiesa la quale
è il suo corpo e la sua pienezza (cfr. Ef 1,22-23), affinché essa sia
protesa e pervenga alla pienezza totale di Dio (cfr. Ef 3,19).
La Chiesa, realtà visibile e
spirituale
8. Cristo, unico mediatore, ha costituito sulla terra e
incessantemente sostenta la sua Chiesa santa, comunità di fede, di
speranza e di carità, quale organismo visibile, attraverso il quale
diffonde per tutti la verità e la grazia. Ma la società costituita di
organi gerarchici e il corpo mistico di Cristo, l'assemblea visibile e la
comunità spirituale, la Chiesa terrestre e la Chiesa arricchita di beni
celesti, non si devono considerare come due cose diverse; esse formano
piuttosto una sola complessa realtà risultante di un duplice elemento,
umano e divino. Per una analogia che non è senza valore, quindi, è
paragonata al mistero del Verbo incarnato. Infatti, come la natura assunta
serve al Verbo divino da vivo organo di salvezza, a lui indissolubilmente
unito, così in modo non dissimile l'organismo sociale della Chiesa serve
allo Spirito di Cristo che la vivifica, per la crescita del corpo (cfr. Ef
4,16).
Questa è l'unica Chiesa di Cristo, che nel Simbolo
professiamo una, santa, cattolica e apostolica e che il Salvatore nostro,
dopo la sua resurrezione, diede da pascere a Pietro (cfr. Gv 21,17),
affidandone a lui e agli altri apostoli la diffusione e la guida (cfr. Mt
28,18ss), e costituì per sempre colonna e sostegno della verità (cfr. 1 Tm
3,15). Questa Chiesa, in questo mondo costituita e organizzata come
società, sussiste nella Chiesa cattolica, governata dal successore di
Pietro e dai vescovi in comunione con lui, ancorché al di fuori del suo
organismo si trovino parecchi elementi di santificazione e di verità, che,
appartenendo propriamente per dono di Dio alla Chiesa di Cristo, spingono
verso l'unità cattolica. Come Cristo ha compiuto la redenzione attraverso
la povertà e le persecuzioni, così pure la Chiesa e chiamata a prendere la
stessa via per comunicare agli uomini i frutti della salvezza. Gesù Cristo
“ che era di condizione divina... spogliò se stesso, prendendo la
condizione di schiavo ” (Fil 2,6-7) e per noi “ da ricco che era si fece
povero ” (2 Cor 8,9): così anche la Chiesa, quantunque per compiere la sua
missione abbia bisogno di mezzi umani, non è costituita per cercare la
gloria terrena, bensì per diffondere, anche col suo esempio, l'umiltà e
l'abnegazione. Come Cristo infatti è stato inviato dal Padre “ ad
annunciare la buona novella ai poveri, a guarire quei che hanno il cuore
contrito ” (Lc 4,18), “ a cercare e salvare ciò che era perduto” (Lc
19,10), così pure la Chiesa circonda d'affettuosa cura quanti sono
afflitti dalla umana debolezza, anzi riconosce nei poveri e nei sofferenti
l'immagine del suo fondatore, povero e sofferente, si fa premura di
sollevarne la indigenza e in loro cerca di servire il Cristo. Ma mentre
Cristo, “ santo, innocente, immacolato ” (Eb 7,26), non conobbe il peccato
(cfr. 2 Cor 5,21) e venne solo allo scopo di espiare i peccati del popolo
(cfr. Eb 2,17), la Chiesa, che comprende nel suo seno peccatori ed è
perciò santa e insieme sempre bisognosa di purificazione, avanza
continuamente per il cammino della penitenza e del rinnovamento. La Chiesa
“ prosegue il suo pellegrinaggio fra le persecuzioni del mondo e le
consolazioni di Dio ”, annunziando la passione e la morte del Signore fino
a che egli venga (cfr. 1 Cor 11,26). Dalla virtù del Signore risuscitato
trae la forza per vincere con pazienza e amore le afflizioni e le
difficoltà, che le vengono sia dal di dentro che dal di fuori, e per
svelare in mezzo al mondo, con fedeltà, anche se non perfettamente, il
mistero di lui, fino a che alla fine dei tempi esso sarà manifestato nella
pienezza della luce.
CAPITOLO II
IL POPOLO DI DIO
Nuova alleanza e nuovo
popolo
9. In ogni tempo e in ogni nazione è accetto a Dio
chiunque lo teme e opera la giustizia (cfr. At 10,35). Tuttavia Dio volle
santificare e salvare gli uomini non individualmente e senza alcun legame
tra loro, ma volle costituire di loro un popolo, che lo riconoscesse
secondo la verità e lo servisse nella santità.
Scelse quindi per sé il popolo israelita, stabilì con
lui un'alleanza e lo formò lentamente, manifestando nella sua storia se
stesso e i suoi disegni e santificandolo per sé. Tutto questo però avvenne
in preparazione e figura di quella nuova e perfetta alleanza da farsi in
Cristo, e di quella più piena rivelazione che doveva essere attuata per
mezzo del Verbo stesso di Dio fattosi uomo. “ Ecco venir giorni (parola
del Signore) nei quali io stringerò con Israele e con Giuda un patto
nuovo... Porrò la mia legge nei loro cuori e nelle loro menti l'imprimerò;
essi mi avranno per Dio ed io li avrò per il mio popolo... Tutti essi,
piccoli e grandi, mi riconosceranno, dice il Signore ” (Ger 31,31-34).
Cristo istituì questo nuovo patto cioè la nuova alleanza nel suo sangue
(cfr. 1 Cor 11,25), chiamando la folla dai Giudei e dalle nazioni, perché
si fondesse in unità non secondo la carne, ma nello Spirito, e costituisse
il nuovo popolo di Dio. Infatti i credenti in Cristo, essendo stati
rigenerati non di seme corruttibile, ma di uno incorruttibile, che è la
parola del Dio vivo (cfr. 1 Pt 1,23), non dalla carne ma dall'acqua e
dallo Spirito Santo (cfr. Gv 3,5-6), costituiscono “ una stirpe eletta, un
sacerdozio regale, una nazione santa, un popolo tratto in salvo... Quello
che un tempo non era neppure popolo, ora invece è popolo di Dio ” (1 Pt
2,9-10).
Questo popolo messianico ha per capo Cristo “ dato a
morte per i nostri peccati e risuscitato per la nostra giustificazione ”
(Rm 4,25), e che ora, dopo essersi acquistato un nome che è al di sopra di
ogni altro nome, regna glorioso in cielo. Ha per condizione la dignità e
la libertà dei figli di Dio, nel cuore dei quali dimora lo Spirito Santo
come in un tempio. Ha per legge il nuovo precetto di amare come lo stesso
Cristo ci ha amati (cfr. Gv 13,34). E finalmente, ha per fine il regno di
Dio, incominciato in terra dallo stesso Dio, e che deve essere
ulteriormente dilatato, finché alla fine dei secoli sia da lui portato a
compimento, quando comparirà Cristo, vita nostra (cfr. Col 3,4) e “ anche
le stesse creature saranno liberate dalla schiavitù della corruzione per
partecipare alla gloriosa libertà dei figli di Dio ” (Rm 8,21). Perciò il
popolo messianico, pur non comprendendo effettivamente l'universalità
degli uomini e apparendo talora come un piccolo gregge, costituisce
tuttavia per tutta l'umanità il germe più forte di unità, di speranza e di
salvezza. Costituito da Cristo per una comunione di vita, di carità e di
verità, è pure da lui assunto ad essere strumento della redenzione di
tutti e, quale luce del mondo e sale della terra (cfr. Mt 5,13-16), è
inviato a tutto il mondo.
Come già l'Israele secondo la carne peregrinante nel
deserto viene chiamato Chiesa di Dio (Dt 23,1 ss.), così il nuovo Israele
dell'era presente, che cammina alla ricerca della città futura e
permanente (cfr. Eb 13,14), si chiama pure Chiesa di Cristo (cfr. Mt
16,18); è il Cristo infatti che l'ha acquistata col suo sangue (cfr. At
20,28), riempita del suo Spirito e fornita di mezzi adatti per l'unione
visibile e sociale. Dio ha convocato tutti coloro che guardano con fede a
Gesù, autore della salvezza e principio di unità e di pace, e ne ha
costituito la Chiesa, perché sia agli occhi di tutti e di ciascuno, il
sacramento visibile di questa unità salvifica. Dovendosi essa estendere a
tutta la terra, entra nella storia degli uomini, benché allo stesso tempo
trascenda i tempi e i confini dei popoli, e nel suo cammino attraverso le
tentazioni e le tribolazioni è sostenuta dalla forza della grazia di Dio
che le è stata promessa dal Signore, affinché per la umana debolezza non
venga meno alla perfetta fedeltà ma permanga degna sposa del suo Signore,
e non cessi, con l'aiuto dello Spirito Santo, di rinnovare se stessa,
finché attraverso la croce giunga alla luce che non conosce tramonto.
Il sacerdozio comune dei
fedeli
10. Cristo Signore, pontefice assunto di mezzo agli
uomini (cfr. Eb 5,1-5), fece del nuovo popolo “ un regno e sacerdoti per
il Dio e il Padre suo ” (Ap 1,6; cfr. 5,9-10). Infatti per la
rigenerazione e l'unzione dello Spirito Santo i battezzati vengono
consacrati per formare un tempio spirituale e un sacerdozio santo, per
offrire, mediante tutte le attività del cristiano, spirituali sacrifici, e
far conoscere i prodigi di colui, che dalle tenebre li chiamò
all'ammirabile sua luce (cfr. 1 Pt 2,4-10). Tutti quindi i discepoli di
Cristo, perseverando nella preghiera e lodando insieme Dio (cfr. At
2,42-47), offrano se stessi come vittima viva, santa, gradevole a Dio (cfr. Rm 12,1), rendano dovunque testimonianza di Cristo e, a chi la
richieda, rendano ragione della speranza che è in essi di una vita eterna
(cfr. 1 Pt 3,15) Il sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio
ministeriale o gerarchico, quantunque differiscano essenzialmente e non
solo di grado, sono tuttavia ordinati l'uno all'altro, poiché l'uno e
l'altro, ognuno a suo proprio modo, partecipano dell'unico sacerdozio di
Cristo. Il sacerdote ministeriale, con la potestà sacra di cui è
investito, forma e regge il popolo sacerdotale, compie il sacrificio
eucaristico nel ruolo di Cristo e lo offre a Dio a nome di tutto il
popolo; i fedeli, in virtù del loro regale sacerdozio, concorrono
all'offerta dell'eucaristia, ed esercitano il loro sacerdozio col ricevere
i sacramenti, con la preghiera e il ringraziamento, con la testimonianza
di una vita santa, con l'abnegazione e la carità operosa.
Il sacerdozio comune esercitato nei
sacramenti
11. Il carattere sacro e organico della comunità
sacerdotale viene attuato per mezzo dei sacramenti e delle virtù. I
fedeli, incorporati nella Chiesa col battesimo, sono destinati al culto
della religione cristiana dal carattere sacramentale; rigenerati quali
figli di Dio, sono tenuti a professare pubblicamente la fede ricevuta da
Dio mediante la Chiesa. Col sacramento della confermazione vengono
vincolati più perfettamente alla Chiesa, sono arricchiti di una speciale
forza dallo Spirito Santo e in questo modo sono più strettamente obbligati
a diffondere e a difendere la fede con la parola e con l'opera, come veri
testimoni di Cristo. Partecipando al sacrificio eucaristico, fonte e apice
di tutta la vita cristiana, offrono a Dio la vittima divina e se stessi
con essa così tutti, sia con l'offerta che con la santa comunione,
compiono la propria parte nell'azione liturgica, non però in maniera
indifferenziata, bensì ciascuno a modo suo. Cibandosi poi del corpo di
Cristo nella santa comunione, mostrano concretamente la unità del popolo
di Dio, che da questo augustissimo sacramento è adeguatamente espressa e
mirabilmente effettuata.
Quelli che si accostano al sacramento della penitenza,
ricevono dalla misericordia di Dio il perdono delle offese fatte a lui;
allo stesso tempo si riconciliano con la Chiesa, alla quale hanno inflitto
una ferita col peccato e che coopera alla loro conversione con la carità,
l'esempio e la preghiera. Con la sacra unzione degli infermi e la
preghiera dei sacerdoti, tutta la Chiesa raccomanda gli ammalati al
Signore sofferente e glorificato, perché alleggerisca le loro pene e li
salvi (cfr. Gc 5,14-16), anzi li esorta a unirsi spontaneamente alla
passione e morte di Cristo (cfr. Rm 8,17; Col 1,24), per contribuire così
al bene del popolo di Dio. Inoltre, quelli tra i fedeli che vengono
insigniti dell'ordine sacro sono posti in nome di Cristo a pascere la
Chiesa colla parola e la grazia di Dio. E infine i coniugi cristiani, in
virtù del sacramento del matrimonio, col quale significano e partecipano
il mistero di unità e di fecondo amore che intercorre tra Cristo e la
Chiesa (cfr. Ef 5,32), si aiutano a vicenda per raggiungere la santità
nella vita coniugale; accettando ed educando la prole essi hanno così, nel
loro stato di vita e nella loro funzione, il proprio dono in mezzo al
popolo di Dio (cfr. 1 Cor 7,7). Da questa missione, infatti, procede la
famiglia, nella quale nascono i nuovi cittadini della società umana, i
quali per la grazia dello Spirito Santo diventano col battesimo figli di
Dio e perpetuano attraverso i secoli il suo popolo. In questa che si
potrebbe chiamare Chiesa domestica, i genitori devono essere per i loro
figli i primi maestri della fede e secondare la vocazione propria di
ognuno, quella sacra in modo speciale.
Muniti di salutari mezzi di una tale abbondanza e d'una
tale grandezza, tutti i fedeli d'ogni stato e condizione sono chiamati dal
Signore, ognuno per la sua via, a una santità, la cui perfezione è quella
stessa del Padre celeste.
Il senso della fede e i carismi nel
popolo di Dio
12. Il popolo santo di Dio partecipa pure dell'ufficio
profetico di Cristo col diffondere dovunque la viva testimonianza di lui,
soprattutto per mezzo di una vita di fede e di carità, e coll'offrire a
Dio un sacrificio di lode, cioè frutto di labbra acclamanti al nome suo (cfr. Eb 13,15). La totalità dei fedeli, avendo l'unzione che viene dal
Santo, (cfr. 1 Gv 2,20 e 27), non può sbagliarsi nel credere, e manifesta
questa sua proprietà mediante il senso soprannaturale della fede di tutto
il popolo, quando “ dai vescovi fino agli ultimi fedeli laici ” mostra
l'universale suo consenso in cose di fede e di morale. E invero, per quel
senso della fede, che è suscitato e sorretto dallo Spirito di verità, e
sotto la guida del sacro magistero, il quale permette, se gli si obbedisce
fedelmente, di ricevere non più una parola umana, ma veramente la parola
di Dio (cfr. 1 Ts 2,13), il popolo di Dio aderisce indefettibilmente alla
fede trasmessa ai santi una volta per tutte (cfr. Gdc 3), con retto
giudizio penetra in essa più a fondo e più pienamente l'applica nella
vita.
Inoltre lo Spirito Santo non si limita a santificare e
a guidare il popolo di Dio per mezzo dei sacramenti e dei ministeri, e ad
adornarlo di virtù, ma “ distribuendo a ciascuno i propri doni come piace
a lui ” (1 Cor 12,11), dispensa pure tra i fedeli di ogni ordine grazie
speciali, con le quali li rende adatti e pronti ad assumersi vari
incarichi e uffici utili al rinnovamento e alla maggiore espansione della
Chiesa secondo quelle parole: “ A ciascuno la manifestazione dello Spirito
è data perché torni a comune vantaggio ” (1 Cor 12,7). E questi carismi,
dai più straordinari a quelli più semplici e più largamente diffusi,
siccome sono soprattutto adatti alle necessità della Chiesa e destinati a
rispondervi, vanno accolti con gratitudine e consolazione. Non bisogna
però chiedere imprudentemente i doni straordinari, né sperare da essi con
presunzione i frutti del lavoro apostolico. Il giudizio sulla loro
genuinità e sul loro uso ordinato appartiene a coloro che detengono
l'autorità nella Chiesa; ad essi spetta soprattutto di non estinguere lo
Spirito, ma di esaminare tutto e ritenere ciò che è buono (cfr. 1 Ts 5,12
e 19-21).
L'unico popolo di Dio è
universale
13. Tutti gli uomini sono chiamati a formare il popolo
di Dio. Perciò questo popolo, pur restando uno e unico, si deve estendere
a tutto il mondo e a tutti i secoli, affinché si adempia l'intenzione
della volontà di Dio, il quale in principio creò la natura umana una e
volle infine radunare insieme i suoi figli dispersi (cfr. Gv 11,52). A
questo scopo Dio mandò il Figlio suo, al quale conferì il dominio di tutte
le cose (cfr. Eb 1,2), perché fosse maestro, re e sacerdote di tutti, capo
del nuovo e universale popolo dei figli di Dio. Per questo infine Dio
mandò lo Spirito del Figlio suo, Signore e vivificatore, il quale per
tutta la Chiesa e per tutti e singoli i credenti è principio di
associazione e di unità, nell'insegnamento degli apostoli e nella
comunione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere (cfr. At
2,42).
In tutte quindi le nazioni della terra è radicato un
solo popolo di Dio, poiché di mezzo a tutte le stirpi egli prende i
cittadini del suo regno non terreno ma celeste. E infatti tutti i fedeli
sparsi per il mondo sono in comunione con gli altri nello Spirito Santo, e
così “ chi sta in Roma sa che gli Indi sono sue membra ”. Siccome dunque
il regno di Cristo non è di questo mondo (cfr. Gv 18,36), la Chiesa, cioè
il popolo di Dio, introducendo questo regno nulla sottrae al bene
temporale di qualsiasi popolo, ma al contrario favorisce e accoglie tutte
le ricchezze, le risorse e le forme di vita dei popoli in ciò che esse
hanno di buono e accogliendole le purifica, le consolida ed eleva. Essa si
ricorda infatti di dover far opera di raccolta con quel Re, al quale sono
state date in eredità le genti (cfr. Sal 2,8), e nella cui città queste
portano i loro doni e offerte (cfr. Sal 71 (72),10; Is 60,4-7). Questo
carattere di universalità, che adorna e distingue il popolo di Dio è dono
dello stesso Signore, e con esso la Chiesa cattolica efficacemente e senza
soste tende a ricapitolare tutta l'umanità, con tutti i suoi beni, in
Cristo capo, nell'unità dello Spirito di lui.
In virtù di questa cattolicità, le singole parti
portano i propri doni alle altre parti e a tutta la Chiesa, in modo che il
tutto e le singole parti si accrescono per uno scambio mutuo universale e
per uno sforzo comune verso la pienezza nell'unità. Ne consegue che il
popolo di Dio non solo si raccoglie da diversi popoli, ma nel suo stesso
interno si compone di funzioni diverse. Poiché fra i suoi membri c'è
diversità sia per ufficio, essendo alcuni impegnati nel sacro ministero
per il bene dei loro fratelli, sia per la condizione e modo di vita, dato
che molti nello stato religioso, tendendo alla santità per una via più
stretta, sono un esempio stimolante per i loro fratelli. Così pure
esistono legittimamente in seno alla comunione della Chiesa, le Chiese
particolari, con proprie tradizioni, rimanendo però integro il primato
della cattedra di Pietro, la quale presiede alla comunione universale di
carità, tutela le varietà legittime e insieme veglia affinché ciò che è
particolare, non solo non pregiudichi l'unità, ma piuttosto la serva. E
infine ne derivano, tra le diverse parti della Chiesa, vincoli di intima
comunione circa i tesori spirituali, gli operai apostolici e le risorse
materiali. I membri del popolo di Dio sono chiamati infatti a condividere
i beni e anche alle singole Chiese si applicano le parole dell'Apostolo: “
Da bravi amministratori della multiforme grazia di Dio, ognuno di voi
metta a servizio degli altri il dono che ha ricevuto” (1 Pt 4,10).
Tutti gli uomini sono quindi chiamati a questa
cattolica unità del popolo di Dio, che prefigura e promuove la pace
universale; a questa unità in vario modo appartengono o sono ordinati sia
i fedeli cattolici, sia gli altri credenti in Cristo, sia infine tutti gli
uomini senza eccezione, che la grazia di Dio chiama alla salvezza.
I fedeli cattolici
14. Il santo Concilio si rivolge quindi prima di tutto
ai fedeli cattolici. Esso, basandosi sulla sacra Scrittura e sulla
tradizione, insegna che questa Chiesa peregrinante è necessaria alla
salvezza. Solo il Cristo, infatti, presente in mezzo a noi nel suo corpo
che è la Chiesa, è il mediatore e la via della salvezza; ora egli stesso,
inculcando espressamente la necessità della fede e del battesimo (cfr. Gv
3,5), ha nello stesso tempo confermato la necessità della Chiesa, nella
quale gli uomini entrano per il battesimo come per una porta. Perciò non
possono salvarsi quegli uomini, i quali, pur non ignorando che la Chiesa
cattolica è stata fondata da Dio per mezzo di Gesù Cristo come necessaria,
non vorranno entrare in essa o in essa perseverare. Sono pienamente
incorporati nella società della Chiesa quelli che, avendo lo Spirito di
Cristo, accettano integralmente la sua organizzazione e tutti i mezzi di
salvezza in essa istituiti, e che inoltre, grazie ai legami costituiti
dalla professione di fede, dai sacramenti, dal governo ecclesiastico e
dalla comunione, sono uniti, nell'assemblea visibile della Chiesa, con il
Cristo che la dirige mediante il sommo Pontefice e i vescovi. Non si
salva, però, anche se incorporato alla Chiesa, colui che, non perseverando
nella carità, rimane sì in seno alla Chiesa col “corpo”, ma non col
“cuore”. Si ricordino bene tutti i figli della Chiesa che la loro
privilegiata condizione non va ascritta ai loro meriti, ma ad una speciale
grazia di Cristo; per cui, se non vi corrispondono col pensiero, con le
parole e con le opere, non solo non si salveranno, ma anzi saranno più
severamente giudicati.
I catecumeni che per impulso dello Spirito Santo
desiderano ed espressamente vogliono essere incorporati alla Chiesa,
vengono ad essa congiunti da questo stesso desiderio, e la madre Chiesa li
avvolge come già suoi con il proprio amore e con le proprie cure.
I cristiani non cattolici e la
Chiesa
15. La Chiesa sa di essere per più ragioni congiunta
con coloro che, essendo battezzati, sono insigniti del nome cristiano, ma
non professano integralmente la fede o non conservano l'unità di comunione
sotto il successore di Pietro. Ci sono infatti molti che hanno in onore la
sacra Scrittura come norma di fede e di vita, manifestano un sincero zelo
religioso, credono amorosamente in Dio Padre onnipotente e in Cristo,
figlio di Dio e salvatore, sono segnati dal battesimo, col quale vengono
congiunti con Cristo, anzi riconoscono e accettano nelle proprie Chiese o
comunità ecclesiali anche altri sacramenti. Molti fra loro hanno anche
l'episcopato, celebrano la sacra eucaristia e coltivano la devozione alla
vergine Madre di Dio. A questo si aggiunge la comunione di preghiere e di
altri benefici spirituali; anzi, una certa vera unione nello Spirito
Santo, poiché anche in loro egli opera con la sua virtù santificante per
mezzo di doni e grazie e ha dato ad alcuni la forza di giungere fino allo
spargimento del sangue. Così lo Spirito suscita in tutti i discepoli di
Cristo desiderio e attività, affinché tutti, nel modo da Cristo stabilito,
pacificamente si uniscano in un solo gregge sotto un solo Pastore. E per
ottenere questo la madre Chiesa non cessa di pregare, sperare e operare,
esortando i figli a purificarsi e rinnovarsi perché l'immagine di Cristo
risplenda più chiara sul volto della Chiesa.
I non cristiani e la
Chiesa
16. Infine, quanto a quelli che non hanno ancora
ricevuto il Vangelo, anch'essi in vari modi sono ordinati al popolo di
Dio. In primo luogo quel popolo al quale furono-dati i testamenti e le
promesse e dal quale Cristo è nato secondo la carne (cfr. Rm 9,4-5),
popolo molto amato in ragione della elezione, a causa dei padri, perché i
doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili (cfr. Rm 11,28-29). Ma il
disegno di salvezza abbraccia anche coloro che riconoscono il Creatore, e
tra questi in particolare i musulmani, i quali, professando di avere la
fede di Abramo, adorano con noi un Dio unico, misericordioso che
giudicherà gli uomini nel giorno finale. Dio non e neppure lontano dagli
altri che cercano il Dio ignoto nelle ombre e sotto le immagini, poiché
egli dà a tutti la vita e il respiro e ogni cosa (cfr At 1,7,25-26), e
come Salvatore vuole che tutti gli uomini si salvino (cfr. 1 Tm 2,4).
Infatti, quelli che senza colpa ignorano il Vangelo di Cristo e la sua
Chiesa ma che tuttavia cercano sinceramente Dio e coll'aiuto della grazia
si sforzano di compiere con le opere la volontà di lui, conosciuta
attraverso il dettame della coscienza, possono conseguire la salvezza
eterna. Né la divina Provvidenza nega gli aiuti necessari alla salvezza a
coloro che non sono ancora arrivati alla chiara cognizione e
riconoscimento di Dio, ma si sforzano, non senza la grazia divina, di
condurre una vita retta. Poiché tutto ciò che di buono e di vero si trova
in loro è ritenuto dalla Chiesa come una preparazione ad accogliere il
Vangelo e come dato da colui che illumina ogni uomo, affinché abbia
finalmente la vita. Ma molto spesso gli uomini, ingannati dal maligno,
hanno errato nei loro ragionamenti e hanno scambiato la verità divina con
la menzogna, servendo la creatura piuttosto che il Creatore (cfr. Rm 1,21
e 25), oppure, vivendo e morendo senza Dio in questo mondo, sono esposti
alla disperazione finale. Perciò la Chiesa per promuovere la gloria di Dio
e la salute di tutti costoro, memore del comando del Signore che dice: “
Predicate il Vangelo ad ogni creatura” (Mc 16,15), mette ogni cura
nell'incoraggiare e sostenere le missioni.
Carattere missionario della
Chiesa
17. Come infatti il Figlio è stato mandato dal Padre,
così ha mandato egli stesso gli apostoli (cfr. Gv 20,21) dicendo: “Andate
dunque e ammaestrate tutte le genti, battezzandole nel nome del Padre e
del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto
quanto vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, sino alla
fine del mondo ” (Mt 28,18-20). E questo solenne comando di Cristo di
annunziare la verità salvifica, la Chiesa l'ha ricevuto dagli apostoli per
proseguirne l'adempimento sino all'ultimo confine della terra (cfr. At
1,8). Essa fa quindi sue le parole dell'apostolo: “ Guai... a me se non
predicassi! ” (l Cor 9,16) e continua a mandare araldi del Vangelo, fino a
che le nuove Chiese siano pienamente costituite e continuino a loro volta
l'opera di evangelizzazione. È spinta infatti dallo Spirito Santo a
cooperare perché sia compiuto il piano di Dio, il quale ha costituito
Cristo principio della salvezza per il mondo intero. Predicando il
Vangelo, la Chiesa dispone coloro che l'ascoltano a credere e a professare
la fede, li dispone al battesimo, li toglie dalla schiavitù dell'errore e
li incorpora a Cristo per crescere in lui mediante la carità finché sia
raggiunta la pienezza. Procura poi che quanto di buono si trova seminato
nel cuore e nella mente degli uomini o nei riti e culture proprie dei
popoli, non solo non vada perduto, ma sia purificato, elevato e
perfezionato a gloria di Dio, confusione del demonio e felicità dell'uomo.
Ad ogni discepolo di Cristo incombe il dovere di disseminare, per quanto
gli è possibile, la fede. Ma se ognuno può conferire il battesimo ai
credenti, è tuttavia ufficio del sacerdote di completare l'edificazione
del corpo col sacrificio eucaristico, adempiendo le parole dette da Dio
per mezzo del profeta: “ Da dove sorge il sole fin dove tramonta, grande è
il mio Nome tra le genti e in ogni luogo si offre al mio Nome un
sacrificio e un'offerta pura ”. Così la Chiesa unisce preghiera e lavoro,
affinché il mondo intero in tutto il suo essere sia trasformato in popolo
di Dio, corpo mistico di Cristo e tempio dello Spirito Santo, e in Cristo,
centro di tutte le cose, sia reso ogni onore e gloria al Creatore e Padre
dell'universo.
CAPITOLO III
COSTITUZIONE GERARCHICA DELLA
CHIESA E IN PARTICOLARE DELL'EPISCOPATO
Proemio
18. Cristo Signore, per pascere e sempre più accrescere
il popolo di Dio, ha stabilito nella sua Chiesa vari ministeri, che
tendono al bene di tutto il corpo. I ministri infatti che sono rivestiti
di sacra potestà, servono i loro fratelli, perché tutti coloro che
appartengono al popolo di Dio, e perciò hanno una vera dignità cristiana,
tendano liberamente e ordinatamente allo stesso fine e arrivino alla
salvezza. Questo santo Sinodo, sull'esempio del Concilio Vaticano primo,
insegna e dichiara che Gesù Cristo, pastore eterno, ha edificato la santa
Chiesa e ha mandato gli apostoli, come egli stesso era stato mandato dal
Padre (cfr. Gv 20,21), e ha voluto che i loro successori, cioè i vescovi,
fossero nella sua Chiesa pastori fino alla fine dei secoli. Affinché poi
lo stesso episcopato fosse uno e indiviso, prepose agli altri apostoli il
beato Pietro e in lui stabilì il principio e il fondamento perpetuo e
visibile dell'unità di fede e di comunione. Questa dottrina della
istituzione, della perpetuità, del valore e della natura del sacro primato
del romano Pontefice e del suo infallibile magistero, il santo Concilio la
propone di nuovo a tutti i fedeli come oggetto certo di fede. Di più
proseguendo nel disegno incominciato, ha stabilito di enunciare ed
esplicitare la dottrina sui vescovi, successori degli apostoli, i quali
col successore di Pietro, vicario di Cristo e capo visibile di tutta la
Chiesa, reggono la casa del Dio vivente.
L'istituzione dei dodici
19. Il Signore Gesù, dopo aver pregato il Padre, chiamò
a sé quelli che egli volle, e ne costituì dodici perché stessero con lui e
per mandarli a predicare il regno di Dio (cfr. Mc 3,13-19; Mt 10,1-42); ne
fece i suoi apostoli (cfr. Lc 6,13) dando loro la forma di collegio, cioè
di un gruppo stabile, del quale mise a capo Pietro, scelto di mezzo a loro
(cfr. Gv 21 15-17). Li mandò prima ai figli d'Israele e poi a tutte le
genti (cfr. Rm 1,16) affinché, partecipi del suo potere, rendessero tutti
i popoli suoi discepoli, li santificassero e governassero (cfr. Mt
28,16-20; Mc 16,15; Lc 24,45-48), diffondendo così la Chiesa e, sotto la
guida del Signore, ne fossero i ministri e i pastori, tutti i giorni sino
alla fine del mondo (cfr. Mt 28,20). In questa missione furono pienamente
confermati il giorno di Pentecoste (cfr. At 2,1-36) secondo la promessa
del Signore: “ Riceverete una forza, quella dello Spirito Santo che
discenderà su di voi, e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la
Giudea e la Samaria, e sino alle estremità della terra ” (At 1,8). Gli
apostoli, quindi, predicando dovunque il Vangelo (cfr. Mc 16,20), accolto
dagli uditori grazie all'azione dello Spirito Santo, radunano la Chiesa
universale che il Signore ha fondato su di essi e edificato sul beato
Pietro, loro capo, con Gesù Cristo stesso come pietra maestra angolare
(cfr. Ap 21,14; Mt 16,18; Ef 2,20).
I vescovi, successori degli
apostoli
20. La missione divina affidata da Cristo agli apostoli
durerà fino alla fine dei secoli (cfr. Mt 28,20), poiché il Vangelo che
essi devono predicare è per la Chiesa il principio di tutta la sua vita in
ogni tempo. Per questo gli apostoli, in questa società gerarchicamente
ordinata, ebbero cura di istituire dei successori.
Infatti, non solo ebbero vari collaboratori nel
ministero ma perché la missione loro affidata venisse continuata dopo la
loro morte, affidarono, quasi per testamento, ai loro immediati
cooperatori l'ufficio di completare e consolidare l'opera da essi
incominciata raccomandando loro di attendere a tutto il gregge nel quale
lo Spirito Santo li aveva posti a pascere la Chiesa di Dio (cfr. At
20,28). Perciò si scelsero di questi uomini e in seguito diedero
disposizione che dopo la loro morte altri uomini subentrassero al loro
posto Fra i vari ministeri che fin dai primi tempi si esercitano nella
Chiesa, secondo la testimonianza della tradizione, tiene il primo posto
l'ufficio di quelli che costituiti nell'episcopato, per successione che
decorre ininterrotta fin dalle origini sono i sacramenti attraverso i
quali si trasmette il seme apostolico. Così, come attesta S. Ireneo, per
mezzo di coloro che gli apostoli costituirono vescovi e dei loro
successori fino a noi, la tradizione apostolica in tutto il mondo è
manifestata e custodita .
I vescovi dunque hanno ricevuto il ministero della
comunità per esercitarlo con i loro collaboratori, sacerdoti e diaconi.
Presiedono in luogo di Dio al gregge di cui sono pastori quali maestri di
dottrina, sacerdoti del sacro culto, ministri del governo della Chiesa.
Come quindi è permanente l'ufficio dal Signore concesso singolarmente a
Pietro, il primo degli apostoli, e da trasmettersi ai suoi successori,
cosi è permanente l'ufficio degli apostoli di pascere la Chiesa, da
esercitarsi in perpetuo dal sacro ordine dei vescovi. Perciò il sacro
Concilio insegna che i vescovi per divina istituzione sono succeduti al
posto degli apostoli quali pastori della Chiesa, e che chi li ascolta,
ascolta Cristo, chi li disprezza, disprezza Cristo e colui che ha mandato
Cristo (cfr. Lc 10,16).
Sacramentalità
dell'episcopato
21. Nella persona quindi dei vescovi, assistiti dai
sacerdoti, è presente in mezzo ai credenti il Signore Gesù Cristo,
pontefice sommo. Pur sedendo infatti alla destra di Dio Padre, egli non
cessa di essere presente alla comunità dei suoi pontefici in primo luogo,
per mezzo dell'eccelso loro ministero, predica la parola di Dio a tutte le
genti e continuamente amministra ai credenti i sacramenti della fede; per
mezzo del loro ufficio paterno (cfr. 1 Cor 4,15) integra nuove membra al
suo corpo con la rigenerazione soprannaturale; e infine, con la loro
sapienza e prudenza, dirige e ordina il popolo del Nuovo Testamento nella
sua peregrinazione verso l'eterna beatitudine. Questi pastori, scelti a
pascere il gregge del Signore, sono ministri di Cristo e dispensatori dei
misteri di Dio (cfr. 1 Cor 4,1). Ad essi è stata affidata la testimonianza
al Vangelo della grazia di Dio (cfr. Rm 15,16; At 20,24) e il glorioso
ministero dello Spirito e della giustizia (cfr. 2 Cor 3,8-9).
Per compiere cosi grandi uffici, gli apostoli sono
stati arricchiti da Cristo con una effusione speciale dello Spirito Santo
disceso su loro (cfr. At 1,8; 2,4; Gv 20,22-23), ed essi stessi con la
imposizione delle mani diedero questo dono spirituale ai loro
collaboratori (cfr. 1 Tm 4,14; 2 Tm 1,6-7), dono che è stato trasmesso
fino a noi nella consacrazione episcopale. Il santo Concilio insegna
quindi che con la consacrazione episcopale viene conferita la pienezza del
sacramento dell'ordine, quella cioè che dalla consuetudine liturgica della
Chiesa e dalla voce dei santi Padri viene chiamata sommo sacerdozio,
realtà totale del sacro ministero. La consacrazione episcopale conferisce
pure, con l'ufficio di santificare, gli uffici di insegnare e governare;
questi però, per loro natura, non possono essere esercitati se non nella
comunione gerarchica col capo e con le membra del collegio. Dalla
tradizione infatti, quale risulta specialmente dai riti liturgici e
dall'uso della Chiesa sia d'Oriente che d'Occidente, consta chiaramente
che dall'imposizione delle mani e dalle parole della consacrazione è
conferita la grazia dello Spirito Santo ed è impresso il sacro carattere
in maniera tale che i vescovi, in modo eminente e visibile, tengono il
posto dello stesso Cristo maestro, pastore e pontefice, e agiscono in sua
vece. È proprio dei vescovi assumere col sacramento dell'ordine nuovi
eletti nel corpo episcopale.
Il collegio dei vescovi e il suo
capo
22. Come san Pietro e gli altri apostoli costituiscono,
per volontà del Signore, un unico collegio apostolico, similmente il
romano Pontefice, successore di Pietro, e i vescovi, successori degli
apostoli, sono uniti tra loro. Già l'antichissima disciplina, in virtù
della quale i vescovi di tutto il mondo vivevano in comunione tra loro e
col vescovo di Roma nel vincolo dell'unità, della carità e della pace e
parimenti la convocazione dei Concili per decidere in comune di tutte le
questioni più importanti mediante una decisione che l'opinione
dell'insieme permetteva di equilibrare significano il carattere e la
natura collegiale dell'ordine episcopale, che risulta manifestamente
confermata dal fatto dei Concili ecumenici tenuti lungo i secoli. La
stessa è pure suggerita dall'antico uso di convocare più vescovi per
partecipare all elevazione del nuovo eletto al ministero del sommo
sacerdozio. Uno è costituito membro del corpo episcopale in virtù della
consacrazione sacramentale e mediante la comunione gerarchica col capo del
collegio e con le sue membra.
Il collegio o corpo episcopale non ha però autorità, se
non lo si concepisce unito al Pontefice romano, successore di Pietro,
quale suo capo, e senza pregiudizio per la sua potestà di primato su
tutti, sia pastori che fedeli. Infatti il romano Pontefice, in forza tutta
la Chiesa, ha su questa una potestà piena, suprema e universale, che può
sempre esercitare liberamente. D'altra parte, l'ordine dei vescovi, il
quale succede al collegio degli apostoli nel magistero e nel governo
pastorale, anzi, nel quale si perpetua il corpo apostolico, è anch'esso
insieme col suo capo il romano Pontefice, e mai senza questo capo, il
soggetto di una suprema e piena potestà su tutta la Chiesa sebbene tale
potestà non possa essere esercitata se non col consenso del romano
Pontefice. Il Signore ha posto solo Simone come pietra e clavigero della
Chiesa (cfr. Mt 16,18-19), e lo ha costituito pastore di tutto il suo
gregge (cfr. Gv 21,15 ss); ma l'ufficio di legare e di sciogliere, che è
stato dato a Pietro (cfr. Mt 16,19), è noto essere stato pure concesso al
collegio degli apostoli, congiunto col suo capo (cfr. Mt 18,18; 28,16-20).
Questo collegio, in quanto composto da molti, esprime la varietà e
l'universalità del popolo di Dio; in quanto poi è raccolto sotto un solo
capo, significa l'unità del gregge di Cristo. In esso i vescovi,
rispettando fedelmente il primato e la preminenza del loro capo,
esercitano la propria potestà per il bene dei loro fedeli, anzi di tutta
la Chiesa, mente lo Spirito Santo costantemente consolida la sua struttura
organica e la sua concordia. La suprema potestà che questo collegio
possiede su tutta la Chiesa, è esercitata in modo solenne nel Concilio
ecumenico. Mai può esserci Concilio ecumenico, che come tale non sia
confermato o almeno accettato dal successore di Pietro; ed è prerogativa
del romano Pontefice convocare questi Concili, presiederli e confermarli.
La stessa potestà collegiale insieme col papa può essere esercitata dai
vescovi sparsi per il mondo, purché il capo del collegio li chiami ad
agire collegialmente, o almeno approvi o liberamente accetti l'azione
congiunta dei vescovi dispersi, così da risultare un vero atto
collegiale.
Le relazioni all'interno del collegio
episcopale
23. L'unità collegiale appare anche nelle mutue
relazioni dei singoli vescovi con Chiese particolari e con la Chiesa
universale. Il romano Pontefice, quale successore di Pietro, è il perpetuo
e visibile principio e fondamento dell'unità sia dei vescovi sia della
massa dei fedeli. I singoli vescovi, invece, sono il visibile principio e
fondamento di unità nelle loro Chiese particolari queste sono formate ad
immagine della Chiesa universale, ed è in esse e a partire da esse che
esiste la Chiesa cattolica una e unica. Perciò i singoli vescovi
rappresentano la propria Chiesa, e tutti insieme col Papa rappresentano la
Chiesa universale in un vincolo di pace, di amore e di unità. I singoli
vescovi, che sono preposti a Chiese particolari, esercitano il loro
pastorale governo sopra la porzione del popolo di Dio che è stata loro
affidata, non sopra le altre Chiese né sopra la Chiesa universale. Ma in
quanto membri del collegio episcopale e legittimi successori degli
apostoli, per istituzione e precetto di Cristo sono tenuti ad avere per
tutta la Chiesa una sollecitudine che, sebbene non sia esercitata con atti
di giurisdizione, contribuisce sommamente al bene della Chiesa universale.
Tutti i vescovi, infatti, devono promuovere e difendere l'unità della fede
e la disciplina comune all'insieme della Chiesa, formare i fedeli
all'amore per tutto il corpo mistico di Cristo, specialmente delle membra
povere, sofferenti e di quelle che sono perseguitate a causa della
giustizia (cfr. Mt 5,10), e infine promuovere ogni attività comune alla
Chiesa, specialmente nel procurare che la fede cresca e sorga per tutti
gli uomini la luce della piena verità. Del resto è certo che, reggendo
bene la propria Chiesa come una porzione della Chiesa universale,
contribuiscono essi stessi efficacemente al bene di tutto il corpo
mistico, che è pure il corpo delle Chiese.
La cura di annunziare il Vangelo in ogni parte della
terra appartiene al corpo dei pastori, ai quali tutti, in comune, Cristo
diede il mandato, imponendo un comune dovere, come già papa Celestino
ricordava ai Padri del Concilio Efesino. Quindi i singoli vescovi, per
quanto lo permette l'esercizio del particolare loro dovere, sono tenuti a
collaborare tra di loro e col successore di Pietro, al quale in modo
speciale fu affidato l'altissimo ufficio di propagare il nome cristiano.
Con tutte le forze devono fornire alle missioni non solo gli operai della
messe, ma anche aiuti spirituali e materiali, sia da sé direttamente, sia
suscitando la fervida cooperazione dei fedeli. I vescovi, infine, in
universale comunione di carità, offrano volentieri il loro fraterno aiuto
alle altre Chiese, specialmente alle più vicine e più povere, seguendo in
questo il venerando esempio dell'antica Chiesa.
Per divina Provvidenza è avvenuto che varie Chiese, in
vari luoghi stabilite dagli apostoli e dai loro successori, durante i
secoli si sono costituite in vari raggruppamenti, organicamente congiunti,
i quali, salva restando l'unità della fede e l'unica costituzione divina
della Chiesa universale, godono di una propria disciplina, di un proprio
uso liturgico, di un proprio patrimonio teologico e spirituale. Alcune fra
esse, soprattutto le antiche Chiese patriarcali, quasi matrici della fede,
ne hanno generate altre a modo di figlie, colle quali restano fino ai
nostri tempi legate da un più stretto vincolo di carità nella vita
sacramentale e nel mutuo rispetto dei diritti e dei doveri. Questa varietà
di Chiese locali tendenti all'unità dimostra con maggiore evidenza la
cattolicità della Chiesa indivisa. In modo simile le Conferenze episcopali
possono oggi portare un molteplice e fecondo contributo acciocché il senso
di collegialità si realizzi concretamente.
Il ministero episcopale
24. I vescovi, quali successori degli apostoli,
ricevono dal Signore, cui è data ogni potestà in cielo e in terra, la
missione d'insegnare a tutte le genti e di predicare il Vangelo ad ogni
creatura, affinché tutti gli uomini, per mezzo della fede, del battesimo e
dell'osservanza dei comandamenti, ottengano la salvezza (cfr. Mt 28,18-20;
Mc 16,15-16; At 26,17 ss). Per compiere questa missione, Cristo Signore
promise agli apostoli lo Spirito Santo e il giorno di Pentecoste lo mandò
dal cielo, perché con la sua forza essi gli fossero testimoni fino alla
estremità della terra, davanti alle nazioni e ai popoli e ai re (cfr. At
1,8; 2,1 ss; 9,15). L'ufficio poi che il Signore affidò ai pastori del suo
popolo, è un vero servizio, che nella sacra Scrittura è chiamato
significativamente “ diaconia ”, cioè ministero (cfr. At 1,17 e 25; 21,19;
Rm 11,13; 1 Tm 1,12).
La missione canonica dei vescovi può essere data per
mezzo delle legittime consuetudini, non revocate dalla suprema e
universale potestà della Chiesa, o per mezzo delle leggi fatte dalla
stessa autorità o da essa riconosciute, oppure direttamente dallo stesso
successore di Pietro; se questi rifiuta o nega la comunione apostolica, i
vescovi non possono essere assunti all'ufficio.
La funzione d'insegnamento dei
vescovi
25. Tra i principali doveri dei vescovi eccelle la
predicazione del Vangelo. I vescovi, infatti, sono gli araldi della fede
che portano a Cristo nuovi discepoli; sono dottori autentici, cioè
rivestiti dell'autorità di Cristo, che predicano al popolo loro affidato
la fede da credere e da applicare nella pratica della vita, la illustrano
alla luce dello Spirito Santo, traendo fuori dal tesoro della Rivelazione
cose nuove e vecchie (cfr. Mt 13,52), la fanno fruttificare e vegliano per
tenere lontano dal loro gregge gli errori che lo minacciano (cfr. 2 Tm
4,1-4) . I vescovi che insegnano in comunione col romano Pontefice devono
essere da tutti ascoltati con venerazione quali testimoni della divina e
cattolica verità; e i fedeli devono accettare il giudizio dal loro vescovo
dato a nome di Cristo in cose di fede e morale, e dargli l'assenso
religioso del loro spirito. Ma questo assenso religioso della volontà e
della intelligenza lo si deve in modo particolare prestare al magistero
autentico del romano Pontefice, anche quando non parla “ ex cathedra ”.
Ciò implica che il suo supremo magistero sia accettato con riverenza, e
che con sincerità si aderisca alle sue affermazioni in conformità al
pensiero e in conformità alla volontà di lui manifestatasi che si possono
dedurre in particolare dal carattere dei documenti, o dall'insistenza nel
proporre una certa dottrina, o dalla maniera di esprimersi.
Quantunque i vescovi, presi a uno a uno, non godano
della prerogativa dell'infallibilità, quando tuttavia, anche dispersi per
il mondo, ma conservando il vincolo della comunione tra di loro e col
successore di Pietro, si accordano per insegnare autenticamente che una
dottrina concernente la fede e i costumi si impone in maniera assoluta,
allora esprimono infallibilmente la dottrina di Cristo. La cosa è ancora
più manifesta quando, radunati in Concilio ecumenico, sono per tutta la
Chiesa dottori e giudici della fede e della morale; allora bisogna aderire
alle loro definizioni con l'ossequio della fede.
Questa infallibilità, della quale il divino Redentore
volle provveduta la sua Chiesa nel definire la dottrina della fede e della
morale, si estende tanto, quanto il deposito della divina Rivelazione, che
deve essere gelosamente custodito e fedelmente esposto. Di questa
infallibilità il romano Pontefice, capo del collegio dei vescovi, fruisce
in virtù del suo ufficio, quando, quale supremo pastore e dottore di tutti
i fedeli che conferma nella fede i suoi fratelli (cfr. Lc 22,32), sancisce
con atto definitivo una dottrina riguardante la fede e la morale. Perciò
le sue definizioni giustamente sono dette irreformabili per se stesse e
non in virtù del consenso della Chiesa, essendo esse pronunziate con
l'assistenza dello Spirito Santo a lui promessa nella persona di san
Pietro, per cui non hanno bisogno di una approvazione di altri, né
ammettono appello alcuno ad altro giudizio. In effetti allora il romano
Pontefice pronunzia sentenza non come persona privata, ma espone o difende
la dottrina della fede cattolica quale supremo maestro della Chiesa
universale, singolarmente insignito del carisma dell'infallibilità della
Chiesa stessa. L'infallibilità promessa alla Chiesa risiede pure nel corpo
episcopale quando esercita il supremo magistero col successore di Pietro.
A queste definizioni non può mai mancare l'assenso della Chiesa, data
l'azione dello stesso Spirito Santo che conserva e fa progredire
nell'unità della fede tutto il gregge di Cristo.
Quando poi il romano Pontefice o il corpo dei vescovi
con lui esprimono una sentenza, la emettono secondo la stessa Rivelazione,
cui tutti devono attenersi e conformarsi, Rivelazione che è integralmente
trasmessa per scritto o per tradizione dalla legittima successione dei
vescovi e specialmente a cura dello stesso Pontefice romano, e viene nella
Chiesa gelosamente conservata e fedelmente esposta sotto la luce dello
Spirito di verità. Perché poi sia debitamente indagata ed enunziata in
modo adatto, il romano Pontefice e i vescovi nella coscienza del loro
ufficio e della gravità della cosa, prestano la loro vigile opera usando i
mezzi convenienti però non ricevono alcuna nuova rivelazione pubblica come
appartenente al deposito divino della fede.
La funzione di
santificazione
26. Il vescovo, insignito della pienezza del sacramento
dell'ordine, è “ l'economo della grazia del supremo sacerdozio”
specialmente nell'eucaristia, che offre egli stesso o fa offrire e della
quale la Chiesa continuamente vive e cresce. Questa Chiesa di Cristo è
veramente presente nelle legittime comunità locali di fedeli, le quali,
unite ai loro pastori, sono anch'esse chiamate Chiese nel Nuovo
Testamento. Esse infatti sono, ciascuna nel proprio territorio, il popolo
nuovo chiamato da Dio nello Spirito Santo e in una grande fiducia (cfr. 1
Ts 1,5). In esse con la predicazione del Vangelo di Cristo vengono
radunati i fedeli e si celebra il mistero della Cena del Signore, “
affinché per mezzo della carne e del sangue del Signore siano strettamente
uniti tutti i fratelli della comunità”. In ogni comunità che partecipa
all'altare, sotto la sacra presidenza del vescovo viene offerto il simbolo
di quella carità e “ unità del corpo mistico, senza la quale non può
esserci salvezza”. In queste comunità, sebbene spesso piccole e povere e
disperse, è presente Cristo, per virtù del quale si costituisce la Chiesa
una, santa, cattolica e apostolica. Infatti “ la partecipazione del corpo
e del sangue di Cristo altro non fa, se non che ci mutiamo in ciò che
riceviamo ”.
Ogni legittima celebrazione dell'eucaristia è diretta
dal vescovo, al quale è demandato il compito di prestare e regolare il
culto della religione cristiana alla divina Maestà, secondo i precetti del
Signore e le leggi della Chiesa, dal suo particolare giudizio
ulteriormente determinante per la propria diocesi. In questo modo i
vescovi, con la preghiera e il lavoro per il popolo, in varie forme
effondono abbondantemente la pienezza della santità di Cristo. Col
ministero della parola comunicano la forza di Dio per la salvezza dei
credenti (cfr. Rm 1,16), e con i sacramenti, dei quali con la loro
autorità organizzano la regolare e fruttuosa distribuzione santificano i
fedeli. Regolano l'amministrazione del battesimo, col quale è concesso
partecipare al regale sacerdozio di Cristo. Sono i ministri originari
della confermazione, dispensatori degli ordini sacri e moderatori della
disciplina penitenziale, e con sollecitudine esortano e istruiscono le
loro popolazioni, affinché nella liturgia e specialmente nel santo
sacrificio della messa compiano la loro parte con fede e devozione.
Devono, infine, coll'esempio della loro vita aiutare quelli a cui
presiedono, serbando i loro costumi immuni da ogni male, e per quanto
possono, con l'aiuto di Dio mutandoli in bene, onde possano, insieme col
gregge loro affidato, giungere alla vita eterna.
La funzione di governo
27. I vescovi reggono le Chiese particolari a loro
affidate come vicari e legati di Cristo, col consiglio, la persuasione,
l'esempio, ma anche con l'autorità e la sacra potestà, della quale però
non si servono se non per edificare il proprio gregge nella verità e nella
santità, ricordandosi che chi è più grande si deve fare come il più
piccolo, e chi è il capo, come chi serve (cfr. Lc 22,26-27). Questa
potestà, che personalmente esercitano in nome di Cristo, è propria,
ordinaria e immediata, quantunque il suo esercizio sia in ultima istanza
sottoposto alla suprema autorità della Chiesa e, entro certi limiti, in
vista dell'utilità della Chiesa o dei fedeli, possa essere ristretto. In
virtù di questa potestà i vescovi hanno il sacro diritto e davanti al
Signore il dovere di dare leggi ai loro sudditi, di giudicare e di
regolare tutto quanto appartiene al culto e all'apostolato.
Ad essi è pienamente affidato l'ufficio pastorale ossia
l'abituale e quotidiana cura del loro gregge; né devono essere considerati
vicari dei romani Pontefici, perché sono rivestiti di autorità propria e
con tutta verità sono detti “ sovrintendenti delle popolazioni ” che
governano. La loro potestà quindi non è annullata dalla potestà suprema e
universale, ma anzi è da essa affermata, corroborata e rivendicata, poiché
è lo Spirito Santo che conserva invariata la forma di governo da Cristo
Signore stabilita nella sua Chiesa.
Il vescovo, mandato dal padre di famiglia a governare
la sua famiglia, tenga innanzi agli occhi l'esempio del buon Pastore, che
è venuto non per essere servito ma per servire (cfr. Mt 20,28; Mc 10,45) e
dare la sua vita per le pecore (cfr. Gv 10,11). Preso di mezzo agli uomini
e soggetto a debolezza, può benignamente compatire gli ignoranti o gli
sviati (cfr. Eb 5,1-2). Non rifugga dall'ascoltare quelli che dipendono da
lui, curandoli come veri figli suoi ed esortandoli a cooperare alacremente
con lui. Dovendo render conto a Dio delle loro anime (cfr. Eb 13,17),
abbia cura di loro con la preghiera, la predicazione e ogni opera di
carità; la sua sollecitudine si estenda anche a quelli che non fanno ancor
parte dell'unico gregge e li consideri come affidatigli dal Signore.
Essendo egli, come l'apostolo Paolo, debitore a tutti, sia pronto ad
annunziare il Vangelo a tutti (cfr. Rrn 1,14-15) e ad esortare i suoi
fedeli all'attività apostolica e missionaria. I fedeli poi devono aderire
al vescovo come la Chiesa a Gesù Cristo e come Gesù Cristo al Padre,
affinché tutte le cose siano concordi e unite 61 e siano feconde per la
gloria di Dio (cfr. 2 Cor 4,15).
I sacerdoti e i loro rapporti con
Cristo, con i vescovi, con i confratelli e con il popolo
cristiano
28. Cristo, santificato e mandato nel mondo dal Padre
(cfr. Gv 10,36), per mezzo degli apostoli ha reso partecipi della sua
consacrazione e della sua missione i loro successori, cioè i vescovi a
loro volta i vescovi hanno legittimamente affidato a vari membri della
Chiesa, in vario grado, l'ufficio del loro ministero. Così il ministero
ecclesiastico di istituzione divina viene esercitato in diversi ordini, da
quelli che già anticamente sono chiamati vescovi, presbiteri, diaconi. I
presbiteri, pur non possedendo l'apice del sacerdozio e dipendendo dai
vescovi nell'esercizio della loro potestà, sono tuttavia a loro congiunti
nella dignità sacerdotale e in virtù del sacramento dell'ordine ad
immagine di Cristo, sommo ed eterno sacerdote (cfr. Eb 5,1-10; 7,24;
9,11-28), sono consacrati per predicare il Vangelo, essere i pastori
fedeli e celebrare il culto divino, quali veri sacerdoti del Nuovo
Testamento. Partecipi, nel loro grado di ministero, dell'ufficio
dell'unico mediatore, che è il Cristo (cfr. 1 Tm 2,5) annunziano a tutti
la parola di Dio. Esercitano il loro sacro ministero soprattutto nel culto
eucaristico o sinassi, dove, agendo in persona di Cristo e proclamando il
suo mistero, uniscono le preghiere dei fedeli al sacrificio del loro capo
e nel sacrificio della messa rendono presente e applicano fino alla venuta
del Signore (cfr. 1 Cor 11,26), l'unico sacrificio del Nuovo Testamento,
quello cioè di Cristo, il quale una volta per tutte offrì se stesso al
Padre quale vittima immacolata (cfr. Eb 9,11-28). Esercitano inoltre il
ministero della riconciliazione e del conforto a favore dei fedeli
penitenti o ammalati e portano a Dio Padre le necessità e le preghiere dei
fedeli (cfr. Eb 5,1-4). Esercitando, secondo la loro parte di autorità,
l'ufficio di Cristo, pastore e capo, raccolgono la famiglia di Dio, quale
insieme di fratelli animati da un solo spirito, per mezzo di Cristo nello
Spirito li portano al Padre e in mezzo al loro gregge lo adorano in
spirito e verità (cfr. Gv 4,24). Si affaticano inoltre nella predicazione
e nell'insegnamento (cfr. 1 Tm 5,17), credendo ciò che hanno letto e
meditato nella legge del Signore, insegnando ciò che credono, vivendo ciò
che insegnano.
I sacerdoti, saggi collaboratori dell'ordine episcopale
e suo aiuto e strumento, chiamati a servire il popolo di Dio,
costituiscono col loro vescovo un solo presbiterio sebbene destinato a
uffici diversi. Nelle singole comunità locali di fedeli rendono in certo
modo presente il vescovo, cui sono uniti con cuore confidente e generoso,
ne assumono secondo il loro grado, gli uffici e la sollecitudine e li
esercitano con dedizione quotidiana. Essi, sotto l'autorità del vescovo,
santificano e governano la porzione di gregge del Signore loro affidata,
nella loro sede rendono visibile la Chiesa universale e portano un grande
contributo all'edificazione di tutto il corpo mistico di Cristo (cfr. Ef
4,12). Sempre intenti al bene dei figli di Dio, devono mettere il loro
zelo nel contribuire al lavoro pastorale di tutta la diocesi, anzi di
tutta la Chiesa. In ragione di questa loro partecipazione nel sacerdozio e
nel lavoro apostolico del vescovo, i sacerdoti riconoscano in lui il loro
padre e gli obbediscano con rispettoso amore. Il vescovo, poi, consideri i
sacerdoti, i suoi cooperatori, come figli e amici così come il Cristo
chiama i suoi discepoli non servi, ma amici (cfr. Gv 15,15). Per ragione
quindi dell'ordine e del ministero, tutti i sacerdoti sia diocesani che
religiosi, sono associati al corpo episcopale e, secondo la loro vocazione
e grazia, servono al bene di tutta la Chiesa.
In virtù della comunità di ordinazione e missione tutti
i sacerdoti sono fra loro legati da un'intima fraternità, che deve
spontaneamente e volentieri manifestarsi nel mutuo aiuto, spirituale e
materiale, pastorale e personale, nelle riunioni e nella comunione di
vita, di lavoro e di carità.
Abbiano poi cura, come padri in Cristo, dei fedeli che
hanno spiritualmente generato col battesimo e l'insegnamento (cfr. 1 Cor
4,15; 1 Pt 1,23). Divenuti spontaneamente modelli del gregge (cfr. 1 Pt
5,3) presiedano e servano la loro comunità locale, in modo che questa
possa degnamente esser chiamata col nome di cui è insignito l'unico popolo
di Dio nella sua totalità, cioè Chiesa di Dio (cfr. 1 Cor 1,2; 2 Cor 1,1).
Si ricordino che devono, con la loro quotidiana condotta e con la loro
sollecitudine, presentare ai fedeli e infedeli, cattolici e non cattolici,
l'immagine di un ministero veramente sacerdotale e pastorale, e rendere a
tutti la testimonianza della verità e della vita; e come buoni pastori
ricercare anche quelli (cfr. Lc 15,4-7) che, sebbene battezzati nella
Chiesa cattolica, hanno abbandonato la pratica dei sacramenti o persino la
fede.
Siccome oggigiorno l'umanità va sempre più
organizzandosi in una unità civile, economica e sociale, tanto più bisogna
che i sacerdoti, consociando il loro zelo e il loro lavoro sotto la guida
dei vescovi e del sommo Pontefice, eliminino ogni causa di dispersione,
affinché tutto il genere umano sia ricondotto all'unità della famiglia di
Dio.
I diaconi
29. In un grado inferiore della gerarchia stanno i
diaconi, ai quali sono imposte le mani “ non per il sacerdozio, ma per il
servizio ”. Infatti, sostenuti dalla grazia sacramentale, nella “ diaconia
” della liturgia, della predicazione e della carità servono il popolo di
Dio, in comunione col vescovo e con il suo presbiterio. È ufficio del
diacono, secondo le disposizioni della competente autorità, amministrare
solennemente il battesimo, conservare e distribuire l'eucaristia,
assistere e benedire il matrimonio in nome della Chiesa, portare il
viatico ai moribondi, leggere la sacra Scrittura ai fedeli, istruire ed
esortare il popolo, presiedere al culto e alla preghiera dei fedeli,
amministrare i sacramentali, presiedere al rito funebre e alla sepoltura.
Essendo dedicati agli uffici di carità e di assistenza, i diaconi si
ricordino del monito di S. Policarpo: “ Essere misericordiosi, attivi,
camminare secondo la verità del Signore, il quale si è fatto servo di
tutti ”.
E siccome questi uffici, sommamente necessari alla vita
della Chiesa, nella disciplina oggi vigente della Chiesa latina in molte
regioni difficilmente possono essere esercitati, il diaconato potrà in
futuro essere ristabilito come proprio e permanente grado della gerarchia.
Spetterà poi alla competenza dei raggruppamenti territoriali dei vescovi,
nelle loro diverse forme, di decidere, con l'approvazione dello stesso
sommo Pontefice, se e dove sia opportuno che tali diaconi siano istituiti
per la cura delle anime. Col consenso del romano Pontefice questo
diaconato potrà essere conferito a uomini di età matura anche viventi nel
matrimonio, e così pure a dei giovani idonei, per i quali però deve
rimanere ferma la legge del celibato.
CAPITOLO IV
I LAICI
I laici nella Chiesa
30. Il santo Concilio, dopo aver illustrati gli uffici
della gerarchia, con piacere rivolge il pensiero allo stato di quei fedeli
che si chiamano laici. Sebbene quanto fu detto del popolo di Dio sia
ugualmente diretto ai laici, ai religiosi e al clero, ai laici tuttavia,
sia uomini che donne, per la loro condizione e missione, appartengono in
particolare alcune cose, i fondamenti delle quali, a motivo delle speciali
circostanze del nostro tempo, devono essere più accuratamente ponderati. I
sacri pastori, infatti, sanno benissimo quanto i laici contribuiscano al
bene di tutta la Chiesa. Sanno di non essere stati istituiti da Cristo per
assumersi da soli tutto il peso della missione salvifica della Chiesa
verso il mondo, ma che il loro eccelso ufficio consiste nel comprendere la
loro missione di pastori nei confronti dei fedeli e nel riconoscere i
ministeri e i carismi propri a questi, in maniera tale che tutti
concordemente cooperino, nella loro misura, al bene comune. Bisogna
infatti che tutti “ mediante la pratica di una carità sincera, cresciamo
in ogni modo verso colui che è il capo, Cristo; da lui tutto il corpo, ben
connesso e solidamente collegato, attraverso tutte le giunture di
comunicazione, secondo l'attività proporzionata a ciascun membro, opera il
suo accrescimento e si va edificando nella carità” (Ef 4,15-16).
Natura e missione dei
laici
31. Col nome di laici si intende qui l'insieme dei
cristiani ad esclusione dei membri dell'ordine sacro e dello stato
religioso sancito nella Chiesa, i fedeli cioè, che, dopo essere stati
incorporati a Cristo col battesimo e costituiti popolo di Dio e, nella
loro misura, resi partecipi dell'ufficio sacerdotale, profetico e regale
di Cristo, per la loro parte compiono, nella Chiesa e nel mondo, la
missione propria di tutto il popolo cristiano.
Il carattere secolare è proprio e peculiare dei laici.
Infatti, i membri dell'ordine sacro, sebbene talora possano essere
impegnati nelle cose del secolo, anche esercitando una professione
secolare, tuttavia per la loro speciale vocazione sono destinati
principalmente e propriamente al sacro ministero, mentre i religiosi col
loro stato testimoniano in modo splendido ed esimio che il mondo non può
essere trasfigurato e offerto a Dio senza lo spirito delle beatitudini.
Per loro vocazione è proprio dei laici cercare il regno di Dio trattando
le cose temporali e ordinandole secondo Dio. Vivono nel secolo, cioè
implicati in tutti i diversi doveri e lavori del mondo e nelle ordinarie
condizioni della vita familiare e sociale, di cui la loro esistenza è come
intessuta. Ivi sono da Dio chiamati a contribuire, quasi dall'interno a
modo di fermento, alla santificazione del mondo esercitando il proprio
ufficio sotto la guida dello spirito evangelico, e in questo modo a
manifestare Cristo agli altri principalmente con la testimonianza della
loro stessa vita e col fulgore della loro fede, della loro speranza e
carità. A loro quindi particolarmente spetta di illuminare e ordinare
tutte le cose temporali, alle quali sono strettamente legati, in modo che
siano fatte e crescano costantemente secondo il Cristo e siano di lode al
Creatore e Redentore.
Dignità dei laici nel popolo di
Dio
32. La santa Chiesa è, per divina istituzione,
organizzata e diretta con mirabile varietà. “A quel modo, infatti, che in
uno- stesso corpo abbiamo molte membra, e le membra non hanno tutte le
stessa funzione, così tutti insieme formiamo un solo corpo in Cristo, e
individualmente siano membri gli uni degli altri ” (Rm 12,4-5).
Non c'è quindi che un popolo di Dio scelto da lui: “ un
solo Signore, una sola fede, un solo battesimo ” (Ef 4,5); comune è la
dignità dei membri per la loro rigenerazione in Cristo, comune la grazia
di adozione filiale, comune la vocazione alla perfezione; non c'è che una
sola salvezza, una sola speranza e una carità senza divisioni. Nessuna
ineguaglianza quindi in Cristo e nella Chiesa per riguardo alla stirpe o
nazione, alla condizione sociale o al sesso, poiché “ non c'è né Giudeo né
Gentile, non c'è né schiavo né libero, non c'è né uomo né donna: tutti voi
siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3,28 gr.; cfr. Col 3,11).
Se quindi nella Chiesa non tutti camminano per la
stessa via, tutti però sono chiamati alla santità e hanno ricevuto a
titolo uguale la fede che introduce nella giustizia di Dio (cfr. 2 Pt
1,1). Quantunque alcuni per volontà di Cristo siano costituiti dottori,
dispensatori dei misteri e pastori per gli altri, tuttavia vige fra tutti
una vera uguaglianza riguardo alla dignità e all'azione comune a tutti i
fedeli nell'edificare il corpo di Cristo. La distinzione infatti posta dal
Signore tra i sacri ministri e il resto del popolo di Dio comporta in sé
unione, essendo i pastori e gli altri fedeli legati tra di loro da una
comunità di rapporto: che i pastori della Chiesa sull'esempio di Cristo
sono a servizio gli uni degli altri e a servizio degli altri fedeli, e
questi a loro volta prestano volenterosi la loro collaborazione ai pastori
e ai maestri. Così, nella diversità stessa, tutti danno testimonianza
della mirabile unità nel corpo di Cristo: poiché la stessa diversità di
grazie, di ministeri e di operazioni raccoglie in un tutto i figli di Dio,
dato che “ tutte queste cose opera... un unico e medesimo Spirito” (1 Cor
12,11).
I laici quindi, come per benevolenza divina hanno per
fratello Cristo, il quale, pur essendo Signore di tutte le cose, non è
venuto per essere servito, ma per servire (cfr. Mt 20,28), così anche
hanno per fratelli coloro che, posti nel sacro ministero, insegnando e
santificando e reggendo per autorità di Cristo, svolgono presso la
famiglia di Dio l'ufficio di pastori, in modo che sia da tutti adempito il
nuovo precetto della carità. A questo proposito dice molto bene
sant'Agostino: “ Se mi spaventa l'essere per voi, mi rassicura l'essere
con voi. Perché per voi sono vescovo, con voi sono cristiano. Quello è
nome di ufficio, questo di grazia; quello è nome di pericolo, questo di
salvezza ”.
L'apostolato dei laici
33. I laici, radunati nel popolo di Dio e costituiti
nell'unico corpo di Cristo sotto un solo capo, sono chiamati chiunque essi
siano, a contribuire come membra vive, con tutte le forze ricevute dalla
bontà del Creatore e dalla grazia del Redentore, all'incremento della
Chiesa e alla sua santificazione permanente.
L'apostolato dei laici è quindi partecipazione alla
missione salvifica stessa della Chiesa; a questo apostolato sono tutti
destinati dal Signore stesso per mezzo del battesimo e della
confermazione. Dai sacramenti poi, e specialmente dalla sacra eucaristia,
viene comunicata e alimentata quella carità verso Dio e gli uomini che è
l'anima di tutto l'apostolato. Ma i laici sono soprattutto chiamati a
rendere presente e operosa la Chiesa in quei luoghi e in quelle
circostanze, in cui essa non può diventare sale della terra se non per
loro mezzo. Così ogni laico, in virtù dei doni che gli sono stati fatti, è
testimonio e insieme vivo strumento della stessa missione della Chiesa “
secondo la misura del dono del Cristo ” (Ef 4,7).
Oltre a questo apostolato, che spetta a tutti i fedeli
senza eccezione, i laici possono anche essere chiamati in diversi modi a
collaborare più immediatamente con l'apostolato della gerarchia a
somiglianza di quegli uomini e donne che aiutavano l'apostolo Paolo
nell'evangelizzazione, faticando molto per il Signore (cfr. Fil 4,3; Rm
16,3 ss). Hanno inoltre la capacità per essere assunti dalla gerarchia ad
esercitare, per un fine spirituale, alcuni uffici ecclesiastici.
Grava quindi su tutti i laici il glorioso peso di
lavorare, perché il disegno divino di salvezza raggiunga ogni giorno più
tutti gli uomini di tutti i tempi e di tutta la terra. Sia perciò loro
aperta qualunque via affinché, secondo le loro forze e le necessità dei
tempi, anch'essi attivamente partecipino all'opera salvifica della
Chiesa.
Partecipazione dei laici al sacerdozio
comune
34. Il sommo ed eterno sacerdote Gesù Cristo, volendo
continuare la sua testimonianza e il suo ministero anche attraverso i
laici, li vivifica col suo Spirito e incessantemente li spinge ad ogni
opera buona e perfetta.
A coloro infatti che intimamente congiunge alla sua
vita e alla sua missione, concede anche di aver parte al suo ufficio
sacerdotale per esercitare un culto spirituale, in vista della
glorificazione di Dio e della salvezza degli uomini. Perciò i laici,
essendo dedicati a Cristo e consacrati dallo Spirito Santo, sono in modo
mirabile chiamati e istruiti per produrre frutti dello Spirito sempre più
abbondanti. Tutte infatti le loro attività, preghiere e iniziative
apostoliche, la vita coniugale e familiare, il lavoro giornaliero, il
sollievo spirituale e corporale, se sono compiute nello Spirito, e anche
le molestie della vita, se sono sopportate con pazienza, diventano offerte
spirituali gradite a Dio attraverso Gesù Cristo (cfr. 1 Pt 2,5); nella
celebrazione dell'eucaristia sono in tutta pietà presentate al Padre
insieme all'oblazione del Corpo del Signore. Così anche i laici, in quanto
adoratori dovunque santamente operanti, consacrano a Dio il mondo
stesso.
Partecipazione dei laici alla funzione
profetica del Cristo
35. Cristo, il grande profeta, il quale con la
testimonianza della sua vita e con la potenza della sua parola ha
proclamato il regno del Padre, adempie il suo ufficio profetico fino alla
piena manifestazione della gloria, non solo per mezzo della gerarchia, che
insegna in nome e con la potestà di lui, ma anche per mezzo dei laici, che
perciò costituisce suoi testimoni provvedendoli del senso della fede e
della grazia della parola (cfr. At 2,17-18; Ap 19,10), perché la forza del
Vangelo risplenda nella vita quotidiana, familiare e sociale. Essi si
mostrano figli della promessa quando, forti nella fede e nella speranza,
mettono a profitto il tempo presente (cfr. Ef 5,16; Col 4,5) e con
pazienza aspettano la gloria futura (cfr. Rm 8,25). E questa speranza non
devono nasconderla nel segreto del loro cuore, ma con una continua
conversione e lotta “contro i dominatori di questo mondo tenebroso e
contro gli spiriti maligni” (Ef 6,12), devono esprimerla anche attraverso
le strutture della vita secolare.
Come i sacramenti della nuova legge, alimento della
vita e dell'apostolato dei fedeli, prefigurano un cielo nuovo e una nuova
terra (cfr. Ap 21,1), così i laici diventano araldi efficaci della fede in
ciò che si spera (cfr. Eb 11,1), se senza incertezze congiungono a una
vita di fede la professione di questa stessa fede. Questa evangelizzazione
o annunzio di Cristo fatto con la testimonianza della vita e con la parola
acquista una certa nota specifica e una particolare efficacia dal fatto
che viene compiuta nelle comuni condizioni del secolo.
In questo ordine di funzioni appare di grande valore
quello stato di vita che è santificato da uno speciale sacramento: la vita
matrimoniale e familiare. L'esercizio e scuola per eccellenza di
apostolato dei laici si ha là dove la religione cristiana permea tutta
l'organizzazione della vita e ogni giorno più la trasforma. Là i coniugi
hanno la propria vocazione: essere l'uno all'altro e ai figli testimoni
della fede e dell'amore di Cristo. La famiglia cristiana proclama ad alta
voce allo stesso tempo le virtù presenti del regno di Dio e la speranza
della vita beata. Così, col suo esempio e con la sua testimonianza, accusa
il mondo di peccato e illumina quelli che cercano la verità.
I laici quindi, anche quando sono occupati in cure
temporali, possono e devono esercitare una preziosa azione per
l'evangelizzazione del mondo. Alcuni di loro, in mancanza di sacri
ministri o essendo questi impediti in regime di persecuzione, suppliscono
alcuni uffici sacri secondo le proprie possibilità; altri, più numerosi,
spendono tutte le loro forze nel lavoro apostolico: bisogna tuttavia che
tutti cooperino all estensione e al progresso del regno di Cristo nel
mondo. Perciò i laici si applichino con diligenza all approfondimento
della verità rivelata e domandino insistentemente a Dio il dono della
sapienza.
Partecipazione dei laici al servizio
regale
36. Cristo, fattosi obbediente fino alla morte e perciò
esaltato dal Padre (cfr. Fil 2,8-9), è entrato nella gloria del suo regno;
a lui sono sottomesse tutte le cose, fino a che egli sottometta al Padre
se stesso e tutte le creature, affinché Dio sia tutto in tutti (cfr. 1 Cor
15,27-28). Questa potestà egli l'ha comunicata ai discepoli, perché
anch'essi siano costituiti nella libertà regale e con l'abnegazione di sé
e la vita santa vincano in se stessi il regno del peccato anzi, servendo
il Cristo anche negli altri, con umiltà e pazienza conducano i loro
fratelli al Re, servire i1 quale è regnare. Il Signore infatti desidera
estendere il suo regno anche per mezzo dei fedeli laici: i1 suo regno che
è regno “ di verità e di vita, regno di santità e di grazia, regno di
giustizia, di amore e di pace ” e in questo regno anche le stesse creature
saranno liberate dalla schiavitù della corruzione per partecipare alla
gloriosa libertà dei figli di Dio (cfr. Rm 8,21). Grande veramente è la
promessa, grande il comandamento dato ai discepoli: “ Tutto è vostro, ma
voi siete di Cristo, e Cristo è di Dio ” (1 Cor 3,23).
I fedeli perciò devono riconoscere la natura profonda
di tutta la creazione, il suo valore e la sua ordinazione alla lode di
Dio, e aiutarsi a vicenda a una vita più santa anche con opere
propriamente secolari, affinché il mondo si impregni dello spirito di
Cristo e raggiunga più efficacemente il suo fine nella giustizia, nella
carità e nella pace. Nel compimento universale di questo ufficio, i laici
hanno il posto di primo piano. Con la loro competenza quindi nelle
discipline profane e con la loro attività, elevata intrinsecamente dalla
grazia di Cristo, portino efficacemente l'opera loro, affinché i beni
creati, secondo i fini del Creatore e la luce del suo Verbo, siano fatti
progredire dal lavoro umano, dalla tecnica e dalla cultura civile per
l'utilità di tutti gli uomini senza eccezione, e siano tra loro più
convenientemente distribuiti e, secondo la loro natura, portino al
progresso universale nella libertà umana e cristiana. Così Cristo per
mezzo dei membri della Chiesa illuminerà sempre di più l'intera società
umana con la sua luce che salva.
Inoltre i laici, anche consociando le forze, risanino
le istituzioni e le condizioni del mondo, se ve ne siano che provocano al
peccato, così che tutte siano rese conformi alle norme della giustizia e,
anziché ostacolare, favoriscano l'esercizio delle virtù. Così agendo
impregneranno di valore morale la cultura e le opere umane. In questo modo
il campo del mondo si trova meglio preparato per accogliere il seme della
parola divina, e insieme le porte della Chiesa si aprono più larghe, per
permettere che l'annunzio della pace entri nel mondo.
Per l'economia stessa della salvezza imparino i fedeli
a ben distinguere tra i diritti e i doveri, che loro incombono in quanto
membri della Chiesa, e quelli che competono loro in quanto membri della
società umana. cerchino di metterli in armonia fra loro, ricordandosi che
in ogni cosa temporale devono essere guidati dalla coscienza cristiana,
poiché nessuna attività umana, neanche nelle cose temporali, può essere
sottratta al comando di Dio. Nel nostro tempo è sommamente necessario che
questa distinzione e questa armonia risplendano nel modo più chiaro
possibile nella maniera di agire dei fedeli, affinché la missione della
Chiesa possa più pienamente rispondere alle particolari condizioni del
mondo moderno. Come infatti si deve riconoscere che la città terrena,
legittimamente dedicata alle cure secolari, è retta da propri principi,
così a ragione è rigettata 1 infausta dottrina che pretende di costruire
la società senza alcuna considerazione per la religione e impugna ed
elimina la libertà religiosa dei cittadini.
I laici e la gerarchia
37. I laici, come tutti i fedeli, hanno il diritto di
ricevere abbondantemente dai sacri pastori i beni spirituali della Chiesa,
soprattutto gli aiuti della parola di Dio e dei sacramenti; ad essi quindi
manifestino le loro necessità e i loro desideri con quella libertà e
fiducia che si addice ai figli di Dio e ai fratelli in Cristo. Secondo la
scienza, competenza e prestigio di cui godono, hanno la facoltà, anzi
talora anche il dovere, di far conoscere il loro parere su cose
concernenti il bene della Chiesa. Se occorre, lo facciano attraverso gli
organi stabiliti a questo scopo dalla Chiesa, e sempre con verità,
fortezza e prudenza, con rispetto e carità verso coloro che, per ragione
del loro sacro ufficio, rappresentano Cristo. I laici, come tutti i
fedeli, con cristiana obbedienza prontamente abbraccino ciò che i pastori,
quali rappresentanti di Cristo, stabiliscono in nome del loro magistero e
della loro autorità nella Chiesa, seguendo in ciò l'esempio di Cristo, il
quale con la sua obbedienza fino alla morte ha aperto a tutti gli uomini
la via beata della libertà dei figli di Dio. Né tralascino di raccomandare
a Dio con le preghiere i loro superiori, affinché, dovendo questi vegliare
sopra le nostre anime come persone che ne dovranno rendere conto, lo
facciano con gioia e non gemendo (cfr. Eb 13,17).
I pastori, da parte loro, riconoscano e promuovano la
dignità e la responsabilità dei laici nella Chiesa; si servano volentieri
del loro prudente consiglio, con fiducia affidino loro degli uffici in
servizio della Chiesa e lascino loro libertà e margine di azione, anzi li
incoraggino perché intraprendano delle opere anche di propria iniziativa.
Considerino attentamente e con paterno affetto in Cristo le iniziative, le
richieste e i desideri proposti dai laici e, infine, rispettino e
riconoscano quella giusta libertà, che a tutti compete nella città
terrestre.
Da questi familiari rapporti tra i laici e i pastori si
devono attendere molti vantaggi per la Chiesa: in questo modo infatti si
afferma nei laici il senso della propria responsabilità, ne è favorito lo
slancio e le loro forze più facilmente vengono associate all'opera dei
pastori. E questi, aiutati dall'esperienza dei laici, possono giudicare
con più chiarezza e opportunità sia in cose spirituali che temporali; e
così tutta la Chiesa, forte di tutti i suoi membri, compie con maggiore
efficacia la sua missione per la vita del mondo.
Conclusione
38.
Ogni laico deve essere davanti al mondo un testimone della
risurrezione e della vita del Signore Gesù e un segno del Dio
vivo. Tutti insieme, e ognuno per la sua parte, devono nutrire il
mondo con i frutti spirituali (cfr. Gal 5,22) e in esso diffondere
lo spirito che anima i poveri, miti e pacifici, che il Signore nel
Vangelo proclamò beati (cfr. Mt 5,3-9). In una parola: “ ciò
che l'anima è nel corpo, questo siano i cristiani nel mondo ”.
CAPITOLO
V
UNIVERSALE
VOCAZIONE ALLA SANTITÀ NELLA CHIESA
La
santità nella Chiesa
39.
La Chiesa, il cui mistero è esposto dal sacro Concilio, è agli
occhi della fede indefettibilmente santa. Infatti Cristo, Figlio
di Dio, il quale col Padre e lo Spirito è proclamato “ il solo
Santo ”, amò la Chiesa come sua sposa e diede se stesso per
essa, al fine di santificarla (cfr. Ef 5,25-26), l'ha unita a sé
come suo corpo e l'ha riempita col dono dello Spirito Santo, per
la gloria di Dio. Perciò tutti nella Chiesa, sia che appartengano
alla gerarchia, sia che siano retti da essa, sono chiamati alla
santità, secondo le parole dell'Apostolo: “ Sì, ciò che Dio
vuole è la vostra santificazione ” (1 Ts 4,3; cfr. Ef 1,4).
Orbene, questa santità della Chiesa costantemente si manifesta e
si deve manifestare nei frutti della grazia che lo Spirito produce
nei fedeli; si esprime in varie forme in ciascuno di quelli che
tendono alla carità perfetta nella linea propria di vita ed
edificano gli altri; e in un modo tutto suo proprio si manifesta
nella pratica dei consigli che si sogliono chiamare evangelici.
Questa pratica dei consigli, abbracciata da molti cristiani per
impulso dello Spirito Santo, sia a titolo privato, sia in una
condizione o stato sanciti nella Chiesa, porta e deve portare nel
mondo una luminosa testimonianza e un esempio di questa santità.
Vocazione
universale alla santità
40.
Il Signore Gesù, maestro e modello divino di ogni perfezione, a
tutti e a ciascuno dei suoi discepoli di qualsiasi condizione ha
predicato quella santità di vita, di cui egli stesso è autore e
perfezionatore: “Siate dunque perfetti come è perfetto il
vostro Padre celeste” (Mt 5,48). Mandò infatti a tutti lo
Spirito Santo, che li muova internamente ad amare Dio con tutto il
cuore, con tutta l'anima, con tutta la mente, con tutte le forze (cfr
Mc 12,30), e ad amarsi a vicenda come Cristo ha amato loro (cfr.
Gv 13,34; 15,12). I seguaci di Cristo, chiamati da Dio, non a
titolo delle loro opere, ma a titolo del suo disegno e della
grazia, giustificati in Gesù nostro Signore, nel battesimo della
fede sono stati fatti veramente figli di Dio e compartecipi della
natura divina, e perciò realmente santi. Essi quindi devono, con
l'aiuto di Dio, mantenere e perfezionare con la loro vita la
santità che hanno ricevuto. Li ammonisce l'Apostolo che vivano
“ come si conviene a santi ” (Ef 5,3), si rivestano “come si
conviene a eletti di Dio, santi e prediletti, di sentimenti di
misericordia, di bontà, di umiltà, di dolcezza e di pazienza ”
(Col 3,12) e portino i frutti dello Spirito per la loro
santificazione (cfr. Gal 5,22; Rm 6,22). E poiché tutti
commettiamo molti sbagli (cfr. Gc 3,2), abbiamo continuamente
bisogno della misericordia di Dio e dobbiamo ogni giorno pregare:
“ Rimetti a noi i nostri debiti ” (Mt 6,12).
È
dunque evidente per tutti, che tutti coloro che credono nel Cristo
di qualsiasi stato o rango, sono chiamati alla pienezza della vita
cristiana e alla perfezione della carità e che tale santità
promuove nella stessa società terrena un tenore di vita più
umano. Per raggiungere questa perfezione i fedeli usino le forze
ricevute secondo la misura con cui Cristo volle donarle, affinché,
seguendo l'esempio di lui e diventati conformi alla sua immagine,
in tutto obbedienti alla volontà del Padre, con piena generosità
si consacrino alla gloria di Dio e al servizio del prossimo. Così
la santità del popolo di Dio crescerà in frutti abbondanti, come
è splendidamente dimostrato nella storia della Chiesa dalla vita
di tanti santi.
Esercizio
multiforme della santità
41.
Nei vari generi di vita e nei vari compiti una unica santità è
coltivata da quanti sono mossi dallo Spirito di Dio e, obbedienti
alla voce del Padre e adorando in spirito e verità Dio Padre,
camminano al seguito del Cristo povero, umile e carico della
croce, per meritare di essere partecipi della sua gloria. Ognuno
secondo i propri doni e uffici deve senza indugi avanzare per la
via della fede viva, la quale accende la speranza e opera per
mezzo della carità. In primo luogo i pastori del gregge di Cristo
devono, a immagine del sommo ed eterno sacerdote, pastore e
vescovo delle anime nostre, compiere con santità e slancio, umiltà
e forza il proprio ministero: esso, così adempiuto, sarà anche
per loro un eccellente mezzo di santificazione. Chiamati per
ricevere la pienezza del sacerdozio, è loro data la grazia
sacramentale affinché, mediante la preghiera, il sacrificio e la
predicazione, mediante ogni forma di cura e di servizio
episcopale, esercitino un perfetto ufficio di carità pastorale
non temano di dare la propria vita per le pecorelle e, fattisi
modello del gregge (cfr. 1 Pt 5,3), aiutino infine con l'esempio
la Chiesa ad avanzare verso una santità ogni giorno più grande.
I
sacerdoti, a somiglianza dell'ordine dei vescovi, dei quali
formano la corona spirituale partecipando alla grazia dell'ufficio
di quelli per mezzo di Cristo, eterno ed unico mediatore, mediante
il quotidiano esercizio del proprio ufficio crescano nell'amore di
Dio e del prossimo, conservino il vincolo della comunione
sacerdotale, abbondino in ogni bene spirituale e diano a tutti la
viva testimonianza di Dio emuli di quei sacerdoti che nel corso
dei secoli, in un servizio spesso umile e nascosto, hanno lasciato
uno splendido esempio di santità. La loro lode risuona nella
Chiesa di Dio. Pregando e offrendo il sacrificio, com'è loro
dovere, per il loro popolo e per tutto il popolo di Dio, cosciente
di ciò che fanno e confermandosi ai misteri che compiono anziché
essere ostacolati dalle cure apostoliche, dai pericoli e dalle
tribolazioni, ascendano piuttosto per mezzo dì esse ad una
maggiore santità, nutrendo e dando slancio con l'abbondanza della
contemplazione alla propria attività, per il conforto di tutta la
Chiesa di Dio. Tutti i sacerdoti e specialmente quelli che, a
titolo particolare della loro ordinazione, portano il nome di
sacerdoti diocesani, ricordino quanto contribuiscano alla loro
santificazione la fedele unione e la generosa cooperazione col
loro vescovo.
Alla
missione e alla grazia del supremo Sacerdote partecipano in modo
proprio anche i ministri di ordine inferiore; e prima di tutto i
diaconi, i quali, servendo i misteri di Dio e della Chiesa devono
mantenersi puri da ogni vizio, piacere a Dio e studiarsi di fare
ogni genere di opere buone davanti agli uomini (cfr. 1 Tm 3,8-10;
e 12-13). I chierici che, chiamati dal Signore e separati per aver
parte con lui, sotto la vigilanza dei pastori si preparano alle
funzioni di sacri ministri, sono tenuti a conformare le loro menti
e i loro cuori a una così eccelsa vocazione; assidui
nell'orazione, ferventi nella carità, intenti a quanto è vero,
giusto e onorevole, facendo tutto per la gloria e l'onore di Dio.
A questi bisogna aggiungere quei laici scelti da Dio, i quali sono
chiamati dal vescovo, perché si diano più completamente alle
opere apostoliche, e nel campo del Signore lavorano con molto
frutto.
I
coniugi e i genitori cristiani, seguendo la loro propria via,
devono sostenersi a vicenda nella fedeltà dell'amore con l'aiuto
della grazia per tutta la vita, e istruire nella dottrina
cristiana e nelle virtù evangeliche la prole, che hanno
amorosamente accettata da Dio. Così infatti offrono a tutti
l'esempio di un amore instancabile e generoso, edificando la carità
fraterna e diventano testimoni e cooperatori della fecondità
della madre Chiesa, in segno e partecipazione di quell'amore, col
quale Cristo amò la sua sposa e si è dato per lei. Un simile
esempio è offerto in altro modo dalle persone vedove e
celibatarie, le quali pure possono contribuire non poco alla
santità e alla operosità della Chiesa. Quelli poi che sono
dediti a lavori spesso faticosi, devono con le opere umane
perfezionare se stessi, aiutare i concittadini e far progredire
tutta la società e la creazione verso uno stato migliore; devono
infine, con carità operosa, imitare Cristo, le cui mani si
esercitarono in lavori manuali e il quale sempre opera col Padre
alla salvezza di tutti, in ciò animati da una gioiosa speranza,
aiutandosi gli uni gli altri a portare i propri fardelli,
ascendendo mediante il lavoro quotidiano a una santità sempre più
alta, santità che sarà anche apostolica.
Sappiano
che sono pure uniti in modo speciale a Cristo sofferente per la
salute del mondo quelli che sono oppressi dalla povertà, dalla
infermità, dalla malattia e dalle varie tribolazioni, o soffrono
persecuzioni per la giustizia: il Signore nel Vangelo li ha
proclamati beati, e “ il Dio... di ogni grazia, che ci ha
chiamati all'eterna sua gloria in Cristo Gesù, dopo un po' di
patire, li condurrà egli stesso a perfezione e li renderà
stabili e sicuri” (1 Pt 5,10).
Tutti
quelli che credono in Cristo saranno quindi ogni giorno più
santificati nelle condizioni, nei doveri o circostanze che sono
quelle della loro vita, e per mezzo di tutte queste cose, se le
ricevono con fede dalla mano del Padre celeste e cooperano con la
volontà divina, manifestando a tutti, nello stesso servizio
temporale, la carità con la quale Dio ha amato il mondo.
Vie
e mezzi di santità
42.
“ Dio è amore e chi rimane nell'amore, rimane in Dio e Dio in
lui ” (1 Gv 4,16). Dio ha diffuso il suo amore nei nostri cuori
per mezzo dello Spirito Santo, che ci fu dato (cfr. Rm 5,5); perciò
il dono primo e più necessario è la carità, con la quale amiamo
Dio sopra ogni cosa e il prossimo per amore di lui. Ma perché la
carità, come buon seme, cresca e nidifichi, ogni fedele deve
ascoltare volentieri la parola di Dio e con l'aiuto della sua
grazia compiere con le opere la sua volontà, partecipare
frequentemente ai sacramenti, soprattutto all'eucaristia, e alle
azioni liturgiche; applicarsi costantemente alla preghiera,
all'abnegazione di se stesso, all'attivo servizio dei fratelli e
all'esercizio di tutte le virtù. La carità infatti, quale
vincolo della perfezione e compimento della legge (cfr. Col 3,14;
Rm 13,10), regola tutti i mezzi di santificazione, dà loro forma
e li conduce al loro fine. Perciò il vero discepolo di Cristo è
contrassegnato dalla carità verso Dio e verso il prossimo.
Avendo
Gesù, Figlio di Dio, manifestato la sua carità dando per noi la
vita, nessuno ha più grande amore di colui che dà la vita per
lui e per i fratelli (cfr. 1 Gv 3,16; Gv 15,13). Già fin dai
primi tempi quindi, alcuni cristiani sono stati chiamati, e altri
lo saranno sempre, a rendere questa massima testimonianza d'amore
davanti agli uomini, e specialmente davanti ai persecutori. Perciò
il martirio, col quale il discepolo è reso simile al suo maestro
che liberamente accetta la morte per la salute del mondo, e col
quale diventa simile a lui nella effusione del sangue, è stimato
dalla Chiesa come dono insigne e suprema prova di carità. Ché se
a pochi è concesso, tutti però devono essere pronti a confessare
Cristo davanti agli uomini e a seguirlo sulla via della croce
durante le persecuzioni, che non mancano mai alla Chiesa.
Parimenti
la santità della Chiesa è favorita in modo speciale dai
molteplici consigli che il Signore nel Vangelo propone
all'osservanza dei suoi discepoli. Tra essi eccelle il prezioso
dono della grazia divina, dato dal Padre ad alcuni (cfr, Mt 19,11;
1 Cor 7,7), di consacrarsi, più facilmente e senza divisione del
cuore (cfr. 1 Cor 7,7), a Dio solo nella verginità o nel
celibato. Questa perfetta continenza per il regno dei cieli è
sempre stata tenuta in singolare onore dalla Chiesa, quale segno e
stimolo della carità e speciale sorgente di fecondità spirituale
nel mondo.
La
Chiesa ripensa anche al monito dell'Apostolo, il quale incitando i
fede]i alla carità, ]i esorta ad avere in sé gli stessi
sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale “ spogliò se
stesso, prendendo la natura di un servo... facendosi obbediente
fino alla morte ” (Fil 2,7-8), e per noi “da ricco che era si
fece povero ” (2 Cor 8,9). L'imitazione e la testimonianza di
questa carità e umiltà del Cristo si impongono ai discepoli in
permanenza; per questo la Chiesa, nostra madre, si rallegra di
trovare nel suo seno molti uomini e donne che seguono più da
vicino questo annientamento del Salvatore e più chiaramente lo
mostrano, abbracciando, nella libertà dei figli di Dio, la povertà
e rinunziando alla propria volontà: essi cioè per amore di Dio,
in ciò che riguarda la perfezione, si sottomettono a una creatura
umana al di là della stretta misura del precetto, al fine di
conformarsi più pienamente a Cristo obbediente.
Tutti
i fedeli del Cristo quindi sono invitati e tenuti a perseguire la
santità e la perfezione del proprio stato. Perciò tutti si
sforzino di dirigere rettamente i propri affetti, affinché
dall'uso delle cose di questo mondo e da un attaccamento alle
ricchezze contrario allo spirito della povertà evangelica non
siano impediti di tendere alla carità perfetta; ammonisce infatti
l'Apostolo: Quelli che usano di questo mondo, non vi ci si
arrestino, perché passa la scena di questo mondo (cfr. 1 Cor 7,31
gr.).
CAPITOLO
VI
I
RELIGIOSI
I
consigli evangelici nella Chiesa
43.
I consigli evangelici della castità consacrata a Dio, della
povertà e dell'obbedienza, essendo fondati sulle parole e sugli
esempi del Signore e raccomandati dagli apostoli, dai Padri e dai
dottori e pastori della Chiesa, sono un dono divino che la Chiesa
ha ricevuto dal suo Signore e con la sua grazia sempre conserva.
La stessa autorità della Chiesa, sotto la guida dello Spirito
Santo, si è data cura di interpretarli, di regolarne la pratica e
anche di stabilire sulla loro base delle forme stabili di vita.
Avvenne quindi che, come un albero che si ramifica in modi
mirabili e molteplici nel campo del Signore a partire da un germe
seminato da Dio, si sviluppassero varie forme di vita solitaria o
comune e varie famiglie, il cui capitale spirituale contribuisce
al bene sia dei membri di quelle famiglie, sia di tutto il corpo
di Cristo. Quelle famiglie infatti forniscono ai loro membri gli
aiuti di una maggiore stabilità nella loro forma di vita, di una
dottrina provata per il conseguimento della perfezione, della
comunione fraterna nella milizia di Cristo, di una libertà
corroborata dall'obbedienza, così che possano adempiere con
sicurezza e custodire con fedeltà la loro professione religiosa,
avanzando nella gioia spirituale sul cammino della carità.
Un
simile stato, se si riguardi la divina e gerarchica costituzione
della Chiesa, non è intermedio tra la condizione clericale e
laicale, ma da entrambe le parti alcuni fedeli sono chiamati da
Dio a fruire di questo speciale dono nella vita della Chiesa e ad
aiutare, ciascuno a suo modo, la sua missione salvifica.
Natura
e importanza dello stato religioso
44.
Con i voti o altri impegni sacri simili ai voti secondo il modo
loro proprio, il fedele si obbliga all'osservanza dei tre predetti
consigli evangelici; egli si dona totalmente a Dio amato al di
sopra di tutto, così da essere con nuovo e speciale titolo
destinato al servizio e all'onore di Dio. Già col battesimo è
morto al peccato e consacrato a Dio; ma per poter raccogliere in
più grande abbondanza i frutti della grazia battesimale, con la
professione dei consigli evangelici nella Chiesa intende liberarsi
dagli impedimenti che potrebbero distoglierlo dal fervore della
carità e dalla perfezione del culto divino, e si consacra più
intimamente al servizio di Dio. La consacrazione poi sarà più
perfetta, in quanto legami più solidi e stabili riproducono di più
l'immagine del Cristo unito alla Chiesa sua sposa da un legame
indissolubile.
Siccome
quindi i consigli evangelici, per mezzo della carità alla quale
conducono congiungono in modo speciale coloro che li praticano
alla Chiesa e al suo mistero, la loro vita spirituale deve pure
essere consacrata al bene di tutta la Chiesa. Di qui deriva il
dovere di lavorare, secondo le forze e la forma della propria
vocazione, sia con la preghiera, sia anche con l'attività
effettiva, a radicare e consolidare negli animi il regno di Cristo
e a dilatarlo in ogni parte della terra. Per questo la Chiesa
difende e sostiene l'indole propria dei vari istituti religiosi.
Perciò la professione dei consigli evangelici appare come un
segno, il quale può e deve attirare efficacemente tutti i membri
della Chiesa a compiere con slancio i doveri della vocazione
cristiana. Poiché infatti il popolo di Dio non ha qui città
permanente, ma va in cerca della futura, lo stato religioso, il
quale rende più liberi i suoi seguaci dalle cure terrene, meglio
anche manifesta a tutti i credenti i beni celesti già presenti in
questo tempo, meglio testimonia l'esistenza di una vita nuova ed
eterna, acquistata dalla redenzione di Cristo, e meglio
preannunzia la futura resurrezione e la gloria del regno celeste.
Parimenti, lo stato religioso imita più fedelmente e rappresenta
continuamente nella Chiesa la forma di vita che il Figlio di Dio
abbracciò venendo nel mondo per fare la volontà del Padre e che
propose ai discepoli che lo seguivano. Infine, in modo speciale
manifesta l'elevazione del regno di Dio sopra tutte le cose
terrestri e le sue esigenze supreme; dimostra pure a tutti gli
uomini la preminente grandezza della potenza di Cristo-Re e la
infinita potenza dello Spirito Santo, mirabilmente operante nella
Chiesa.
Lo
stato di vita dunque costituito dalla professione dei consigli
evangelici, pur non concernendo la struttura gerarchica della
Chiesa, appartiene tuttavia inseparabilmente alla sua vita e alla
sua santità.
La
gerarchia e lo stato religioso
45.
Essendo ufficio della gerarchia ecclesiastica di pascere il popolo
di Dio e condurlo a pascoli ubertosi (cfr. Ez 34,14), spetta ad
essa di regolare sapientemente con le sue leggi la pratica dei
consigli evangelici, strumento singolare al servizio della carità
perfetta verso Dio e verso il prossimo 6, Essa inoltre, seguendo
docilmente gli impulsi dello Spirito Santo, accoglie le regole
proposte da uomini e donne esimi, e, infine dopo averle messe a
punto più perfettamente, dà loro una approvazione autentica; con
la sua autorità vigile e protettrice viene pure in aiuto agli
istituti, dovunque eretti per l'edificazione del corpo di Cristo,
perché abbiano a crescere e fiorire secondo lo spirito dei
fondatori.
Perché
poi sia provveduto il meglio possibile alle necessità dell'intero
gregge del Signore, il sommo Pontefice può, in ragione del suo
primato sulla Chiesa universale e in vista dell'interesse comune
esentare ogni istituto di perfezione e ciascuno dei suoi membri
dalla giurisdizione dell'ordinario del luogo e sottoporli a sé
solo. Similmente essi possono essere lasciati o affidati alle
proprie autorità patriarcali. Da parte loro i membri nel compiere
i loro doveri verso la Chiesa secondo la loro forma particolare di
vita, devono, conforme alle leggi canoniche, prestare riverenza e
obbedienza ai vescovi, a causa della loro autorità pastorale
nelle Chiese particolari e per la necessaria unità e concordia
nel lavoro apostolico.
La
Chiesa non solo erige con la sua sanzione la professione religiosa
alla dignità dello stato canonico, ma con la sua azione liturgica
la presenta pure come stato di consacrazione a Dio. La stessa
Chiesa infatti, in nome dell'autorità affidatagli da Dio, riceve
i voti di quelli che fanno la professione, per loro impetra da Dio
gli aiuti e la grazia con la sua preghiera pubblica, li raccomanda
a Dio e impartisce loro una benedizione spirituale, associando la
loro offerta al sacrificio eucaristico.
Grandezza
della consacrazione religiosa
46.
I religiosi pongano ogni cura, affinché per loro mezzo la Chiesa
abbia ogni giorno meglio da presentare Cristo ai fedeli e agli
infedeli: sia nella sua contemplazione sul monte, sia nel suo
annuncio del regno di Dio alle turbe, sia quando risana i malati e
gli infermi e converte a miglior vita i peccatori, sia quando
benedice i fanciulli e fa del bene a tutti, sempre obbediente alla
volontà del Padre che lo ha mandato.
Tutti
infine abbiano ben chiaro che la professione dei consigli
evangelici, quantunque comporti la rinunzia di beni certamente
molto apprezzabili, non si oppone al vero progresso della persona
umana, ma al contrario per sua natura le è di grandissimo
profitto. Infatti i consigli, volontariamente abbracciati secondo
la personale vocazione di ognuno, contribuiscono considerevolmente
alla purificazione del cuore e alla libertà spirituale, stimolano
in permanenza il fervore della carità e soprattutto come è
comprovato dall'esempio di tanti santi fondatori, sono capaci di
assicurare al cristiano una conformità più grande col genere di
vita verginale e povera che Cristo Signore si scelse per sé e che
la vergine Madre sua abbracciò. Né pensi alcuno che i religiosi
con la loro consacrazione diventino estranei agli uomini o inutili
nella città terrestre. Poiché, se anche talora non sono
direttamente presenti a fianco dei loro contemporanei, li tengono
tuttavia presenti in modo più profondo con la tenerezza di
Cristo, e con essi collaborano spiritualmente, affinché la
edificazione della città terrena sia sempre fondata nel Signore,
e a lui diretta, né avvenga che lavorino invano quelli che la
stanno edificando.
Perciò
il sacro Concilio conferma e loda quegli uomini e quelle donne,
quei fratelli e quelle sorelle, i quali nei monasteri, nelle
scuole, negli ospedali e nelle missioni, con perseverante e umile
fedeltà alla loro consacrazione, onorano la sposa di Cristo e a
tutti gli uomini prestano generosi e diversissimi servizi.
Esortazione
alla perseveranza
47.
Ognuno poi che è chiamato alla professione dei consigli, ponga
ogni cura nel perseverare e maggiormente eccellere nella vocazione
a cui Dio l'ha chiamato, per una più grande santità della Chiesa
e per la maggior gloria della Trinità, una e indivisa, la quale
in Cristo e per mezzo di Cristo è la fonte e l'origine di ogni
santità.
CAPITOLO
VII
INDOLE
ESCATOLOGICA DELLA CHIESA PEREGRINANTE
E SUA UNIONE CON LA CHIESA CELESTE
Natura
escatologica della nostra vocazione
48.
La Chiesa, alla quale tutti siamo chiamati in Cristo Gesù e nella
quale per mezzo della grazia di Dio acquistiamo la santità, non
avrà il suo compimento se non nella gloria celeste, quando verrà
il tempo in cui tutte le cose saranno rinnovate (cfr. Ap 3,21), e
col genere umano anche tutto l'universo, il quale è intimamente
congiunto con l'uomo e per mezzo di lui arriva al suo fine, troverà
nel Cristo la sua definitiva perfezione (cfr. Ef 1,10; Col 1,20).
E
invero il Cristo, quando fu levato in alto da terra, attirò tutti
a sé (cfr. Gv 12,32 gr.); risorgendo dai morti (cfr. Rm 6,9)
immise negli apostoli il suo Spirito vivificatore, e per mezzo di
lui costituì il suo corpo, che è la Chiesa, quale sacramento
universale della salvezza; assiso alla destra del Padre, opera
continuamente nel mondo per condurre gli uomini alla Chiesa e
attraverso di essa congiungerli più strettamente a sé e renderli
partecipi della sua vita gloriosa col nutrimento del proprio corpo
e del proprio sangue. Quindi la nuova condizione promessa e
sperata è già incominciata con Cristo; l'invio dello Spirito
Santo le ha dato il suo slancio e per mezzo di lui essa continua
nella Chiesa, nella quale siamo dalla fede istruiti anche sul
senso della nostra vita temporale, mentre portiamo a termine,
nella speranza dei beni futuri, l'opera a noi affidata nel mondo
dal Padre e attuiamo così la nostra salvezza (cfr. Fil 2,12).
Già
dunque è arrivata a noi l'ultima fase dei tempi (cfr. 1 Cor
10,11). La rinnovazione del mondo è irrevocabilmente acquisita e
in certo modo reale è anticipata in questo mondo: difatti la
Chiesa già sulla terra è adornata di vera santità, anche se
imperfetta. Tuttavia, fino a che non vi saranno i nuovi cieli e la
terra nuova, nei quali la giustizia ha la sua dimora (cfr. 2 Pt
3,13), la Chiesa peregrinante nei suoi sacramenti e nelle sue
istituzioni, che appartengono all'età presente, porta la figura
fugace di questo mondo; essa vive tra le creature, le quali ancora
gemono, sono nel travaglio del parto e sospirano la manifestazione
dei figli di Dio (cfr. Rm 8,19-22).
Congiunti
dunque con Cristo nella Chiesa e contrassegnati dallo Spirito
Santo “ che è il pegno della nostra eredità ” (Ef 1,14), con
verità siamo chiamati figli di Dio, e lo siamo veramente (cfr. 1
Gv 3,1), ma non siamo ancora apparsi con Cristo nella gloria (cfr.
Col 3,4), nella quale saremo simili a Dio, perché lo vedremo qual
è (cfr. 1 Gv 3,2). Pertanto, “ finché abitiamo in questo corpo
siamo esuli lontani dal Signore ” (2 Cor 5,6); avendo le
primizie dello Spirito, gemiamo interiormente (cfr. Rm 8,23) e
bramiamo di essere con Cristo (cfr. Fil 1,23). Dalla stessa carità
siamo spronati a vivere più intensamente per lui, il quale per
noi è morto e risuscitato (cfr. 2 Cor 5,15). E per questo ci
sforziamo di essere in tutto graditi al Signore (cfr. 2 Cor 5,9) e
indossiamo l'armatura di Dio per potere star saldi contro gli
agguati del diavolo e resistergli nel giorno cattivo (cfr. Ef
6,11-13). Siccome poi non conosciamo il giorno né l'ora, bisogna
che, seguendo l'avvertimento del Signore, vegliamo assiduamente,
per meritare, finito il corso irrepetibile della nostra vita
terrena (cfr.Eb 9,27), di entrare con lui al banchetto nuziale ed
essere annoverati fra i beati (cfr. Mt 25,31-46), e non ci venga
comandato, come a servi cattivi e pigri (cfr. Mt 25,26), di andare
al fuoco eterno (cfr Mt 25,41), nelle tenebre esteriori dove “ci
sarà pianto e stridore dei denti ” (Mt 22,13 e 25,30). Prima
infatti di regnare con Cristo glorioso, noi tutti compariremo “
davanti al tribunale di Cristo, per ricevere ciascuno il salario
della sua vita mortale, secondo quel che avrà fatto di bene o di
male ” (2 Cor 5,10), e alla fine del mondo “ usciranno dalla
tomba, chi ha operato il bene a risurrezione di vita, e chi ha
operato il male a risurrezione di condanna ” (Gv 5,29, cfr Mt
25,46). Stimando quindi che “ le sofferenze dei tempo presente
non sono adeguate alla gloria futura che si dovrà manifestare in
noi” (Rm 8,18; cfr 2 Tm 2,11-12), forti nella fede aspettiamo
“la beata speranza e la manifestazione gloriosa del nostro
grande Iddio e Salvatore Gesù Cristo” (Tt 2,13) “ il quale
trasformerà allora il nostro misero corpo, rendendolo conforme al
suo corpo glorioso” (Fil 3,21), e verrà “per essere
glorificato nei suoi santi e ammirato in tutti quelli che avranno
creduto ”.
La
Chiesa celeste e la Chiesa peregrinante
49.
Fino a che dunque il Signore non verrà nella sua gloria,
accompagnato da tutti i suoi angeli (cfr. Mt 25,31) e, distrutta
la morte, non gli saranno sottomesse tutte le cose (cfr. 1 Cor
15,26-27), alcuni dei suoi discepoli sono pellegrini sulla terra,
altri, compiuta questa vita, si purificano ancora, altri infine
godono della gloria contemplando “ chiaramente Dio uno e trino,
qual è ”. Tutti però, sebbene in grado e modo diverso,
comunichiamo nella stessa carità verso Dio e verso il prossimo e
cantiamo al nostro Dio lo stesso inno di gloria. Tutti infatti
quelli che sono di Cristo, avendo lo Spirito Santo, formano una
sola Chiesa e sono tra loro uniti in lui (cfr. Ef 4,16). L'unione
quindi di quelli che sono ancora in cammino coi fratelli morti
nella pace di Cristo non è minimamente spezzata; anzi, secondo la
perenne fede della Chiesa, è consolidata dallo scambio dei beni
spirituali. A causa infatti della loro più intima unione con
Cristo, gli abitanti del cielo rinsaldano tutta la Chiesa nella
santità, nobilitano il culto che essa rende a Dio qui in terra e
in molteplici maniere contribuiscono ad una più ampia
edificazione (cfr. 1 Cor 12,12-27). Ammessi nella patria e
presenti al Signore (cfr. 2 Cor 5,8), per mezzo di lui, con lui e
in lui non cessano di intercedere per noi presso il Padre offrendo
i meriti acquistati in terra mediante Gesù Cristo, unico
mediatore tra Dio e gli uomini (cfr. 1 Tm 2,5), servendo al
Signore in ogni cosa e dando compimento nella loro carne a ciò
che manca alle tribolazioni di Cristo a vantaggio del suo corpo
che è la Chiesa (cfr. Col 1,24). La nostra debolezza quindi è
molto aiutata dalla loro fraterna sollecitudine.
Relazioni
della Chiesa celeste con la Chiesa peregrinante
50.
La Chiesa di coloro che camminano sulla terra, riconoscendo
benissimo questa comunione di tutto il corpo mistico di Gesù
Cristo, fino dai primi tempi della religione cristiana coltivò
con grande pietà la memoria dei defunti e, “poiché santo e
salutare è il pensiero di pregare per i defunti perché siano
assolti dai peccati”, ha offerto per loro anche suffragi. Che
gli apostoli e i martiri di Cristo, i quali con l'effusione del
loro sangue diedero la suprema testimonianza della fede e della
carità, siano con noi strettamente uniti in Cristo, la Chiesa lo
ha sempre creduto; li ha venerati con particolare affetto insieme
con la beata vergine Maria e i santi angeli e ha piamente
implorato il soccorso della loro intercessione. A questi in breve
se ne aggiunsero anche altri, che avevano più da vicino imitata
la verginità e la povertà di Cristo e infine altri, il cui
singolare esercizio delle virtù cristiane e le grazie insigni di
Dio raccomandavano alla pia devozione e imitazione dei fedeli.
Il
contemplare infatti la vita di coloro che hanno seguito fedelmente
Cristo, è un motivo in più per sentirsi spinti a ricercare la
città futura (cfr. Eb 13,14 e 11,10); nello stesso tempo
impariamo la via sicurissima per la quale, tra le mutevoli cose
del mondo e secondo lo stato e la condizione propria di ciascuno,
potremo arrivare alla perfetta unione con Cristo, cioè alla
santità. Nella vita di quelli che, sebbene partecipi della nostra
natura umana, sono tuttavia più perfettamente trasformati
nell'immagine di Cristo (cfr. 2 Cor 3,18), Dio manifesta agli
uomini in una viva luce la sua presenza e il suo volto. In loro è
egli stesso che ci parla e ci dà un segno del suo regno verso il
quale, avendo intorno a noi un tal nugolo di testimoni (cfr. Eb
12,1) e una tale affermazione della verità del Vangelo, siamo
potentemente attirati.
Non
veneriamo però la memoria degli abitanti del cielo solo per il
loro esempio, ma più ancora perché l'unione della Chiesa nello
Spirito sia consolidata dall'esercizio della fraterna carità (cfr.
Ef 4,1-6). Poiché, come la cristiana comunione tra i cristiani
della terra ci porta più vicino a Cristo, così la comunità con
i santi ci congiunge a lui, dal quale, come dalla loro fonte e dal
loro capo, promana ogni grazia e la vita dello stesso popolo di
Dio. È quindi sommamente giusto che amiamo questi amici e coeredi
di Gesù Cristo, che sono anche nostri fratelli e insigni
benefattori, e che per essi rendiamo le dovute grazie a Dio,
“rivolgiamo loro supplici invocazioni e ricorriamo alle loro
preghiere e al loro potente aiuto per impetrare grazie da Dio
mediante il Figlio suo Gesù Cristo, Signore nostro, il quale solo
è il nostro Redentore e Salvatore ”. Infatti ogni nostra vera
attestazione di amore fatta ai santi, per sua natura tende e
termina a Cristo, che è “ la corona di tutti i santi ” e per
lui a Dio, che è mirabile nei suoi santi e in essi è
glorificato.
La
nostra unione poi con la Chiesa celeste si attua in maniera
nobilissima, poiché specialmente nella sacra liturgia, nella
quale la virtù dello Spirito Santo agisce su di noi mediante i
segni sacramentali, in fraterna esultanza cantiamo le lodi della
divina Maestà tutti, di ogni tribù e lingua, di ogni popolo e
nazione, riscattati col sangue di Cristo (cfr. Ap 5,9) e radunati
in un'unica Chiesa, con un unico canto di lode glorifichiamo Dio
uno in tre Persone Perciò quando celebriamo il sacrificio
eucaristico, ci uniamo in sommo grado al culto della Chiesa
celeste, comunicando con essa e venerando la memoria soprattutto
della gloriosa sempre vergine Maria, del beato Giuseppe, dei beati
apostoli e martiri e di tutti i santi.
Disposizioni
pastorali del Concilio
51.
Questa veneranda fede dei nostri padri nella comunione di vita che
esiste con i fratelli che sono nella gloria celeste o che dopo la
morte stanno ancora purificandosi, questo sacrosanto Concilio la
riceve con grande pietà e nuovamente propone i decreti dei sacri
Concili Niceno II Fiorentino e Tridentino. E allo stesso tempo con
pastorale sollecitudine esorta tutti i responsabili, perché, se
si fossero infiltrati qua e là abusi, eccessi o difetti, si
adoperino per toglierli o correggerli e tutto ristabiliscano per
una più piena lode di Cristo e di Dio. Insegnino dunque ai fedeli
che il vero culto dei santi non consiste tanto nel moltiplicare
gli atti esteriori, quanto piuttosto nell'intensità del nostro
amore fattivo, col quale, per il maggiore bene nostro e della
Chiesa, cerchiamo “dalla vita dei santi l'esempio, dalla
comunione con loro la partecipazione alla loro sorte e dalla loro
intercessione l'aiuto”. E d'altra parte insegnino ai fedeli che
il nostro rapporto con gli abitanti del cielo, purché lo si
concepisca alla piena luce della fede, non diminuisce affatto il
culto di adorazione reso a Dio Padre mediante Cristo nello
Spirito, ma anzi lo arricchisce.
Tutti
quanti infatti, noi che siamo figli di Dio e costituiamo in Cristo
una sola famiglia (cfr. Eb 3), mentre comunichiamo tra noi nella
mutua carità e nell'unica lode della Trinità santissima,
rispondiamo all'intima vocazione della Chiesa e pregustando
partecipiamo alla liturgia della gloria perfetta. Poiché quando
Cristo apparirà e vi sarà la gloriosa risurrezione dei morti, lo
splendore di Dio illuminerà la città celeste e la sua lucerna
sarà l'Agnello (cfr. Ap 21,24). Allora tutta la Chiesa dei santi
con somma felicità di amore adorerà Dio e “l'Agnello che è
stato ucciso” (Ap 5,12), proclamando a una voce: “A colui che
siede sul trono e all'Agnello, benedizione onore, gloria e dominio
per tutti i secoli dei secoli ” (Ap 5,13-14).
CAPITOLO
VIII
LA
BEATA MARIA VERGINE MADRE DI DIO
NEL MISTERO DI CRISTO E DELLA CHIESA
I.
Proemio
52.
Volendo Dio misericordiosissimo e sapientissimo compiere la
redenzione del mondo, “ quando venne la pienezza dei tempi, mandò
il suo Figlio, nato da una donna... per fare di noi dei figli
adottivi” (Gal 4,4-5), “ Egli per noi uomini e per la nostra
salvezza è disceso dal cielo e si è incarnato per opera dello
Spirito Santo da Maria vergine ”. Questo divino mistero di
salvezza ci è rivelato e si continua nella Chiesa, che il Signore
ha costituita quale suo corpo e nella quale i fedeli, aderendo a
Cristo capo e in comunione con tutti i suoi santi, devono pure
venerare la memoria “innanzi tutto della gloriosa sempre vergine
Maria, madre del Dio e Signore nostro Gesù Cristo ”
Maria
e la Chiesa
53.
Infatti Maria vergine, la quale all'annunzio dell'angelo accolse
nel cuore e nel corpo il Verbo di Dio e portò la vita al mondo,
è riconosciuta e onorata come vera madre di Dio e Redentore.
Redenta in modo eminente in vista dei meriti del Figlio suo e a
lui unita da uno stretto e indissolubile vincolo, è insignita del
sommo ufficio e dignità di madre del Figlio di Dio, ed è perciò
figlia prediletta del Padre e tempio dello Spirito Santo; per il
quale dono di grazia eccezionale precede di gran lunga tutte le
altre creature, celesti e terrestri. Insieme però, quale
discendente di Adamo, è congiunta con tutti gli uomini bisognosi
di salvezza; anzi, è “ veramente madre delle membra (di
Cristo)... perché cooperò con la carità alla nascita dei fedeli
della Chiesa, i quali di quel capo sono le membra ”. Per questo
è anche riconosciuta quale sovreminente e del tutto singolare
membro della Chiesa, figura ed eccellentissimo modello per essa
nella fede e nella carità; e la Chiesa cattolica, istruita dallo
Spirito Santo, con affetto di pietà filiale la venera come madre
amatissima.
L'intenzione
del Concilio
54.
Perciò il santo Concilio, mentre espone la dottrina riguardante
la Chiesa, nella quale il divino Redentore opera la salvezza,
intende illustrare attentamente da una parte, la funzione della
beata Vergine nel mistero del Verbo incarnato e del corpo mistico,
dall'altra i doveri degli uomini, e i doveri dei credenti in primo
luogo. Il Concilio tuttavia non ha in animo di proporre una
dottrina esauriente su Maria, né di dirimere le questioni che il
lavoro dei teologi non ha ancora condotto a una luce totale.
Permangono quindi nel loro diritto le sentenze, che nelle scuole
cattoliche vengono liberamente proposte circa colei, che nella
Chiesa santa occupa, dopo Cristo, il posto più alto e il più
vicino a noi 4.
II.
Funzione della beata Vergine nell'economia della salvezza
La
madre del Messia nell'Antico Testamento
55.
I libri del Vecchio e Nuovo Testamento e la veneranda tradizione
mostrano in modo sempre più chiaro la funzione della madre del
Salvatore nella economia della salvezza e la propongono per così
dire alla nostra contemplazione. I libri del Vecchio Testamento
descrivono la storia della salvezza, nella quale lentamente viene
preparandosi la venuta di Cristo nel mondo. Questi documenti
primitivi, come sono letti nella Chiesa e sono capiti alla luce
dell'ulteriore e piena rivelazione, passo passo mettono sempre più
chiaramente in luce la figura di una donna: la madre del
Redentore. Sotto questa luce essa viene già profeticamente
adombrata nella promessa, fatta ai progenitori caduti in peccato,
circa la vittoria sul serpente (cfr. Gen 3,15). Parimenti, è lei,
la Vergine, che concepirà e partorirà un Figlio, il cui nome sarà
Emanuele (cfr. Is 7, 14; Mt 1,22-23). Essa primeggia tra quegli
umili e quei poveri del Signore che con fiducia attendono e
ricevono da lui la salvezza. E infine con lei, la figlia di Sion
per eccellenza, dopo la lunga attesa della promessa, si compiono i
tempi e si instaura la nuova “ economia ”, quando il Figlio di
Dio assunse da lei la natura umana per liberare l'uomo dal peccato
coi misteri della sua carne.
Maria
nell'annunciazione
56.
Il Padre delle misericordie ha voluto che l'accettazione da parte
della predestinata madre precedesse l'incarnazione, perché così,
come una donna aveva contribuito a dare la morte, una donna
contribuisse a dare la vita. Ciò vale in modo straordinario della
madre di Gesù, la quale ha dato al mondo la vita stessa che tutto
rinnova e da Dio è stata arricchita di doni consoni a tanto
ufficio. Nessuna meraviglia quindi se presso i santi Padri invalse
l'uso di chiamare la madre di Dio la tutta santa e immune da ogni
macchia di peccato, quasi plasmata dallo Spirito Santo e resa
nuova creatura. Adornata fin dal primo istante della sua
concezione dagli splendori di una santità del tutto singolare, la
Vergine di Nazaret è salutata dall'angelo dell'annunciazione, che
parla per ordine di Dio, quale “ piena di grazia ” (cfr. Lc
1,28) e al celeste messaggero essa risponde “ Ecco l'ancella del
Signore: si faccia in me secondo la tua parola ” (Lc 1,38). Così
Maria, figlia di Adamo, acconsentendo alla parola divina, diventò
madre di Gesù, e abbracciando con tutto l'animo, senza che alcun
peccato la trattenesse, la volontà divina di salvezza, consacrò
totalmente se stessa quale ancella del Signore alla persona e
all'opera del Figlio suo, servendo al mistero della redenzione in
dipendenza da lui e con lui, con la grazia di Dio onnipotente.
Giustamente quindi i santi Padri ritengono che Maria non fu
strumento meramente passivo nelle mani di Dio, ma che cooperò
alla salvezza dell'uomo con libera fede e obbedienza. Infatti,
come dice Sant'Ireneo, essa “con la sua obbedienza divenne causa
di salvezza per sé e per tutto il genere umano ”. Onde non
pochi antichi Padri nella loro predicazione volentieri affermano
con Ireneo che “ il nodo della disobbedienza di Eva ha avuto la
sua soluzione coll'obbedienza di Maria; ciò che la vergine Eva
legò con la sua incredulità, la vergine Maria sciolse con la sua
fede” e, fatto il paragone con Eva, chiamano Maria “madre dei
viventi e affermano spesso: “ la morte per mezzo di Eva, la vita
per mezzo di Maria ”.
Maria
e l'infanzia di Gesù
57.
Questa unione della madre col figlio nell'opera della redenzione
si manifesta dal momento della concezione verginale di Cristo fino
alla morte di lui; e prima di tutto quando Maria, partendo in
fretta per visitare Elisabetta, è da questa proclamata beata per
la sua fede nella salvezza promessa, mentre il precursore esultava
nel seno della madre (cfr. Lc 1,41-45); nella natività, poi,
quando la madre di Dio mostrò lieta ai pastori e ai magi il
Figlio suo primogenito, il quale non diminuì la sua verginale
integrità, ma la consacrò l0 Quando poi lo presentò al Signore
nel tempio con l'offerta del dono proprio dei poveri, udì Simeone
profetizzare che il Figlio sarebbe divenuto segno di
contraddizione e che una spada avrebbe trafitto l'anima della
madre, perché fossero svelati i pensieri di molti cuori (cfr. Lc
2,34-35). Infine, dopo avere perduto il fanciullo Gesù e averlo
cercato con angoscia, i suoi genitori lo trovarono nel tempio
occupato nelle cose del Padre suo, e non compresero le sue parole.
E la madre sua conservava tutte queste cose in cuor suo e le
meditava (cfr. Lc 2,41-51).
Maria
e la vita pubblica di Gesù
58.
Nella vita pubblica di Gesù la madre sua appare distintamente fin
da principio, quando alle nozze in Cana di Galilea, mossa a
compassione, indusse con la sua intercessione Gesù Messia a dar
inizio ai miracoli (cfr. Gv 2 1-11). Durante la predicazione di
lui raccolse le parole con le quali egli, mettendo il Regno al di
sopra delle considerazioni e dei vincoli della carne e del sangue,
proclamò beati quelli che ascoltano e custodiscono la parola di
Dio (cfr Mc 3,35; Lc 11,27-28), come ella stessa fedelmente faceva
(cfr. Lc 2,19 e 51). Così anche la beata Vergine avanzò nella
peregrinazione della fede e serbò fedelmente la sua unione col
Figlio sino alla croce, dove, non senza un disegno divino, se ne
stette (cfr. Gv 19,25), soffrendo profondamente col suo Unigenito
e associandosi con animo materno al suo sacrifico, amorosamente
consenziente all'immolazione della vittima da lei generata; e
finalmente dallo stesso Gesù morente in croce fu data quale madre
al discepolo con queste parole: Donna, ecco tuo figlio (cfr. Gv
19,26-27).
Maria
dopo l'ascensione
59.
Essendo piaciuto a Dio di non manifestare apertamente il mistero
della salvezza umana prima di effondere lo Spirito promesso da
Cristo, vediamo gli apostoli prima del giorno della Pentecoste “
perseveranti d'un sol cuore nella preghiera con le donne e Maria
madre di Gesù e i suoi fratelli” (At 1,14); e vediamo anche
Maria implorare con le sue preghiere il dono dello Spirito che
all'annunciazione, l'aveva presa sotto la sua ombra. Infine la
Vergine immacolata, preservata immune da ogni macchia di colpa
originale finito il corso della sua vita terrena, fu assunta alla
celeste gloria in anima e corpo e dal Signore esaltata quale
regina dell'universo per essere così più pienamente conforme al
figlio suo, Signore dei signori (cfr. Ap 19,16) e vincitore del
peccato e della morte.
III.
La beata Vergine e la Chiesa
Maria
e Cristo unico mediatore
60.
Uno solo è il nostro mediatore, secondo le parole dell'Apostolo:
“ Poiché non vi è che un solo Dio, uno solo è anche il
mediatore tra Dio e gli uomini, l'uomo Cristo Gesù, che per tutti
ha dato se stesso in riscatto ” (1 Tm 2,5-6). La funzione
materna di Maria verso gli uomini in nessun modo oscura o
diminuisce questa unica mediazione di Cristo, ma ne mostra
l'efficacia. Ogni salutare influsso della beata Vergine verso gli
uomini non nasce da una necessità oggettiva, ma da una
disposizione puramente gratuita di Dio, e sgorga dalla
sovrabbondanza dei meriti di Cristo; pertanto si fonda sulla
mediazione di questi, da essa assolutamente dipende e attinge
tutta la sua efficacia, e non impedisce minimamente l'unione
immediata dei credenti con Cristo, anzi la facilita.
Cooperazione
alla redenzione
61.
La beata Vergine, predestinata fino dall'eternità, all'interno
del disegno d'incarnazione del Verbo, per essere la madre di Dio,
per disposizione della divina Provvidenza fu su questa terra
l'alma madre del divino Redentore, generosamente associata alla
sua opera a un titolo assolutamente unico, e umile ancella del
Signore, concependo Cristo, generandolo, nutrendolo, presentandolo
al Padre nel tempio, soffrendo col Figlio suo morente in croce,
ella cooperò in modo tutto speciale all'opera del Salvatore,
coll'obbedienza, la fede, la speranza e l'ardente carità, per
restaurare la vita soprannaturale delle anime. Per questo ella è
diventata per noi madre nell'ordine della grazia.
Funzione
salvifíca subordinata
62.
E questa maternità di Maria nell'economia della grazia perdura
senza soste dal momento del consenso fedelmente prestato
nell'Annunciazione e mantenuto senza esitazioni sotto la croce,
fino al perpetuo coronamento di tutti gli eletti. Difatti anche
dopo la sua assunzione in cielo non ha interrotto questa funzione
salvifica, ma con la sua molteplice intercessione continua a
ottenerci i doni che ci assicurano la nostra salvezza eterna. Con
la sua materna carità si prende cura dei fratelli del Figlio suo
ancora peregrinanti e posti in mezzo a pericoli e affanni, fino a
che non siano condotti nella patria beata. Per questo la beata
Vergine è invocata nella Chiesa con i titoli di avvocata,
ausiliatrice, soccorritrice, mediatrice. Ciò però va inteso in
modo che nulla sia detratto o aggiunto alla dignità e alla
efficacia di Cristo, unico mediatore.
Nessuna
creatura infatti può mai essere paragonata col Verbo incarnato e
redentore. Ma come il sacerdozio di Cristo è in vari modi
partecipato, tanto dai sacri ministri, quanto dal popolo fedele, e
come l'unica bontà di Dio è realmente diffusa in vari modi nelle
creature, così anche l'unica mediazione del Redentore non
esclude, bensì suscita nelle creature una varia cooperazione
partecipata da un'unica fonte.
E
questa funzione subordinata di Maria la Chiesa non dubita di
riconoscerla apertamente; essa non cessa di farne l'esperienza e
la raccomanda all'amore dei fedeli, perché, sostenuti da questo
materno aiuto, siano più intimamente congiunti col Mediatore e
Salvatore.
Maria
vergine e madre, modello della Chiesa
63.
La beata Vergine, per il dono e l'ufficio della divina maternità
che la unisce col Figlio redentore e per le sue singolari grazie e
funzioni, è pure intimamente congiunta con la Chiesa: la madre di
Dio è figura della Chiesa, come già insegnava sant'Ambrogio,
nell'ordine cioè della fede, della carità e della perfetta
unione con Cristo. Infatti nel mistero della Chiesa, la quale pure
è giustamente chiamata madre e vergine, la beata vergine Maria
occupa il primo posto, presentandosi in modo eminente e singolare
quale vergine e quale madre. Ciò perché per la sua fede ed
obbedienza generò sulla terra lo stesso Figlio di Dio, senza
contatto con uomo, ma adombrata dallo Spirito Santo, come una
nuova Eva credendo non all'antico serpente, ma, senza alcuna
esitazione, al messaggero di Dio. Diede poi alla luce il Figlio,
che Dio ha posto quale primogenito tra i molti fratelli (cfr. Rm
8,29), cioè tra i credenti, alla rigenerazione e formazione dei
quali essa coopera con amore di madre.
La
Chiesa vergine e madre
64.
Orbene, la Chiesa contemplando la santità misteriosa della
Vergine, imitandone la carità e adempiendo fedelmente la volontà
del Padre, per mezzo della parola di Dio accolta con fedeltà
diventa essa pure madre, poiché con la predicazione e il
battesimo genera a una vita nuova e immortale i figli, concepiti
ad opera dello Spirito Santo e nati da Dio. Essa pure è vergine,
che custodisce integra e pura la fede data allo sposo; imitando la
madre del suo Signore, con la virtù dello Spirito Santo conserva
verginalmente integra la fede, salda la speranza, sincera la carità.
La
Chiesa deve imitare la virtù di Maria
65.
Mentre la Chiesa ha già raggiunto nella beatissima Vergine quella
perfezione, che la rende senza macchia e senza ruga (cfr. Ef
5,27), i fedeli del Cristo si sforzano ancora di crescere nella
santità per la vittoria sul peccato; e per questo innalzano gli
occhi a Maria, la quale rifulge come modello di virtù davanti a
tutta la comunità degli eletti. La Chiesa, raccogliendosi con
pietà nel pensiero di Maria, che contempla alla luce del Verbo
fatto uomo, con venerazione penetra più profondamente nel supremo
mistero dell'incarnazione e si va ognor più conformando col suo
sposo. Maria infatti, la quale, per la sua intima partecipazione
alla storia della salvezza, riunisce per cosi dire e riverbera le
esigenze supreme della fede, quando è fatta oggetto della
predicazione e della venerazione chiama i credenti al Figlio suo,
al suo sacrificio e all'amore del Padre. A sua volta la Chiesa,
mentre ricerca la gloria di Cristo, diventa più simile al suo
grande modello, progredendo continuamente nella fede, speranza e
carità e in ogni cosa cercando e compiendo la divina volontà.
Onde anche nella sua opera apostolica la Chiesa giustamente guarda
a colei che generò il Cristo, concepito appunto dallo Spirito
Santo e nato dalla Vergine per nascere e crescere anche nel cuore
dei fedeli per mezzo della Chiesa. La Vergine infatti nella sua
vita fu modello di quell'amore materno da cui devono essere
animati tutti quelli che nella missione apostolica della Chiesa
cooperano alla rigenerazione degli uomini.
IV.
Il culto della beata Vergine nella Chiesa
Natura
e fondamento del culto
66.
Maria, perché madre santissima di Dio presente ai misteri di
Cristo, per grazia di Dio esaltata, al di sotto del Figlio, sopra
tutti gli angeli e gli uomini, viene dalla Chiesa giustamente
onorata con culto speciale. E di fatto, già fino dai tempi più
antichi, la beata Vergine è venerata col titolo di “ madre di
Dio ” e i fedeli si rifugiano sotto la sua protezione,
implorandola in tutti i loro pericoli e le loro necessita.
Soprattutto a partire dal Concilio di Efeso il culto del popolo di
Dio verso Maria crebbe mirabilmente in venerazione e amore, in
preghiera e imitazione, secondo le sue stesse parole profetiche:
“Tutte le generazioni mi chiameranno beata, perché grandi cose
mi ha fatto l'Onnipotente” (Lc 1,48). Questo culto, quale sempre
è esistito nella Chiesa sebbene del tutto singolare, differisce
essenzialmente dal culto di adorazione reso al Verbo incarnato
cosi come al Padre e allo Spirito Santo, ed è eminentemente
adatto a promuoverlo. Infatti le varie forme di devozione verso la
madre di Dio, che la Chiesa ha approvato, mantenendole entro i
limiti di una dottrina sana e ortodossa e rispettando le
circostanze di tempo e di luogo, il temperamento e il genio
proprio dei fedeli, fanno si che, mentre è onorata la madre, il
Figlio, al quale sono volte tutte le cose (cfr Col 1,15-16) e nel
quale “piacque all'eterno Padre di far risiedere tutta la
pienezza ” (Col 1,19), sia debitamente conosciuto, amato,
glorificato, e siano osservati i suoi comandamenti.
Norme
pastorali
67.
Il santo Concilio formalmente insegna questa dottrina cattolica.
Allo stesso tempo esorta tutti i figli della Chiesa a promuovere
generosamente il culto, specialmente liturgico, verso la beata
Vergine, ad avere in grande stima le pratiche e gli esercizi di
pietà verso di lei, raccomandati lungo i secoli dal magistero
della Chiesa; raccomanda di osservare religiosamente quanto in
passato è stato sancito circa il culto delle immagini di Cristo,
della beata Vergine e dei santi. Esorta inoltre caldamente i
teologi e i predicatori della parola divina ad astenersi con ogni
cura da qualunque falsa esagerazione, come pure da una eccessiva
grettezza di spirito, nel considerare la singolare dignità della
madre di Dio. Con lo studio della sacra Scrittura, dei santi
Padri, dei dottori e delle liturgie della Chiesa, condotto sotto
la guida del magistero, illustrino rettamente gli uffici e i
privilegi della beata Vergine, i quali sempre sono orientati verso
il Cristo, origine della verità totale, della santità e della
pietà. Sia nelle parole che nei fatti evitino diligentemente ogni
cosa che possa indurre in errore i fratelli separati o qualunque
altra persona, circa la vera dottrina della Chiesa. I fedeli a
loro volta si ricordino che la vera devozione non consiste né in
uno sterile e passeggero sentimentalismo, né in una certa qual
vana credulità, bensì procede dalla fede vera, dalla quale siamo
portati a riconoscere la preminenza della madre di Dio, e siamo
spinti al filiale amore verso la madre nostra e all'imitazione
delle sue virtù.
V.
Maria, segno di certa speranza e di consolazione per il
peregrinante popolo di Dio
Maria,
segno del popolo di Dio
68.
La madre di Gesù, come in cielo, in cui è già glorificata nel
corpo e nell'anima, costituisce l'immagine e l'inizio della Chiesa
che dovrà avere il suo compimento nell'età futura, così sulla
terra brilla ora innanzi al peregrinante popolo di Dio quale segno
di sicura speranza e di consolazione, fino a quando non verrà il
giorno del Signore (cfr. 2 Pt 3,10).
Maria
interceda per l'unione dei cristiani
69.
Per questo santo Concilio è di grande gioia e consolazione il
fatto che vi siano anche tra i fratelli separati di quelli che
tributano il debito onore alla madre del Signore e Salvatore,
specialmente presso gli Orientali, i quali vanno, con ardente
slancio ed anima devota, verso la madre di Dio sempre vergine per
renderle il loro culto. Tutti i fedeli effondano insistenti
preghiere alla madre di Dio e madre degli uomini, perché, dopo
aver assistito con le sue preghiere la Chiesa nascente, anche ora,
esaltata in cielo sopra tutti i beati e gli angeli, nella
comunione dei santi interceda presso il Figlio suo, fin tanto che
tutte le famiglie di popoli, sia quelle insignite del nome
cristiano, sia quelle che ancora ignorano il loro Salvatore, in
pace e concordia siano felicemente riunite in un solo popolo di
Dio, a gloria della santissima e indivisibile Trinità.
21
novembre 1964
DAGLI
ATTI DEL CONCILIO
ECUMENICO VATICANO II
Notificazioni
fatte dall'Ecc.mo Segretario generale nella congregazione generale
123.a
È
stato chiesto quale debba essere la qualificazione teologica della
dottrina esposta nello schema sulla Chiesa e sottoposto alla
votazione. La commissione dottrinale ha dato al quesito questa
risposta: “ Come è di per sé evidente, il testo del Concilio
deve sempre essere interpretato secondo le regole generali da
tutti conosciute ”. In pari tempo la commissione dottrinale
rimanda alla sua dichiarazione del 6 marzo 1964, di cui
trascriviamo il testo:
“Tenuto
conto dell'uso conciliare e del fine pastorale del presente
Concilio, questo definisce come obbliganti per tutta la Chiesa i
soli punti concernenti la fede o i costumi, che esso stesso abbia
apertamente dichiarato come tali.
“Le
altre cose che il Concilio propone, in quanto dottrina del
magistero supremo della Chiesa, tutti e singoli i fedeli devono
accettarle e tenerle secondo lo spirito dello stesso Concilio, il
quale risulta sia dalla materia trattata, sia dalla maniera in cui
si esprime, conforme alle norme d'interpretazione teologica”.
Per
mandato dell'autorità superiore viene comunicata ai Padri una
nota esplicativa previa circa i “ modi ” concernenti il capo
terzo dello schema sulla Chiesa. La dottrina esposta nello stesso
capo terzo deve essere spiegata e compresa secondo lo spirito e la
sentenza di questa nota.
16
novembre 1964
NOTA
ESPLICATIVA PREVIA
La
commissione ha stabilito di premettere all'esame dei
"modi" le seguenti osservazioni generali:
1)
"Collegio" non si intende in senso “ strettamente
giuridico ”, cioè di un gruppo di eguali, i quali abbiano
demandata la loro potestà al loro presidente, ma di un gruppo
stabile, la cui struttura e autorità deve essere dedotta dalla
Rivelazione. Perciò nella risposta al modus 12 si dice
esplicitamente dei Dodici che il Signore li costituì “ a modo
di collegio o "gruppo" (coetus) stabile ”. Cfr. anche
il modus 53, c. Per la stessa ragione, per il collegio dei vescovi
si usano con frequenza anche le parole "ordine" (ordo) o
"corpo" (corpus). Il parallelismo fra Pietro e gli altri
apostoli da una parte, e il sommo Pontefice e i vescovi
dall'altra, non implica la trasmissione della potestà
straordinaria degli apostoli ai loro successori, né, com'è
chiaro, "uguaglianza" (aequalitatem) tra il capo e le
membra del collegio, ma solo "proporzionalità"
(proportionalitatem) fra la prima relazione (Pietro apostoli) e
l'altra (papa vescovi). Perciò la commissione ha stabilito di
scrivere nel n. 22 non "medesimo" (eodem) ma
"pari" modo. Cfr. modus 57.
2)
Si diventa "membro del collegio" in virtù della
consacrazione episcopale e mediante la comunione gerarchica col
capo del collegio e con le membra. Cfr. n. 22.
Nella
consacrazione è data una "ontologica" partecipazione ai
"sacri uffici", come indubbiamente consta dalla
tradizione, anche liturgica. Volutamente è usata la parola
"uffici" (munerum), e non "potestà"
(potestatum), perché quest'ultima voce potrebbe essere intesa di
potestà esercitabile di fatto (ad actum expedita). Ma perché si
abbia tale potestà esercitabile di fatto, deve intervenire la
"determinazione" canonica o "giuridica"
(iuridica determinatio) da parte dell'autorità gerarchica. E
questa determinazione della potestà può consistere nella
concessione di un particolare ufficio o nell'assegnazione dei
sudditi, ed è concessa secondo le norme approvate dalla suprema
autorità. Una siffatta ulteriore norma è richiesta "dalla
natura delle cose", trattandosi di uffici, che devono essere
esercitati da "più soggetti", che per volontà di
Cristo cooperano in modo gerarchico. È evidente che questa
"comunione" è stata applicata nella vita della Chiesa
secondo le circostanze dei tempi, prima di essere per così dire
codificata "nel diritto". Perciò è detto espressamente
che è richiesta la comunione "gerarchica" col capo
della Chiesa e con le membra. "Comunione" è un concetto
tenuto in grande onore nella Chiesa antica (ed anche oggi,
specialmente in Oriente). Per essa non si intende un certo vago
"sentimento", ma una "realtà organica", che
richiede una forma giuridica e che è allo stesso tempo animata
dalla carità. La commissione quindi, quasi d'unanime consenso,
stabilì che si scrivesse: “ nella comunione
"gerarchica" ”. Cfr. Mod. 40 ed anche quanto è detto
della "missione canonica", sotto il n. 24. I documenti
dei recenti romani Pontefici circa la giurisdizione dei vescovi
vanno interpretati come attinenti questa necessaria determinazione
delle potestà.
3)
Il collegio, che non si dà senza il capo, è detto essere:
“anche esso soggetto di suprema e piena potestà sulla Chiesa
universale ”. Ciò va necessariamente ammesso, per non porre in
pericolo la pienezza della potestà del romano Pontefice. Infatti
il collegio necessariamente e sempre si intende con il suo capo,
"il quale nel collegio conserva integro l'ufficio di vicario
di Cristo e pastore della Chiesa universale". In altre
parole: la distinzione non è tra il romano Pontefice e i vescovi
presi insieme, ma tra il romano Pontefice separatamente e il
romano Pontefice insieme con i vescovi. E siccome il romano
Pontefice e il "capo" del collegio, può da solo fare
alcuni atti che non competono in nessun modo ai vescovi, come
convocare e dirigere il collegio, approvare le norme dell'azione,
ecc. Cfr. Modo 81. Il sommo Pontefice, cui è affidata la cura di
tutto il gregge di Cristo, giudica e determina, secondo le
necessità della Chiesa che variano nel corso dei secoli, il modo
col quale questa cura deve essere attuata, sia in modo personale,
sia in modo collegiale. Il romano Pontefice nell'ordinare,
promuovere, approvare l'esercizio collegiale, procede secondo la
propria discrezione, avendo di mira il bene della Chiesa.
4)
Il sommo Pontefice, quale pastore supremo della Chiesa, può
esercitare la propria potestà in ogni tempo a sua discrezione,
come è richiesto dallo stesso suo ufficio. Ma il collegio, pur
esistendo sempre, non per questo permanentemente agisce con azione
"strettamente" collegiale, come appare dalla tradizione
della Chiesa. In altre parole: Non sempre è “in pieno
esercizio”, anzi non agisce con atto strettamente collegiale se
non ad intervalli e "col consenso del capo". Si dice “
col consenso del capo ”, perché non si pensi a una
"dipendenza", come nei confronti di chi è
"estraneo"; il termine "consenso" richiama, al
contrario, la "comunione" tra il capo e le membra e
implica la necessità dell'atto", il quale propriamente
compete al capo. La cosa è esplicitamente affermata nel n. 22 ed
è ivi spiegata. La formula negativa "se non" (nonnisi)
comprende tutti i casi, per cui è evidente che le
"norme" approvate dalla suprema autorità devono sempre
essere osservate. Cfr. modus 84.
Dovunque
appare che si tratta di "unione" dei vescovi "col
loro capo", e mai di azione dei vescovi
"indipendentemente" dal papa. In tal caso, infatti,
venendo a mancare l'azione del capo, i vescovi non possono agire
come collegio, come appare dalla nozione di "collegio".
Questa gerarchica comunione di tutti i vescovi col sommo Pontefice
è certamente abituale nella tradizione.
N.
B.- Senza la comunione gerarchica l'ufficio sacramentale
ontologico, che si deve distinguere dall'aspetto canonico
giuridico, "non può" essere esercitato. La commissione
ha pensato bene di non dover entrare in questioni di "liceità"
e "validità", le quali sono lasciate alla discussione
dei teologi, specialmente per ciò che riguarda la potestà che di
fatto è esercitata presso gli Orientali separati e che viene
spiegata in modi diversi.
+
PERICLE FELICI
Arcivescovo tit. di
Samosata
Segretario generale del Concilio
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