LETTERA
ENCICLICA
CENTESIMUS
ANNUS
DEL SOMMO
PONTEFICE
GIOVANNI PAOLO II
NEL CENTENARIO DELLA
«RERUM NOVARUM »
Venerati Fratelli,
carissimi Figli e Figlie,
salute e Apostolica Benedizione!
INTRODUZIONE
1. Il centenario della
promulgazione dell'Enciclica del mio predecessore Leone XIII
di v.m., che inizia con le parole Rerum novarum,1 segna
una data di rilevante importanza nella presente storia della
Chiesa ed anche nel mio pontificato. Essa, infatti, ha avuto
il privilegio di esser commemorata con solenni Documenti dai
Sommi Pontefici, a partire dal quarantesimo anniversario fino
al novantesimo: si può dire che il suo iter storico è stato
ritmato da altri scritti, che la rievocavano ed insieme la
attualizzavano.2
Nel fare altrettanto per
il centesimo anniversario su richiesta di numerosi Vescovi,
istituzioni ecclesiali, centri di studi, imprenditori e
lavoratori, sia a titolo individuale che come membri di
associazioni, desidero anzitutto soddisfare il debito di
gratitudine che l'intera Chiesa ha verso il grande Papa e il
suo « immortale Documento ».3 Desidero anche mostrare che la
ricca linfa, che sale da quella radice, non si è esaurita
col passare degli anni, ma è anzi diventata più
feconda. Ne dànno testimonianza le iniziative di vario
genere che hanno preceduto, accompagnano e seguiranno questa
celebrazione, iniziative promosse dalle Conferenze episcopali,
da Organismi internazionali, da Università ed Istituti
accademici, da Associazioni professionali e da altre
istituzioni e persone in tante parti del mondo.
2. La presente Enciclica
partecipa a queste celebrazioni per ringraziare Dio, dal quale
« discende ogni buon regalo e ogni dono perfetto » (Gc 1,17),
poiché si è servito di un Documento emanato cento anni or
sono dalla Sede di Pietro, operando nella Chiesa e nel mondo
tanto bene e diffondendo tanta luce. La commemorazione, che
qui vien fatta, riguarda l'Enciclica leoniana ed insieme le
Encicliche e gli altri scritti dei miei predecessori, che
hanno contribuito a renderla presente e operante nel tempo,
costituendo quella che sarebbe stata chiamata « dottrina
sociale », « insegnamento sociale », o anche « Magistero
sociale » della Chiesa.
Alla validità di tale
insegnamento si riferiscono già due Encicliche che ho
pubblicato negli anni del mio pontificato: la Laborem
exercens sul lavoro umano e la Sollicitudo rei socialis
sugli attuali problemi dello sviluppo degli uomini e dei
popoli.4
3. Intendo ora proporre
una « rilettura » dell'Enciclica leoniana, invitando a «
guardare indietro », al suo testo stesso per scoprire
nuovamente la ricchezza dei principi fondamentali, in essa
formulati, per la soluzione della questione operaia. Ma invito
anche a « guardare intorno », alle « cose nuove », che ci
circondano ed in cui ci troviamo, per così dire, immersi, ben
diverse dalle « cose nuove » che contraddistinsero l'ultimo
decennio del secolo passato. Invito, infine, a « guardare al
futuro », quando già s'intravede il terzo Millennio dell'era
cristiana, carico di incognite, ma anche di promesse.
Incognite e promesse che fanno appello alla nostra
immaginazione e creatività, stimolando anche la nostra
responsabilità, quali discepoli dell'« unico maestro »,
Cristo (cf Mt 23,8), nell'indicare la via, nel
proclamare la verità e nel comunicare la vita che è lui (cf Gv
14,6).
Così facendo, sarà
confermato non solo il permanente valore di tale
insegnamento, ma si manifesterà anche il vero senso
della Tradizione della Chiesa, la quale, sempre viva e
vitale, costruisce sopra il fondamento posto dai nostri padri
nella fede e, segnatamente, sopra quel che gli Apostoli
trasmisero alla Chiesa 5 in nome di Gesù Cristo, il
fondamento « che nessuno può sostituire » (cf 1 Cor 3,11).
Fu per la coscienza della
sua missione di successore di Pietro che Leone XIII si propose
di parlare, e la stessa coscienza anima oggi il suo
successore. Come lui, e come i Pontefici prima e dopo di lui,
mi ispiro all'immagine evangelica dello « scriba divenuto
discepolo del Regno dei cieli », del quale il Signore dice
che « è simile ad un padrone di casa, che dal suo tesoro sa
trarre cose nuove e cose antiche » (Mt 13,52). Il
tesoro è la grande corrente della Tradizione della Chiesa,
che contiene le « cose antiche », ricevute e trasmesse da
sempre, e permette di leggere le « cose nuove », in mezzo
alle quali trascorre la vita della Chiesa e del mondo.
Di tali cose che,
incorporandosi alla Tradizione, diventano antiche ed offrono
occasioni e materiale per il suo arricchimento e per
l'arricchimento della vita di fede, fa parte anche l'operosità
feconda di milioni e milioni di uomini, che, stimolati dal
Magistero sociale, si sono sforzati di ispirarsi ad esso in
ordine al proprio impegno nel mondo. Agendo individualmente, o
variamente coordinati in gruppi, associazioni ed
organizzazioni, essi hanno costituito come un grande
movimento per la difesa della persona umana e la tutela
della sua dignità, il che nelle alterne vicende della storia
ha contribuito a costruire una società più giusta o, almeno,
a porre argini e limiti all'ingiustizia.
La presente Enciclica mira
a mettere in evidenza la fecondità dei principi espressi da
Leone XIII, i quali appartengono al patrimonio dottrinale
della Chiesa e, per tale titolo, impegnano l'autorità del suo
Magistero. Ma la sollecitudine pastorale mi ha spinto, altresì,
a proporre l'analisi di alcuni avvenimenti della storia
recente. È superfluo rilevare che il considerare
attentamente il corso degli avvenimenti per discernere le
nuove esigenze dell'evangelizzazione fa parte del compito dei
Pastori. Tale esame, tuttavia, non intende dare giudizi
definitivi, in quanto di per sé non rientra nell'ambito
specifico del Magistero.
I.
TRATTI CARATTERISTICI DELLA « RERUM NOVARUM »
4. Sul finire del secolo
scorso la Chiesa si trovò di fronte ad un processo storico,
in atto già da qualche tempo, ma che raggiungeva allora un
punto nevralgico. Fattore determinante di tale processo fu un
insieme di radicali mutamenti avvenuti nel campo politico,
economico e sociale, ma anche nell'ambito scientifico e
tecnico, oltre al multiforme influsso delle ideologie
dominanti. Risultato di questi cambiamenti era stata, in campo
politico, una nuova concezione della società e dello Stato
e, di conseguenza, dell'autorità. Una società
tradizionale si dissolveva e cominciava a formarsene un'altra,
carica della speranza di nuove libertà, ma anche dei pericoli
di nuove forme di ingiustizia e servitù.
In campo economico, dove
confluivano le scoperte e le applicazioni delle scienze, si
era arrivati progressivamente a nuove strutture nella
produzione dei beni di consumo. Era apparsa una nuova forma
di proprietà, il capitale, e una nuova forma di
lavoro, il lavoro salariato, caratterizzato da gravosi
ritmi di produzione, senza i dovuti riguardi per il sesso,
l'età o la situazione familiare, ma unicamente determinato
dall'efficienza in vista dell'incremento del profitto.
Il lavoro diventava così
una merce, che poteva essere liberamente acquistata e venduta
sul mercato ed il cui prezzo era regolato dalla legge della
domanda e dell'offerta, senza tener conto del minimo vitale
necessario per il sostentamento della persona e della sua
famiglia. Per di più, il lavoratore non aveva nemmeno la
sicurezza di riuscire a vendere la « propria merce »,
essendo continuamente minacciato dalla disoccupazione, la
quale, in assenza di previdenze sociali, significava lo
spettro della morte per fame.
Conseguenza di questa
trasformazione era « la divisione della società in due
classi separate da un abisso profondo »: 6 tale situazione si
intrecciava con l'accentuato mutamento di ordine politico. Così
la teoria politica allora dominante cercava di promuovere, con
leggi appropriate o, al contrario, con voluta assenza di
qualsiasi intervento, la totale libertà economica. Nello
stesso tempo, cominciava a sorgere in forma organizzata, e non
poche volte violenta, un'altra concezione della proprietà e
della vita economica, che implicava una nuova organizzazione
politica e sociale.
Nel momento culminante di
questa contrapposizione, quando ormai apparivano in piena luce
la gravissima ingiustizia della realtà sociale, quale
esisteva in molte parti, ed il pericolo di una rivoluzione
favorita dalle concezioni allora chiamate « socialiste »,
Leone XIII intervenne con un Documento che affrontava in modo
organico la « questione operaia ». L'Enciclica era stata
preceduta da altre, dedicate piuttosto ad insegnamenti di
carattere politico, mentre altre ancora seguiranno più tardi.7
In questo contesto è da ricordare, in particolare,
l'Enciclica Libertas praestantissimum, in cui era
richiamato il legame costitutivo della libertà umana con la
verità, tale che una libertà che rifiuti di vincolarsi alla
verità scadrebbe in arbitrio e finirebbe col sottomettere se
stessa alle passioni più vili e con l'autodistruggersi. Da
cosa derivano, infatti, tutti i mali a cui la Rerum novarum
vuole reagire se non da una libertà che, nel campo
dell'attività economica e sociale, si distacca dalla verità
dell'uomo?
Il Pontefice si ispirava,
inoltre, all'insegnamento dei predecessori, nonché ai molti
Documenti episcopali, agli studi scientifici promossi da
laici, all'azione di movimenti e associazioni cattoliche ed
alle concrete realizzazioni in campo sociale, che
contraddistinsero la vita della Chiesa nella seconda metà del
XIX secolo.
5. Le « cose nuove »,
alle quali il Papa si riferiva, erano tutt'altro che positive.
Il primo paragrafo dell'Enciclica descrive le « cose nuove »,
che le han dato il nome, con parole forti: « Una volta
suscitata la brama di cose nuove, che da tempo sta
sconvolgendo gli Stati, ne sarebbe derivato come conseguenza
che i desideri di cambiamenti si trasferissero alla
fine dall'ordine politico al settore contiguo dell'economia.
Difatti, i progressi incessanti dell'industria, le nuove
strade aperte dalle professioni, le mutate relazioni tra
padroni e operai; l'accumulo della ricchezza nelle mani di
pochi, accanto alla miseria della moltitudine; la maggiore
coscienza che i lavoratori hanno acquistato di sé e, di
conseguenza, una maggiore unione tra essi ed inoltre il
peggioramento dei costumi, tutte queste cose hanno fatto
scoppiare un conflitto ».8
Il Papa, e con lui la
Chiesa, come anche la comunità civile, si trovavano di fronte
ad una società divisa da un conflitto, tanto più duro e
inumano perché non conosceva regola né norma. Era il
conflitto tra il capitale e il lavoro, o — come lo
chiamava l'Enciclica — la questione operaia, e proprio su di
esso, nei termini acutissimi in cui allora si prospettava, il
Papa non esitò a dire la sua parola.
Si presenta qui la prima
riflessione, che l'Enciclica suggerisce per il tempo presente.
Di fronte ad un conflitto che opponeva, quasi come « lupi »,
l'uomo all'uomo fin sul piano della sussistenza fisica degli
uni e dell'opulenza degli altri, il Papa non dubitò di dover
intervenire, in virtù del suo « ministero apostolico »,9
ossia della missione ricevuta da Gesù Cristo stesso di «
pascere gli agnelli e le pecorelle » (cf Gv 21,15-17)
e di « legare e sciogliere sulla terra » per il Regno dei
cieli (cf Mt 16,19). Sua intenzione era certamente
quella di ristabilire la pace, e il lettore contemporaneo non
può non notare la severa condanna della lotta di classe, che
egli pronunciava senza mezzi termini.10 Ma era ben consapevole
del fatto che la pace si edifica sul fondamento della
giustizia: contenuto essenziale dell'Enciclica fu appunto
quello di proclamare le condizioni fondamentali della
giustizia nella congiuntura economica e sociale di allora.11
In questo modo Leone XIII,
sulle orme dei predecessori, stabiliva un paradigma permanente
per la Chiesa. Questa, infatti, ha la sua parola da dire di
fronte a determinate situazioni umane, individuali e
comunitarie, nazionali e internazionali, per le quali formula
una vera dottrina, un corpus, che le permette di
analizzare le realtà sociali, di pronunciarsi su di esse e di
indicare orientamenti per la giusta soluzione dei problemi che
ne derivano.
Ai tempi di Leone XIII una
simile concezione del diritto-dovere della Chiesa era ben
lontana dall'essere comunemente ammessa. Prevaleva, infatti,
una duplice tendenza: l'una orientata a questo mondo ed a
questa vita, alla quale la fede doveva rimanere estranea;
l'altra rivolta verso una salvezza puramente ultraterrena, che
però non illuminava né orientava la presenza sulla terra.
L'atteggiamento del Papa nel pubblicare la Rerum novarum
conferì alla Chiesa quasi uno « statuto di cittadinanza »
nelle mutevoli realtà della vita pubblica, e ciò si sarebbe
affermato ancor più in seguito. In effetti, per la Chiesa
insegnare e diffondere la dottrina sociale appartiene alla sua
missione evangelizzatrice e fa parte essenziale del messaggio
cristiano, perché tale dottrina ne propone le dirette
conseguenze nella vita della società ed inquadra il lavoro
quotidiano e le lotte per la giustizia nella testimonianza a
Cristo Salvatore. Essa costituisce, altresì, una fonte di
unità e di pace dinanzi ai conflitti che inevitabilmente
insorgono nel settore economico-sociale. Diventa in tal modo
possibile vivere le nuove situazioni senza avvilire la
trascendente dignità della persona umana né in se stessi né
negli avversari, ed avviarle a retta soluzione.
Ora, la validità di tale
orientamento mi offre, a distanza di cento anni, l'opportunità
di dare un contributo all'elaborazione della dottrina sociale
cristiana. La « nuova evangelizzazione », di cui il mondo
moderno ha urgente necessità e su cui ho più volte
insistito, deve annoverare tra le sue componenti essenziali
l'annuncio della dottrina sociale della Chiesa, idonea
tuttora, come ai tempi di Leone XIII, ad indicare la retta via
per rispondere alle grandi sfide dell'età contemporanea,
mentre cresce il discredito delle ideologie. Come allora,
bisogna ripetere che non c'è vera soluzione della «
questione sociale » fuori del Vangelo e che, d'altra
parte, le « cose nuove » possono trovare in esso il loro
spazio di verità e la dovuta impostazione morale.
6. Proponendosi di far
luce sul conflitto che si era venuto a creare tra
capitale e lavoro, Leone XIII affermava i diritti fondamentali
dei lavoratori. Per questo, la chiave di lettura del testo
leoniano è la dignità del lavoratore in quanto tale
e, per ciò stesso, la dignità del lavoro, che viene
definito come « l'attività umana ordinata a provvedere ai
bisogni della vita, e specialmente alla conservazione ».12 Il
Pontefice qualifica il lavoro come « personale », perché «
la forza attiva è inerente alla persona e del tutto propria
di chi la esercita ed al cui vantaggio fu data ».13 Il lavoro
appartiene così alla vocazione di ogni persona; l'uomo, anzi,
si esprime e si realizza nella sua attività di lavoro. Nello
stesso tempo, il lavoro ha una dimensione « sociale » per la
sua intima relazione sia con la famiglia, sia anche col bene
comune, « poiché si può affermare con verità che il lavoro
degli operai è quello che produce la ricchezza degli Stati ».14
È quanto ho ripreso e sviluppato nell'Enciclica Laborem
exercens.15
Un altro principio
rilevante è senza dubbio quello del diritto alla «
proprietà privata ».16 Lo spazio stesso, che l'Enciclica
gli dedica, rivela l'importanza che gli si attribuisce. Il
Papa è ben cosciente del fatto che la proprietà privata non
è un valore assoluto, né tralascia di proclamare i principi
di necessaria complementarità, come quello della destinazione
universale dei beni della terra.17
D'altra parte, è
senz'altro vero che il tipo di proprietà privata, che egli
precipuamente considera, è quello della proprietà della
terra.18 Ciò, tuttavia, non impedisce che le ragioni addotte
per tutelare la proprietà privata, ossia per affermare il
diritto di possedere le cose necessarie per lo sviluppo
personale e della propria famiglia — quale che sia la forma
concreta che questo diritto può assumere —, conservino oggi
il loro valore. Ciò deve essere nuovamente affermato sia di
fronte ai cambiamenti, di cui siamo testimoni, avvenuti nei
sistemi dove imperava la proprietà collettiva dei mezzi di
produzione; sia anche di fronte ai crescenti fenomeni di
povertà o, più esattamente, agli impedimenti della proprietà
privata, che si presentano in tante parti del mondo, comprese
quelle in cui predominano i sistemi che dell'affermazione del
diritto di proprietà privata fanno il loro fulcro. A seguito
di detti cambiamenti e della persistenza della povertà, si
rivela necessaria una più profonda analisi del problema, come
sarà sviluppata più avanti.
7. In stretta relazione
col diritto di proprietà l'Enciclica di Leone XIII afferma
parimenti altri diritti, come propri e inalienabili
della persona umana. Tra essi è preminente, per lo spazio che
il Papa gli dedica e l'importanza che gli attribuisce, il «
diritto naturale dell'uomo » a formare associazioni private;
il che significa, anzitutto, il diritto a creare
associazioni professionali di imprenditori e operai, o di
soli operai.19 Si coglie qui la ragione per cui la Chiesa
difende e approva la creazione di quelli che comunemente si
chiamano sindacati, non certo per pregiudizi ideologici, né
per cedere a una mentalità di classe, ma perché l'associarsi
è un diritto naturale dell'essere umano e, dunque, anteriore
rispetto alla sua integrazione nella società politica.
Infatti, « non può lo Stato proibirne la formazione »,
perché « i diritti naturali lo Stato deve tutelarli, non
distruggerli. Vietando tali associazioni, esso contraddice se
stesso ».20
Insieme con questo
diritto, che — è doveroso sottolineare — il Papa
riconosce esplicitamente agli operai o, secondo il suo
linguaggio, ai « proletari », sono affermati con eguale
chiarezza il diritto alla « limitazione delle ore di lavoro
», al legittimo riposo e ad un diverso trattamento dei
fanciulli e delle donne 21 quanto al tipo e alla durata del
lavoro.
Se si tiene presente ciò
che dice la storia circa i procedimenti consentiti, o almeno
non esclusi legalmente, in ordine alla contrattazione senza
alcuna garanzia né quanto alle ore di lavoro, né quanto alle
condizioni igieniche dell'ambiente ed ancora senza riguardo
per l'età e il sesso dei candidati all'occupazione, ben si
comprende la severa affermazione del Papa. « Non è giusto né
umano — egli scrive — esigere dall'uomo tanto lavoro, da
farne per la troppa fatica istupidire la mente e da fiaccarne
il corpo ». E con maggior precisione, riferendosi al
contratto, inteso a far entrare in vigore simili « relazioni
di lavoro », afferma: « In ogni convenzione stipulata tra
padroni ed operai vi è sempre la condizione o espressa o
sottintesa » che si sia provveduto convenientemente al
riposo, proporzionato « alla somma delle energie consumate
nel lavoro »; poi conclude: « Un patto contrario sarebbe
immorale ».22
8. Subito dopo il Papa
enuncia un altro diritto dell'operaio in quanto
persona. Si tratta del diritto al « giusto salario », il
quale non può essere lasciato « al libero consenso delle
parti: sicché il datore di lavoro, pagata la mercede, ha
fatto la sua parte, né sembra sia debitore di altro ».23 Lo
Stato — si diceva a quel tempo — non ha potere di
intervenire nella determinazione di questi contratti, se non
per assicurare l'adempimento di quanto è stato esplicitamente
pattuito. Una simile concezione delle relazioni tra padroni e
operai, puramente pragmatica ed ispirata ad un rigoroso
individualismo, viene severamente biasimata nell'Enciclica,
perché contraria alla duplice natura del lavoro, come fatto
personale e necessario. Poiché, se il lavoro, in quanto
personale, rientra nella disponibilità che ciascuno ha
delle proprie facoltà ed energie, in quanto necessario
è regolato dal grave obbligo che ciascuno ha di «
conservarsi in vita »; « di qui nasce per necessaria
conseguenza — conclude il Papa — il diritto di procurarsi
i mezzi di sostentamento, che per la povera gente si riducono
al salario del proprio lavoro ».24
Il salario deve essere
sufficiente a mantenere l'operaio e la sua famiglia. Se il
lavoratore, « costretto dalla necessità, o per timore del
peggio, accetta patti più duri perché imposti dal
proprietario o dall'imprenditore, e che volenti o nolenti
debbono essere accettati, è chiaro che subisce una violenza
contro la quale la giustizia protesta ».25
Volesse Dio che queste
parole, scritte mentre avanzava il cosiddetto « capitalismo
selvaggio », non debbano oggi essere ripetute con la medesima
severità. Purtroppo, si riscontrano ancora oggi casi di
contratti tra padroni e operai, nei quali è ignorata la più
elementare giustizia in materia di lavoro minorile o
femminile, circa gli orari di lavoro, lo stato igienico dei
locali e l'equa retribuzione. E questo nonostante le Dichiarazioni
e Convenzioni internazionali al riguardo,26 e le
stesse leggi interne degli Stati. Il Papa attribuiva
all'« autorità pubblica » lo « stretto dovere » di
prendersi debita cura del benessere dei lavoratori, perché
non facendolo si offendeva la giustizia; anzi, non esitava a
parlare di « giustizia distributiva ».27
9. A tali diritti Leone
XIII ne aggiunge un altro, sempre a proposito della
condizione operaia, che desidero ricordare per l'importanza
che ha: il diritto di adempiere liberamente i doveri
religiosi. Il Papa lo proclama nel contesto degli altri
diritti e doveri degli operai, nonostante il clima generale
che, anche ai suoi tempi, considerava certe questioni come
attinenti esclusivamente all'ambito privato. Egli afferma la
necessità del riposo festivo, perché l'uomo sia riportato al
pensiero dei beni celesti e al culto dovuto alla maestà
divina.28 Di questo diritto, radicato in un comandamento,
nessuno può privare l'uomo: « A nessuno è lecito violare
impunemente la dignità dell'uomo, di cui Dio stesso dispone
con grande rispetto »; di conseguenza, lo Stato deve
assicurare all'operaio l'esercizio di tale libertà.29
Non sbaglierebbe chi in
questa limpida affermazione vedesse il germe del principio del
diritto alla libertà religiosa, divenuto poi oggetto di molte
solenni Dichiarazioni e Convenzioni internazionali,30
nonché della nota Dichiarazione conciliare e del mio
ripetuto insegnamento.31 Al riguardo, ci si deve domandare se
gli ordinamenti legali vigenti e la prassi delle società
industrializzate assicurino oggi effettivamente l'elementare
diritto al riposo festivo.
10. Un'altra importante
nota, ricca di insegnamenti per i nostri giorni, è la
concezione dei rapporti tra lo Stato ed i cittadini. La Rerum
novarum critica i due sistemi sociali ed economici: il
socialismo e il liberalismo. Al primo è dedicata la parte
iniziale, nella quale si riafferma il diritto alla proprietà
privata; al secondo non è dedicata una speciale sezione, ma
— cosa meritevole di attenzione — si riservano le
critiche, quando si affronta il tema dei doveri dello Stato.32
Questo non può limitarsi a « provvedere ad una parte dei
cittadini », cioè a quella ricca e prospera, e non può «
trascurare l'altra », che rappresenta indubbiamente la grande
maggioranza del corpo sociale; altrimenti si offende la
giustizia, che vuole si renda a ciascuno il suo. « Tuttavia,
nel tutelare questi diritti dei privati, si deve avere un
riguardo speciale ai deboli e ai poveri. La classe dei ricchi,
forte per se stessa, ha meno bisogno della pubblica difesa; la
classe proletaria, mancando di un proprio sostegno, ha
speciale necessità di cercarla nella protezione dello Stato.
Perciò agli operai, che sono nel numero dei deboli e
bisognosi, lo Stato deve rivolgere di preferenza le sue cure e
provvidenze ».33
Questi passi oggi hanno
valore soprattutto di fronte alle nuove forme di povertà
esistenti nel mondo, anche perché sono affermazioni che non
dipendono da una determinata concezione dello Stato né da una
particolare teoria politica. Il Papa ribadisce un elementare
principio di ogni sana organizzazione politica, cioè che gli
individui, quanto più sono indifesi in una società, tanto più
necessitano dell'interessamento e della cura degli altri e, in
particolare, dell'intervento dell'autorità pubblica.
In tal modo il principio,
che oggi chiamiamo di solidarietà, e la cui validità, sia
nell'ordine interno a ciascuna Nazione, sia nell'ordine
internazionale, ho richiamato nella Sollicitudo rei
socialis,34 si dimostra come uno dei principi basilari
della concezione cristiana dell'organizzazione sociale e
politica. Esso è più volte enunciato da Leone XIII col nome
di « amicizia », che troviamo già nella filosofia greca; da
Pio XI è designato col nome non meno significativo di «
carità sociale », mentre Paolo VI, ampliando il concetto
secondo le moderne e molteplici dimensioni della questione
sociale, parlava di « civiltà dell'amore ».35
11. La rilettura
dell'Enciclica alla luce delle realtà contemporanee permette
di apprezzare la costante preoccupazione e dedizione della
Chiesa verso quelle categorie di persone, che sono oggetto
di predilezione da parte del Signore Gesù. Il contenuto del
testo è un'eccellente testimonianza della continuità, nella
Chiesa, della cosiddetta « opzione preferenziale per i poveri
», opzione che ho definito come una « forma speciale di
primato nell'esercizio della carità cristiana ».36
L'Enciclica sulla « questione operaia », dunque, è
un'Enciclica sui poveri e sulla terribile condizione, alla
quale il nuovo e non di raro violento processo di
industrializzazione aveva ridotto grandi moltitudini. Anche
oggi, in gran parte del mondo, simili processi di
trasformazione economica, sociale e politica producono i
medesimi mali.
Se Leone XIII si appella
allo Stato per rimediare secondo giustizia alla condizione dei
poveri, lo fa anche perché riconosce opportunamente che lo
Stato ha il compito di sovraintendere al bene comune e di
curare che ogni settore della vita sociale, non escluso quello
economico, contribuisca a promuoverlo, pur nel rispetto della
giusta autonomia di ciascuno di essi. Ciò, però, non deve
far pensare che per Papa Leone ogni soluzione della questione
sociale debba venire dallo Stato. Al contrario, egli insiste
più volte sui necessari limiti dell'intervento dello Stato e
sul suo carattere strumentale, giacché l'individuo, la
famiglia e la società gli sono anteriori ed esso esiste per
tutelare i diritti dell'uno e delle altre, e non già per
soffocarli.37
A nessuno sfugge
l'attualità di queste riflessioni. Sull'importante tema delle
limitazioni inerenti alla natura dello Stato converrà tornare
più avanti; intanto, i punti sottolineati, non certo gli
unici dell'Enciclica, si pongono in continuità nel Magistero
sociale della Chiesa, anche alla luce di una sana concezione
della proprietà privata, del lavoro, del processo economico,
della realtà dello Stato e, prima di tutto, dell'uomo stesso.
Altri temi saranno menzionati in seguito nell'esaminare taluni
aspetti della realtà contemporanea; ma occorre tener presente
fin d'ora che ciò che fa da trama e, in certo modo, da guida
all'Enciclica ed a tutta la dottrina sociale della Chiesa, è la
corretta concezione della persona umana e del suo valore
unico, in quanto « l'uomo ... in terra è la sola
creatura che Dio abbia voluto per se stessa ».38 In lui ha
scolpito la sua immagine e somiglianza (cf Gn 1,26),
conferendogli una dignità incomparabile, sulla quale più
volte insiste l'Enciclica. In effetti, al di là dei diritti
che l'uomo acquista col proprio lavoro, esistono diritti che
non sono il corrispettivo di nessuna opera da lui prestata, ma
che derivano dall'essenziale sua dignità di persona.
II.
VERSO LE « COSE NUOVE » DI OGGI
12. La commemorazione
della Rerum novarum non sarebbe adeguata, se non
guardasse pure alla situazione di oggi. Già nel suo contenuto
il Documento si presta ad una tale considerazione, perché il
quadro storico e le previsioni ivi delineate si rivelano, alla
luce di quanto è accaduto in seguito, sorprendentemente
esatte.
Ciò è confermato, in
particolare, dagli avvenimenti degli ultimi mesi dell'anno
1989 e dei primi del 1990. Essi e le conseguenti
trasformazioni radicali non si spiegano se non in base alle
situazioni anteriori, le quali, in certa misura, avevano
cristallizzato o istituzionalizzato le previsioni di Leone
XIII ed i segnali, sempre più inquieti, avvertiti dai suoi
successori. Papa Leone, infatti, previde le conseguenze
negative sotto tutti gli aspetti, politico, sociale ed
economico, di un ordinamento della società quale proponeva il
« socialismo », che allora era allo stadio di filosofia
sociale e di movimento più o meno strutturato. Qualcuno
potrebbe meravigliarsi del fatto che il Papa cominciava dal «
socialismo » la critica delle soluzioni che si davano della
« questione operaia », quando esso non si presentava ancora
— come poi accadde — sotto la forma di uno Stato forte e
potente con tutte le risorse a disposizione. Tuttavia, egli
valutò esattamente il pericolo che rappresentava per le masse
l'attraente presentazione di una soluzione tanto semplice
quanto radicale della questione operaia di allora. Ciò
risulta tanto più vero, se vien considerato in relazione con
la paurosa condizione di ingiustizia in cui giacevano le masse
proletarie nelle Nazioni da poco industrializzate.
Occorre qui sottolineare
due cose: da una parte, la grande lucidità nel percepire, in
tutta la sua crudezza, la reale condizione dei proletari,
uomini, donne e bambini; dall'altra, la non minore chiarezza
con cui si intuisce il male di una soluzione che, sotto
l'apparenza di un'inversione delle posizioni di poveri e
ricchi, andava in realtà a detrimento di quegli stessi che si
riprometteva di aiutare. Il rimedio si sarebbe così rivelato
peggiore del male. Individuando la natura del socialismo del
suo tempo nella soppressione della proprietà privata, Leone
XIII arrivava al nodo della questione.
Le sue parole meritano di
essere rilette con attenzione: « Per rimediare a questo male
(l'ingiusta distribuzione delle ricchezze e la miseria dei
proletari), i socialisti spingono i poveri all'odio contro i
ricchi, e sostengono che la proprietà privata deve essere
abolita ed i beni di ciascuno debbono essere comuni a tutti
...; ma questa teoria, oltre a non risolvere la questione, non
fa che danneggiare gli stessi operai, ed è inoltre ingiusta
per molti motivi, giacché contro i diritti dei legittimi
proprietari snatura le funzioni dello Stato e scompagina tutto
l'ordine sociale ».39 Non si potrebbero indicar meglio i mali
indotti dall'instaurazione di questo tipo di socialismo come
sistema di Stato: quello che avrebbe preso il nome di «
socialismo reale ».
13. Approfondendo ora la
riflessione e facendo anche riferimento a quanto è stato
detto nelle Encicliche Laborem exercens e Sollicitudo
rei socialis, bisogna aggiungere che l'errore fondamentale
del socialismo è di carattere antropologico. Esso, infatti,
considera il singolo uomo come un semplice elemento ed una
molecola dell'organismo sociale, di modo che il bene
dell'individuo viene del tutto subordinato al funzionamento
del meccanismo economico-sociale, mentre ritiene, d'altro
canto, che quel medesimo bene possa essere realizzato
prescindendo dalla sua autonoma scelta, dalla sua unica ed
esclusiva assunzione di responsabilità davanti al bene o al
male. L'uomo così è ridotto ad una serie di relazioni
sociali, e scompare il concetto di persona come soggetto
autonomo di decisione morale, il quale costruisce mediante
tale decisione l'ordine sociale. Da questa errata concezione
della persona discendono la distorsione del diritto che
definisce la sfera di esercizio della libertà, nonché
l'opposizione alla proprietà privata. L'uomo, infatti, privo
di qualcosa che possa « dir suo » e della possibilità di
guadagnarsi da vivere con la sua iniziativa, viene a dipendere
dalla macchina sociale e da coloro che la controllano: il che
gli rende molto più difficile riconoscere la sua dignità di
persona ed inceppa il cammino per la costituzione di
un'autentica comunità umana.
Al contrario, dalla
concezione cristiana della persona segue necessariamente una
visione giusta della società. Secondo la Rerum novarum
e tutta la dottrina sociale della Chiesa, la socialità
dell'uomo non si esaurisce nello Stato, ma si realizza in
diversi gruppi intermedi, cominciando dalla famiglia fino ai
gruppi economici, sociali, politici e culturali che,
provenienti dalla stessa natura umana, hanno — sempre dentro
il bene comune — la loro propria autonomia. È quello che ho
chiamato la « soggettività » della società che, insieme
alla soggettività dell'individuo, è stata annullata dal «
socialismo reale ».40
Se ci si domanda poi donde
nasca quell'errata concezione della natura della persona e
della « soggettività » della società, bisogna rispondere
che la prima causa è l'ateismo. È nella risposta all'appello
di Dio, contenuto nell'essere delle cose, che l'uomo diventa
consapevole della sua trascendente dignità. Ogni uomo deve
dare questa risposta, nella quale consiste il culmine della
sua umanità, e nessun meccanismo sociale o soggetto
collettivo può sostituirlo. La negazione di Dio priva la
persona del suo fondamento e, di conseguenza, induce a
riorganizzare l'ordine sociale prescindendo dalla dignità e
responsabilità della persona.
L'ateismo di cui si parla,
del resto, è strettamente connesso col razionalismo
illuministico, che concepisce la realtà umana e sociale in
modo meccanicistico. Si negano in tal modo l'intuizione ultima
circa la vera grandezza dell'uomo, la sua trascendenza
rispetto al mondo delle cose, la contraddizione ch'egli
avverte nel suo cuore tra il desiderio di una pienezza di bene
e la propria inadeguatezza a conseguirlo e, soprattutto, il
bisogno di salvezza che ne deriva.
14. Dalla medesima radice
ateistica scaturisce anche la scelta dei mezzi di azione
propria del socialismo, che è condannato nella Rerum
novarum. Si tratta della lotta di classe. Il Papa,
beninteso, non intende condannare ogni e qualsiasi forma di
conflittualità sociale: la Chiesa sa bene che nella storia i
conflitti di interessi tra diversi gruppi sociali insorgono
inevitabilmente e che di fronte ad essi il cristiano deve
spesso prender posizione con decisione e coerenza. L'Enciclica
Laborem exercens, del resto, ha riconosciuto
chiaramente il ruolo positivo del conflitto, quando esso si
configuri come « lotta per la giustizia sociale »; 41 e già
la Quadragesimo anno scriveva: « La lotta di classe,
infatti, quando si astenga dagli atti di violenza e dall'odio
vicendevole, si trasforma a poco a poco in una onesta
discussione, fondata nella ricerca della giustizia ».42
Ciò che viene condannato
nella lotta di classe è, piuttosto, l'idea di un conflitto
che non è limitato da considerazioni di carattere etico o
giuridico, che si rifiuta di rispettare la dignità della
persona nell'altro (e, di conseguenza, in se stesso), che
esclude, perciò, un ragionevole accomodamento e persegue non
già il bene generale della società, bensì un interesse di
parte che si sostituisce al bene comune e vuol distruggere ciò
che gli si oppone. Si tratta, in una parola, della
ripresentazione — sul terreno del confronto interno tra i
gruppi sociali — della dottrina della « guerra totale »,
che il militarismo e l'imperialismo di quell'epoca imponevano
nell'ambito dei rapporti internazionali. Tale dottrina alla
ricerca del giusto equilibrio tra gli interessi delle diverse
Nazioni sostituiva quella dell'assoluto prevalere della
propria parte mediante la distruzione del potere di resistenza
della parte avversa, distruzione attuata con ogni mezzo, non
esclusi l'uso della menzogna, il terrore contro i civili, le
armi di sterminio (che proprio in quegli anni cominciavano ad
essere progettate). Lotta di classe in senso marxista e
militarismo, dunque, hanno le stesse radici: l'ateismo e il
disprezzo della persona umana, che fan prevalere il principio
della forza su quello della ragione e del diritto.
15. La Rerum novarum
si oppone alla statalizzazione degli strumenti di produzione,
che ridurrebbe ogni cittadino ad un « pezzo »
nell'ingranaggio della macchina dello Stato. Non meno
decisamente essa critica la concezione dello Stato che lascia
il settore dell'economia totalmente al di fuori del suo campo
di interesse e di azione. Esiste certo una legittima sfera di
autonomia dell'agire economico, nella quale lo Stato non deve
entrare. Questo, però, ha il compito di determinare la
cornice giuridica, al cui interno si svolgono i rapporti
economici, e di salvaguardare in tal modo le condizioni prime
di un'economia libera, che presuppone una certa eguaglianza
tra le parti, tale che una di esse non sia tanto più potente
dell'altra da poterla ridurre praticamente in schiavitù.43
A questo riguardo, la Rerum
novarum indica la via delle giuste riforme, che
restituiscano al lavoro la sua dignità di libera attività
dell'uomo. Esse implicano un'assunzione di responsabilità da
parte della società e dello Stato, diretta soprattutto a
difendere il lavoratore contro l'incubo della disoccupazione.
Ciò storicamente si è verificato in due modi convergenti: o
con politiche economiche, volte ad assicurare la crescita
equilibrata e la condizione di piena occupazione; o con le
assicurazioni contro la disoccupazione e con politiche di
riqualificazione professionale, capaci di facilitare il
passaggio dei lavoratori da settori in crisi ad altri in
sviluppo.
Inoltre, la società e lo
Stato devono assicurare livelli salariali adeguati al
mantenimento del lavoratore e della sua famiglia, inclusa una
certa capacità di risparmio. Ciò richiede sforzi per dare ai
lavoratori cognizioni e attitudini sempre migliori e tali da
rendere il loro lavoro più qualificato e produttivo; ma
richiede anche un'assidua sorveglianza ed adeguate misure
legislative per stroncare fenomeni vergognosi di sfruttamento,
soprattutto a danno dei lavoratori più deboli, immigrati o
marginali. Decisivo in questo settore è il ruolo dei
sindacati, che contrattano i minimi salariali e le condizioni
di lavoro.
Infine, bisogna garantire
il rispetto di orari « umani » di lavoro e di riposo, oltre
che il diritto di esprimere la propria personalità sul luogo
di lavoro, senza essere violati in alcun modo nella propria
coscienza o nella propria dignità. Anche qui è da richiamare
il ruolo dei sindacati non solo come strumenti di
contrattazione, ma anche come « luoghi » di espressione
della personalità dei lavoratori: essi servono allo sviluppo
di un'autentica cultura del lavoro ed aiutano i lavoratori a
partecipare in modo pienamente umano alla vita dell'azienda.44
Al conseguimento di questi
fini lo Stato deve concorrere sia direttamente che
indirettamente. Indirettamente e secondo il principio di
sussidiarietà, creando le condizioni favorevoli al libero
esercizio dell'attività economica, che porti ad una offerta
abbondante di opportunità di lavoro e di fonti di ricchezza.
Direttamente e secondo il principio di solidarietà,
ponendo a difesa del più debole alcuni limiti all'autonomia
delle parti, che decidono le condizioni di lavoro, ed
assicurando in ogni caso un minimo vitale al lavoratore
disoccupato.45
L'Enciclica ed il
Magistero sociale, ad essa collegato, ebbero una molteplice
influenza negli anni tra il XIX e il XX secolo. Tale influenza
si riflette in numerose riforme introdotte nei settori della
previdenza sociale, delle pensioni, delle assicurazioni contro
le malattie, della prevenzione degli infortuni, nel quadro di
un maggiore rispetto dei diritti dei lavoratori.46
16. Le riforme in parte
furono realizzate dagli Stati, ma nella lotta per ottenerle
ebbe un ruolo importante l'azione del Movimento operaio. Nato
come reazione della coscienza morale contro situazioni di
ingiustizia e di danno, esso esplicò una vasta attività
sindacale, riformista, lontana dalle nebbie dell'ideologia e
più vicina ai bisogni quotidiani dei lavoratori e, in questo
ambito, i suoi sforzi si sommarono spesso a quelli dei
cristiani per ottenere il miglioramento delle condizioni di
vita dei lavoratori. In seguito, tale movimento fu, in certa
misura, dominato proprio da quella ideologia marxista, contro
la quale si volgeva la Rerum novarum.
Le stesse riforme furono
anche il risultato di un libero processo di
auto-organizzazione della società, con la messa a punto
di strumenti efficaci di solidarietà, atti a sostenere una
crescita economica più rispettosa dei valori della persona.
È da ricordare qui la multiforme attività, con un notevole
contributo dei cristiani, nella fondazione di cooperative di
produzione, di consumo e di credito, nel promuovere
l'istruzione popolare e la formazione professionale, nella
sperimentazione di varie forme di partecipazione alla vita
dell'impresa e, in generale, della società.
Se dunque, guardando al
passato, c'è motivo di ringraziare Dio perché la grande
Enciclica non è rimasta priva di risonanza nei cuori ed ha
spinto ad una fattiva generosità, tuttavia bisogna
riconoscere che l'annuncio profetico, in essa contenuto, non
è stato compiutamente accolto dagli uomini di quel tempo, e
proprio da ciò sono derivate assai gravi sciagure.
17. Leggendo l'Enciclica
in connessione con tutto il ricco Magistero leoniano,47 si
nota come essa indichi, in fondo, le conseguenze sul terreno
economico-sociale di un errore di più vasta portata. L'errore
— come si è detto — consiste in una concezione della
libertà umana che la sottrae all'obbedienza alla verità e,
quindi, anche al dovere di rispettare i diritti degli altri
uomini. Contenuto della libertà diventa allora l'amore di sé
fino al disprezzo di Dio e del prossimo, amore che conduce
all'affermazione illimitata del proprio interesse e non si
lascia limitare da alcun obbligo di giustizia.48
Proprio questo errore
giunse alle estreme conseguenze nel tragico ciclo delle guerre
che sconvolsero l'Europa ed il mondo tra il 1914 e il 1945.
Furono guerre derivanti dal militarismo e dal nazionalismo
esasperato e dalle forme di totalitarismo, ad essi collegate,
e guerre derivanti dalla lotta di classe, guerre civili ed
ideologiche. Senza la terribile carica di odio e di rancore,
accumulata a causa delle tante ingiustizie sia a livello
internazionale che a quello interno ai singoli Stati, non
sarebbero state possibili guerre di tale ferocia, in cui
furono investite le energie di grandi Nazioni, in cui non si
esitò davanti alla violazione dei diritti umani più sacri, e
fu pianificato ed eseguito lo sterminio di interi popoli e
gruppi sociali. Ricordiamo qui, in particolare, il popolo
ebreo, il cui terribile destino è divenuto simbolo
dell'aberrazione cui può giungere l'uomo, quando si volge
contro Dio.
Tuttavia, l'odio e
l'ingiustizia si impossessano di intere Nazioni e le spingono
all'azione solo quando vengono legittimati ed organizzati da
ideologie che si fondano su di essi piuttosto che sulla verità
dell'uomo.49 La Rerum novarum combatteva le ideologie
dell'odio ed indicava le vie per distruggere la violenza ed il
rancore mediante la giustizia. Possa il ricordo di quei
terribili avvenimenti guidare le azioni di tutti gli uomini e,
in particolare, dei reggitori dei popoli nel nostro tempo, in
cui altre ingiustizie alimentano nuovi odi e si delineano
all'orizzonte nuove ideologie che esaltano la violenza.
18. Certo, dal 1945 le
armi tacciono nel Continente europeo; tuttavia, la vera pace
— si ricordi — non è mai il risultato della vittoria
militare, ma implica il superamento delle cause della guerra e
l'autentica riconciliazione tra i popoli. Per molti anni,
invece, si è avuta in Europa e nel mondo una situazione di
non-guerra più che di autentica pace. Metà del Continente è
caduta sotto il dominio della dittatura comunista, mentre
l'altra metà si organizzava per difendersi contro un tale
pericolo. Molti popoli perdono il potere di disporre di se
stessi, vengono chiusi nei confini soffocanti di un impero,
mentre si cerca di distruggere la loro memoria storica e la
secolare radice della loro cultura. Masse enormi di uomini, in
conseguenza di questa divisione violenta, sono costrette ad
abbandonare la loro terra e forzatamente deportate.
Una folle corsa agli
armamenti assorbe le risorse necessarie per lo sviluppo delle
economie interne e per l'aiuto alle Nazioni più sfavorite. Il
progresso scientifico e tecnologico, che dovrebbe contribuire
al benessere dell'uomo, viene trasformato in uno strumento di
guerra: scienza e tecnica sono usate per produrre armi sempre
più perfezionate e distruttive, mentre ad un'ideologia, che
è perversione dell'autentica filosofia, si chiede di fornire
giustificazioni dottrinali per la nuova guerra. E questa non
è solo attesa e preparata, ma è anche combattuta con enorme
spargimento di sangue in varie parti del mondo. La logica dei
blocchi, o imperi, denunciata nei Documenti della Chiesa e di
recente nell'Enciclica Sollicitudo rei socialis,50 fa sì
che le controversie e discordie insorgenti nei Paesi del Terzo
Mondo siano sistematicamente incrementate e sfruttate per
creare difficoltà all'avversario.
I gruppi estremisti, che
cercano di risolvere tali controversie con le armi, trovano
facilmente appoggi politici e militari, sono armati ed
addestrati alla guerra, mentre coloro che si sforzano di
trovare soluzioni pacifiche ed umane, nel rispetto dei
legittimi interessi di tutte le parti, rimangono isolati e
spesso cadono vittima dei loro avversari. Anche la
militarizzazione di tanti Paesi del Terzo Mondo e le lotte
fratricide che li hanno travagliati, la diffusione del
terrorismo e di mezzi sempre più barbari di lotta
politico-militare trovano una delle loro principali cause
nella precarietà della pace che è seguita alla seconda
guerra mondiale. Su tutto il mondo, infine, grava la minaccia
di una guerra atomica, capace di condurre all'estinzione
dell'umanità. La scienza, usata a fini militari, pone a
disposizione dell'odio, incrementato dalle ideologie, lo
strumento decisivo. Ma la guerra può terminare senza
vincitori né vinti in un suicidio dell'umanità, ed allora
bisogna ripudiare la logica che conduce ad essa, l'idea che la
lotta per la distruzione dell'avversario, la contraddizione e
la guerra stessa siano fattori di progresso e di avanzamento
della storia.51 Quando si comprende la necessità di questo
ripudio, devono necessariamente entrare in crisi sia la logica
della « guerra totale » sia quella della « lotta di classe
».
19. Alla fine della
seconda guerra mondiale, però, un tale sviluppo è ancora in
formazione nelle coscienze, ed il dato che si impone
all'attenzione è l'estensione del totalitarismo comunista su
oltre metà dell'Europa e su parte del mondo. La guerra, che
avrebbe dovuto restituire la libertà e restaurare il diritto
delle genti, si conclude senza aver conseguito questi fini,
anzi in un modo che per molti popoli, specialmente per quelli
che più avevano sofferto, apertamente li contraddice. Si può
dire che la situazione venutasi a creare ha dato luogo a
diverse risposte.
In alcuni Paesi e sotto
alcuni aspetti si assiste ad uno sforzo positivo per
ricostruire, dopo le distruzioni della guerra, una società
democratica e ispirata alla giustizia sociale, la quale priva
il comunismo del potenziale rivoluzionario costituito da
moltitudini sfruttate e oppresse. Tali tentativi in genere
cercano di mantenere i meccanismi del libero mercato,
assicurando mediante la stabilità della moneta e la sicurezza
dei rapporti sociali le condizioni di una crescita economica
stabile e sana, in cui gli uomini col loro lavoro possano
costruire un futuro migliore per sé e per i propri figli. Al
tempo stesso, essi cercano di evitare che i meccanismi di
mercato siano l'unico termine di riferimento della vita
associata e tendono ad assoggettarli ad un controllo pubblico,
che faccia valere il principio della destinazione comune dei
beni della terra. Una certa abbondanza delle offerte di
lavoro, un solido sistema di sicurezza sociale e di avviamento
professionale, la libertà di associazione e l'azione incisiva
del sindacato, la previdenza in caso di disoccupazione, gli
strumenti di partecipazione democratica alla vita sociale, in
questo contesto dovrebbero sottrarre il lavoro alla condizione
di « merce » e garantire la possibilità di svolgerlo
dignitosamente.
Ci sono, poi, altre forze
sociali e movimenti ideali che si oppongono al marxismo con la
costruzione di sistemi di « sicurezza nazionale », miranti a
controllare in modo capillare tutta la società per rendere
impossibile l'infiltrazione marxista. Esaltando ed accrescendo
la potenza dello Stato, essi intendono preservare i loro
popoli dal comunismo; ma, ciò facendo, corrono il grave
rischio di distruggere quella libertà e quei valori della
persona, in nome dei quali bisogna opporsi ad esso.
Un'altra forma di risposta
pratica, infine, è rappresentata dalla società del
benessere, o società dei consumi. Essa tende a sconfiggere il
marxismo sul terreno di un puro materialismo, mostrando come
una società di libero mercato possa conseguire un
soddisfacimento più pieno dei bisogni materiali umani di
quello assicurato dal comunismo, ed escludendo egualmente i
valori spirituali.
In realtà, se da una
parte è vero che questo modello sociale mostra il fallimento
del marxismo di costruire una società nuova e migliore,
dall'altra, negando autonoma esistenza e valore alla morale,
al diritto, alla cultura e alla religione, converge con esso
nel ridurre totalmente l'uomo alla sfera dell'economico e del
soddisfacimento dei bisogni materiali.
20. Nel medesimo periodo
si svolge un grandioso processo di « decolonizzazione », per
il quale numerosi Paesi acquistano o riacquistano
l'indipendenza e il diritto a disporre liberamente di sé. Con
la riconquista formale della sovranità statuale, però,
questi Paesi si trovano spesso appena all'inizio del cammino
nella costruzione di un'autentica indipendenza. Difatti,
settori decisivi dell'economia rimangono ancora nelle mani di
grandi imprese straniere, che non accettano di legarsi
durevolmente allo sviluppo del Paese che le ospita, e la
stessa vita politica è controllatata da forze straniere,
mentre all'interno delle frontiere dello Stato convivono
gruppi tribali, non ancora amalgamati in un'autentica comunità
nazionale. Manca, inoltre, un ceto di professionisti
competenti, capaci di far funzionare in modo onesto e regolare
l'apparato dello Stato, e mancano anche i quadri per
un'efficiente e responsabile gestione dell'economia.
Posta questa situazione, a
molti sembra che il marxismo possa offrire come una
scorciatoia per l'edificazione della Nazione e dello Stato, e
nascono perciò diverse varianti del socialismo con un
carattere nazionale specifico. Si mescolano così nelle molte
ideologie, che vengono a formarsi in misura di volta in volta
diversa, legittime esigenze di riscatto nazionale, forme di
nazionalismo ed anche di militarismo, principi tratti da
antiche tradizioni popolari, talvolta consonanti con la
dottrina sociale cristiana, e concetti del marxismo-leninismo.
21. È da ricordare,
infine, come dopo la seconda guerra mondiale ed anche per
reazione ai suoi orrori, si è diffuso un sentimento più vivo
dei diritti umani, che ha trovato riconoscimento in diversi Documenti
internazionali 52 e nell'elaborazione, si direbbe, di un
nuovo « diritto delle genti », a cui la Santa Sede ha dato
un costante contributo. Perno di questa evoluzione è stata
l'Organizzazione delle Nazioni Unite. Non solo è cresciuta la
coscienza del diritto dei singoli, ma anche quella dei diritti
delle Nazioni, mentre si avverte meglio la necessità di agire
per sanare i gravi squilibri tra le diverse aree geografiche
del mondo che, in un certo senso, hanno trasferito il centro
della questione sociale dall'ambito nazionale al livello
internazionale.53
Nel prendere atto con
soddisfazione di tale processo, non si può tuttavia tacere il
fatto che il bilancio complessivo delle diverse politiche di
aiuto allo sviluppo non è sempre positivo. Alle Nazioni
Unite, inoltre, non è riuscito fino ad ora di costruire
strumenti efficaci per la soluzione dei conflitti
internazionali alternativi alla guerra, e sembra esser questo
il problema più urgente che la comunità internazionale deve
ancora risolvere.
III.
L'ANNO 1989
22. Partendo dalla
situazione mondiale ora descritta, e già ampiamente esposta
nell'Enciclica Sollicitudo rei socialis, si comprende
l'inaspettata e promettente portata degli avvenimenti degli
ultimi anni. Il loro culmine certo sono stati gli avvenimenti
del 1989 nei Paesi dell'Europa centrale ed orientale, ma essi
abbracciano un arco di tempo ed un orizzonte geografico più
ampi. Nel corso degli anni '80 crollano progressivamente in
alcuni Paesi dell'America Latina, ma anche dell'Africa e
dell'Asia certi regimi dittatoriali ed oppressivi; in altri
casi inizia un difficile, ma fecondo cammino di transizione
verso forme politiche più partecipative e più giuste. Un
contributo importante, anzi decisivo, ha dato l'impegno
della Chiesa per la difesa e la promozione dei diritti
dell'uomo: in ambienti fortemente ideologizzati, in cui lo
schieramento di parte offuscava la consapevolezza della comune
dignità umana, la Chiesa ha affermato con semplicità ed
energia che ogni uomo — quali che siano le sue convinzioni
personali — porta in sé l'immagine di Dio e, quindi, merita
rispetto. In tale affermazione si è spesso riconosciuta la
grande maggioranza del popolo, e ciò ha portato alla ricerca
di forme di lotta e di soluzioni politiche più rispettose
della dignità della persona.
Da questo processo storico
sono emerse nuove forme di democrazia, che offrono la speranza
di un cambiamento nelle fragili strutture politiche e sociali,
gravate dall'ipoteca di una penosa serie di ingiustizie e di
rancori, oltre che da un'economia disastrata e da pesanti
conflitti sociali. Mentre con tutta la Chiesa rendo grazie a
Dio per la testimonianza, spesso eroica, che non pochi
Pastori, intere comunità cristiane, singoli fedeli ed altri
uomini di buona volontà hanno dato in tali difficili
circostanze, prego perché egli sostenga gli sforzi di tutti
per costruire un futuro migliore. È, questa, infatti una
responsabilità non solo dei cittadini di quei Paesi, ma di
tutti i cristiani e degli uomini di buona volontà. Si tratta
di mostrare che i complessi problemi di quei popoli possono
essere risolti col metodo del dialogo e della solidarietà,
anziché con la lotta per la distruzione dell'avversario e con
la guerra.
23. Tra i numerosi fattori
della caduta dei regimi oppressivi alcuni meritano di essere
ricordati in particolare. Il fattore decisivo, che ha avviato
i cambiamenti, è certamente la violazione dei diritti del
lavoro. Non si può dimenticare che la crisi fondamentale dei
sistemi, che pretendono di esprimere il governo ed anzi la
dittatura degli operai, inizia con i grandi moti avvenuti in
Polonia in nome della solidarietà. Sono le folle dei
lavoratori a delegittimare l'ideologia, che presume di parlare
in loro nome, ed a ritrovare e quasi riscoprire, partendo
dall'esperienza vissuta e difficile del lavoro e
dell'oppressione, espressioni e principi della dottrina
sociale della Chiesa.
Merita, poi, di essere
sottolineato il fatto che alla caduta di un simile « blocco
», o impero, si arriva quasi dappertutto mediante una lotta
pacifica, che fa uso delle sole armi della verità e della
giustizia. Mentre il marxismo riteneva che solo portando agli
estremi le contraddizioni sociali fosse possibile arrivare
alla loro soluzione mediante lo scontro violento, le lotte che
hanno condotto al crollo del marxismo insistono con tenacia
nel tentare tutte le vie del negoziato, del dialogo, della
testimonianza della verità, facendo appello alla coscienza
dell'avversario e cercando di risvegliare in lui il senso
della comune dignità umana.
Sembrava che l'ordine
europeo, uscito dalla seconda guerra mondiale e consacrato
dagli Accordi di Yalta, potesse essere scosso soltanto
da un'altra guerra. È stato, invece, superato dall'impegno
non violento di uomini che, mentre si sono sempre rifiutati di
cedere al potere della forza, hanno saputo trovare di volta in
volta forme efficaci per rendere testimonianza alla verità.
Ciò ha disarmato l'avversario, perché la violenza ha sempre
bisogno di legittimarsi con la menzogna, di assumere, pur se
falsamente, l'aspetto della difesa di un diritto o della
risposta a una minaccia altrui.54 Ringrazio ancora Dio che ha
sostenuto il cuore degli uomini nel tempo della difficile
prova, pregando perché un tale esempio possa valere in altri
luoghi ed in altre circostanze. Che gli uomini imparino a
lottare per la giustizia senza violenza, rinunciando alla
lotta di classe nelle controversie interne, come alla guerra
in quelle internazionali.
24. Il secondo fattore di
crisi è certamente l'inefficienza del sistema economico, che
non va considerata come un problema soltanto tecnico, ma
piuttosto come conseguenza della violazione dei diritti umani
all'iniziativa, alla proprietà ed alla libertà nel settore
dell'economia. A questo aspetto va poi associata la dimensione
culturale e nazionale: non è possibile comprendere l'uomo
partendo unilateralmente dal settore dell'economia, né è
possibile definirlo semplicemente in base all'appartenenza di
classe. L'uomo è compreso in modo più esauriente, se viene
inquadrato nella sfera della cultura attraverso il linguaggio,
la storia e le posizioni che egli assume davanti agli eventi
fondamentali dell'esistenza, come il nascere, l'amare, il
lavorare, il morire. Al centro di ogni cultura sta
l'atteggiamento che l'uomo assume davanti al mistero più
grande: il mistero di Dio. Le culture delle diverse Nazioni
sono, in fondo, altrettanti modi di affrontare la domanda
circa il senso dell'esistenza personale: quando tale domanda
viene eliminata, si corrompono la cultura e la vita morale
delle Nazioni. Per questo, la lotta per la difesa del lavoro
si è spontaneamente collegata a quella per la cultura e per i
diritti nazionali.
La vera causa delle novità,
però, è il vuoto spirituale provocato dall'ateismo, il quale
ha lasciato prive di orientamento le giovani generazioni e in
non rari casi le ha indotte, nell'insopprimibile ricerca della
propria identità e del senso della vita, a riscoprire le
radici religiose della cultura delle loro Nazioni e la stessa
persona di Cristo, come risposta esistenzialmente adeguata al
desiderio di bene, di verità e di vita che è nel cuore di
ogni uomo. Questa ricerca è stata confortata dalla
testimonianza di quanti, in circostanze difficili e nella
persecuzione, sono rimasti fedeli a Dio. Il marxismo aveva
promesso di sradicare il bisogno di Dio dal cuore dell'uomo,
ma i risultati hanno dimostrato che non è possibile riuscirci
senza sconvolgere il cuore.
25. Gli avvenimenti dell'
'89 offrono l'esempio del successo della volontà di negoziato
e dello spirito evangelico contro un avversario deciso a non
lasciarsi vincolare da principi morali: essi sono un monito
per quanti, in nome del realismo politico, vogliono bandire
dall'arena politica il diritto e la morale. Certo la lotta,
che ha portato ai cambiamenti dell' '89, ha richiesto lucidità,
moderazione, sofferenze e sacrifici; in un certo senso, essa
è nata dalla preghiera, e sarebbe stata impensabile senza
un'illimitata fiducia in Dio, Signore della storia, che ha
nelle sue mani il cuore degli uomini. È unendo la propria
sofferenza per la verità e per la libertà a quella di Cristo
sulla Croce che l'uomo può compiere il miracolo della pace ed
è in grado di scorgere il sentiero spesso angusto tra la viltà
che cede al male e la violenza che, illudendosi di
combatterlo, lo aggrava.
Non si possono, tuttavia,
ignorare gli innumerevoli condizionamenti, in mezzo ai quali
la libertà del singolo uomo si trova ad operare: essi
influenzano, sì, ma non determinano la libertà; rendono più
o meno facile il suo esercizio, ma non possono distruggerla.
Non solo non è lecito disattendere dal punto di vista etico
la natura dell'uomo che è fatto per la libertà, ma ciò non
è neppure possibile in pratica. Dove la società si organizza
riducendo arbitrariamente o, addirittura, sopprimendo la sfera
in cui la libertà legittimamente si esercita, il risultato è
che la vita sociale progressivamente si disorganizza e decade.
Inoltre, l'uomo creato per
la libertà porta in sé la ferita del peccato originale, che
continuamente lo attira verso il male e lo rende bisognoso di
redenzione. Questa dottrina non solo è parte integrante
della Rivelazione cristiana, ma ha anche un grande valore
ermeneutico, in quanto aiuta a comprendere la realtà umana.
L'uomo tende verso il bene, ma è pure capace di male; può
trascendere il suo interesse immediato e, tuttavia, rimanere
ad esso legato. L'ordine sociale sarà tanto più solido,
quanto più terrà conto di questo fatto e non opporrà
l'interesse personale a quello della società nel suo insieme,
ma cercherà piuttosto i modi della loro fruttuosa
coordinazione. Difatti, dove l'interesse individuale è
violentemente soppresso, esso è sostituito da un pesante
sistema di controllo burocratico, che inaridisce le fonti
dell'iniziativa e della creatività. Quando gli uomini
ritengono di possedere il segreto di un'organizzazione sociale
perfetta che renda impossibile il male, ritengono anche di
poter usare tutti i mezzi, anche la violenza o la menzogna,
per realizzarla. La politica diventa allora una « religione
secolare », che si illude di costruire il paradiso in questo
mondo. Ma qualsiasi società politica, che possiede la sua
propria autonomia e le sue proprie leggi,55 non potrà mai
esser confusa col Regno di Dio. La parabola evangelica del
buon grano e della zizzania (cf Mt 13,24-30.36-43)
insegna che spetta solo a Dio separare i soggetti del Regno ed
i soggetti del Maligno, e che siffatto giudizio avrà luogo
alla fine dei tempi. Pretendendo di anticipare fin d'ora il
giudizio, l'uomo si sostituisce a Dio e si oppone alla sua
pazienza.
Grazie al sacrificio di
Cristo sulla Croce, la vittoria del Regno di Dio è acquisita
una volta per tutte; tuttavia, la condizione cristiana
comporta la lotta contro le tentazioni e le forze del male.
Solo alla fine della storia il Signore ritornerà nella gloria
per il giudizio finale (cf Mt 25,31) con
l'instaurazione dei cieli nuovi e della terra nuova (cf 2
Pt 3,13; Ap 21,1), ma, mentre dura il tempo, la
lotta tra il bene e il male continua fin nel cuore dell'uomo.
Ciò che la Sacra
Scrittura ci insegna in ordine ai destini del Regno di Dio non
è senza conseguenze per la vita delle società temporali, le
quali — come dice la parola — appartengono alle realtà
del tempo con quanto esso comporta di imperfetto e di
provvisorio. Il Regno di Dio, presente nel mondo senza
essere del mondo, illumina l'ordine dell'umana società,
mentre le energie della grazia lo penetrano e lo vivificano.
Così son meglio avvertite le esigenze di una società degna
dell'uomo, sono rettificate le deviazioni, è rafforzato il
coraggio dell'operare per il bene. A tale compito di
animazione evangelica delle realtà umane sono chiamati,
unitamente a tutti gli uomini di buona volontà, i cristiani
ed in special modo i laici.56
26. Gli avvenimenti dell'
'89 si sono svolti prevalentemente nei Paesi dell'Europa
orientale e centrale; tuttavia, hanno un'importanza
universale, poiché ne discendono conseguenze positive e
negative che interessano tutta la famiglia umana. Tali
conseguenze non hanno un carattere meccanico o fatalistico, ma
sono piuttosto occasioni offerte alla libertà umana per
collaborare col disegno misericordioso di Dio che agisce nella
storia.
Prima conseguenza è
stato, in alcuni Paesi, l'incontro tra la Chiesa e il
Movimento operaio, nato da una reazione di ordine etico ed
esplicitamente cristiano contro una diffusa situazione di
ingiustizia. Per circa un secolo detto Movimento era finito in
parte sotto l'egemonia del marxismo, nella convinzione che i
proletari, per lottare efficacemente contro l'oppressione,
dovessero far proprie le teorie materialistiche ed
economicistiche.
Nella crisi del marxismo
riemergono le forme spontanee della coscienza operaia, che
esprimono una domanda di giustizia e di riconoscimento della
dignità del lavoro, conforme alla dottrina sociale della
Chiesa.57 Il Movimento operaio confluisce in un più generale
movimento degli uomini del lavoro e degli uomini di buona
volontà per la liberazione della persona umana e per
l'affermazione dei suoi diritti; esso investe oggi molti Paesi
e, lungi dal contrapporsi alla Chiesa cattolica, guarda ad
essa con interesse.
La crisi del marxismo non
elimina nel mondo le situazioni di ingiustizia e di
oppressione, da cui il marxismo stesso, strumentalizzandole,
traeva alimento. A coloro che oggi sono alla ricerca di una
nuova ed autentica teoria e prassi di liberazione, la Chiesa
offre non solo la sua dottrina sociale e, in generale, il suo
insegnamento circa la persona redenta in Cristo, ma anche il
concreto suo impegno ed aiuto per combattere l'emarginazione e
la sofferenza.
Nel recente passato il
sincero desiderio di essere dalla parte degli oppressi e di
non esser tagliati fuori dal corso della storia ha indotto
molti credenti a cercare in diversi modi un impossibile
compromesso tra marxismo e cristianesimo. Il tempo presente,
mentre supera tutto ciò che c'era di caduco in quei
tentativi, induce a riaffermare la positività di un'autentica
teologia dell'integrale liberazione umana.58 Considerati da
questo punto di vista, gli avvenimenti del 1989 risultano
importanti anche per i Paesi del Terzo Mondo, che sono alla
ricerca della via del loro sviluppo, come lo sono stati per
quelli dell'Europa centrale ed orientale.
27. La seconda conseguenza
riguarda i popoli dell'Europa. Molte ingiustizie, individuali
e sociali, regionali e nazionali, sono state commesse negli
anni in cui dominava il comunismo ed anche prima; molti odi e
rancori si sono accumulati. È reale il pericolo che questi
riesplodano dopo il crollo della dittatura, provocando gravi
conflitti e lutti, se verranno meno la tensione morale e la
forza cosciente di rendere testimonianza alla verità che
hanno animato gli sforzi nel tempo passato. È da auspicare
che l'odio e la violenza non trionfino nei cuori, soprattutto
di coloro che lottano per la giustizia, e cresca in tutti lo
spirito di pace e di perdono.
Occorrono, però, passi
concreti per creare o consolidare strutture internazionali
capaci di intervenire, per il conveniente arbitrato, nei
conflitti che insorgono tra le Nazioni, sicché ciascuna di
esse possa far valere i propri diritti e raggiungere il giusto
accordo e la pacifica composizione con i diritti delle altre.
Tutto ciò è particolarmente necessario per le Nazioni
europee, unite intimamente tra loro nel vincolo della comune
cultura e storia millenaria. Occorre un grande sforzo per la
ricostruzione morale ed economica nei Paesi che hanno
abbandonato il comunismo. Per molto tempo le relazioni
economiche più elementari sono state distorte, ed anche
fondamentali virtù legate al settore dell'economia, come la
veridicità, l'affidabilità, la laboriosità, sono state
mortificate. Occorre una paziente ricostruzione materiale e
morale, mentre i popoli stremati da lunghe privazioni chiedono
ai loro governanti risultati tangibili ed immediati di
benessere ed adeguato soddisfacimento delle loro legittime
aspirazioni.
La caduta del marxismo
naturalmente ha avuto effetti di grande portata in ordine alla
divisione della terra in mondi chiusi l'uno all'altro ed in
gelosa concorrenza tra loro. Essa mette in luce più
chiaramente la realtà dell'interdipendenza dei popoli, nonché
il fatto che il lavoro umano per sua natura è destinato ad
unire i popoli, non già a dividerli. La pace e la prosperità,
infatti, sono beni che appartengono a tutto il genere umano,
sicché non è possibile goderne correttamente e durevolmente
se vengono ottenuti e conservati a danno di altri popoli e
Nazioni, violando i loro diritti o escludendoli dalle fonti
del benessere.
28. Per alcuni Paesi di
Europa inizia, in un certo senso, il vero dopoguerra. Il
radicale riordinamento delle economie, fino a ieri
collettivizzate, comporta problemi e sacrifici, i quali
possono esser paragonati a quelli che i Paesi occidentali del
Continente si imposero per la loro ricostruzione dopo il
secondo conflitto mondiale. È giusto che nelle presenti
difficoltà i Paesi ex-comunisti siano sostenuti dallo sforzo
solidale delle altre Nazioni: ovviamente, essi devono essere i
primi artefici del proprio sviluppo; ma deve esser data loro
una ragionevole opportunità di realizzarlo, e ciò non può
avvenire senza l'aiuto degli altri Paesi. Del resto, la
presente condizione di difficoltà e di penuria è la
conseguenza di un processo storico, di cui i Paesi
ex-comunisti sono stati spesso oggetto, e non soggetto: essi,
perciò, si trovano in tale situazione non per libera scelta o
a causa di errori commessi, ma in conseguenza di tragici
eventi storici imposti con la violenza, i quali hanno loro
impedito di proseguire lungo la via dello sviluppo economico e
civile.
L'aiuto degli altri Paesi
soprattutto europei, che hanno avuto parte nella medesima
storia e ne portano le responsabilità, corrisponde ad un
debito di giustizia. Ma corrisponde anche all'interesse ed al
bene generale dell'Europa, che non potrà vivere in pace, se i
conflitti di diversa natura, che emergono come conseguenza del
passato, saranno resi più acuti da una situazione di
disordine economico, di spirituale insoddisfazione e
disperazione.
Questa esigenza, però,
non deve indurre a rallentare gli sforzi per il sostegno e
l'aiuto ai Paesi del Terzo Mondo, che soffrono spesso di
condizioni di insufficienza e di povertà assai più gravi.59
Sarà necessario uno sforzo straordinario per mobilitare le
risorse, di cui il mondo nel suo insieme non è privo, verso
fini di crescita economica e di sviluppo comune, ridefinendo
le priorità e le scale di valori, in base alle quali si
decidono le scelte economiche e politiche. Ingenti risorse
possono essere rese disponbili col disarmo degli enormi
apparati militari, costruiti per il conflitto tra Est e Ovest.
Esse potranno risultare ancora più ingenti, se si riuscirà a
stabilire affidabili procedure per la soluzione dei conflitti,
alternative alla guerra, ed a diffondere, quindi, il principio
del controllo e della riduzione degli armamenti anche nei
Paesi del Terzo Mondo, adottando opportune misure contro il
loro commercio.60 Ma soprattutto sarà necessario abbandonare
la mentalità che considera i poveri — persone e popoli —
come un fardello e come fastidiosi importuni, che pretendono
di consumare quanto altri han prodotto. I poveri chiedono il
diritto di partecipare al godimento dei beni materiali e di
mettere a frutto la loro capacità di lavoro, creando così un
mondo più giusto e per tutti più prospero. L'elevazione dei
poveri è una grande occasione per la crescita morale,
culturale ed anche economica dell'intera umanità.
29. Lo sviluppo, infine,
non deve essere inteso in un modo esclusivamente economico, ma
in senso integralmente umano.61 Non si tratta solo di elevare
tutti i popoli al livello di cui godono oggi i Paesi più
ricchi, ma di costruire nel lavoro solidale una vita più
degna, di far crescere effettivamente la dignità e la
creatività di ogni singola persona, la sua capacità di
rispondere alla propria vocazione e, dunque, all'appello di
Dio, in essa contenuto. Al culmine dello sviluppo sta
l'esercizio del diritto-dovere di cercare Dio, di conoscerlo e
di vivere secondo tale conoscenza.62 Nei regimi totalitari ed
autoritari è stato portato all'estremo il principio del
primato della forza sulla ragione. L'uomo è stato costretto a
subire una concezione della realtà imposta con la forza, e
non conseguita mediante lo sforzo della propria ragione e
l'esercizio della propria libertà. Bisogna rovesciare quel
principio e riconoscere integralmente i diritti della
coscienza umana, legata solo alla verità sia naturale che
rivelata. Nel riconoscimento di questi diritti consiste il
fondamento primario di ogni ordinamento politico
autenticamente libero.63 È importante riaffermare tale
principio per vari motivi:
a)
perché le antiche forme di totalitarismo e di autoritarismo
non sono ancora del tutto debellate, ed esiste anzi il rischio
che riprendano vigore: ciò sollecita ad un rinnovato sforzo
di collaborazione e di solidarietà tra tutti i Paesi;
b)
perché nei Paesi sviluppati si fa a volte un'eccessiva
propaganda dei valori puramente utilitaristici, con la
sollecitazione sfrenata degli istinti e delle tendenze al
godimento immediato, la quale rende difficile il
riconoscimento ed il rispetto della gerarchia dei veri valori
dell'umana esistenza;
c)
perché in alcuni Paesi emergono nuove forme di
fondamentalismo religioso che, velatamente o anche
apertamente, negano ai cittadini di fedi diverse da quelle
della maggioranza il pieno esercizio dei loro diritti civili o
religiosi, impediscono loro di entrare nel dibattito
culturale, restringono il diritto della Chiesa a predicare il
Vangelo e il diritto degli uomini, che ascoltano tale
predicazione, ad accoglierla ed a convertirsi a Cristo. Nessun
autentico progresso è possibile senza il rispetto del
naturale ed originario diritto di conoscere la verità e di
vivere secondo essa. A questo diritto è legato, come suo
esercizio ed approfondimento, il diritto di scoprire e di
accogliere liberamente Gesù Cristo, che è il vero bene
dell'uomo.64
IV.
LA PROPRIETÀ PRIVATA E L'UNIVERSALE DESTINAZIONE DEI BENI
30. Nella Rerum novarum
Leone XIII affermava con forza e con vari argomenti,
contro il socialismo del suo tempo, il carattere naturale del
diritto di proprietà privata.65 Tale diritto, fondamentale
per l'autonomia e lo sviluppo della persona, è stato sempre
difeso dalla Chiesa fino ai nostri giorni. Parimenti, la
Chiesa insegna che la proprietà dei beni non è un diritto
assoluto, ma porta inscritti nella sua natura di diritto umano
i propri limiti.
Mentre proclamava il
diritto di proprietà privata, il Pontefice affermava con pari
chiarezza che l'« uso » dei beni, affidato alla libertà, è
subordinato alla loro originaria destinazione comune di beni
creati ed anche alla volontà di Gesù Cristo, manifestata nel
Vangelo. Infatti scriveva: « I fortunati dunque sono ammoniti
...: i ricchi debbono tremare, pensando alle minacce di Gesù
Cristo ...; dell'uso dei loro beni dovranno un giorno rendere
rigorosissimo conto a Dio giudice »; e, citando san Tommaso
d'Aquino, aggiungeva: « Ma se si domanda quale debba essere
l'uso di tali beni, la Chiesa ... non esita a rispondere che a
questo proposito l'uomo non deve possedere i beni esterni come
propri, ma come comuni », perché « sopra le leggi e i
giudizi degli uomini sta la legge, il giudizio di Cristo ».66
I successori di Leone XIII
hanno ripetuto la duplice affermazione: la necessità e,
quindi, la liceità della proprietà privata ed insieme i
limiti che gravano su di essa.67 Anche il Concilio Vaticano II
ha riproposto la dottrina tradizionale con parole che meritano
di essere riportate esattamente: « L'uomo, usando di questi
beni, deve considerare le cose esteriori che legittimamente
possiede non solo come proprie, ma anche come comuni, nel
senso che possono giovare non unicamente a lui, ma anche agli
altri ». E poco oltre: « La proprietà privata o un qualche
potere sui beni esterni assicurano a ciascuno una zona del
tutto necessaria di autonomia personale e familiare, e devono
considerarsi come un prolungamento della libertà umana ... La
stessa proprietà privata ha per sua natura anche una funzione
sociale, che si fonda sulla legge della comune destinazione
dei beni ».68 La stessa dottrina ho ripreso prima nel
discorso alla III Conferenza dell'Episcopato latino-americano
a Puebla, e poi nelle Encicliche Laborem exercens e Sollicitudo
rei socialis.69
31. Rileggendo tale
insegnamento sul diritto di proprietà e la destinazione
comune dei beni in rapporto al nostro tempo, si può porre la
domanda circa l'origine dei beni che sostentano la vita
dell'uomo, soddisfano i suoi bisogni e sono oggetto dei suoi
diritti.
La prima origine di tutto
ciò che è bene è l'atto stesso di Dio che ha creato la
terra e l'uomo, ed all'uomo ha dato la terra perché la domini
col suo lavoro e ne goda i frutti (cf Gn 1,28-29). Dio
ha dato la terra a tutto il genere umano, perché essa
sostenti tutti i suoi membri, senza escludere né privilegiare
nessuno. È qui la radice dell'universale destinazione dei
beni della terra. Questa, in ragione della sua stessa
fecondità e capacità di soddisfare i bisogni dell'uomo, è
il primo dono di Dio per il sostentamento della vita umana.
Ora, la terra non dona i suoi frutti senza una peculiare
risposta dell'uomo al dono di Dio, cioè senza il lavoro: è
mediante il lavoro che l'uomo, usando la sua intelligenza e la
sua libertà, riesce a dominarla e ne fa la sua degna dimora.
In tal modo egli fa propria una parte della terra, che appunto
si è acquistata col lavoro. È qui l'origine della
proprietà individuale. E ovviamente egli ha anche la
responsabilità di non impedire che altri uomini abbiano la
loro parte del dono di Dio, anzi deve cooperare con loro per
dominare insieme tutta la terra.
Nella storia si ritrovano
sempre questi due fattori, il lavoro e la terra, al
principio di ogni società umana; non sempre, però, essi
stanno nella medesima relazione tra loro. Un tempo la
naturale fecondità della terra appariva e di fatto era il
principale fattore della ricchezza, mentre il lavoro era come
l'aiuto ed il sostegno di tale fecondità. Nel nostro tempo
diventa sempre più rilevante il ruolo del lavoro umano, come
fattore produttivo delle ricchezze immateriali e materiali;
diventa, inoltre, evidente come il lavoro di un uomo si
intrecci naturalmente con quello di altri uomini. Oggi più
che mai lavorare è un lavorare con gli altri e un lavorare
per gli altri: è un fare qualcosa per qualcuno. Il lavoro
è tanto più fecondo e produttivo, quanto più l'uomo è
capace di conoscere le potenzialità produttive della terra e
di leggere in profondità i bisogni dell'altro uomo, per il
quale il lavoro è fatto.
32. Ma un'altra forma di
proprietà esiste, in particolare, nel nostro tempo e riveste
un'importanza non inferiore a quella della terra: èla
proprietà della conoscenza, della tecnica e del sapere. Su
questo tipo di proprietà si fonda la ricchezza delle Nazioni
industrializzate molto più che su quella delle risorse
naturali.
Si è ora accennato al
fatto che l'uomo lavora con gli altri uomini, partecipando
ad un « lavoro sociale » che abbraccia cerchi
progressivamente più ampi. Chi produce un oggetto, lo fa in
genere, oltre che per l'uso personale, perché altri possano
usarne dopo aver pagato il giusto prezzo, stabilito di comune
accordo mediante una libera trattativa. Ora, proprio la
capacità di conoscere tempestivamente i bisogni degli altri
uomini e le combinazioni dei fattori produttivi più idonei a
soddisfarli, è un'altra importante fonte di ricchezza nella
società moderna. Del resto, molti beni non possono essere
prodotti in modo adeguato dall'opera di un solo individuo, ma
richiedono la collaborazione di molti al medesimo fine.
Organizzare un tale sforzo produttivo, pianificare la sua
durata nel tempo, procurare che esso corrisponda in modo
positivo ai bisogni che deve soddisfare, assumendo i rischi
necessari: è, anche questo, una fonte di ricchezza
nell'odierna società. Così diventa sempre più evidente e
determinante il ruolo del lavoro umano disciplinato e
creativo e — quale parte essenziale di tale lavoro — delle
capacità di iniziativa e di imprenditorialità.70
Un tale processo, che
mette concretamente in luce una verità sulla persona
incessantemente affermata dal cristianesimo, deve essere
riguardato con attenzione e favore. In effetti, la principale
risorsa dell'uomo insieme con la terra è l'uomo stesso. È
la sua intelligenza che fa scoprire le potenzialità
produttive della terra e le multiformi modalità con cui i
bisogni umani possono essere soddisfatti. È il suo
disciplinato lavoro, in solidale collaborazione, che consente
la creazione di comunità di lavoro sempre più ampie
ed affidabili per operare la trasformazione dell'ambiente
naturale e dello stesso ambiente umano. In questo processo
sono coinvolte importanti virtù, come la diligenza, la
laboriosità, la prudenza nell'assumere i ragionevoli rischi,
l'affidabilità e la fedeltà nei rapporti interpersonali, la
fortezza nell'esecuzione di decisioni difficili e dolorose, ma
necessarie per il lavoro comune dell'azienda e per far fronte
agli eventuali rovesci di fortuna.
La moderna economia
d'impresa comporta aspetti positivi, la cui radice è la
libertà della persona, che si esprime in campo economico come
in tanti altri campi. L'economia, infatti, è un settore della
multiforme attività umana, ed in essa, come in ogni altro
campo, vale il diritto alla libertà, come il dovere di fare
un uso responsabile di essa. Ma è importante notare che ci
sono differenze specifiche tra queste tendenze della moderna
società e quelle del passato anche recente. Se un tempo il
fattore decisivo della produzione era la terra e più
tardi il capitale, inteso come massa di macchinari e di
beni strumentali, oggi il fattore decisivo è sempre più l'uomo
stesso, e cioè la sua capacità di conoscenza che viene
in luce mediante il sapere scientifico, la sua capacità di
organizzazione solidale, la sua capacità di intuire e
soddisfare il bisogno dell'altro.
33. Non si possono,
tuttavia, non denunciare i rischi ed i problemi connessi con
questo tipo di processo. Di fatto, oggi molti uomini, forse la
grande maggioranza, non dispongono di strumenti che consentono
di entrare in modo effettivo ed umanamente degno all'interno
di un sistema di impresa, nel quale il lavoro occupa una
posizione davvero centrale. Essi non hanno la possibilità di
acquisire le conoscenze di base, che permettono di esprimere
la loro creatività e di sviluppare le loro potenzialità, né
di entrare nella rete di conoscenze ed intercomunicazioni, che
consentirebbe di vedere apprezzate ed utilizzate la loro
qualità. Essi insomma, se non proprio sfruttati, sono
ampiamente emarginati, e lo sviluppo economico si svolge, per
così dire, sopra la loro testa, quando non restringe
addirittura gli spazi già angusti delle loro antiche economie
di sussistenza. Incapaci di resistere alla concorrenza di
merci prodotte in modi nuovi e ben rispondenti ai bisogni, che
prima essi solevano fronteggiare con forme organizzative
tradizionali, allettati dallo splendore di un'opulenza
ostentata, ma per loro irraggiungibile e, al tempo stesso,
stretti dalla necessità, questi uomini affollano le città
del Terzo Mondo, dove spesso sono culturalmente sradicati e si
trovano in situazioni di violenta precarietà, senza
possibilità di integrazione. Ad essi di fatto non si
riconosce dignità, e talora si cerca di eliminarli dalla
storia mediante forme coatte di controllo demografico,
contrarie alla dignità umana.
Molti altri uomini, pur
non essendo del tutto emarginati, vivono all'interno di
ambienti in cui è assolutamente primaria la lotta per il
necessario e vigono ancora le regole del capitalismo delle
origini, nella « spietatezza » di una situazione che non ha
nulla da invidiare a quella dei momenti più bui della prima
fase di industrializzazione. In altri casi è ancora la terra
ad essere l'elemento centrale del processo economico, e coloro
che la coltivano, esclusi dalla sua proprietà, sono ridotti
in condizioni di semi-servitù.71 In questi casi si può
ancora oggi, come al tempo della Rerum novarum, parlare
di uno sfruttamento inumano. Nonostante i grandi mutamenti
avvenuti nelle società più avanzate, le carenze umane del
capitalismo, col conseguente dominio delle cose sugli uomini,
sono tutt'altro che scomparse; anzi, per i poveri alla
mancanza di beni materiali si è aggiunta quella del sapere e
della conoscenza, che impedisce loro di uscire dallo stato di
umiliante subordinazione.
Purtroppo, la grande
maggioranza degli abitanti del Terzo Mondo vive ancora in
simili condizioni. Sarebbe, però, errato intendere questo
Mondo in un senso soltanto geografico. In alcune regioni ed in
alcuni settori sociali di esso sono stati attivati processi di
sviluppo incentrati non tanto sulla valorizzazione delle
risorse materiali, quanto su quella della « risorsa umana ».
In anni non lontani è
stato sostenuto che lo sviluppo dipendesse dall'isolamento dei
Paesi più poveri dal mercato mondiale e dalla loro fiducia
nelle sole proprie forze. L'esperienza recente ha dimostrato
che i Paesi che si sono esclusi hanno conosciuto stagnazione e
regresso, mentre hanno conosciuto lo sviluppo i Paesi che sono
riusciti ad entrare nella generale interconnessione delle
attività economiche a livello internazionale. Sembra, dunque,
che il maggior problema sia quello di ottenere un equo accesso
al mercato internazionale, fondato non sul principio
unilaterale dello sfruttamento delle risorse naturali, ma
sulla valorizzazione delle risorse umane.72
Aspetti tipici del Terzo
Mondo, però, emergono anche nei Paesi sviluppati, dove
l'incessante trasformazione dei modi di produrre e di
consumare svaluta certe conoscenze già acquisite e
professionalità consolidate, esigendo un continuo sforzo di
riqualificazione e di aggiornamento. Coloro che non riescono a
tenersi al passo con i tempi possono facilmente essere
emarginati; insieme con essi lo sono gli anziani, i giovani
incapaci di ben inserirsi nella vita sociale e, in genere, i
soggetti più deboli e il cosiddetto Quarto Mondo. Anche la
situazione della donna in queste condizioni è tutt'altro che
facile.
34. Sembra che, tanto a
livello delle singole Nazioni quanto a quello dei rapporti
internazionali, il libero mercato sia lo strumento più
efficace per collocare le risorse e rispondere efficacemente
ai bisogni. Ciò, tuttavia, vale solo per quei bisogni che
sono « solvibili », che dispongono di un potere d'acquisto,
e per quelle risorse che sono « vendibili », in grado di
ottenere un prezzo adeguato. Ma esistono numerosi bisogni
umani che non hanno accesso al mercato. È stretto dovere di
giustizia e di verità impedire che i bisogni umani
fondamentali rimangano insoddisfatti e che gli uomini che ne
sono oppressi periscano. È, inoltre, necessario che questi
uomini bisognosi siano aiutati ad acquisire le conoscenze, ad
entrare nel circolo delle interconnessioni, a sviluppare le
loro attitudini per valorizzare al meglio capacità e risorse.
Prima ancora della logica dello scambio degli equivalenti e
delle forme di giustizia, che le son proprie, esiste un qualcosa
che è dovuto all'uomo perché è uomo, in forza della sua
eminente dignità. Questo qualcosa dovuto comporta
inseparabilmente la possibilità di sopravvivere e di dare un
contributo attivo al bene comune dell'umanità.
Nei contesti di Terzo
Mondo conservano la loro validità (in certi casi è ancora un
traguardo da raggiungere) proprio quegli obiettivi indicati
dalla Rerum novarum, per evitare la riduzione del
lavoro dell'uomo e dell'uomo stesso al livello di una semplice
merce: il salario sufficiente per la vita della famiglia; le
assicurazioni sociali per la vecchiaia e la disoccupazione; la
tutela adeguata delle condizioni di lavoro.
35. Si apre qui un grande
e fecondo campo di impegno e di lotta, nel nome della
giustizia, per i sindacati e per le altre organizzazioni dei
lavoratori, che ne difendono i diritti e ne tutelano la
soggettività, svolgendo al tempo stesso una funzione
essenziale di carattere culturale, per farli partecipare in
modo più pieno e degno alla vita della Nazione ed aiutarli
lungo il cammino dello sviluppo.
In questo senso si può
giustamente parlare di lotta contro un sistema economico,
inteso come metodo che assicura l'assoluta prevalenza del
capitale, del possesso degli strumenti di produzione e della
terra rispetto alla libera soggettività del lavoro dell'uomo.73
A questa lotta contro un tale sistema non si pone, come
modello alternativo, il sistema socialista, che di fatto
risulta essere un capitalismo di stato, ma una società del
lavoro libero, dell'impresa e della partecipazione. Essa
non si oppone al mercato, ma chiede che sia opportunamente
controllato dalle forze sociali e dallo Stato, in modo da
garantire la soddisfazione delle esigenze fondamentali di
tutta la società.
La Chiesa riconosce la
giusta funzione del profitto, come indicatore del buon
andamento dell'azienda: quando un'azienda produce profitto, ciò
significa che i fattori produttivi sono stati adeguatamente
impiegati ed i corrispettivi bisogni umani debitamente
soddisfatti. Tuttavia, il profitto non è l'unico indice delle
condizioni dell'azienda. È possibile che i conti economici
siano in ordine ed insieme che gli uomini, che costituiscono
il patrimonio più prezioso dell'azienda, siano umiliati e
offesi nella loro dignità. Oltre ad essere moralmente
inammissibile, ciò non può non avere in prospettiva riflessi
negativi anche per l'efficienza economica dell'azienda. Scopo
dell'impresa, infatti, non è semplicemente la produzione del
profitto, bensì l'esistenza stessa dell'impresa come comunità
di uomini che, in diverso modo, perseguono il
soddisfacimento dei loro fondamentali bisogni e costituiscono
un particolare gruppo al servizio dell'intera società. Il
profitto è un regolatore della vita dell'azienda, ma non è
l'unico; ad esso va aggiunta la considerazione di altri
fattori umani e morali che, a lungo periodo, sono almeno
egualmente essenziali per la vita dell'impresa.
Si è visto come è
inaccettabile l'affermazione che la sconfitta del cosiddetto
« socialismo reale » lasci il capitalismo come unico modello
di organizzazione economica. Occorre rompere le barriere e i
monopoli che lasciano tanti popoli ai margini dello sviluppo,
assicurare a tutti — individui e Nazioni — le condizioni
di base, che consentano di partecipare allo sviluppo. Tale
obiettivo richiede sforzi programmati e responsabili da parte
di tutta la comunità internazionale. Occorre che le Nazioni
più forti sappiano offrire a quelle più deboli occasioni di
inserimento nella vita internazionale, e che quelle più
deboli sappiano cogliere tali occasioni, facendo gli sforzi e
i sacrifici necessari, assicurando la stabilità del quadro
politico ed economico, la certezza di prospettive per il
futuro, la crescita delle capacità dei propri lavoratori, la
formazione di imprenditori efficienti e consapevoli delle loro
responsabilità.74
Al presente sugli sforzi
positivi che sono compiuti in proposito grava il problema, in
gran parte ancora irrisolto, del debito estero dei Paesi più
poveri. È certamente giusto il principio che i debiti debbano
essere pagati; non è lecito, però, chiedere o pretendere un
pagamento, quando questo verrebbe ad imporre di fatto scelte
politiche tali da spingere alla fame e alla disperazione
intere popolazioni. Non si può pretendere che i debiti
contratti siano pagati con insopportabili sacrifici. In questi
casi è necessario — come, del resto, sta in parte avvenendo
— trovare modalità di alleggerimento, di dilazione o anche
di estinzione del debito, compatibili col fondamentale diritto
dei popoli alla sussistenza ed al progresso.
36. Conviene ora rivolgere
l'attenzione agli specifici problemi ed alle minacce, che
insorgono all'interno delle economie più avanzate e sono
connesse con le loro peculiari caratteristiche. Nelle
precedenti fasi dello sviluppo, l'uomo è sempre vissuto sotto
il peso della necessità: i suoi bisogni erano pochi, fissati
in qualche modo già nelle strutture oggettive della sua
costituzione corporea, e l'attività economica era orientata a
soddisfarli. È chiaro che oggi il problema non è solo di
offrirgli una quantità di beni sufficienti, ma è quello di
rispondere ad una domanda di qualità: qualità delle
merci da produrre e da consumare; qualità dei servizi di cui
usufruire; qualità dell'ambiente e della vita in generale.
La domanda di un'esistenza
qualitativamente più soddisfacente e più ricca è in sé
cosa legittima; ma non si possono non sottolineare le nuove
responsabilità ed i pericoli connessi con questa fase
storica. Nel modo in cui insorgono e sono definiti i nuovi
bisogni, è sempre operante una concezione più o meno
adeguata dell'uomo e del suo vero bene: attraverso le scelte
di produzione e di consumo si manifesta una determinata
cultura, come concezione globale della vita. È qui che sorge il
fenomeno del consumismo. Individuando nuovi bisogni e
nuove modalità per il loro soddisfacimento, è necessario
lasciarsi guidare da un'immagine integrale dell'uomo, che
rispetti tutte le dimensioni del suo essere e subordini quelle
materiali e istintive a quelle interiori e spirituali. Al
contrario, rivolgendosi direttamente ai suoi istinti e
prescindendo in diverso modo dalla sua realtà personale
cosciente e libera, si possono creare abitudini di consumo e
stili di vita oggettivamente illeciti e spesso dannosi
per la sua salute fisica e spirituale. Il sistema economico
non possiede al suo interno criteri che consentano di
distinguere correttamente le forme nuove e più elevate di
soddisfacimento dei bisogni umani dai nuovi bisogni indotti,
che ostacolano la formazione di una matura personalità. È,
perciò, necessaria ed urgente una grande opera educativa e
culturale, la quale comprenda l'educazione dei consumatori
ad un uso responsabile del loro potere di scelta, la
formazione di un alto senso di responsabilità nei produttori
e, soprattutto, nei professionisti delle comunicazioni di
massa, oltre che il necessario intervento delle pubbliche
Autorità.
Un esempio vistoso di
consumo artificiale, contrario alla salute e alla dignità
dell'uomo e certo non facile a controllare, è quello della
droga. La sua diffusione è indice di una grave disfunzione
del sistema sociale e sottintende anch'essa una « lettura »
materialistica e, in un certo senso, distruttiva dei bisogni
umani. Così la capacità innovativa dell'economia libera
finisce con l'attuarsi in modo unilaterale ed inadeguato. La
droga come anche la pornografia ed altre forme di consumismo,
sfruttando la fragilità dei deboli, tentano di riempire il
vuoto spirituale che si è venuto a creare.
Non è male desiderare di
viver meglio, ma è sbagliato lo stile di vita che si presume
esser migliore, quando è orientato all'avere e non all'essere
e vuole avere di più non per essere di più, ma per consumare
l'esistenza in un godimento fine a se stesso.75 È necessario,
perciò, adoperarsi per costruire stili di vita, nei quali la
ricerca del vero, del bello e del buono e la comunione con gli
altri uomini per una crescita comune siano gli elementi che
determinano le scelte dei consumi, dei risparmi e degli
investimenti. In proposito, non posso ricordare solo il dovere
della carità, cioè il dovere di sovvenire col proprio «
superfluo » e, talvolta, anche col proprio « necessario »
per dare ciò che è indispensabile alla vita del povero.
Alludo al fatto che anche la scelta di investire in un luogo
piuttosto che in un altro, in un settore produttivo piuttosto
che in un altro, è sempre una scelta morale e culturale. Poste
certe condizioni economiche e di stabilità politica
assolutamente imprescindibili, la decisione di investire, cioè
di offrire ad un popolo l'occasione di valorizzare il proprio
lavoro, è anche determinata da un atteggiamento di simpatia e
dalla fiducia nella Provvidenza, che rivelano la qualità
umana di colui che decide.
37. Del pari preoccupante,
accanto al problema del consumismo e con esso strettamente
connessa, è la questione ecologica. L'uomo, preso dal
desiderio di avere e di godere, più che di essere e di
crescere, consuma in maniera eccessiva e disordinata le
risorse della terra e la sua stessa vita. Alla radice
dell'insensata distruzione dell'ambiente naturale c'è un
errore antropologico, purtroppo diffuso nel nostro tempo.
L'uomo, che scopre la sua capacità di trasformare e, in un
certo senso, di creare il mondo col proprio lavoro, dimentica
che questo si svolge sempre sulla base della prima originaria
donazione delle cose da parte di Dio. Egli pensa di poter
disporre arbitrariamente della terra, assoggettandola senza
riserve alla sua volontà, come se essa non avesse una propria
forma ed una destinazione anteriore datale da Dio, che l'uomo
può, sì, sviluppare, ma non deve tradire. Invece di svolgere
il suo ruolo di collaboratore di Dio nell'opera della
creazione, l'uomo si sostituisce a Dio e così finisce col
provocare la ribellione della natura, piuttosto tiranneggiata
che governata da lui.76
Si avverte in ciò, prima
di tutto, una povertà o meschinità dello sguardo dell'uomo,
animato dal desiderio di possedere le cose anziché di
riferirle alla verità, e privo di quell'atteggiamento
disinteressato, gratuito, estetico che nasce dallo stupore per
l'essere e per la bellezza, il quale fa leggere nelle cose
visibili il messaggio del Dio invisibile che le ha create. Al
riguardo, l'umanità di oggi deve essere conscia dei suoi
doveri e compiti verso le generazioni future.
38. Oltre all'irrazionale
distruzione dell'ambiente naturale è qui da ricordare quella,
ancor più grave, dell'ambiente umano, a cui peraltro
si è lontani dal prestare la necessaria attenzione. Mentre ci
si preoccupa giustamente, anche se molto meno del necessario,
di preservare gli « habitat » naturali delle diverse specie
animali minacciate di estinzione, perché ci si rende conto
che ciascuna di esse apporta un particolare contributo
all'equilibrio generale della terra, ci si impegna troppo poco
per salvaguardare le condizioni morali di un'autentica «
ecologia umana ». Non solo la terra è stata data da Dio
all'uomo, che deve usarla rispettando l'intenzione originaria
di bene, secondo la quale gli è stata donata; ma l'uomo è
donato a se stesso da Dio e deve, perciò, rispettare la
struttura naturale e morale, di cui è stato dotato. Sono da
menzionare, in questo contesto, i gravi problemi della moderna
urbanizzazione, la necessità di un urbanesimo preoccupato
della vita delle persone, come anche la debita attenzione ad
un'« ecologia sociale » del lavoro.
L'uomo riceve da Dio la
sua essenziale dignità e con essa la capacità di trascendere
ogni ordinamento della società verso la verità ed il bene.
Egli, tuttavia, è anche condizionato dalla struttura sociale
in cui vive, dall'educazione ricevuta e dall'ambiente. Questi
elementi possono facilitare oppure ostacolare il suo vivere
secondo verità. Le decisioni, grazie alle quali si
costituisce un ambiente umano, possono creare specifiche
strutture di peccato, impedendo la piena realizzazione di
coloro che da esse sono variamente oppressi. Demolire tali
strutture e sostituirle con più autentiche forme di
convivenza è un compito che esige coraggio e pazienza.77
39. La prima e
fondamentale struttura a favore dell'« ecologia umana » è la
famiglia, in seno alla quale l'uomo riceve le prime e
determinanti nozioni intorno alla verità ed al bene, apprende
che cosa vuol dire amare ed essere amati e, quindi, che cosa
vuol dire in concreto essere una persona. Si intende qui la
famiglia fondata sul matrimonio, in cui il dono reciproco
di sé da parte dell'uomo e della donna crea un ambiente di
vita nel quale il bambino può nascere e sviluppare le sue
potenzialità, diventare consapevole della sua dignità e
prepararsi ad affrontare il suo unico ed irripetibile destino.
Spesso accade, invece, che l'uomo è scoraggiato dal
realizzare le condizioni autentiche della riproduzione umana,
ed è indotto a considerare se stesso e la propria vita come
un insieme di sensazioni da sperimentare anziché come
un'opera da compiere. Di qui nasce una mancanza di libertà
che fa rinunciare all'impegno di legarsi stabilmente con
un'altra persona e di generare dei figli, oppure induce a
considerare costoro come una delle tante « cose » che è
possibile avere o non avere, secondo i propri gusti, e che
entrano in concorrenza con altre possibilità.
Occorre tornare a
considerare la famiglia come il santuario della vita. Essa,
infatti, è sacra: è il luogo in cui la vita, dono di Dio, può
essere adeguatamente accolta e protetta contro i molteplici
attacchi a cui è esposta, e può svilupparsi secondo le
esigenze di un'autentica crescita umana. Contro la cosiddetta
cultura della morte, la famiglia costituisce la sede della
cultura della vita.
L'ingegno dell'uomo sembra
orientarsi, in questo campo, più a limitare, sopprimere o
annullare le fonti della vita ricorrendo perfino all'aborto,
purtroppo così diffuso nel mondo, che a difendere e ad aprire
le possibilità della vita stessa. Nell'Enciclica Sollicitudo
rei socialis sono state denunciate le campagne
sistematiche contro la natalità, che, in base ad una
concezione distorta del problema demografico e in un clima di
« assoluta mancanza di rispetto per la libertà di decisione
delle persone interessate », le sottopongono non di rado « a
intolleranti pressioni ... per piegarle a questa forma nuova
di oppressione ».78 Si tratta di politiche che con nuove
tecniche estendono il loro raggio di azione fino ad arrivare,
come in una « guerra chimica », ad avvelenare la vita di
milioni di esseri umani indifesi.
Queste critiche sono
rivolte non tanto contro un sistema economico, quanto contro
un sistema etico-culturale. L'economia, infatti, è solo un
aspetto ed una dimensione della complessa attività umana. Se
essa è assolutizzata, se la produzione ed il consumo delle
merci finiscono con l'occupare il centro della vita sociale e
diventano l'unico valore della società, non subordinato ad
alcun altro, la causa va ricercata non solo e non tanto nel
sistema economico stesso, quanto nel fatto che l'intero
sistema socio-culturale, ignorando la dimensione etica e
religiosa, si è indebolito e ormai si limita solo alla
produzione dei beni e dei servizi.79
Tutto ciò si può
riassumere affermando ancora una volta che la libertà
economica è soltanto un elemento della libertà umana. Quando
quella si rende autonoma, quando cioè l'uomo è visto più
come un produttore o un consumatore di beni che come un
soggetto che produce e consuma per vivere, allora perde la sua
necessaria relazione con la persona umana e finisce con
l'alienarla ed opprimerla.80
40. È compito dello Stato
provvedere alla difesa e alla tutela di quei beni collettivi,
come l'ambiente naturale e l'ambiente umano, la cui
salvaguardia non può essere assicurata dai semplici
meccanismi di mercato. Come ai tempi del vecchio capitalismo
lo Stato aveva il dovere di difendere i diritti fondamentali
del lavoro, così ora col nuovo capitalismo esso e l'intera
società hanno il dovere di difendere i beni collettivi che,
tra l'altro, costituiscono la cornice al cui interno soltanto
è possibile per ciascuno conseguire legittimamente i suoi
fini individuali.
Si ritrova qui un nuovo
limite del mercato: ci sono bisogni collettivi e qualitativi
che non possono essere soddisfatti mediante i suoi meccanismi;
ci sono esigenze umane importanti che sfuggono alla sua
logica; ci sono dei beni che, in base alla loro natura, non si
possono e non si debbono vendere e comprare. Certo, i
meccanismi di mercato offrono sicuri vantaggi: aiutano, tra
l'altro, ad utilizzare meglio le risorse; favoriscono lo
scambio dei prodotti e, soprattutto, pongono al centro la
volontà e le preferenze della persona che nel contratto si
incontrano con quelle di un'altra persona. Tuttavia, essi
comportano il rischio di un'« idolatria » del mercato, che
ignora l'esistenza dei beni che, per loro natura, non sono né
possono essere semplici merci.
41. Il marxismo ha
criticato le società borghesi capitalistiche, rimproverando
loro la mercificazione e l'alienazione dell'esistenza umana.
Certamente, questo rimprovero è basato su una concezione
errata ed inadeguata dell'alienazione, che la fa derivare solo
dalla sfera dei rapporti di produzione e di proprietà, cioè
assegnandole un fondamento materialistico e, per di più,
negando la legittimità e la positività delle relazioni di
mercato anche nell'ambito che è loro proprio. Si finisce così
con l'affermare che solo in una società di tipo
collettivistico potrebbe essere eliminata l'alienazione. Ora,
l'esperienza storica dei Paesi socialisti ha tristemente
dimostrato che il collettivismo non sopprime l'alienazione, ma
piuttosto l'accresce, aggiungendovi la penuria delle cose
necessarie e l'inefficienza economica.
L'esperienza storica
dell'Occidente, da parte sua, dimostra che, se l'analisi e la
fondazione marxista dell'alienazione sono false, tuttavia
l'alienazione con la perdita del senso autentico
dell'esistenza è un fatto reale anche nelle società
occidentali. Essa si verifica nel consumo, quando l'uomo è
implicato in una rete di false e superficiali soddisfazioni,
anziché essere aiutato a fare l'autentica e concreta
esperienza della sua personalità. Essa si verifica anche nel
lavoro, quando è organizzato in modo tale da « massimizzare
» soltanto i suoi frutti e proventi e non ci si preoccupa che
il lavoratore, mediante il proprio lavoro, si realizzi di più
o di meno come uomo, a seconda che cresca la sua
partecipazione in un'autentica comunità solidale, oppure
cresca il suo isolamento in un complesso di relazioni di
esasperata competitività e di reciproca estraniazione, nel
quale egli è considerato solo come un mezzo, e non come un
fine.
È necessario ricondurre
il concetto di alienazione alla visione cristiana, ravvisando
in esso l'inversione tra i mezzi e i fini: quando non
riconosce il valore e la grandezza della persona in se stesso
e nell'altro, l'uomo di fatto si priva della possibilità di
fruire della propria umanità e di entrare in quella relazione
di solidarietà e di comunione con gli altri uomini per cui
Dio lo ha creato. È, infatti, mediante il libero dono di sé
che l'uomo diventa autenticamente se stesso,81 e questo dono
è reso possibile dall'essenziale « capacità di trascendenza
» della persona umana. L'uomo non può donare se stesso ad un
progetto solo umano della realtà, ad un ideale astratto o a
false utopie. Egli, in quanto persona, può donare se stesso
ad un'altra persona o ad altre persone e, infine, a Dio, che
è l'autore del suo essere ed è l'unico che può pienamente
accogliere il suo dono.82 È alienato l'uomo che rifiuta di
trascendere se stesso e di vivere l'esperienza del dono di sé
e della formazione di un'autentica comunità umana, orientata
al suo destino ultimo che è Dio. È alienata la società che,
nelle sue forme di organizzazione sociale, di produzione e di
consumo, rende più difficile la realizzazione di questo dono
ed il costituirsi di questa solidarietà interumana.
Nella società occidentale
è stato superato lo sfruttamento, almeno nelle forme
analizzate e descritte da Carlo Marx. Non è stata superata,
invece, l'alienazione nelle varie forme di sfruttamento,
quando gli uomini si strumentalizzano vicendevolmente e, nel
soddisfacimento sempre più raffinato dei loro bisogni
particolari e secondari, diventano sordi a quelli principali
ed autentici, che devono regolare anche le modalità di
soddisfacimento degli altri bisogni.83 L'uomo che si preoccupa
solo o prevalentemente dell'avere e del godimento, non più
capace di dominare i suoi istinti e le sue passioni e di
subordinarle mediante l'obbedienza alla verità, non può
essere libero: l'obbedienza alla verità su Dio e sull'uomo
è la condizione prima della libertà, consentendogli di
ordinare i propri bisogni, i propri desideri e le modalità
del loro soddisfacimento secondo una giusta gerarchia, di modo
che il possesso delle cose sia per lui un mezzo di crescita.
Un ostacolo a tale crescita può venire dalla manipolazione
operata da quei mezzi di comunicazione di massa che impongono,
con la forza di una ben orchestrata insistenza, mode e
movimenti di opinione, senza che sia possibile sottoporre a
una disamina critica le premesse su cui essi si fondano.
42. Ritornando ora alla
domanda iniziale, si può forse dire che, dopo il fallimento
del comunismo, il sistema sociale vincente sia il capitalismo,
e che verso di esso vadano indirizzati gli sforzi dei Paesi
che cercano di ricostruire la loro economia e la loro società?
È forse questo il modello che bisogna proporre ai Paesi del
Terzo Mondo, che cercano la via del vero progresso economico e
civile?
La risposta è ovviamente
complessa. Se con « capitalismo » si indica un sistema
economico che riconosce il ruolo fondamentale e positivo
dell'impresa, del mercato, della proprietà privata e della
conseguente responsabilità per i mezzi di produzione, della
libera creatività umana nel settore dell'economia, la
risposta è certamente positiva, anche se forse sarebbe più
appropriato parlare di « economia d'impresa », o di «
economia di mercato », o semplicemente di « economia libera
». Ma se con « capitalismo » si intende un sistema in cui
la libertà nel settore dell'economia non è inquadrata in un
solido contesto giuridico che la metta al servizio della
libertà umana integrale e la consideri come una particolare
dimensione di questa libertà, il cui centro è etico e
religioso, allora la risposta è decisamente negativa.
La soluzione marxista è
fallita, ma permangono nel mondo fenomeni di emarginazione e
di sfruttamento, specialmente nel Terzo Mondo, nonché
fenomeni di alienazione umana, specialmente nei Paesi più
avanzati, contro i quali si leva con fermezza la voce della
Chiesa. Tante moltitudini vivono tuttora in condizioni di
grande miseria materiale e morale. Il crollo del sistema
comunista in tanti Paesi elimina certo un ostacolo
nell'affrontare in modo adeguato e realistico questi problemi,
ma non basta a risolverli. C'è anzi il rischio che si
diffonda un'ideologia radicale di tipo capitalistico, la quale
rifiuta perfino di prenderli in considerazione, ritenendo a
priori condannato all'insuccesso ogni tentativo di
affrontarli, e ne affida fideisticamente la soluzione al
libero sviluppo delle forze di mercato.
43. La Chiesa non ha
modelli da proporre. I modelli reali e veramente efficaci
possono solo nascere nel quadro delle diverse situazioni
storiche, grazie allo sforzo di tutti i responsabili che
affrontino i problemi concreti in tutti i loro aspetti
sociali, economici, politici e culturali che si intrecciano
tra loro.84 A tale impegno la Chiesa offre, come indispensabile
orientamento ideale, la propria dottrina sociale, che —
come si è detto — riconosce la positività del mercato e
dell'impresa, ma indica, nello stesso tempo, la necessità che
questi siano orientati verso il bene comune. Essa riconosce
anche la legittimità degli sforzi dei lavoratori per
conseguire il pieno rispetto della loro dignità e spazi
maggiori di partecipazione nella vita dell'azienda, di modo
che, pur lavorando insieme con altri e sotto la direzione di
altri, possano, in un certo senso, « lavorare in proprio »
85 esercitando la loro intelligenza e libertà.
L'integrale sviluppo della
persona umana nel lavoro non contraddice, ma piuttosto
favorisce la maggiore produttività ed efficacia del lavoro
stesso, anche se ciò può indebolire assetti di potere
consolidati. L'azienda non può esser considerata solo come
una « società di capitali »; essa, al tempo stesso, è una
« società di persone », di cui entrano a far parte in modo
diverso e con specifiche responsabilità sia coloro che
forniscono il capitale necessario per la sua attività, sia
coloro che vi collaborano col loro lavoro. Per conseguire
questi fini è ancora necessario un grande movimento
associato dei lavoratori, il cui obiettivo è la
liberazione e la promozione integrale della persona.
Alla luce delle « cose
nuove » di oggi è stato riletto il rapporto tra la
proprietà individuale, o privata, e la destinazione
universale dei beni. L'uomo realizza se stesso per mezzo
della sua intelligenza e della sua libertà e, nel fare
questo, assume come oggetto e come strumento le cose del mondo
e di esse si appropria. In questo suo agire sta il fondamento
del diritto all'iniziativa e alla proprietà individuale.
Mediante il suo lavoro l'uomo s'impegna non solo per se
stesso, ma anche per gli altri e con gli altri: ciascuno
collabora al lavoro ed al bene altrui. L'uomo lavora per
sovvenire ai bisogni della sua famiglia, della comunità di
cui fa parte, della Nazione e, in definitiva, dell'umanità
tutta.86 Egli, inoltre, collabora al lavoro degli altri, che
operano nella stessa azienda, nonché al lavoro dei fornitori
o al consumo dei clienti, in una catena di solidarietà che si
estende progressivamente. La proprietà dei mezzi di
produzione sia in campo industriale che agricolo è giusta e
legittima, se serve ad un lavoro utile; diventa, invece,
illegittima, quando non viene valorizzata o serve ad impedire
il lavoro di altri, per ottenere un guadagno che non nasce
dall'espansione globale del lavoro e della ricchezza sociale,
ma piuttosto dalla loro compressione, dall'illecito
sfruttamento, dalla speculazione e dalla rottura della
solidarietà nel mondo del lavoro.87 Una tale proprietà non
ha nessuna giustificazione e costituisce un abuso al cospetto
di Dio e degli uomini.
L'obbligo di guadagnare il
pane col sudore della propria fronte suppone, al tempo stesso,
un diritto. Una società in cui questo diritto sia
sistematicamente negato, in cui le misure di politica
economica non consentano ai lavoratori di raggiungere livelli
soddisfacenti di occupazione, non può conseguire né la sua
legittimazione etica né la pace sociale.88 Come la persona
realizza pienamente se stessa nel libero dono di sé, così la
proprietà si giustifica moralmente nel creare, nei modi e nei
tempi dovuti, occasioni di lavoro e crescita umana per tutti.
V.
STATO E CULTURA
44. Leone XIII non
ignorava che una sana teoria dello Stato è necessaria
per assicurare il normale sviluppo delle attività umane: di
quelle spirituali e di quelle materiali, che sono entrambe
indispensabili.89 Per questo, in un passo della Rerum
novarum egli presenta l'organizzazione della società
secondo i tre poteri — legislativo, esecutivo e giudiziario
—, e ciò in quel tempo costituiva una novità
nell'insegnamento della Chiesa.90 Tale ordinamento riflette
una visione realistica della natura sociale dell'uomo, la
quale esige una legislazione adeguata a proteggere la libertà
di tutti. A tal fine è preferibile che ogni potere sia
bilanciato da altri poteri e da altre sfere di competenza, che
lo mantengano nel suo giusto limite. È, questo, il principio
dello « Stato di diritto », nel quale è sovrana la legge, e
non la volontà arbitraria degli uomini.
A questa concezione si è
opposto nel tempo moderno il totalitarismo, il quale, nella
forma marxista-leninista, ritiene che alcuni uomini, in virtù
di una più profonda conoscenza delle leggi di sviluppo della
società, o per una particolare collocazione di classe o per
un contatto con le sorgenti più profonde della coscienza
collettiva, sono esenti dall'errore e possono, quindi,
arrogarsi l'esercizio di un potere assoluto. Va aggiunto che
il totalitarismo nasce dalla negazione della verità in senso
oggettivo: se non esiste una verità trascendente, obbedendo
alla quale l'uomo acquista la sua piena identità, allora non
esiste nessun principio sicuro che garantisca giusti rapporti
tra gli uomini. Il loro interesse di classe, di gruppo, di
Nazione li oppone inevitabilmente gli uni agli altri. Se non
si riconosce la verità trascendente, allora trionfa la forza
del potere, e ciascuno tende a utilizzare fino in fondo i
mezzi di cui dispone per imporre il proprio interesse o la
propria opinione, senza riguardo ai diritti dell'altro. Allora
l'uomo viene rispettato solo nella misura in cui è possibile
strumentalizzarlo per un'affermazione egoistica. La radice del
moderno totalitarismo, dunque, è da individuare nella
negazione della trascendente dignità della persona umana,
immagine visibile del Dio invisibile e, proprio per questo,
per sua natura stessa, soggetto di diritti che nessuno può
violare: né l'individuo, né il gruppo, né la classe, né la
Nazione o lo Stato. Non può farlo nemmeno la maggioranza di
un corpo sociale, ponendosi contro la minoranza,
emarginandola, opprimendola, sfruttandola o tentando di
annientarla.91
45. La cultura e la prassi
del totalitarismo comportano anche la negazione della Chiesa.
Lo Stato, oppure il partito, che ritiene di poter realizzare
nella storia il bene assoluto e si erge al di sopra di tutti i
valori, non può tollerare che sia affermato un criterio
oggettivo del bene e del male oltre la volontà dei
governanti, il quale, in determinate circostanze, può servire
a giudicare il loro comportamento. Ciò spiega perché il
totalitarismo cerca di distruggere la Chiesa o, almeno, di
assoggettarla, facendola strumento del proprio apparato
ideologico.92
Lo Stato totalitario,
inoltre, tende ad assorbire in se stesso la Nazione, la società,
la famiglia, le comunità religiose e le stesse persone.
Difendendo la propria libertà, la Chiesa difende la persona,
che deve obbedire a Dio piuttosto che agli uomini (cf At 5,29),
la famiglia, le diverse organizzazioni sociali e le Nazioni,
realtà tutte che godono di una propria sfera di autonomia e
di sovranità.
46. La Chiesa apprezza il
sistema della democrazia, in quanto assicura la partecipazione
dei cittadini alle scelte politiche e garantisce ai governati
la possibilità sia di eleggere e controllare i propri
governanti, sia di sostituirli in modo pacifico, ove ciò
risulti opportuno.93 Essa, pertanto, non può favorire la
formazione di gruppi dirigenti ristretti, i quali per
interessi particolari o per fini ideologici usurpano il potere
dello Stato.
Un'autentica democrazia è
possibile solo in uno Stato di diritto e sulla base di una
retta concezione della persona umana. Essa esige che si
verifichino le condizioni necessarie per la promozione sia
delle singole persone mediante l'educazione e la formazione ai
veri ideali, sia della « soggettività » della società
mediante la creazione di strutture di partecipazione e di
corresponsabilità. Oggi si tende ad affermare che
l'agnosticismo ed il relativismo scettico sono la filosofia e
l'atteggiamento fondamentale rispondenti alle forme politiche
democratiche, e che quanti son convinti di conoscere la verità
ed aderiscono con fermezza ad essa non sono affidabili dal
punto di vista democratico, perché non accettano che la verità
sia determinata dalla maggioranza o sia variabile a seconda
dei diversi equilibri politici. A questo proposito, bisogna
osservare che, se non esiste nessuna verità ultima la quale
guida ed orienta l'azione politica, allora le idee e le
convinzioni possono esser facilmente strumentalizzate per fini
di potere. Una democrazia senza valori si converte facilmente
in un totalitarismo aperto oppure subdolo, come dimostra la
storia.
Né la Chiesa chiude gli
occhi davanti al pericolo del fanatismo, o fondamentalismo, di
quanti, in nome di un'ideologia che si pretende scientifica o
religiosa, ritengono di poter imporre agli altri uomini la
loro concezione della verità e del bene. Non è di questo
tipo la verità cristiana. Non essendo ideologica, la
fede cristiana non presume di imprigionare in un rigido schema
la cangiante realtà socio-politica e riconosce che la vita
dell'uomo si realizza nella storia in condizioni diverse e non
perfette. La Chiesa, pertanto, riaffermando costantemente la
trascendente dignità della persona, ha come suo metodo il
rispetto della libertà.94
Ma la libertà è
pienamente valorizzata soltanto dall'accettazione della verità:
in un mondo senza verità la libertà perde la sua
consistenza, e l'uomo è esposto alla violenza delle passioni
ed a condizionamenti aperti od occulti. Il cristiano vive la
libertà (cf Gv 8,31-32) e la serve proponendo
continuamente, secondo la natura missionaria della sua
vocazione, la verità che ha conosciuto. Nel dialogo con gli
altri uomini egli, attento ad ogni frammento di verità che
incontri nell'esperienza di vita e nella cultura dei singoli e
delle Nazioni, non rinuncerà ad affermare tutto ciò che gli
hanno fatto conoscere la sua fede ed il corretto esercizio
della ragione.95
47. Dopo il crollo del
totalitarismo comunista e di molti altri regimi totalitari e
« di sicurezza nazionale », si assiste oggi al prevalere,
non senza contrasti, dell'ideale democratico, unitamente ad
una viva attenzione e preoccupazione per i diritti umani. Ma
proprio per questo è necessario che i popoli che stanno
riformando i loro ordinamenti diano alla democrazia un
autentico e solido fondamento mediante l'esplicito
riconoscimento di questi diritti.96 Tra i principali sono da
ricordare: il diritto alla vita, di cui è parte integrante il
diritto a crescere sotto il cuore della madre dopo essere
stati generati; il diritto a vivere in una famiglia unita e in
un ambiente morale, favorevole allo sviluppo della propria
personalità; il diritto a maturare la propria intelligenza e
la propria libertà nella ricerca e nella conoscenza della
verità; il diritto a partecipare al lavoro per valorizzare i
beni della terra ed a ricavare da esso il sostentamento
proprio e dei propri cari; il diritto a fondare liberamente
una famiglia ed a accogliere e educare i figli, esercitando
responsabilmente la propria sessualità. Fonte e sintesi di
questi diritti è, in un certo senso, la libertà religiosa,
intesa come diritto a vivere nella verità della propria fede
ed in conformità alla trascendente dignità della propria
persona.97
Anche nei Paesi dove
vigono forme di governo democratico non sempre questi diritti
sono del tutto rispettati. Né ci si riferisce soltanto allo
scandalo dell'aborto, ma anche a diversi aspetti di una crisi
dei sistemi democratici, che talvolta sembra abbiano smarrito
la capacità di decidere secondo il bene comune. Le domande
che si levano dalla società a volte non sono esaminate
secondo criteri di giustizia e di moralità, ma piuttosto
secondo la forza elettorale o finanziaria dei gruppi che le
sostengono. Simili deviazioni del costume politico col tempo
generano sfiducia ed apatia con la conseguente diminuzione
della partecipazione politica e dello spirito civico in seno
alla popolazione, che si sente danneggiata e delusa. Ne
risulta la crescente incapacità di inquadrare gli interessi
particolari in una coerente visione del bene comune. Questo,
infatti, non è la semplice somma degli interessi particolari,
ma implica la loro valutazione e composizione fatta in base ad
un'equilibrata gerarchia di valori e, in ultima analisi, ad
un'esatta comprensione della dignità e dei diritti della
persona.98
La Chiesa rispetta la legittima
autonomia dell'ordine democratico e non ha titolo per
esprimere preferenze per l'una o l'altra soluzione
istituzionale o costituzionale. Il contributo, che essa offre
a tale ordine, è proprio quella visione della dignità della
persona, la quale si manifesta in tutta la sua pienezza nel
mistero del Verbo incarnato.99
48. Queste considerazioni
generali si riflettono anche sul ruolo dello Stato nel
settore dell'economia. L'attività economica, in
particolare quella dell'economia di mercato, non può
svolgersi in un vuoto istituzionale, giuridico e politico.
Essa suppone, al contrario, sicurezza circa le garanzie della
libertà individuale e della proprietà, oltre che una moneta
stabile e servizi pubblici efficienti. Il principale compito
dello Stato, pertanto, è quello di garantire questa
sicurezza, di modo che chi lavora e produce possa godere i
frutti del proprio lavoro e, quindi, si senta stimolato a
compierlo con efficienza e onestà. La mancanza di sicurezza,
accompagnata dalla corruzione dei pubblici poteri e dalla
diffusione di improprie fonti di arricchimento e di facili
profitti, fondati su attività illegali o puramente
speculative, è uno degli ostacoli principali per lo sviluppo
e per l'ordine economico.
Altro compito dello Stato
è quello di sorvegliare e guidare l'esercizio dei diritti
umani nel settore economico; ma in questo campo la prima
responsabilità non è dello Stato, bensì dei singoli e dei
diversi gruppi e associazioni in cui si articola la società.
Non potrebbe lo Stato assicurare direttamente il diritto al
lavoro di tutti i cittadini senza irreggimentare l'intera vita
economica e mortificare la libera iniziativa dei singoli. Ciò,
tuttavia, non significa che esso non abbia alcuna competenza
in questo ambito, come hanno affermato i sostenitori di
un'assenza di regole nella sfera economica. Lo Stato, anzi, ha
il dovere di assecondare l'attività delle imprese, creando
condizioni che assicurino occasioni di lavoro, stimolandola
ove essa risulti insufficiente o sostenendola nei momenti di
crisi.
Lo Stato, ancora, ha il
diritto di intervenire quando situazioni particolari di
monopolio creino remore o ostacoli per lo sviluppo. Ma, oltre
a questi compiti di armonizzazione e di guida dello sviluppo,
esso può svolgere funzioni di supplenza in situazioni
eccezionali, quando settori sociali o sistemi di imprese,
troppo deboli o in via di formazione, sono inadeguati al loro
compito. Simili interventi di supplenza, giustificati da
urgenti ragioni attinenti al bene comune, devono essere, per
quanto possibile, limitati nel tempo, per non sottrarre
stabilmente a detti settori e sistemi di imprese le competenze
che sono loro proprie e per non dilatare eccessivamente
l'ambito dell'intervento statale in modo pregiudizievole per
la libertà sia economica che civile.
Si è assistito negli
ultimi anni ad un vasto ampliamento di tale sfera di
intervento, che ha portato a costituire, in qualche modo, uno
Stato di tipo nuovo: lo « Stato del benessere ». Questi
sviluppi si sono avuti in alcuni Stati per rispondere in modo
più adeguato a molte necessità e bisogni, ponendo rimedio a
forme di povertà e di privazione indegne della persona umana.
Non sono, però, mancati eccessi ed abusi che hanno provocato,
specialmente negli anni più recenti, dure critiche allo Stato
del benessere, qualificato come « Stato assistenziale ».
Disfunzioni e difetti nello Stato assistenziale derivano da
un'inadeguata comprensione dei compiti propri dello Stato.
Anche in questo ambito deve essere rispettato il principio
di sussidiarietà: una società di ordine superiore non
deve interferire nella vita interna di una società di ordine
inferiore, privandola delle sue competenze, ma deve piuttosto
sostenerla in caso di necessità ed aiutarla a coordinare la
sua azione con quella delle altre componenti sociali, in vista
del bene comune.100
Intervenendo direttamente
e deresponsabilizzando la società, lo Stato assistenziale
provoca la perdita di energie umane e l'aumento esagerato
degli apparati pubblici, dominati da logiche burocratiche più
che dalla preoccupazione di servire gli utenti, con enorme
crescita delle spese. Sembra, infatti, che conosce meglio il
bisogno e riesce meglio a soddisfarlo chi è ad esso più
vicino e si fa prossimo al bisognoso. Si aggiunga che spesso
un certo tipo di bisogni richiede una risposta che non sia
solo materiale, ma che ne sappia cogliere la domanda umana più
profonda. Si pensi anche alla condizione dei profughi, degli
immigrati, degli anziani o dei malati ed a tutte le svariate
forme che richiedono assistenza, come nel caso dei
tossico-dipendenti: persone tutte che possono essere
efficacemente aiutate solo da chi offre loro, oltre alle
necessarie cure, un sostegno sinceramente fraterno.
49. In questo campo la
Chiesa, fedele al mandato di Cristo, suo Fondatore, è da
sempre presente con le sue opere, per offrire all'uomo
bisognoso un sostegno materiale che non lo umili e non lo
riduca ad esser solo oggetto di assistenza, ma lo aiuti a
uscire dalla precaria sua condizione, promovendone la dignità
di persona. Con viva gratitudine a Dio bisogna segnalare che
la carità operosa non si è mai spenta nella Chiesa ed anzi
registra oggi un multiforme e confortante incremento. Al
riguardo, merita speciale menzione il fenomeno del
volontariato, che la Chiesa favorisce e promuove
sollecitando tutti a collaborare per sostenerlo e
incoraggiarlo nelle sue iniziative.
Per superare la mentalità
individualista, oggi diffusa, si richiede un concreto
impegno di solidarietà e di carità, il quale inizia
all'interno della famiglia col mutuo sostegno degli sposi e,
poi, con la cura che le generazioni si prendono l'una
dell'altra. In tal modo la famiglia si qualifica come comunità
di lavoro e di solidarietà. Accade, però, che quando la
famiglia decide di corrispondere pienamente alla propria
vocazione, si può trovare priva dell'appoggio necessario da
parte dello Stato e non dispone di risorse sufficienti. È
urgente promuovere non solo politiche per la famiglia, ma
anche politiche sociali, che abbiano come principale obiettivo
la famiglia stessa, aiutandola, mediante l'assegnazione di
adeguate risorse e di efficienti strumenti di sostegno, sia
nell'educazione dei figli sia nella cura degli anziani,
evitando il loro allontanamento dal nucleo familiare e
rinsaldando i rapporti tra le generazioni.101
Oltre alla famiglia,
svolgono funzioni primarie ed attivano specifiche reti di
solidarietà anche altre società intermedie. Queste, infatti,
maturano come reali comunità di persone ed innervano il
tessuto sociale, impedendo che scada nell'anonimato ed in
un'impersonale massificazione, purtroppo frequente nella
moderna società. È nel molteplice intersecarsi dei rapporti
che vive la persona e cresce la « soggettività della società
». L'individuo oggi è spesso soffocato tra i due poli dello
Stato e del mercato. Sembra, infatti, talvolta che egli esista
soltanto come produttore e consumatore di merci, oppure come
oggetto dell'amministrazione dello Stato, mentre si dimentica
che la convivenza tra gli uomini non è finalizzata né al
mercato né allo Stato, poiché possiede in se stessa un
singolare valore che Stato e mercato devono servire. L'uomo è,
prima di tutto, un essere che cerca la verità e si sforza di
viverla e di approfondirla in un dialogo che coinvolge le
generazioni passate e future.102
50. Da tale ricerca aperta
della verità, che si rinnova ad ogni generazione, si
caratterizza la cultura della Nazione. In effetti, il
patrimonio dei valori tramandati ed acquisiti è sempre
sottoposto dai giovani a contestazione. Contestare, peraltro,
non vuol dire necessariamente distruggere o rifiutare in modo
aprioristico, ma vuol significare soprattutto mettere alla
prova nella propria vita e, con tale verifica esistenziale,
rendere quei valori più vivi, attuali e personali,
discernendo ciò che nella tradizione è valido da falsità ed
errori o da forme invecchiate, che possono esser sostituite da
altre più adeguate ai tempi.
In questo contesto,
conviene ricordare che anche l'evangelizzazione si
inserisce nella cultura delle Nazioni, sostenendola nel
suo cammino verso la verità ed aiutandola nel lavoro di
purificazione e di arricchimento.103 Quando, però, una
cultura si chiude in se stessa e cerca di perpetuare forme di
vita invecchiate, rifiutando ogni scambio e confronto intorno
alla verità dell'uomo, allora essa diventa sterile e si avvia
a decadenza.
51. Tutta l'attività
umana ha luogo all'interno di una cultura e interagisce con
essa. Per un'adeguata formazione di tale cultura si richiede
il coinvolgimento di tutto l'uomo, il quale vi esplica la sua
creatività, la sua intelligenza, la sua conoscenza del mondo
e degli uomini. Egli, inoltre, vi investe la sua capacità di
autodominio, di sacrificio personale, di solidarietà e di
disponibilità per promuovere il bene comune. Per questo, il
primo e più importante lavoro si compie nel cuore
dell'uomo, ed il modo in cui questi si impegna a costruire
il proprio futuro dipende dalla concezione che ha di se stesso
e del suo destino. È a questo livello che si colloca il
contributo specifico e decisivo della Chiesa in favore della
vera cultura. Essa promuove le qualità dei comportamenti
umani, che favoriscono la cultura della pace contro modelli
che confondono l'uomo nella massa, disconoscono il ruolo della
sua iniziativa e libertà e pongono la sua grandezza nelle
arti del conflitto e della guerra. La Chiesa rende un tale
servizio predicando la verità intorno alla creazione del
mondo, che Dio ha posto nelle mani degli uomini perché lo
rendano fecondo e più perfetto col loro lavoro, e predicando
la verità intorno alla redenzione, per cui il Figlio di
Dio ha salvato tutti gli uomini e, al tempo stesso, li ha
uniti gli uni agli altri, rendendoli responsabili gli uni
degli altri. La Sacra Scrittura ci parla continuamente di
attivo impegno per il fratello e ci presenta l'esigenza di una
corresponsabilità che deve abbracciare tutti gli uomini.
Questa esigenza non si
ferma ai confini della propria famiglia, e neppure della
Nazione o dello Stato, ma investe ordinatamente tutta l'umanità,
sicché nessun uomo deve considerarsi estraneo o indifferente
alla sorte di un altro membro della famiglia umana. Nessun
uomo può affermare di non essere responsabile della sorte del
proprio fratello (cf Gn 4,9; Lc 10,29-37; Mt
25,31-46)! L'attenta e premurosa sollecitudine verso il
prossimo, nel momento stesso del bisogno, oggi facilitata
anche dai nuovi mezzi di comunicazione che hanno reso gli
uomini più vicini tra loro, è particolarmente importante in
relazione alla ricerca degli strumenti di soluzione dei
conflitti internazionali alternativi alla guerra. Non è
difficile affermare che la potenza terrificante dei mezzi di
distruzione, accessibili perfino alle medie e piccole potenze,
e la sempre più stretta connessione, esistente tra i popoli
di tutta la terra, rendono assai arduo o praticamente
impossibile limitare le conseguenze di un conflitto.
52. I pontefici Benedetto
XV ed i suoi successori hanno lucidamente compreso questo
pericolo,104 ed io stesso, in occasione della recente
drammatica guerra nel Golfo Persico, ho ripetuto il grido: «
Mai più la guerra! ». No, mai più la guerra, che distrugge
la vita degli innocenti, che insegna ad uccidere e sconvolge
egualmente la vita degli uccisori, che lascia dietro di sé
uno strascico di rancori e di odi, rendendo più difficile la
giusta soluzione degli stessi problemi che l'hanno provocata!
Come all'interno dei singoli Stati è giunto finalmente il
tempo in cui il sistema della vendetta privata e della
rappresaglia è stato sostituito dall'impero della legge, così
è ora urgente che un simile progresso abbia luogo nella
Comunità internazionale. Non bisogna, peraltro, dimenticare
che alle radici della guerra ci sono in genere reali e gravi
ragioni: ingiustizie subite, frustrazioni di legittime
aspirazioni, miseria e sfruttamento di moltitudini umane
disperate, le quali non vedono la reale possibilità di
migliorare le loro condizioni con le vie della pace.
Per questo, l'altro nome
della pace è lo sviluppo.105 Come esiste la
responsabilità collettiva di evitare la guerra, così esiste
la responsabilità collettiva di promuovere lo sviluppo. Come
a livello interno è possibile e doveroso costruire
un'economia sociale che orienti il funzionamento del mercato
verso il bene comune, allo stesso modo è necessario che ci
siano interventi adeguati anche a livello internazionale.
Perciò, bisogna fare un grande sforzo di reciproca
comprensione, di conoscenza e di sensibilizzazione delle
coscienze. È questa l'auspicata cultura che fa crescere
la fiducia nelle potenzialità umane del povero e, quindi,
nella sua capacità di migliorare la propria condizione
mediante il lavoro, o di dare un positivo contributo al
benessere economico. Per far questo, però, il povero —
individuo o Nazione — ha bisogno che gli siano offerte
condizioni realisticamente accessibili. Creare tali occasioni
è il compito di una concertazione mondiale per lo
sviluppo, che implica anche il sacrificio delle posizioni
di rendita e di potere, di cui le economie più sviluppate si
avvantaggiano.106
Ciò può comportare
importanti cambiamenti negli stili di vita consolidati, al
fine di limitare lo spreco delle risorse ambientali ed umane,
permettendo così a tutti i popoli ed uomini della terra di
averne in misura sufficiente. A ciò si deve aggiungere la
valorizzazione dei nuovi beni materiali e spirituali, frutto
del lavoro e della cultura dei popoli oggi emarginati,
ottenendo così il complessivo arricchimento umano della
famiglia delle Nazioni.
VI.
L'UOMO È LA VIA DELLA CHIESA
53. Di fronte alla miseria
del proletariato Leone XIII diceva: « Affrontiamo con fiducia
questo argomento e con pieno nostro diritto ... Ci parrebbe di
mancare al nostro ufficio se tacessimo ».107 Negli ultimi
cento anni la Chiesa ha ripetutamente manifestato il suo
pensiero, seguendo da vicino la continua evoluzione della
questione sociale, e non ha certo fatto questo per recuperare
privilegi del passato o per imporre una sua concezione. Suo
unico scopo è stata la cura e responsabilità per l'uomo, a
lei affidato da Cristo stesso, per questo uomo che,
come il Concilio Vaticano II ricorda, è la sola creatura che
Dio abbia voluto per se stessa e per cui Dio ha il suo
progetto, cioè la partecipazione all'eterna salvezza. Non si
tratta dell'uomo « astratto », ma dell'uomo reale, «
concreto » e « storico »: si tratta di ciascun uomo, perché
ciascuno è stato compreso nel mistero della redenzione e con
ciascuno Cristo si è unito per sempre attraverso questo
mistero.108 Ne consegue che la Chiesa non può abbandonare
l'uomo, e che « questo uomo è la prima via che la
Chiesa deve percorrere nel compimento della sua missione ...,
la via tracciata da Cristo stesso, via che immutabilmente
passa attraverso il mistero dell'incarnazione e della
redenzione ».109
È, questa, solo questa
l'ispirazione che presiede alla dottrina sociale della Chiesa.
Se essa l'ha a mano a mano elaborata in forma sistematica,
soprattutto a partire dalla data che commemoriamo, è perché
tutta la ricchezza dottrinale della Chiesa ha come orizzonte
l'uomo nella sua concreta realtà di peccatore e di giusto.
54. La dottrina sociale
oggi specialmente mira all'uomo, in quanto inserito
nella complessa rete di relazioni delle società moderne. Le
scienze umane e la filosofia sono di aiuto per interpretare la
centralità dell'uomo dentro la società e per metterlo
in grado di capir meglio se stesso, in quanto « essere
sociale ». Soltanto la fede, però, gli rivela pienamente la
sua identità vera, e proprio da essa prende avvio la dottrina
sociale della Chiesa, la quale, valendosi di tutti gli apporti
delle scienze e della filosofia, si propone di assistere
l'uomo nel cammino della salvezza.
L'Enciclica Rerum
novarum può essere letta come un importante apporto
all'analisi socio-economica della fine del secolo XIX, ma il
suo particolare valore le deriva dall'essere un Documento del
Magistero, che ben si inserisce nella missione
evangelizzatrice della Chiesa insieme con molti altri
Documenti di questa natura. Da ciò si evince che la dottrina
sociale ha di per sé il valore di uno strumento di
evangelizzazione: in quanto tale, annuncia Dio ed il
mistero di salvezza in Cristo ad ogni uomo e, per la medesima
ragione, rivela l'uomo a se stesso. In questa luce, e solo in
questa luce, si occupa del resto: dei diritti umani di
ciascuno e, in particolare, del « proletariato », della
famiglia e dell'educazione, dei doveri dello Stato,
dell'ordinamento della società nazionale e internazionale,
della vita economica, della cultura, della guerra e della
pace, del rispetto alla vita dal momento del concepimento fino
alla morte.
55. La Chiesa riceve il «
senso dell'uomo » dalla divina Rivelazione. « Per conoscere
l'uomo, l'uomo vero, l'uomo integrale, bisogna conoscere Dio
», diceva Paolo VI, e subito dopo citava santa Caterina da
Siena, che esprimeva in preghiera lo stesso concetto: « Nella
tua natura, Deità eterna, conoscerò la natura mia ».110
Pertanto, l'antropologia
cristiana è in realtà un capitolo della teologia e, per la
stessa ragione, la dottrina sociale della Chiesa,
preoccupandosi dell'uomo, interessandosi a lui e al suo modo
di comportarsi nel mondo, « appartiene ... al campo della
teologia e, specialmente, della teologia morale ».111 La
dimensione teologica risulta necessaria sia per interpretare
che per risolvere gli attuali problemi della convivenza umana.
Il che vale — conviene rilevarlo — tanto nei confronti
della soluzione « atea », che priva l'uomo di una delle sue
componenti fondamentali, quella spirituale, quanto nei
confronti delle soluzioni permissive e consumistiche, le quali
con vari pretesti mirano a convincerlo della sua indipendenza
da ogni legge e da Dio, chiudendolo in un egoismo che finisce
per nuocere a lui stesso ed agli altri.
Quando annuncia all'uomo
la salvezza di Dio, quando gli offre e comunica la vita
divina mediante i sacramenti, quando orienta la sua vita con i
comandamenti dell'amore di Dio e del prossimo, la Chiesa
contribuisce all'arricchimento della dignità dell'uomo. Ma
essa, come non può mai abbandonare questa sua missione
religiosa e trascendente in favore dell'uomo, così si rende
conto che la sua opera incontra oggi particolari difficoltà
ed ostacoli. Ecco perché si impegna sempre con nuove forze e
con nuovi metodi all'evangelizzazione che promuove tutto
l'uomo. Anche alla vigilia del terzo Millennio, essa rimane «
il segno e la salvaguardia del carattere trascendente della
persona umana »,112 come ha sempre cercato di fare sin
dall'inizio della sua esistenza, camminando insieme con l'uomo
lungo tutta la storia. L'Enciclica Rerum novarum ne è
un'espressione significativa.
56. Nel centesimo
anniversario di quest' Enciclica, desidero ringraziare tutti
coloro che si sono impegnati a studiare, approfondire e
divulgare la dottrina sociale cristiana. A questo fine
è indispensabile la collaborazione delle Chiese locali, ed io
auguro che la ricorrenza sia motivo di un rinnovato slancio
per il suo studio, diffusione ed applicazione nei molteplici
ambiti.
Desidero, in particolare,
che essa sia fatta conoscere e sia attuata nei diversi Paesi
dove, dopo il crollo del socialismo reale, si manifesta un
grave disorientamento nell'opera di ricostruzione. A loro
volta, i Paesi occidentali corrono il pericolo di vedere in
questo cedimento la vittoria unilaterale del proprio sistema
economico, e non si preoccupano, perciò, di apportare ad esso
le dovute correzioni. I Paesi del Terzo Mondo, poi, si trovano
più che mai nella drammatica situazione del sottosviluppo,
che ogni giorno si aggrava.
Leone XIII, dopo aver
formulato i principi e gli orientamenti per la soluzione della
questione operaia, scrisse una parola decisiva: « Ciascuno
faccia la parte che gli spetta e non indugi, perché il
ritardo potrebbe render più difficile la cura di un male già
tanto grave », aggiungendo anche: « Quanto alla Chiesa, essa
non lascerà mai mancare in nessun modo l'opera sua ».113
57 Per la Chiesa il
messaggio sociale del Vangelo non deve esser considerato una
teoria, ma prima di tutto un fondamento e una motivazione per
l'azione. Spinti da questo messaggio, alcuni dei primi
cristiani distribuivano i loro beni ai poveri, testimoniando
che, nonostante le diverse provenienze sociali, era possibile
una convivenza pacifica e solidale. Con la forza del Vangelo,
nel corso dei secoli, i monaci coltivarono le terre, i
religiosi e le religiose fondarono ospedali e asili per i
poveri, le confraternite, come pure uomini e donne di tutte le
condizioni, si impegnarono in favore dei bisognosi e degli
emarginati, essendo convinti che le parole di Cristo: « Ogni
volta che farete queste cose a uno dei miei fratelli più
piccoli, l'avete fatto a me » (Mt 25,40), non dovevano
rimanere un pio desiderio, ma diventare un concreto impegno di
vita.
Oggi più che mai la
Chiesa è cosciente che il suo messaggio sociale troverà
credibilità nella testimonianza delle opere, prima che
nella sua coerenza e logica interna. Anche da questa
consapevolezza deriva la sua opzione preferenziale per i
poveri, la quale non è mai esclusiva né discriminante verso
altri gruppi. Si tratta, infatti, di opzione che non vale
soltanto per la povertà materiale, essendo noto che,
specialmente nella società moderna, si trovano molte forme di
povertà non solo economica, ma anche culturale e religiosa.
L'amore della Chiesa per i poveri, che è determinante ed
appartiene alla sua costante tradizione, la spinge a
rivolgersi al mondo nel quale, nonostante il progresso
tecnico-economico, la povertà minaccia di assumere forme
gigantesche. Nei Paesi occidentali c'è la povertà multiforme
dei gruppi emarginati, degli anziani e malati, delle vittime
del consumismo e, più ancora, quella dei tanti profughi ed
emigrati; nei Paesi in via di sviluppo si profilano
all'orizzonte crisi drammatiche, se non si prenderanno in
tempo misure internazionalmente coordinate.
58. L'amore per l'uomo e,
in primo luogo, per il povero, nel quale la Chiesa vede
Cristo, si fa concreto nella promozione della giustizia. Questa
non potrà mai essere pienamente realizzata, se gli uomini non
riconosceranno nel bisognoso, che chiede un sostegno per la
sua vita, non un importuno o un fardello, ma l'occasione di
bene in sé, la possibilità di una ricchezza più grande.
Solo questa consapevolezza infonderà il coraggio per
affrontare il rischio ed il cambiamento impliciti in ogni
autentico tentativo di venire in soccorso dell'altro uomo. Non
si tratta, infatti, solo di dare il superfluo, ma di aiutare
interi popoli, che ne sono esclusi o emarginati, ad entrare
nel circolo dello sviluppo economico ed umano. Ciò sarà
possibile non solo attingendo al superfluo, che il nostro
mondo produce in abbondanza, ma soprattutto cambiando gli
stili di vita, i modelli di produzione e di consumo, le
strutture consolidate di potere che oggi reggono le società.
Né si tratta di distruggere strumenti di organizzazione
sociale che han dato buona prova di sé, ma di orientarli
secondo un'adeguata concezione del bene comune in riferimento
all'intera famiglia umana. Oggi è in atto la cosiddetta «
mondializzazione dell'economia », fenomeno, questo, che non
va deprecato, perché può creare straordinarie occasioni di
maggior benessere. Sempre più sentito, però, è il bisogno
che a questa crescente internazionalizzazione dell'economia
corrispondano validi Organi internazionali di controllo e di
guida, che indirizzino l'economia stessa al bene comune, cosa
che ormai un singolo Stato, fosse anche il più potente della
terra, non è in grado di fare. Per poter conseguire un tale
risultato, occorre che cresca la concertazione tra i grandi
Paesi e che negli Organismi internazionali siano equamente
rappresentati gli interessi della grande famiglia umana.
Occorre anche che essi, nel valutare le conseguenze delle loro
decisioni, tengano sempre adeguato conto di quei popoli e
Paesi che hanno scarso peso sul mercato internazionale, ma
concentrano i bisogni più vivi e dolenti e necessitano di
maggior sostegno per il loro sviluppo. Indubbiamente, in
questo campo rimane molto da fare.
59. Perché, dunque, si
attui la giustizia ed abbiano successo i tentativi degli
uomini per realizzarla, è necessario il dono della grazia,
che viene da Dio. Per mezzo di essa, in collaborazione con
la libertà degli uomini, si ottiene quella misteriosa
presenza di Dio nella storia che è la Provvidenza.
L'esperienza di novità
vissuta nella sequela di Cristo esige di esser comunicata agli
altri uomini nella concretezza delle loro difficoltà, lotte,
problemi e sfide, perché siano illuminate e rese più umane
dalla luce della fede. Questa, infatti, non aiuta soltanto a
trovare le soluzioni, ma rende umanamente vivibili anche le
situazioni di sofferenza, perché in esse l'uomo non si perda
e non dimentichi la sua dignità e vocazione.
La dottrina sociale,
inoltre, ha un'importante dimensione interdisciplinare. Per
incarnare meglio in contesti sociali, economici e politici
diversi e continuamente cangianti l'unica verità sull'uomo,
tale dottrina entra in dialogo con le varie discipline che si
occupano dell'uomo, ne integra in sé gli apporti e le aiuta
ad aprirsi verso un orizzonte più ampio al servizio della
singola persona, conosciuta ed amata nella pienezza della sua
vocazione.
Accanto alla dimensione
interdisciplinare, poi, è da ricordare la dimensione pratica
e, in un certo senso, sperimentale di questa dottrina. Essa si
situa all'incrocio della vita e della coscienza cristiana con
le situazioni del mondo e si manifesta negli sforzi che
singoli, famiglie, operatori culturali e sociali, politici e
uomini di Stato mettono in atto per darle forma e applicazione
nella storia.
60. Annunciando i principi
per la soluzione della questione operaia, Leone XIII scriveva:
« La soluzione di un problema così arduo richiede il
concorso e l'efficace cooperazione anche di altri ».114 Egli
era convinto che i gravi problemi, causati dalla società
industriale, potevano essere risolti soltanto mediante la
collaborazione tra tutte le forze. Questa affermazione è
diventata un elemento permanente della dottrina sociale della
Chiesa, e ciò spiega, tra l'altro, perché Giovanni XXIII
indirizzò la sua Enciclica sulla pace anche a « tutti gli
uomini di buona volontà ».
Papa Leone, tuttavia,
constatava con dolore che le ideologie del tempo, specialmente
il liberalismo e il marxismo, rifiutavano questa
collaborazione. Nel frattempo molte cose sono cambiate,
specialmente negli anni più recenti. Il mondo odierno è
sempre più consapevole che la soluzione dei gravi problemi
nazionali e internazionali non è soltanto questione di
produzione economica o di organizzazione giuridica o sociale,
ma richiede precisi valori etico-religiosi, nonché
cambiamento di mentalità, di comportamento e di strutture. La
Chiesa si sente, in particolare, responsabile di offrire
questo contributo, e — come ho scritto nell'Enciclica Sollicitudo
rei socialis — c'è la fondata speranza che anche quel
gruppo numeroso che non confessa una religione possa
contribuire a dare il necessario fondamento etico alla
questione sociale.115
Nello stesso Documento ho
pure rivolto un appello alle Chiese cristiane e a tutte le
grandi religioni del mondo, invitando ad offrire l'unanime
testimonianza delle comuni convinzioni circa la dignità
dell'uomo, creato da Dio.116 Sono persuaso, infatti, che le
religioni oggi e domani avranno un ruolo preminente per la
conservazione della pace e per la costruzione di una società
degna dell'uomo.
D'altra parte, la
disponibilità al dialogo e alla collaborazione vale per tutti
gli uomini di buona volontà e, in particolare, per le persone
ed i gruppi che hanno una specifica responsabilità nel campo
politico, economico e sociale, a livello sia nazionale che
internazionale.
61. All'inizio della
società industriale, fu « il giogo quasi servile » che
obbligò il mio predecessore a prendere la parola in difesa
dell'uomo. A tale impegno nei cento anni trascorsi la
Chiesa è rimasta fedele! Infatti, è intervenuta nel periodo
turbolento della lotta di classe dopo la prima guerra
mondiale, per difendere l'uomo dallo sfruttamento economico e
dalla tirannia dei sistemi totalitari. Ha posto la dignità
della persona al centro dei suoi messaggi sociali dopo la
seconda guerra mondiale, insistendo sulla destinazione
universale dei beni materiali, su un ordine sociale senza
oppressione e fondato sullo spirito di collaborazione e di
solidarietà. Ha poi ribadito costantemente che la persona e
la società non hanno bisogno soltanto di questi beni, ma
anche dei valori spirituali e religiosi. Inoltre, rendendosi
conto sempre meglio che troppi uomini vivono non nel benessere
del mondo occidentale, ma nella miseria dei Paesi in via di
sviluppo, e subiscono una condizione che è ancora quella del
« giogo quasi servile », essa ha sentito e sente l'obbligo
di denunciare tale realtà con tutta chiarezza e franchezza,
benché sappia che questo suo grido non sarà sempre accolto
favorevolmente da tutti.
A cento anni dalla
pubblicazione della Rerum novarum la Chiesa si trova
tuttora davanti a « cose nuove » e a nuove sfide. Perciò,
il centenario deve confermare nell'impegno tutti gli uomini di
buona volontà e, in particolare, i credenti.
62. Questa mia Enciclica
ha voluto guardare al passato, ma soprattutto è protesa verso
il futuro. Come la Rerum novarum, essa si colloca quasi
alla soglia del nuovo secolo ed intende, con l'aiuto di Dio,
prepararne la venuta.
La vera e perenne « novità
delle cose » in ogni tempo viene dall'infinita potenza
divina, che dice: « Ecco, io faccio nuove tutte le cose » (Ap
21,5). Queste parole si riferiscono al compimento della
storia, quando Cristo « consegnerà il regno a Dio Padre ...,
perché Dio sia tutto in tutti » (1 Cor 15,24.28). Ma
il cristiano sa bene che la novità, che attendiamo nella sua
pienezza al ritorno del Signore, è presente fin dalla
creazione del mondo e, più propriamente, da quando Dio si è
fatto uomo in Gesù Cristo e con lui e per lui ha fatto una «
nuova creazione » (2 Cor 5,17; Gal 6,15).
Nel concludere, ringrazio
ancora Dio onnipotente, che ha dato alla sua Chiesa la luce e
la forza di accompagnare l'uomo nel cammino terreno verso il
destino eterno. Anche nel terzo Millennio la Chiesa sarà
fedele nel fare propria la via dell'uomo, consapevole
che non procede da sola, ma con Cristo, suo Signore. È lui
che ha fatto propria la via dell'uomo e lo guida anche quando
questi non se ne rende conto.
Maria, la Madre del
Redentore, la quale rimane accanto a Cristo nel suo cammino
verso e con gli uomini, e precede la Chiesa nel pellegrinaggio
della fede, accompagni con materna intercessione l'umanità
verso il prossimo Millennio, in fedeltà a Colui che, « ieri
come oggi, è lo stesso e lo sarà sempre » (cf Eb 13,8),
Gesù Cristo, nostro Signore, nel cui nome tutti benedico di
cuore.
Dato a Roma, presso San
Pietro, il 1o maggio — memoria di San Giuseppe lavoratore
— dell'anno 1991, decimoterzo di pontificato.
|