LETTERA ENCICLICA
EVANGELIUM
VITAE
DEL SOMMO
PONTEFICE
GIOVANNI PAOLO II
AI VESCOVI
AI PRESBITERI E AI DIACONI
AI RELIGIOSI E ALLE RELIGIOSE
AI FEDELI LAICI E A TUTTE LE PERSONE
DI BUONA VOLONTÀ
SUL VALORE E L'INVIOLABILITÀ
DELLA VITA UMANA
INTRODUZIONE
1.
Il Vangelo della vita sta al cuore del messaggio di Gesù.
Accolto dalla Chiesa ogni giorno con amore, esso va annunciato
con coraggiosa fedeltà come buona novella agli uomini di ogni
epoca e cultura.
All'aurora
della salvezza, è la nascita di un bambino che viene
proclamata come lieta notizia: « Vi annunzio una grande
gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi vi è nato nella
città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore » (Lc
2, 10-11). A sprigionare questa « grande gioia » è
certamente la nascita del Salvatore; ma nel Natale è svelato
anche il senso pieno di ogni nascita umana, e la gioia
messianica appare così fondamento e compimento della gioia
per ogni bimbo che nasce (cf. Gv 16, 21).
Presentando
il nucleo centrale della sua missione redentrice, Gesù dice:
« Io sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in
abbondanza » (Gv 10, 10). In verità, Egli si
riferisce a quella vita « nuova » ed « eterna », che
consiste nella comunione con il Padre, a cui ogni uomo è
gratuitamente chiamato nel Figlio per opera dello Spirito
Santificatore. Ma proprio in tale « vita » acquistano pieno
significato tutti gli aspetti e i momenti della vita
dell'uomo.
Il
valore incomparabile della persona umana
2.
L'uomo è chiamato a una pienezza di vita che va ben oltre le
dimensioni della sua esistenza terrena, poiché consiste nella
partecipazione alla vita stessa di Dio.
L'altezza
di questa vocazione soprannaturale rivela la grandezza e
la preziosità della vita umana anche nella sua fase
temporale. La vita nel tempo, infatti, è condizione basilare,
momento iniziale e parte integrante dell'intero e unitario
processo dell'esistenza umana. Un processo che,
inaspettatamente e immeritatamente, viene illuminato dalla
promessa e rinnovato dal dono della vita divina, che
raggiungerà il suo pieno compimento nell'eternità (cf. 1
Gv 3, 1-2). Nello stesso tempo, proprio questa chiamata
soprannaturale sottolinea la relatività della vita
terrena dell'uomo e della donna. Essa, in verità, non è
realtà « ultima », ma « penultima »; è comunque realtà
sacra che ci viene affidata perché la custodiamo con
senso di responsabilità e la portiamo a perfezione nell'amore
e nel dono di noi stessi a Dio e ai fratelli.
La
Chiesa sa che questo Vangelo della vita, consegnatole
dal suo Signore,(1) ha un'eco profonda e persuasiva nel cuore
di ogni persona, credente e anche non credente, perché esso,
mentre ne supera infinitamente le attese, vi corrisponde in
modo sorprendente. Pur tra difficoltà e incertezze, ogni uomo
sinceramente aperto alla verità e al bene, con la luce della
ragione e non senza il segreto influsso della grazia, può
arrivare a riconoscere nella legge naturale scritta nel cuore
(cf. Rm 2, 14-15) il valore sacro della vita umana dal
primo inizio fino al suo termine, e ad affermare il diritto di
ogni essere umano a vedere sommamente rispettato questo suo
bene primario. Sul riconoscimento di tale diritto si fonda
l'umana convivenza e la stessa comunità politica.
Questo
diritto devono, in modo particolare, difendere e promuovere i
credenti in Cristo, consapevoli della meravigliosa verità
ricordata dal Concilio Vaticano II: « Con l'incarnazione il
Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo ».(2) In
questo evento di salvezza, infatti, si rivela all'umanità non
solo l'amore sconfinato di Dio che « ha tanto amato il mondo
da dare il suo Figlio unigenito » (Gv 3, 16), ma anche
il valore incomparabile di ogni persona umana.
E
la Chiesa, scrutando assiduamente il mistero della Redenzione,
coglie questo valore con sempre rinnovato stupore (3) e si
sente chiamata ad annunciare agli uomini di tutti i tempi
questo « vangelo », fonte di speranza invincibile e di gioia
vera per ogni epoca della storia. Il Vangelo dell'amore di
Dio per l'uomo, il Vangelo della dignità della persona e il
Vangelo della vita sono un unico e indivisibile Vangelo.
È
per questo che l'uomo, l'uomo vivente, costituisce la prima e
fondamentale via della Chiesa.(4)
Le
nuove minacce alla vita umana
3.
Ciascun uomo, proprio a motivo del mistero del Verbo di Dio
che si è fatto carne (cf. Gv 1, 14), è affidato alla
sollecitudine materna della Chiesa. Perciò ogni minaccia alla
dignità e alla vita dell'uomo non può non ripercuotersi nel
cuore stesso della Chiesa, non può non toccarla al centro
della propria fede nell'incarnazione redentrice del Figlio di
Dio, non può non coinvolgerla nella sua missione di
annunciare il Vangelo della vita in tutto il mondo e ad
ogni creatura (cf. Mc 16, 15).
Oggi
questo annuncio si fa particolarmente urgente per
l'impressionante moltiplicarsi ed acutizzarsi delle minacce
alla vita delle persone e dei popoli, soprattutto quando essa
è debole e indifesa. Alle antiche dolorose piaghe della
miseria, della fame, delle malattie endemiche, della violenza
e delle guerre, se ne aggiungono altre, dalle modalità
inedite e dalle dimensioni inquietanti.
Già
il Concilio Vaticano II, in una pagina di drammatica attualità,
ha deplorato con forza molteplici delitti e attentati contro
la vita umana. A trent'anni di distanza, facendo mie le parole
dell'assise conciliare, ancora una volta e con identica forza
li deploro a nome della Chiesa intera, con la certezza di
interpretare il sentimento autentico di ogni coscienza retta:
« Tutto ciò che è contro la vita stessa, come ogni specie
di omicidio, il genocidio, l'aborto, l'eutanasia e lo stesso
suicidio volontario; tutto ciò che viola l'integrità della
persona umana, come le mutilazioni, le torture inflitte al
corpo e alla mente, gli sforzi per violentare l'intimo dello
spirito; tutto ciò che offende la dignità umana, come le
condizioni infraumane di vita, le incarcerazioni arbitrarie,
le deportazioni, la schiavitù, la prostituzione, il mercato
delle donne e dei giovani, o ancora le ignominiose condizioni
di lavoro con le quali i lavoratori sono trattati come
semplici strumenti di guadagno, e non come persone libere e
responsabili; tutte queste cose, e altre simili, sono
certamente vergognose e, mentre guastano la civiltà umana,
inquinano coloro che così si comportano ancor più che non
quelli che le subiscono; e ledono grandemente l'onore del
Creatore ».(5)
4.
Purtroppo, questo inquietante panorama, lungi dal
restringersi, si va piuttosto dilatando: con le nuove
prospettive aperte dal progresso scientifico e tecnologico
nascono nuove forme di attentati alla dignità dell'essere
umano, mentre si delinea e consolida una nuova situazione
culturale, che dà ai delitti contro la vita un aspetto
inedito e — se possibile — ancora più iniquo suscitando
ulteriori gravi preoccupazioni: larghi strati dell'opinione
pubblica giustificano alcuni delitti contro la vita in nome
dei diritti della libertà individuale e, su tale presupposto,
ne pretendono non solo l'impunità, ma persino
l'autorizzazione da parte dello Stato, al fine di praticarli
in assoluta libertà ed anzi con l'intervento gratuito delle
strutture sanitarie.
Ora,
tutto questo provoca un cambiamento profondo nel modo di
considerare la vita e le relazioni tra gli uomini. Il fatto
che le legislazioni di molti Paesi, magari allontanandosi
dagli stessi principi basilari delle loro Costituzioni,
abbiano acconsentito a non punire o addirittura a riconoscere
la piena legittimità di tali pratiche contro la vita è
insieme sintomo preoccupante e causa non marginale di un grave
crollo morale: scelte un tempo unanimemente considerate come
delittuose e rifiutate dal comune senso morale, diventano a
poco a poco socialmente rispettabili. La stessa medicina, che
per sua vocazione è ordinata alla difesa e alla cura della
vita umana, in alcuni suoi settori si presta sempre più
largamente a realizzare questi atti contro la persona e in tal
modo deforma il suo volto, contraddice sé stessa e avvilisce
la dignità di quanti la esercitano. In un simile contesto
culturale e legale, anche i gravi problemi demografici,
sociali o familiari, che pesano su numerosi popoli del mondo
ed esigono un'attenzione responsabile ed operosa delle comunità
nazionali e di quelle internazionali, si trovano esposti a
soluzioni false e illusorie, in contrasto con la verità e il
bene delle persone e delle Nazioni.
L'esito
al quale si perviene è drammatico: se è quanto mai grave e
inquietante il fenomeno dell'eliminazione di tante vite umane
nascenti o sulla via del tramonto, non meno grave e
inquietante è il fatto che la stessa coscienza, quasi
ottenebrata da così vasti condizionamenti, fatica sempre più
a percepire la distinzione tra il bene e il male in ciò che
tocca lo stesso fondamentale valore della vita umana.
In
comunione con tutti i Vescovi del mondo
5.
Al problema delle minacce alla vita umana nel nostro tempo è
stato dedicato il Concistoro straordinario dei
Cardinali, svoltosi a Roma dal 4 al 7 aprile 1991. Dopo
un'ampia e approfondita discussione del problema e delle sfide
poste all'intera famiglia umana e, in particolare, alla
comunità cristiana, i Cardinali, con voto unanime, mi hanno
chiesto di riaffermare con l'autorità del Successore di
Pietro il valore della vita umana e la sua inviolabilità, in
riferimento alle attuali circostanze ed agli attentati che
oggi la minacciano.
Accogliendo
tale richiesta, ho scritto nella Pentecoste del 1991 una lettera
personale a ciascun Confratello perché, nello spirito
della collegialità episcopale, mi offrisse la sua
collaborazione in vista della stesura di uno specifico
documento.(6) Sono profondamente grato a tutti i Vescovi che
hanno risposto, fornendomi preziose informazioni, suggerimenti
e proposte. Essi hanno testimoniato anche così la loro
unanime e convinta partecipazione alla missione dottrinale e
pastorale della Chiesa circa il Vangelo della vita.
Nella
medesima lettera, a pochi giorni dalla celebrazione del
centenario dell'Enciclica Rerum novarum, attiravo
l'attenzione di tutti su questa singolare analogia: « Come un
secolo fa ad essere oppressa nei suoi fondamentali diritti era
la classe operaia, e la Chiesa con grande coraggio ne prese le
difese, proclamando i sacrosanti diritti della persona del
lavoratore, così ora, quando un'altra categoria di persone è
oppressa nel diritto fondamentale alla vita, la Chiesa sente
di dover dare voce con immutato coraggio a chi non ha voce. Il
suo è sempre il grido evangelico in difesa dei poveri del
mondo, di quanti sono minacciati, disprezzati e oppressi nei
loro diritti umani ».(7)
Ad
essere calpestata nel diritto fondamentale alla vita è oggi
una grande moltitudine di esseri umani deboli e indifesi, come
sono, in particolare, i bambini non ancora nati. Se alla
Chiesa, sul finire del secolo scorso, non era consentito
tacere davanti alle ingiustizie allora operanti, meno ancora
essa può tacere oggi, quando alle ingiustizie sociali del
passato, purtroppo non ancora superate, in tante parti del
mondo si aggiungono ingiustizie ed oppressioni anche più
gravi, magari scambiate per elementi di progresso in vista
dell'organizzazione di un nuovo ordine mondiale.
La
presente Enciclica, frutto della collaborazione
dell'Episcopato di ogni Paese del mondo, vuole essere dunque
una riaffermazione precisa e ferma del valore della vita
umana e della sua inviolabilità, ed insieme un
appassionato appello rivolto a tutti e a ciascuno, in nome di
Dio: rispetta, difendi, ama e servi la vita, ogni vita
umana! Solo su questa strada troverai giustizia, sviluppo,
libertà vera, pace e felicità!
Giungano
queste parole a tutti i figli e le figlie della Chiesa!
Giungano a tutte le persone di buona volontà, sollecite del
bene di ogni uomo e donna e del destino dell'intera società!
6.
In profonda comunione con ogni fratello e sorella nella fede e
animato da sincera amicizia per tutti, voglio rimeditare e
annunciare il Vangelo della vita, splendore di verità che
illumina le coscienze, limpida luce che risana lo sguardo
ottenebrato, fonte inesauribile di costanza e coraggio per
affrontare le sempre nuove sfide che incontriamo sul nostro
cammino.
E
mentre ripenso alla ricca esperienza vissuta durante l'Anno
della Famiglia, quasi completando idealmente la Lettera da
me indirizzata « ad ogni famiglia concreta di qualunque
regione della terra »,(8) guardo con rinnovata fiducia a
tutte le comunità domestiche ed auspico che rinasca o si
rafforzi ad ogni livello l'impegno di tutti a sostenere la
famiglia, perché anche oggi — pur in mezzo a numerose
difficoltà e a pesanti minacce — essa si conservi sempre,
secondo il disegno di Dio, come « santuario della vita ».(9)
A
tutti i membri della Chiesa, popolo della vita e per la
vita, rivolgo il più pressante invito perché, insieme,
possiamo dare a questo nostro mondo nuovi segni di speranza,
operando affinché crescano giustizia e solidarietà e si
affermi una nuova cultura della vita umana, per l'edificazione
di un'autentica civiltà della verità e dell'amore.
CAPITOLO I
LA
VOCE DEL SANGUE DI TUO FRATELLO GRIDA A ME DAL SUOLO
LE ATTUALI MINACCE
ALLA VITA UMANA
«
Caino alzò la mano contro il fratello Abele e lo uccise » (Gn
4, 8): alla radice della violenza contro la vita.
7.
« Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei
viventi. Egli infatti ha creato tutto per l'esistenza... Sì, Dio
ha creato l'uomo per l'incorruttibilità; lo fece a
immagine della propria natura. Ma la morte è entrata nel
mondo per invidia del diavolo; e ne fanno esperienza
coloro che gli appartengono » (Sap 1, 13-14; 2,
23-24).
Il
Vangelo della vita, risuonato al principio con la
creazione dell'uomo a immagine di Dio per un destino di vita
piena e perfetta (cf. Gn 2, 7; Sap 9, 2-3),
viene contraddetto dall'esperienza lacerante della morte
che entra nel mondo e getta l'ombra del non senso
sull'intera esistenza dell'uomo.
La
morte vi entra a causa dell'invidia del diavolo (cf. Gn 3,
1.4-5) e del peccato dei progenitori (cf. Gn 2, 17; 3,
17-19). E vi entra in modo violento, attraverso l'uccisione
di Abele da parte del fratello Caino: « Mentre erano in
campagna, Caino alzò la mano contro il fratello Abele e lo
uccise » (Gn 4, 8).
Questa
prima uccisione è presentata con una singolare eloquenza in
una pagina paradigmatica del libro della Genesi: una pagina
ritrascritta ogni giorno, senza sosta e con avvilente
ripetizione, nel libro della storia dei popoli.
Vogliamo
rileggere insieme questa pagina biblica, che, pur nella sua
arcaicità ed estrema semplicità, si presenta quanto mai
ricca di insegnamenti.
«
Abele era pastore di greggi e Caino lavoratore del suolo. Dopo
un certo tempo, Caino offrì frutti del suolo in sacrificio al
Signore; anche Abele offrì primogeniti del suo gregge e il
loro grasso. Il Signore gradì Abele e la sua offerta, ma non
gradì Caino e la sua offerta.
Caino
ne fu molto irritato e il suo volto era abbattuto. Il Signore
disse allora a Caino: "Perché sei irritato e perché è
abbattuto il tuo volto? Se agisci bene, non dovrai forse
tenerlo alto? Ma se non agisci bene, il peccato è
accovacciato alla tua porta; verso di te è la sua bramosia,
ma tu dominala".
Caino
disse al fratello Abele: "Andiamo in campagna!".
Mentre erano in campagna, Caino alzò la mano contro il
fratello Abele e lo uccise.
Allora
il Signore disse a Caino: "Dov'è Abele, tuo
fratello?". Egli rispose: "Non lo so. Sono forse il
guardiano di mio fratello?". Riprese: "Che hai
fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal
suolo! Ora sii maledetto lungi da quel suolo che per opera
della tua mano ha bevuto il sangue di tuo fratello. Quando
lavorerai il suolo, esso non ti darà più i suoi prodotti:
ramingo e fuggiasco sarai sulla terra".
Disse
Caino al Signore: "Troppo grande è la mia colpa per
sopportarla! Ecco, tu mi scacci oggi da questo suolo e io mi
dovrò nascondere lontano da te; io sarò ramingo e fuggiasco
sulla terra e chiunque mi incontrerà mi potrà
uccidere".
Ma
il Signore gli disse: "Però chiunque ucciderà Caino
subirà la vendetta sette volte!". Il Signore impose a
Caino un segno, perché non lo colpisse chiunque l'avesse
incontrato. Caino si allontanò dal Signore e abitò nel paese
di Nod, ad oriente di Eden » (Gn
4, 2-16).
8.
Caino è « molto irritato » e ha il volto « abbattuto »
perché « il Signore gradì Abele e la sua offerta » (Gn 4,
4). Il testo biblico non rivela il motivo per cui Dio
preferisce il sacrificio di Abele a quello di Caino; indica
però con chiarezza che, pur preferendo il dono di Abele, non
interrompe il suo dialogo con Caino. Lo ammonisce ricordandogli
la sua libertà di fronte al male: l'uomo non è per nulla
un predestinato al male. Certo, come già Adamo, egli è
tentato dalla potenza malefica del peccato che, come bestia
feroce, è appostata alla porta del suo cuore, in attesa di
avventarsi sulla preda. Ma Caino rimane libero di fronte al
peccato. Lo può e lo deve dominare: « Verso di te è la sua
bramosia, ma tu dominala! » (Gn 4, 7).
Sull'ammonimento
del Signore hanno il sopravvento la gelosia e l'ira, e
così Caino s'avventa sul proprio fratello e lo uccide. Come
leggiamo nel Catechismo della Chiesa Cattolica, « la
Scrittura, nel racconto dell'uccisione di Abele da parte del
fratello Caino, rivela, fin dagli inizi della storia umana, la
presenza nell'uomo della collera e della cupidigia,
conseguenze del peccato originale. L'uomo è diventato il
nemico del suo simile ».(10)
Il
fratello uccide il fratello. Come
nel primo fratricidio, in ogni omicidio viene violata la parentela
« spirituale », che accomuna gli uomini in un'unica
grande famiglia,(11) essendo tutti partecipi dello stesso bene
fondamentale: l'uguale dignità personale. Non poche volte
viene violata anche la parentela « della carne e del
sangue », ad esempio quando le minacce alla vita si
sviluppano nel rapporto tra genitori e figli, come avviene con
l'aborto o quando, nel più vasto contesto familiare o
parentale, viene favorita o procurata l'eutanasia.
Alla
radice di ogni violenza contro il prossimo c'è un
cedimento alla « logica » del maligno, cioè di colui
che « è stato omicida fin da principio » (Gv 8, 44),
come ci ricorda l'apostolo Giovanni: « Poiché questo è il
messaggio che avete udito fin da principio: che ci amiamo gli
uni gli altri. Non come Caino, che era dal maligno e uccise il
suo fratello » (1 Gv 3, 11-12). Così l'uccisione del
fratello, fin dagli albori della storia, è la triste
testimonianza di come il male progredisca con rapidità
impressionante: alla rivolta dell'uomo contro Dio nel paradiso
terrestre si accompagna la lotta mortale dell'uomo contro
l'uomo.
Dopo
il delitto, Dio interviene a vendicare l'ucciso. Di
fronte a Dio, che lo interroga sulla sorte di Abele, Caino,
anziché mostrarsi impacciato e scusarsi, elude la domanda con
arroganza: « Non lo so. Sono forse il guardiano di mio
fratello? » (Gn 4, 9). « Non lo so »: con la
menzogna Caino cerca di coprire il delitto. Così è spesso
avvenuto e avviene quando le più diverse ideologie servono a
giustificare e a mascherare i più atroci delitti verso la
persona. « Sono forse io il guardiano di mio fratello?
»: Caino non vuole pensare al fratello e rifiuta di vivere
quella responsabilità che ogni uomo ha verso l'altro. Viene
spontaneo pensare alle odierne tendenze di
deresponsabilizzazione dell'uomo verso il suo simile, di cui
sono sintomi, tra l'altro, il venir meno della solidarietà
verso i membri più deboli della società — quali gli
anziani, gli ammalati, gli immigrati, i bambini — e
l'indifferenza che spesso si registra nei rapporti tra i
popoli anche quando sono in gioco valori fondamentali come la
sussistenza, la libertà e la pace.
9.
Ma Dio non può lasciare impunito il delitto: dal suolo
su cui è stato versato, il sangue dell'ucciso esige che Egli
faccia giustizia (cf. Gn 37, 26; Is 26, 21; Ez
24, 7-8). Da questo testo la Chiesa ha ricavato la
denominazione di « peccati che gridano vendetta al cospetto
di Dio » e vi ha incluso, anzitutto, l'omicidio
volontario.(12) Per gli ebrei, come per molti popoli
dell'antichità, il sangue è la sede della vita, anzi « il
sangue è la vita » (Dt 12, 23) e la vita, specie
quella umana, appartiene solo a Dio: per questo chi attenta
alla vita dell'uomo, in qualche modo attenta a Dio stesso.
Caino
è maledetto da
Dio e anche dalla terra, che gli rifiuterà i suoi frutti (cf.
Gn 4, 11-12). Ed èpunito: abiterà nella steppa
e nel deserto. La violenza omicida cambia profondamente
l'ambiente di vita dell'uomo. La terra da « giardino di Eden
» (Gn 2, 15), luogo di abbondanza, di serene relazioni
interpersonali e di amicizia con Dio, diventa « paese di Nod
» (Gn 4, 16), luogo della « miseria », della
solitudine e della lontananza da Dio. Caino sarà « ramingo e
fuggiasco sulla terra » (Gn 4, 14): incertezza e
instabilità lo accompagneranno sempre.
Dio,
tuttavia, sempre misericordioso anche quando punisce, «
impose a Caino un segno, perché non lo colpisse chiunque
l'avesse incontrato » (Gn 4, 15): gli dà, dunque, un
contrassegno, che ha lo scopo non di condannarlo
all'esecrazione degli altri uomini, ma di proteggerlo e
difenderlo da quanti vorranno ucciderlo fosse anche per
vendicare la morte di Abele. Neppure l'omicida perde la sua
dignità personale e Dio stesso se ne fa garante. Ed è
proprio qui che si manifesta il paradossale mistero della
misericordiosa giustizia di Dio, come scrive sant'Ambrogio:
« Poiché era stato commesso un fratricidio, cioè il più
grande dei crimini, nel momento in cui si introdusse il
peccato, subito dovette essere estesa la legge della
misericordia divina; perché, se il castigo avesse colpito
immediatamente il colpevole, non accadesse che gli uomini, nel
punire, non usassero alcuna tolleranza né mitezza, ma
consegnassero immediatamente al castigo i colpevoli. (...) Dio
respinse Caino dal suo cospetto e, rinnegato dai suoi
genitori, lo relegò come nell'esilio di una abitazione
separata, per il fatto che era passato dall'umana mitezza alla
ferocia belluina. Tuttavia Dio non volle punire l'omicida con
un omicidio, poiché vuole il pentimento del peccatore più
che la sua morte ».(13)
«
Che hai fatto? » (Gn
4, 10): l'eclissi del valore della vita
10.
Il Signore disse a Caino: « Che hai fatto? La voce del sangue
di tuo fratello grida a me dal suolo! » (Gn 4, 10). La
voce del sangue versato dagli uomini non cessa di gridare, di
generazione in generazione, assumendo toni e accenti diversi e
sempre nuovi.
La
domanda del Signore « Che hai fatto? », alla quale Caino non
può sfuggire, è rivolta anche all'uomo contemporaneo perché
prenda coscienza dell'ampiezza e della gravità degli
attentati alla vita da cui continua ad essere segnata la
storia dell'umanità; vada alla ricerca delle molteplici cause
che li generano e li alimentano; rifletta con estrema serietà
sulle conseguenze che derivano da questi stessi attentati per
l'esistenza delle persone e dei popoli.
Alcune
minacce provengono dalla natura stessa, ma sono aggravate
dall'incuria colpevole e dalla negligenza degli uomini che non
raramente potrebbero porvi rimedio; altre invece sono il
frutto di situazioni di violenza, di odi, di contrapposti
interessi, che inducono gli uomini ad aggredire altri uomini
con omicidi, guerre, stragi, genocidi.
E
come non pensare alla violenza che si fa alla vita di milioni
di esseri umani, specialmente bambini, costretti alla miseria,
alla sottonutrizione e alla fame, a causa di una iniqua
distribuzione delle ricchezze tra i popoli e le classi
sociali? o alla violenza insita, prima ancora che nelle
guerre, in uno scandaloso commercio delle armi, che favorisce
la spirale dei tanti conflitti armati che insanguinano il
mondo? o alla seminagione di morte che si opera con
l'inconsulto dissesto degli equilibri ecologici, con la
criminale diffusione della droga o col favorire modelli di
esercizio della sessualità che, oltre ad essere moralmente
inaccettabili, sono anche forieri di gravi rischi per la vita?
È impossibile registrare in modo completo la vasta gamma
delle minacce alla vita umana, tante sono le forme, aperte o
subdole, che esse rivestono nel nostro tempo!
11.
Ma la nostra attenzione intende concentrarsi, in particolare,
su un altro genere di attentati, concernenti la vita
nascente e terminale, che presentano caratteri nuovi
rispetto al passato e sollevano problemi di singolare gravità
per il fatto che tendono a perdere, nella coscienza
collettiva, il carattere di « delitto » e ad assumere
paradossalmente quello del « diritto », al punto che se ne
pretende un vero e proprio riconoscimento legale da parte
dello Stato e la successiva esecuzione mediante l'intervento
gratuito degli stessi operatori sanitari. Tali attentati
colpiscono la vita umana in situazioni di massima precarietà,
quando è priva di ogni capacità di difesa. Ancora più grave
è il fatto che essi, in larga parte, sono consumati proprio
all'interno e ad opera di quella famiglia che costitutivamente
è invece chiamata ad essere « santuario della vita ».
Come
s'è potuta determinare una simile situazione? Occorre
prendere in considerazione molteplici fattori. Sullo sfondo c'è
una profonda crisi della cultura, che ingenera scetticismo sui
fondamenti stessi del sapere e dell'etica e rende sempre più
difficile cogliere con chiarezza il senso dell'uomo, dei suoi
diritti e dei suoi doveri. A ciò si aggiungono le più
diverse difficoltà esistenziali e relazionali, aggravate
dalla realtà di una società complessa, in cui le persone, le
coppie, le famiglie rimangono spesso sole con i loro problemi.
Non mancano situazioni di particolare povertà, angustia o
esasperazione, in cui la fatica della sopravvivenza, il dolore
ai limiti della sopportabilità, le violenze subite,
specialmente quelle che investono le donne, rendono le scelte
di difesa e di promozione della vita esigenti a volte fino
all'eroismo.
Tutto
ciò spiega, almeno in parte, come il valore della vita possa
oggi subire una specie di « eclissi », per quanto la
coscienza non cessi di additarlo quale valore sacro e
intangibile, come dimostra il fatto stesso che si tende a
coprire alcuni delitti contro la vita nascente o terminale con
locuzioni di tipo sanitario, che distolgono lo sguardo dal
fatto che è in gioco il diritto all'esistenza di una concreta
persona umana.
12.
In realtà, se molti e gravi aspetti dell'odierna problematica
sociale possono in qualche modo spiegare il clima di diffusa
incertezza morale e talvolta attenuare nei singoli la
responsabilità soggettiva, non è meno vero che siamo di
fronte a una realtà più vasta, che si può considerare come
una vera e propria struttura di peccato, caratterizzata
dall'imporsi di una cultura anti-solidaristica, che si
configura in molti casi come vera « cultura di morte ». Essa
è attivamente promossa da forti correnti culturali,
economiche e politiche, portatrici di una concezione
efficientistica della società.
Guardando
le cose da tale punto di vista, si può, in certo senso,
parlare di una guerra dei potenti contro i deboli: la
vita che richiederebbe più accoglienza, amore e cura è
ritenuta inutile, o è considerata come un peso insopportabile
e, quindi, è rifiutata in molte maniere. Chi, con la sua
malattia, con il suo handicap o, molto più semplicemente, con
la stessa sua presenza mette in discussione il benessere o le
abitudini di vita di quanti sono più avvantaggiati, tende ad
essere visto come un nemico da cui difendersi o da eliminare.
Si scatena così una specie di « congiura contro la vita
». Essa non coinvolge solo le singole persone nei loro
rapporti individuali, familiari o di gruppo, ma va ben oltre,
sino ad intaccare e stravolgere, a livello mondiale, i
rapporti tra i popoli e gli Stati.
13.
Per facilitare la diffusione dell'aborto, si sono
investite e si continuano ad investire somme ingenti destinate
alla messa a punto di preparati farmaceutici, che rendono
possibile l'uccisione del feto nel grembo materno, senza la
necessità di ricorrere all'aiuto del medico. La stessa
ricerca scientifica, su questo punto, sembra quasi
esclusivamente preoccupata di ottenere prodotti sempre più
semplici ed efficaci contro la vita e, nello stesso tempo,
tali da sottrarre l'aborto ad ogni forma di controllo e
responsabilità sociale.
Si
afferma frequentemente che la contraccezione, resa
sicura e accessibile a tutti, è il rimedio più efficace
contro l'aborto. Si accusa poi la Chiesa cattolica di favorire
di fatto l'aborto perché continua ostinatamente a insegnare
l'illiceità morale della contraccezione.
L'obiezione,
a ben guardare, si rivela speciosa. Può essere, infatti, che
molti ricorrano ai contraccettivi anche nell'intento di
evitare successivamente la tentazione dell'aborto. Ma i
disvalori insiti nella « mentalità contraccettiva » — ben
diversa dall'esercizio responsabile della paternità e
maternità, attuato nel rispetto della piena verità dell'atto
coniugale — sono tali da rendere più forte proprio questa
tentazione, di fronte all'eventuale concepimento di una vita
non desiderata. Di fatto la cultura abortista è
particolarmente sviluppata proprio in ambienti che rifiutano
l'insegnamento della Chiesa sulla contraccezione. Certo,
contraccezione ed aborto, dal punto di vista morale, sono mali
specificamente diversi: l'una contraddice all'integra
verità dell'atto sessuale come espressione propria dell'amore
coniugale, l'altro distrugge la vita di un essere umano; la
prima si oppone alla virtù della castità matrimoniale, il
secondo si oppone alla virtù della giustizia e viola
direttamente il precetto divino « non uccidere ».
Ma
pur con questa diversa natura e peso morale, essi sono molto
spesso in intima relazione, come frutti di una medesima
pianta. È vero che non mancano casi in cui alla
contraccezione e allo stesso aborto si giunge sotto la spinta
di molteplici difficoltà esistenziali, che tuttavia non
possono mai esonerare dallo sforzo di osservare pienamente la
Legge di Dio. Ma in moltissimi altri casi tali pratiche
affondano le radici in una mentalità edonistica e
deresponsabilizzante nei confronti della sessualità e
suppongono un concetto egoistico di libertà che vede nella
procreazione un ostacolo al dispiegarsi della propria
personalità. La vita che potrebbe scaturire dall'incontro
sessuale diventa così il nemico da evitare assolutamente e
l'aborto l'unica possibile risposta risolutiva di fronte ad
una contraccezione fallita.
Purtroppo
la stretta connessione che, a livello di mentalità,
intercorre tra la pratica della contraccezione e quella
dell'aborto emerge sempre di più e lo dimostra in modo
allarmante anche la messa a punto di preparati chimici, di
dispositivi intrauterini e di vaccini che, distribuiti con la
stessa facilità dei contraccettivi, agiscono in realtà come
abortivi nei primissimi stadi di sviluppo della vita del nuovo
essere umano.
14.
Anche le varie tecniche di riproduzione artificiale, che
sembrerebbero porsi a servizio della vita e che sono praticate
non poche volte con questa intenzione, in realtà aprono la
porta a nuovi attentati contro la vita. Al di là del fatto
che esse sono moralmente inaccettabili, dal momento che
dissociano la procreazione dal contesto integralmente umano
dell'atto coniugale,(14) queste tecniche registrano alte
percentuali di insuccesso: esso riguarda non tanto la
fecondazione, quanto il successivo sviluppo dell'embrione,
esposto al rischio di morte entro tempi in genere brevissimi.
Inoltre, vengono prodotti talvolta embrioni in numero
superiore a quello necessario per l'impianto nel grembo della
donna e questi cosiddetti « embrioni soprannumerari »
vengono poi soppressi o utilizzati per ricerche che, con il
pretesto del progresso scientifico o medico, in realtà
riducono la vita umana a semplice « materiale biologico » di
cui poter liberamente disporre.
Le
diagnosi pre-natali, che non presentano difficoltà
morali se fatte per individuare eventuali cure necessarie al
bambino non ancora nato, diventano troppo spesso occasione per
proporre e procurare l'aborto. È l'aborto eugenetico, la cui
legittimazione nell'opinione pubblica nasce da una mentalità
— a torto ritenuta coerente con le esigenze della «
terapeuticità » — che accoglie la vita solo a certe
condizioni e che rifiuta il limite, l'handicap, l'infermità.
Seguendo
questa stessa logica, si è giunti a negare le cure ordinarie
più elementari, e perfino l'alimentazione, a bambini nati con
gravi handicap o malattie. Lo scenario contemporaneo, inoltre,
si fa ancora più sconcertante a motivo delle proposte,
avanzate qua e là, di legittimare, nella stessa linea del
diritto all'aborto, persino l'infanticidio, ritornando
così ad uno stadio di barbarie che si sperava di aver
superato per sempre.
15.
Minacce non meno gravi incombono pure sui malati
inguaribili e sui morenti, in un contesto sociale e
culturale che, rendendo più difficile affrontare e sopportare
la sofferenza, acuisce la tentazione di risolvere il
problema del soffrire eliminandolo alla radice con
l'anticipare la morte al momento ritenuto più opportuno.
In
tale scelta confluiscono spesso elementi di diverso segno,
purtroppo convergenti a questo terribile esito. Può essere
decisivo, nel soggetto malato, il senso di angoscia, di
esasperazione, persino di disperazione, provocato da
un'esperienza di dolore intenso e prolungato. Ciò mette a
dura prova gli equilibri a volte già instabili della vita
personale e familiare, sicché, da una parte, il malato,
nonostante gli aiuti sempre più efficaci dell'assistenza
medica e sociale, rischia di sentirsi schiacciato dalla
propria fragilità; dall'altra, in coloro che gli sono
effettivamente legati, può operare un senso di comprensibile
anche se malintesa pietà. Tutto ciò è aggravato da
un'atmosfera culturale che non coglie nella sofferenza alcun
significato o valore, anzi la considera il male per
eccellenza, da eliminare ad ogni costo; il che avviene
specialmente quando non si ha una visione religiosa che aiuti
a decifrare positivamente il mistero del dolore.
Ma
nell'orizzonte culturale complessivo non manca di incidere
anche una sorta di atteggiamento prometeico dell'uomo che, in
tal modo, si illude di potersi impadronire della vita e della
morte perché decide di esse, mentre in realtà viene
sconfitto e schiacciato da una morte irrimediabilmente chiusa
ad ogni prospettiva di senso e ad ogni speranza. Riscontriamo
una tragica espressione di tutto ciò nella diffusione dell'eutanasia,
mascherata e strisciante o attuata apertamente e persino
legalizzata. Essa, oltre che per una presunta pietà di fronte
al dolore del paziente, viene talora giustificata con una
ragione utilitaristica, volta ad evitare spese improduttive
troppo gravose per la società. Si propone così la
soppressione dei neonati malformati, degli handicappati gravi,
degli inabili, degli anziani, soprattutto se non
autosufficienti, e dei malati terminali. Né ci è lecito
tacere di fronte ad altre forme più subdole, ma non meno
gravi e reali, di eutanasia. Esse, ad esempio, potrebbero
verificarsi quando, per aumentare la disponibilità di organi
da trapiantare, si procedesse all'espianto degli stessi organi
senza rispettare i criteri oggettivi ed adeguati di
accertamento della morte del donatore.
16.
Un altro fenomeno attuale, al quale si accompagnano
frequentemente minacce e attentati alla vita, è quello
demografico. Esso si presenta in modo differente nelle
diverse parti del mondo: nei Paesi ricchi e sviluppati si
registra un preoccupante calo o crollo delle nascite; i Paesi
poveri, invece, presentano in genere un tasso elevato di
aumento della popolazione, difficilmente sopportabile in un
contesto di minore sviluppo economico e sociale, o addirittura
di grave sottosviluppo. Di fronte alla sovrapopolazione dei
Paesi poveri mancano, a livello internazionale, interventi
globali — serie politiche familiari e sociali, programmi di
crescita culturale e di giusta produzione e distribuzione
delle risorse — mentre si continua a mettere in atto
politiche antinataliste.
Contraccezione,
sterilizzazione e aborto vanno certamente annoverati tra le
cause che contribuiscono a determinare le situazioni di forte
denatalità. Può essere facile la tentazione di ricorrere
agli stessi metodi e attentati contro la vita anche nelle
situazioni di « esplosione demografica ».
L'antico
faraone, sentendo come un incubo la presenza e il
moltiplicarsi dei figli di Israele, li sottopose ad ogni forma
di oppressione e ordinò che venisse fatto morire ogni neonato
maschio delle donne ebree (cf. Es 1, 7-22). Allo stesso
modo si comportano oggi non pochi potenti della terra.
Essi
pure avvertono come un incubo lo sviluppo demografico in atto
e temono che i popoli più prolifici e più poveri
rappresentino una minaccia per il benessere e la tranquillità
dei loro Paesi. Di conseguenza, piuttosto che voler affrontare
e risolvere questi gravi problemi nel rispetto della dignità
delle persone e delle famiglie e dell'inviolabile diritto alla
vita di ogni uomo, preferiscono promuovere e imporre con
qualsiasi mezzo una massiccia pianificazione delle nascite.
Gli stessi aiuti economici, che sarebbero disposti a dare,
vengono ingiustamente condizionati all'accettazione di una
politica antinatalista.
17.
L'umanità di oggi ci offre uno spettacolo davvero allarmante,
se pensiamo non solo ai diversi ambiti nei quali si sviluppano
gli attentati alla vita, ma anche alla loro singolare
proporzione numerica, nonché al molteplice e potente sostegno
che viene loro dato dall'ampio consenso sociale, dal frequente
riconoscimento legale, dal coinvolgimento di parte del
personale sanitario.
Come
ebbi a dire con forza a Denver, in occasione dell'VIII
Giornata Mondiale della Gioventù, « con il tempo, le minacce
contro la vita non vengono meno. Esse, al contrario, assumono
dimensioni enormi. Non si tratta soltanto di minacce
provenienti dall'esterno, di forze della natura o dei
"Caino" che assassinano gli "Abele"; no,
si tratta di minacce programmate in maniera scientifica e
sistematica. Il ventesimo secolo verrà considerato
un'epoca di attacchi massicci contro la vita, un'interminabile
serie di guerre e un massacro permanente di vite umane
innocenti. I falsi profeti e i falsi maestri hanno conosciuto
il maggior successo possibile ».(15) Al di là delle
intenzioni, che possono essere varie e magari assumere forme
suadenti persino in nome della solidarietà, siamo in realtà
di fronte a una oggettiva « congiura contro la vita »
che vede implicate anche Istituzioni internazionali, impegnate
a incoraggiare e programmare vere e proprie campagne per
diffondere la contraccezione, la sterilizzazione e l'aborto.
Non si può, infine, negare che i mass media sono spesso
complici di questa congiura, accreditando nell'opinione
pubblica quella cultura che presenta il ricorso alla
contraccezione, alla sterilizzazione, all'aborto e alla stessa
eutanasia come segno di progresso e conquista di libertà,
mentre dipinge come nemiche della libertà e del progresso le
posizioni incondizionatamente a favore della vita.
«
Sono forse il guardiano di mio fratello? » (Gn
4, 9): un'idea perversa di libertà
18.
Il panorama descritto chiede di essere conosciuto non soltanto
nei fenomeni di morte che lo caratterizzano, ma anche nelle molteplici
cause che lo determinano. La domanda del Signore « Che
hai fatto? » (Gn 4, 10) sembra essere quasi un invito
rivolto a Caino ad andare oltre la materialità del suo gesto
omicida, per coglierne tutta la gravità nelle motivazioni che
ne sono all'origine e nelle conseguenze che ne
derivano.
Le
scelte contro la vita nascono, talvolta, da situazioni
difficili o addirittura drammatiche di profonda sofferenza, di
solitudine, di totale mancanza di prospettive economiche, di
depressione e di angoscia per il futuro. Tali circostanze
possono attenuare anche notevolmente la responsabilità
soggettiva e la conseguente colpevolezza di quanti compiono
queste scelte in sé criminose. Tuttavia oggi il problema va
ben al di là del pur doveroso riconoscimento di queste
situazioni personali. Esso si pone anche sul piano culturale,
sociale e politico, dove presenta il suo aspetto più
sovversivo e conturbante nella tendenza, sempre più
largamente condivisa, a interpretare i menzionati delitti
contro la vita come legittime espressioni della libertà
individuale, da riconoscere e proteggere come veri e propri
diritti.
In
questo modo giunge ad una svolta dalle tragiche conseguenze un
lungo processo storico, che dopo aver scoperto l'idea dei «
diritti umani » — come diritti inerenti a ogni persona e
precedenti ogni Costituzione e legislazione degli Stati —
incorre oggi in una sorprendente contraddizione: proprio
in un'epoca in cui si proclamano solennemente i diritti
inviolabili della persona e si afferma pubblicamente il valore
della vita, lo stesso diritto alla vita viene praticamente
negato e conculcato, in particolare nei momenti più
emblematici dell'esistenza, quali sono il nascere e il morire.
Da
un lato, le varie dichiarazioni dei diritti dell'uomo e le
molteplici iniziative che ad esse si ispirano dicono
l'affermarsi a livello mondiale di una sensibilità morale più
attenta a riconoscere il valore e la dignità di ogni essere
umano in quanto tale, senza alcuna distinzione di razza,
nazionalità, religione, opinione politica, ceto sociale.
Dall'altro
lato, a queste nobili proclamazioni si contrappone purtroppo,
nei fatti, una loro tragica negazione. Questa è ancora più
sconcertante, anzi più scandalosa, proprio perché si
realizza in una società che fa dell'affermazione e della
tutela dei diritti umani il suo obiettivo principale e insieme
il suo vanto. Come mettere d'accordo queste ripetute
affermazioni di principio con il continuo moltiplicarsi e la
diffusa legittimazione degli attentati alla vita umana? Come
conciliare queste dichiarazioni col rifiuto del più debole,
del più bisognoso, dell'anziano, dell'appena concepito?
Questi attentati vanno in direzione esattamente contraria al
rispetto della vita e rappresentano una minaccia frontale a
tutta la cultura dei diritti dell'uomo. È una minaccia
capace, al limite, di mettere a repentaglio lo stesso
significato della convivenza democratica: da società di «
con- viventi », le nostre città rischiano di diventare
società di esclusi, di emarginati, di rimossi e
soppressi. Se poi lo sguardo si allarga ad un orizzonte
planetario, come non pensare che la stessa affermazione dei
diritti delle persone e dei popoli, quale avviene in alti
consessi internazionali, si riduce a sterile esercizio
retorico, se non si smaschera l'egoismo dei Paesi ricchi che
chiudono l'accesso allo sviluppo dei Paesi poveri o lo
condizionano ad assurdi divieti di procreazione,
contrapponendo lo sviluppo all'uomo? Non occorre forse mettere
in discussione gli stessi modelli economici, adottati sovente
dagli Stati anche per spinte e condizionamenti di carattere
internazionale, che generano ed alimentano situazioni di
ingiustizia e violenza nelle quali la vita umana di intere
popolazioni viene avvilita e conculcata?
19.
Dove stanno le radici di una contraddizione tanto
paradossale?
Le
possiamo riscontrare in complessive valutazioni di ordine
culturale e morale, a iniziare da quella mentalità che,
esasperando e persino deformando il concetto di soggettività,
riconosce come titolare di diritti solo chi si presenta con
piena o almeno incipiente autonomia ed esce da condizioni di
totale dipendenza dagli altri. Ma come conciliare tale
impostazione con l'esaltazione dell'uomo quale essere «
indisponibile »? La teoria dei diritti umani si fonda
proprio sulla considerazione del fatto che l'uomo,
diversamente dagli animali e dalle cose, non può essere
sottomesso al dominio di nessuno. Si deve pure accennare a
quella logica che tende a identificare la dignità
personale con la capacità di comunicazione verbale ed
esplicita e, in ogni caso, sperimentabile. È chiaro che,
con tali presupposti, non c'è spazio nel mondo per chi, come
il nascituro o il morente, è un soggetto strutturalmente
debole, sembra totalmente assoggettato alla mercé di altre
persone e da loro radicalmente dipendente e sa comunicare solo
mediante il muto linguaggio di una profonda simbiosi di
affetti. È, quindi, la forza a farsi criterio di scelta e di
azione nei rapporti interpersonali e nella convivenza sociale.
Ma questo è l'esatto contrario di quanto ha voluto
storicamente affermare lo Stato di diritto, come comunità
nella quale alle « ragioni della forza » si sostituisce la
« forza della ragione ».
Ad
un altro livello, le radici della contraddizione che
intercorre tra la solenne affermazione dei diritti dell'uomo e
la loro tragica negazione nella pratica risiedono in una
concezione della libertà che esalta in modo assoluto il
singolo individuo, e non lo dispone alla solidarietà, alla
piena accoglienza e al servizio dell'altro. Se è vero che
talvolta la soppressione della vita nascente o terminale si
colora anche di un malinteso senso di altruismo e di umana
pietà, non si può negare che una tale cultura di morte, nel
suo insieme, tradisce una concezione della libertà del tutto
individualistica che finisce per essere la libertà dei « più
forti » contro i deboli destinati a soccombere.
Proprio
in questo senso si può interpretare la risposta di Caino alla
domanda del Signore « Dov'è Abele, tuo fratello? »: « Non
lo so. Sono forse il guardiano di mio fratello? » (Gn
4, 9). Sì, ogni uomo è « guardiano di suo fratello »,
perché Dio affida l'uomo all'uomo. Ed è anche in vista di
tale affidamento che Dio dona a ogni uomo la libertà, che
possiede un'essenziale dimensione relazionale. Essa è
grande dono del Creatore, posta com'è al servizio della
persona e della sua realizzazione mediante il dono di sé e
l'accoglienza dell'altro; quando invece viene assolutizzata in
chiave individualistica, la libertà è svuotata del suo
contenuto originario ed è contraddetta nella sua stessa
vocazione e dignità.
C'è
un aspetto ancora più profondo da sottolineare: la libertà
rinnega sé stessa, si autodistrugge e si dispone
all'eliminazione dell'altro quando non riconosce e non
rispetta più il suo costitutivo legame con la verità. Ogni
volta che la libertà, volendo emanciparsi da qualsiasi
tradizione e autorità, si chiude persino alle evidenze
primarie di una verità oggettiva e comune, fondamento della
vita personale e sociale, la persona finisce con l'assumere
come unico e indiscutibile riferimento per le proprie scelte
non più la verità sul bene e sul male, ma solo la sua
soggettiva e mutevole opinione o, addirittura, il suo
egoistico interesse e il suo capriccio.
20.
In questa concezione della libertà, la convivenza sociale
viene profondamente deformata. Se la promozione del
proprio io è intesa in termini di autonomia assoluta,
inevitabilmente si giunge alla negazione dell'altro, sentito
come un nemico da cui difendersi. In questo modo la società
diventa un insieme di individui posti l'uno accanto all'altro,
ma senza legami reciproci: ciascuno vuole affermarsi
indipendentemente dall'altro, anzi vuol far prevalere i suoi
interessi. Tuttavia, di fronte ad analoghi interessi
dell'altro, ci si deve arrendere a cercare qualche forma di
compromesso, se si vuole che nella società sia garantito a
ciascuno il massimo di libertà possibile. Viene meno così
ogni riferimento a valori comuni e a una verità assoluta per
tutti: la vita sociale si avventura nelle sabbie mobili di un
relativismo totale. Allora tutto è convenzionabile, tutto
è negoziabile: anche il primo dei diritti fondamentali,
quello alla vita.
È
quanto di fatto accade anche in ambito più propriamente
politico e statale: l'originario e inalienabile diritto alla
vita è messo in discussione o negato sulla base di un voto
parlamentare o della volontà di una parte — sia pure
maggioritaria — della popolazione. È l'esito nefasto di un
relativismo che regna incontrastato: il « diritto » cessa di
essere tale, perché non è più solidamente fondato
sull'inviolabile dignità della persona, ma viene assoggettato
alla volontà del più forte. In questo modo la democrazia, ad
onta delle sue regole, cammina sulla strada di un sostanziale
totalitarismo. Lo Stato non è più la « casa comune » dove
tutti possono vivere secondo principi di uguaglianza
sostanziale, ma si trasforma in Stato tiranno, che
presume di poter disporre della vita dei più deboli e
indifesi, dal bambino non ancora nato al vecchio, in nome di
una utilità pubblica che non è altro, in realtà, che
l'interesse di alcuni.
Tutto
sembra avvenire nel più saldo rispetto della legalità,
almeno quando le leggi che permettono l'aborto o l'eutanasia
vengono votate secondo le cosiddette regole democratiche. In
verità, siamo di fronte solo a una tragica parvenza di
legalità e l'ideale democratico, che è davvero tale quando
riconosce e tutela la dignità di ogni persona umana, è
tradito nelle sue stesse basi: « Come è possibile
parlare ancora di dignità di ogni persona umana, quando si
permette che si uccida la più debole e la più innocente? In
nome di quale giustizia si opera fra le persone la più
ingiusta delle discriminazioni, dichiarandone alcune degne di
essere difese, mentre ad altre questa dignità è negata? ».(16)
Quando si verificano queste condizioni si sono già innescati
quei dinamismi che portano alla dissoluzione di un'autentica
convivenza umana e alla disgregazione della stessa realtà
statuale.
Rivendicare
il diritto all'aborto, all'infanticidio, all'eutanasia e
riconoscerlo legalmente, equivale ad attribuire alla libertà
umana un significato perverso e iniquo: quello di un potere
assoluto sugli altri e contro gli altri. Ma questa è la
morte della vera libertà: « In verità, in verità vi dico:
chiunque commette il peccato è schiavo del peccato » (Gv 8,
34).
«
Mi dovrò nascondere lontano da te » (Gn 4,
14): l'eclissi del senso di Dio e dell'uomo
21.
Nel ricercare le radici più profonde della lotta tra la «
cultura della vita » e la « cultura della morte », non ci
si può fermare all'idea perversa di libertà sopra ricordata.
Occorre giungere al cuore del dramma vissuto dall'uomo
contemporaneo:l'eclissi del senso di Dio e dell'uomo, tipica
del contesto sociale e culturale dominato dal secolarismo, che
coi suoi tentacoli pervasivi non manca talvolta di mettere
alla prova le stesse comunità cristiane. Chi si lascia
contagiare da questa atmosfera, entra facilmente nel vortice
di un terribile circolo vizioso: smarrendo il senso di Dio, si
tende a smarrire anche il senso dell'uomo, della sua
dignità e della sua vita; a sua volta, la sistematica
violazione della legge morale, specie nella grave materia del
rispetto della vita umana e della sua dignità, produce una
sorta di progressivo oscuramento della capacità di percepire
la presenza vivificante e salvante di Dio.
Ancora
una volta possiamo ispirarci al racconto dell'uccisione di
Abele da parte del fratello. Dopo la maledizione inflittagli
da Dio, Caino così si rivolge al Signore: « Troppo grande è
la mia colpa per sopportarla! Ecco, tu mi scacci oggi da
questo suolo e io mi dovrò nascondere lontano da te; io
sarò ramingo e fuggiasco sulla terra e chiunque mi incontrerà
mi potrà uccidere » (Gn 4, 13-14).
Caino
ritiene che il suo peccato non potrà ottenere perdono dal
Signore e che il suo destino inevitabile sarà di doversi «
nascondere lontano » da lui. Se Caino riesce a confessare che
la sua colpa è « troppo grande », è perché egli sa di
trovarsi di fronte a Dio e al suo giusto giudizio. In realtà,
solo davanti al Signore l'uomo può riconoscere il suo peccato
e percepirne tutta la gravità. È questa l'esperienza di
Davide, che dopo « aver fatto male agli occhi del Signore »,
rimproverato dal profeta Natan (cf. 2 Sam 11-12),
esclama: « Riconosco la mia colpa, il mio peccato mi sta
sempre dinanzi. Contro di te, contro te solo ho peccato,
quello che è male ai tuoi occhi, io l'ho fatto » (Sal 511,
5-6).
22.
Per questo, quando viene meno il senso di Dio, anche il senso
dell'uomo viene minacciato e inquinato, come lapidariamente
afferma il Concilio Vaticano II: « La creatura senza il
Creatore svanisce... Anzi, l'oblio di Dio priva di luce la
creatura stessa ».(17) L'uomo non riesce più a percepirsi
come « misteriosamente altro » rispetto alle diverse
creature terrene; egli si considera come uno dei tanti esseri
viventi, come un organismo che, tutt'al più, ha raggiunto uno
stadio molto elevato di perfezione. Chiuso nel ristretto
orizzonte della sua fisicità, si riduce in qualche modo a «
una cosa » e non coglie più il carattere « trascendente »
del suo « esistere come uomo ». Non considera più la vita
come uno splendido dono di Dio, una realtà « sacra »
affidata alla sua responsabilità e quindi alla sua amorevole
custodia, alla sua « venerazione ». Essa diventa
semplicemente « una cosa », che egli rivendica come sua
esclusiva proprietà, totalmente dominabile e manipolabile.
Così,
di fronte alla vita che nasce e alla vita che muore, non è più
capace di lasciarsi interrogare sul senso più autentico della
sua esistenza, assumendo con vera libertà questi momenti
cruciali del proprio « essere ». Egli si preoccupa solo del
« fare » e, ricorrendo ad ogni forma di tecnologia, si
affanna a programmare, controllare e dominare la nascita e la
morte. Queste, da esperienze originarie che chiedono di essere
« vissute », diventano cose che si pretende semplicemente di
« possedere » o di « rifiutare ».
Del
resto, una volta escluso il riferimento a Dio, non sorprende
che il senso di tutte le cose ne esca profondamente deformato,
e la stessa natura, non più « mater », sia ridotta a «
materiale » aperto a tutte le manipolazioni. A ciò sembra
condurre una certa razionalità tecnico-scientifica, dominante
nella cultura contemporanea, che nega l'idea stessa di una
verità del creato da riconoscere o di un disegno di Dio sulla
vita da rispettare. E ciò non è meno vero, quando l'angoscia
per gli esiti di tale « libertà senza legge » induce alcuni
all'opposta istanza di una « legge senza libertà », come
avviene, ad esempio, in ideologie che contestano la legittimità
di qualunque intervento sulla natura, quasi in nome di una sua
« divinizzazione », che ancora una volta ne misconosce la
dipendenza dal disegno del Creatore. In realtà, vivendo «
come se Dio non esistesse », l'uomo smarrisce non solo il
mistero di Dio, ma anche quello del mondo e il mistero del suo
stesso essere.
23.
L'eclissi del senso di Dio e dell'uomo conduce inevitabilmente
al materialismo pratico, nel quale proliferano
l'individualismo, l'utilitarismo e l'edonismo. Si manifesta
anche qui la perenne validità di quanto scrive l'Apostolo: «
Poiché hanno disprezzato la conoscenza di Dio, Dio li ha
abbandonati in balìa d'una intelligenza depravata, sicché
commettono ciò che è indegno » (Rm 1, 28). Così i
valori dell'essere sono sostituiti da quelli dell'avere.
L'unico
fine che conta è il perseguimento del proprio benessere
materiale. La cosiddetta « qualità della vita » è
interpretata in modo prevalente o esclusivo come efficienza
economica, consumismo disordinato, bellezza e godibilità
della vita fisica, dimenticando le dimensioni più profonde
— relazionali, spirituali e religiose — dell'esistenza.
In
un simile contesto la sofferenza, inevitabile peso
dell'esistenza umana ma anche fattore di possibile crescita
personale, viene « censurata », respinta come inutile, anzi
combattuta come male da evitare sempre e comunque. Quando non
la si può superare e la prospettiva di un benessere almeno
futuro svanisce, allora pare che la vita abbia perso ogni
significato e cresce nell'uomo la tentazione di rivendicare il
diritto alla sua soppressione.
Sempre
nel medesimo orizzonte culturale, il corpo non viene più
percepito come realtà tipicamente personale, segno e luogo
della relazione con gli altri, con Dio e con il mondo. Esso è
ridotto a pura materialità: è semplice complesso di organi,
funzioni ed energie da usare secondo criteri di mera godibilità
ed efficienza. Conseguentemente, anche la sessualità è
depersonalizzata e strumentalizzata: da segno, luogo e
linguaggio dell'amore, ossia del dono di sé e
dell'accoglienza dell'altro secondo l'intera ricchezza della
persona, diventa sempre più occasione e strumento di
affermazione del proprio io e di soddisfazione egoistica dei
propri desideri e istinti. Così si deforma e falsifica il
contenuto originario della sessualità umana e i due
significati, unitivo e procreativo, insiti nella natura stessa
dell'atto coniugale, vengono artificialmente separati: in
questo modo l'unione è tradita e la fecondità è sottomessa
all'arbitrio dell'uomo e della donna. La procreazione
allora diventa il « nemico » da evitare nell'esercizio della
sessualità: se viene accettata, è solo perché esprime il
proprio desiderio, o addirittura la propria volontà, di avere
il figlio « ad ogni costo » e non, invece, perché dice
totale accoglienza dell'altro e, quindi, apertura alla
ricchezza di vita di cui il figlio è portatore.
Nella
prospettiva materialistica fin qui descritta, le relazioni
interpersonali conoscono un grave impoverimento. I primi a
subirne i danni sono la donna, il bambino, il malato o
sofferente, l'anziano. Il criterio proprio della dignità
personale — quello cioè del rispetto, della gratuità e del
servizio — viene sostituito dal criterio dell'efficienza,
della funzionalità e dell'utilità: l'altro è apprezzato non
per quello che « è », ma per quello che « ha, fa e rende
». È la supremazia del più forte sul più debole.
24.
È nell'intimo della coscienza morale che l'eclissi del
senso di Dio e dell'uomo, con tutte le sue molteplici e
funeste conseguenze sulla vita, si consuma. È in questione,
anzitutto, la coscienza di ciascuna persona, che nella
sua unicità e irripetibilità si trova sola di fronte a
Dio.(18) Ma è pure in questione, in un certo senso, la «
coscienza morale » della società: essa è in qualche
modo responsabile non solo perché tollera o favorisce
comportamenti contrari alla vita, ma anche perché alimenta la
« cultura della morte », giungendo a creare e a consolidare
vere e proprie « strutture di peccato » contro la vita. La
coscienza morale, sia individuale che sociale, è oggi
sottoposta, anche per l'influsso invadente di molti strumenti
della comunicazione sociale, a un pericolo gravissimo e
mortale: quello della confusione tra il bene e il male in
riferimento allo stesso fondamentale diritto alla vita. Tanta
parte dell'attuale società si rivela tristemente simile a
quell'umanità che Paolo descrive nella Lettera ai Romani. È
fatta « di uomini che soffocano la verità nell'ingiustizia
» (1, 18): avendo rinnegato Dio e credendo di poter costruire
la città terrena senza di lui, « hanno vaneggiato nei loro
ragionamenti » sicché « si è ottenebrata la loro mente
ottusa » (1, 21); « mentre si dichiaravano sapienti sono
diventati stolti » (1, 22), sono diventati autori di opere
degne di morte e « non solo continuano a farle, ma anche
approvano chi le fa » (1, 32). Quando la coscienza, questo
luminoso occhio dell'anima (cf. Mt 6, 22-23), chiama «
bene il male e male il bene » (Is 5, 20), è ormai
sulla strada della sua degenerazione più inquietante e della
più tenebrosa cecità morale.
Eppure
tutti i condizionamenti e gli sforzi per imporre il silenzio
non riescono a soffocare la voce del Signore che risuona nella
coscienza di ogni uomo: è sempre da questo intimo sacrario
della coscienza che può ripartire un nuovo cammino di amore,
di accoglienza e di servizio alla vita umana.
«
Vi siete accostati al sangue dell'aspersione » (cf.
Eb 12, 22.24): segni di speranza e invito
all'impegno
25.
« La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo! »
(Gn 4, 10). Non è solo la voce del sangue di Abele, il
primo innocente ucciso, a gridare verso Dio, sorgente e
difensore della vita. Anche il sangue di ogni altro uomo
ucciso dopo Abele è voce che si leva al Signore. In una forma
assolutamente unica, grida a Dio la voce del sangue di
Cristo, di cui Abele nella sua innocenza è figura
profetica, come ci ricorda l'autore della Lettera agli Ebrei:
« Voi vi siete invece accostati al monte Sion e alla città
del Dio vivente... al Mediatore della Nuova Alleanza e al
sangue dell'aspersione dalla voce più eloquente di quello di
Abele » (12, 22.24).
È
il sangue dell'aspersione. Ne era stato simbolo e segno
anticipatore il sangue dei sacrifici dell'Antica Alleanza, con
i quali Dio esprimeva la volontà di comunicare la sua vita
agli uomini, purificandoli e consacrandoli (cf. Es 24,
8; Lv 17, 11). Ora, tutto questo in Cristo si compie e
si avvera: il suo è il sangue dell'aspersione che redime,
purifica e salva; è il sangue del Mediatore della Nuova
Alleanza « versato per molti, in remissione dei peccati » (Mt
26, 28). Questo sangue, che fluisce dal fianco trafitto di
Cristo sulla croce (cf. Gv 19, 34), ha la « voce più
eloquente » del sangue di Abele; esso infatti esprime ed
esige una più profonda « giustizia », ma soprattutto
implora misericordia,(19) si fa presso il Padre intercessione
per i fratelli (cf. Eb 7, 25), è fonte di redenzione
perfetta e dono di vita nuova.
Il
sangue di Cristo, mentre rivela la grandezza dell'amore del
Padre, manifesta come l'uomo sia prezioso agli occhi di Dio
e come sia inestimabile il valore della sua vita. Ce lo
ricorda l'apostolo Pietro: « Voi sapete che non a prezzo di
cose corruttibili, come l'argento e l'oro, foste liberati
dalla vostra vuota condotta ereditata dai vostri padri, ma con
il sangue prezioso di Cristo, come di agnello senza difetti e
senza macchia » (1 Pt 1, 18-19). Proprio contemplando
il sangue prezioso di Cristo, segno della sua donazione
d'amore (cf. Gv 13, 1), il credente impara a
riconoscere e ad apprezzare la dignità quasi divina di ogni
uomo e può esclamare con sempre rinnovato e grato stupore: «
Quale valore deve avere l'uomo davanti agli occhi del Creatore
se "ha meritato di avere un tanto nobile e grande
Redentore" (Exultet della Veglia pasquale), se
"Dio ha dato il suo Figlio", affinché egli, l'uomo,
"non muoia, ma abbia la vita eterna" (cf. Gv 3,
16)! ».(20)
Il
sangue di Cristo, inoltre, rivela all'uomo che la sua
grandezza, e quindi la sua vocazione, consiste nel dono
sincero di sé. Proprio perché viene versato come dono di
vita, il sangue di Gesù non è più segno di morte, di
separazione definitiva dai fratelli, ma strumento di una
comunione che è ricchezza di vita per tutti. Chi nel
sacramento dell'Eucaristia beve questo sangue e dimora in Gesù
(cf. Gv 6, 56) è coinvolto nel suo stesso dinamismo di
amore e di donazione di vita, per portare a pienezza
l'originaria vocazione all'amore che è propria di ogni uomo (cf.
Gn 1, 27; 2, 18-24).
È
ancora nel sangue di Cristo che tutti gli uomini attingono
la forza per impegnarsi a favore della vita. Proprio
questo sangue è il motivo più forte di speranza, anzi è
il fondamento dell'assoluta certezza che secondo il disegno di
Dio la vittoria sarà della vita. « Non ci sarà più la
morte », esclama la voce potente che esce dal trono di Dio
nella Gerusalemme celeste (Ap 21, 4). E san Paolo ci
assicura che la vittoria attuale sul peccato è segno e
anticipazione della vittoria definitiva sulla morte, quando «
si compirà la parola della Scrittura: "La morte è stata
ingoiata per la vittoria. Dov'è, o morte, la tua vittoria?
Dov'è, o morte, il tuo pungiglione?" » (1 Cor 15,
54-55).
26.
In realtà, segni anticipatori di questa vittoria non mancano
nelle nostre società e culture, pur così fortemente segnate
dalla « cultura della morte ». Si darebbe dunque un'immagine
unilaterale, che potrebbe indurre a uno sterile
scoraggiamento, se alla denuncia delle minacce alla vita non
si accompagnasse la presentazione dei segni positivi operanti
nell'attuale situazione dell'umanità.
Purtroppo
tali segni positivi faticano spesso a manifestarsi e ad essere
riconosciuti, forse anche perché non trovano adeguata
attenzione nei mezzi della comunicazione sociale. Ma quante
iniziative di aiuto e di sostegno alle persone più deboli e
indifese sono sorte e continuano a sorgere, nella comunità
cristiana e nella società civile, a livello locale, nazionale
e internazionale, ad opera di singoli, gruppi, movimenti ed
organizzazioni di vario genere!
Sono
ancora molti gli sposi che, con generosa responsabilità,
sanno accogliere i figli come « il preziosissimo dono del
matrimonio ».(21) Né mancano famiglie che, al di là
del loro quotidiano servizio alla vita, sanno aprirsi
all'accoglienza di bambini abbandonati, di ragazzi e giovani
in difficoltà, di persone portatrici di handicap, di anziani
rimasti soli. Non pochi centri di aiuto alla vita, o
istituzioni analoghe, sono promossi da persone e gruppi che,
con ammirevole dedizione e sacrificio, offrono un sostegno
morale e materiale a mamme in difficoltà, tentate di
ricorrere all'aborto. Sorgono pure e si diffondono gruppi
di volontari impegnati a dare ospitalità a chi è senza
famiglia, si trova in condizioni di particolare disagio o ha
bisogno di ritrovare un ambiente educativo che lo aiuti a
superare abitudini distruttive e a ricuperare il senso della
vita.
La
medicina, promossa con grande impegno da ricercatori e
professionisti, prosegue nel suo sforzo per trovare rimedi
sempre più efficaci: risultati un tempo del tutto impensabili
e tali da aprire promettenti prospettive sono oggi ottenuti a
favore della vita nascente, delle persone sofferenti e dei
malati in fase acuta o terminale. Enti e organizzazioni varie
si mobilitano per portare, anche nei Paesi più colpiti dalla
miseria e da malattie endemiche, i benefici della medicina più
avanzata. Così pure associazioni nazionali e internazionali
di medici si attivano tempestivamente per recare soccorso alle
popolazioni provate da calamità naturali, da epidemie o da
guerre. Anche se una vera giustizia internazionale nella
ripartizione delle risorse mediche è ancora lontana dalla sua
piena realizzazione, come non riconoscere nei passi sinora
compiuti il segno di una crescente solidarietà tra i popoli,
di un'apprezzabile sensibilità umana e morale e di un
maggiore rispetto per la vita?
27.
Di fronte a legislazioni che hanno permesso l'aborto e a
tentativi, qua e là riusciti, di legalizzare l'eutanasia,
sono sorti in tutto il mondo movimenti e iniziative di
sensibilizzazione sociale in favore della vita. Quando, in
conformità alla loro ispirazione autentica, agiscono con
determinata fermezza ma senza ricorrere alla violenza, tali
movimenti favoriscono una più diffusa presa di coscienza del
valore della vita e sollecitano e realizzano un più deciso
impegno per la sua difesa.
Come
non ricordare, inoltre, tutti quei gesti quotidiani di
accoglienza, di sacrificio, di cura disinteressata che un
numero incalcolabile di persone compie con amore nelle
famiglie, negli ospedali, negli orfanotrofi, nelle case di
riposo per anziani e in altri centri o comunità a difesa
della vita? Lasciandosi guidare dall'esempio di Gesù « buon
samaritano » (cf. Lc 10, 29-37) e sostenuta dalla sua
forza, la Chiesa è sempre stata in prima linea su queste
frontiere della carità: tanti suoi figli e figlie,
specialmente religiose e religiosi, in forme antiche e sempre
nuove, hanno consacrato e continuano a consacrare la loro vita
a Dio donandola per amore del prossimo più debole e
bisognoso.
Questi
gesti costruiscono nel profondo quella « civiltà dell'amore
e della vita », senza la quale l'esistenza delle persone e
della società smarrisce il suo significato più
autenticamente umano. Anche se nessuno li notasse e
rimanessero nascosti ai più, la fede assicura che il Padre,
« che vede nel segreto » (Mt 6, 4), non solo saprà
ricompensarli, ma già fin d'ora li rende fecondi di frutti
duraturi per tutti.
Tra
i segni di speranza va pure annoverata la crescita, in molti
strati dell'opinione pubblica, di una nuova sensibilità
sempre più contraria alla guerra come strumento di
soluzione dei conflitti tra i popoli e sempre più orientata
alla ricerca di strumenti efficaci ma « non violenti » per
bloccare l'aggressore armato. Nel medesimo orizzonte si pone
altresì la sempre più diffusa avversione dell'opinione
pubblica alla pena di morte anche solo come strumento di
« legittima difesa » sociale, in considerazione delle
possibilità di cui dispone una moderna società di reprimere
efficacemente il crimine in modi che, mentre rendono
inoffensivo colui che l'ha commesso, non gli tolgono
definitivamente la possibilità di redimersi.
È
da salutare con favore anche l'accresciuta attenzione allaqualità
della vita e all'ecologia, che si registra
soprattutto nelle società a sviluppo avanzato, nelle quali le
attese delle persone non sono più concentrate tanto sui
problemi della sopravvivenza quanto piuttosto sulla ricerca di
un miglioramento globale delle condizioni di vita.
Particolarmente significativo è il risveglio di una
riflessione etica attorno alla vita: con la nascita e lo
sviluppo sempre più diffuso della bioetica vengono
favoriti la riflessione e il dialogo — tra credenti e non
credenti, come pure tra credenti di diverse religioni — su
problemi etici, anche fondamentali, che interessano la vita
dell'uomo.
28.
Questo orizzonte di luci ed ombre deve renderci tutti
pienamente consapevoli che ci troviamo di fronte ad uno
scontro immane e drammatico tra il male e il bene, la morte e
la vita, la « cultura della morte » e la « cultura della
vita ». Ci troviamo non solo « di fronte », ma
necessariamente « in mezzo » a tale conflitto: tutti siamo
coinvolti e partecipi, con l'ineludibile responsabilità di scegliere
incondizionatamente a favore della vita.
Anche
per noi risuona chiaro e forte l'invito di Mosè: « Vedi, io
pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il
male...; io ti ho posto davanti la vita e la morte, la
benedizione e la maledizione; scegli dunque la vita, perché
viva tu e la tua discendenza » (Dt 30, 15.19). È
un invito che ben si addice anche a noi, chiamati ogni giorno
a dover decidere tra la « cultura della vita » e la «
cultura della morte ». Ma l'appello del Deuteronomio è
ancora più profondo, perché ci sollecita ad una scelta
propriamente religiosa e morale. Si tratta di dare alla
propria esistenza un orientamento fondamentale e di vivere in
fedeltà e coerenza con la legge del Signore: « Io oggi ti
comando di amare il Signore tuo Dio, di camminare
per le sue vie, di osservare i suoi comandi, le sue
leggi e le sue norme...; scegli dunque la vita, perché viva
tu e la tua discendenza, amando il Signore tuo Dio, obbedendo
alla sua voce e tenendoti unito a lui, poiché è lui la
tua vita e la tua longevità » (30, 16.19-20).
La
scelta incondizionata a favore della vita raggiunge in
pienezza il suo significato religioso e morale quando
scaturisce, viene plasmata ed è alimentata dalla fede in
Cristo. Nulla aiuta ad affrontare positivamente il
conflitto tra la morte e la vita, nel quale siamo immersi,
come la fede nel Figlio di Dio che si è fatto uomo ed è
venuto tra gli uomini « perché abbiano la vita e l'abbiano
in abbondanza » (Gv 10, 10): è la fede nel
Risorto, che ha vinto la morte; è la fede nel sangue di
Cristo « dalla voce più eloquente di quello di Abele » (Eb
12, 24).
Con
la luce e la forza di tale fede, quindi, di fronte alle sfide
dell'attuale situazione, la Chiesa prende più viva coscienza
della grazia e della responsabilità che le vengono dal suo
Signore per annunciare, celebrare e servire il Vangelo
della vita.
CAPITOLO II
SONO
VENUTO PERCHÈ ABBIANO LA VITA
IL MESSAGGIO
CRISTIANO SULLA VITA
«
La vita si è fatta visibile, noi l'abbiamo veduta » (1
Gv 1, 2): lo sguardo rivolto a Cristo, « il Verbo
della vita »
29.
Di fronte alle innumerevoli e gravi minacce alla vita presenti
nel mondo contemporaneo, si potrebbe rimanere come sopraffatti
dal senso di un'impotenza insuperabile: il bene non potrà mai
avere la forza di vincere il male!
È
questo il momento nel quale il Popolo di Dio, e in esso
ciascun credente, è chiamato a professare, con umiltà e
coraggio, la propria fede in Gesù Cristo « il Verbo della
vita » (1 Gv 1, 1). Il Vangelo della vita non
è una semplice riflessione, anche se originale e profonda,
sulla vita umana; neppure è soltanto un comandamento
destinato a sensibilizzare la coscienza e a provocare
significativi cambiamenti nella società; tanto meno è
un'illusoria promessa di un futuro migliore. Il Vangelo
della vita è una realtà concreta e personale, perché
consiste nell'annuncio della persona stessa di Gesù. All'apostolo
Tommaso, e in lui a ogni uomo, Gesù si presenta con queste
parole: « Io sono la via, la verità e la vita » (Gv 14,
6). È la stessa identità indicata a Marta, la sorella di
Lazzaro: « Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in
me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non
morrà in eterno » (Gv 11, 25-26). Gesù è il Figlio
che dall'eternità riceve la vita dal Padre (cf. Gv 5,
26) ed è venuto tra gli uomini per farli partecipi di questo
dono: « Io sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in
abbondanza » (Gv 10, 10).
È
allora dalla parola, dall'azione, dalla persona stessa di Gesù
che all'uomo è data la possibilità di « conoscere » la
verità intera circa il valore della vita umana; è da
quella « fonte » che gli viene, in particolare, la capacità
di « fare » perfettamente tale verità (cf. Gv 3,
21), ossia di assumere e realizzare in pienezza la
responsabilità di amare e servire, di difendere e promuovere
la vita umana.
In
Cristo, infatti, è annunciato definitivamente ed è
pienamente donato quel Vangelo della vita che, offerto
già nella Rivelazione dell'Antico Testamento, ed anzi scritto
in qualche modo nel cuore stesso di ogni uomo e donna, risuona
in ogni coscienza « dal principio », ossia dalla creazione
stessa, così che, nonostante i condizionamenti negativi del
peccato, può essere conosciuto nei suoi tratti essenziali
anche dalla ragione umana. Come scrive il Concilio
Vaticano II, Cristo « con tutta la sua presenza e con la
manifestazione di sé, con le parole e con le opere, con i
segni e con i miracoli, e specialmente con la sua morte e la
gloriosa risurrezione di tra i morti, e infine con l'invio
dello Spirito di verità, compie e completa la rivelazione e
la corrobora con la testimonianza divina, che cioè Dio è con
noi per liberarci dalle tenebre del peccato e della morte e
risuscitarci per la vita eterna ».(22)
30.
È dunque con lo sguardo fisso al Signore Gesù che intendiamo
riascoltare da lui « le parole di Dio » (Gv 3, 34) e
rimeditare il Vangelo della vita. Il senso più
profondo e originale di questa meditazione sul messaggio
rivelato circa la vita umana è stato colto dall'apostolo
Giovanni, quando scrive, all'inizio della sua Prima Lettera:
« Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito,
ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi
abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato,
ossia il Verbo della vita (poiché la vita si è fatta
visibile, noi l'abbiamo veduta e di ciò rendiamo
testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso
il Padre e si è resa visibile a noi), quello che abbiamo
veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche
voi siate in comunione con noi » (1, 1-3).
In
Gesù, « Verbo della vita », viene quindi annunciata e
comunicata la vita divina ed eterna. Grazie a tale annuncio e
a tale dono, la vita fisica e spirituale dell'uomo, anche
nella sua fase terrena, acquista pienezza di valore e di
significato: la vita divina ed eterna, infatti, è il fine a
cui l'uomo che vive in questo mondo è orientato e chiamato.
Il Vangelo della vita racchiude così quanto la stessa
esperienza e ragione umana dicono circa il valore della vita,
lo accoglie, lo eleva e lo porta a compimento.
«
Mia forza e mio canto è il Signore, egli mi ha salvato » (Es
15, 2): la vita è sempre un bene
31.
In verità, la pienezza evangelica dell'annuncio sulla vita è
preparata già nell'Antico Testamento. È soprattutto nella
vicenda dell'Esodo, fulcro dell'esperienza di fede dell'Antico
Testamento, che Israele scopre quanto la sua vita sia preziosa
agli occhi di Dio. Quando sembra ormai votato allo sterminio,
perché su tutti i suoi neonati maschi incombe la minaccia di
morte (cf. Es 1, 15-22), il Signore gli si rivela come
salvatore, capace di assicurare un futuro a chi è senza
speranza. Nasce così in Israele una precisa consapevolezza: la
sua vita non si trova alla mercé di un faraone che può
usarne con dispotico arbitrio; al contrario, essa è l'oggetto
di un tenero e forte amore da parte di Dio.
La
liberazione dalla schiavitù è il dono di una identità, il
riconoscimento di una dignità indelebile e l'inizio di una
storia nuova, in cui la scoperta di Dio e la scoperta di sé
vanno di pari passo. È una esperienza, quella dell'Esodo,
fondante ed esemplare. Israele vi apprende che, ogni volta in
cui è minacciato nella sua esistenza, non ha che da ricorrere
a Dio con rinnovata fiducia per trovare in lui efficace
assistenza: « Io ti ho formato, mio servo sei tu; Israele,
non sarai dimenticato da me » (Is 44, 21).
Così,
mentre riconosce il valore della propria esistenza come
popolo, Israele progredisce anche nella percezione del
senso e del valore della vita in quanto tale. È una
riflessione che si sviluppa in modo particolare nei libri
sapienziali, muovendo dalla quotidiana esperienza della precarietà
della vita e dalla consapevolezza delle minacce che la
insidiano. Di fronte alle contraddizioni dell'esistenza, la
fede è provocata ad offrire una risposta.
È
soprattutto il problema del dolore ad incalzare la fede e a
metterla alla prova. Come non cogliere il gemito universale
dell'uomo nella meditazione del libro di Giobbe? L'innocente
schiacciato dalla sofferenza è, comprensibilmente, portato a
chiedersi: « Perché dare la luce ad un infelice e la vita a
chi ha l'amarezza nel cuore, a quelli che aspettano la morte e
non viene, che la cercano più di un tesoro? » (3, 20-21). Ma
anche nella più fitta oscurità la fede orienta al
riconoscimento fiducioso e adorante del « mistero »: «
Comprendo che puoi tutto e che nessuna cosa è impossibile per
te » (Gb 42, 2).
Progressivamente
la Rivelazione fa cogliere con sempre maggiore chiarezza il
germe di vita immortale posto dal Creatore nel cuore degli
uomini: « Egli ha fatto bella ogni cosa a suo tempo, ma egli
ha messo la nozione dell'eternità nel loro cuore » (Qo 3,
11). Questo germe di totalità e di pienezza attende di
manifestarsi nell'amore e di compiersi, per dono gratuito di
Dio, nella partecipazione alla sua vita eterna.
«
Il nome di Gesù ha dato vigore a questo uomo » (At
3, 16): nella precarietà dell'esistenza umana Gesù
porta a compimento il senso della vita
32.
L'esperienza del popolo dell'Alleanza si rinnova in quella di
tutti i « poveri » che incontrano Gesù di Nazaret. Come già
il Dio « amante della vita » (Sap 11, 26) aveva
rassicurato Israele in mezzo ai pericoli, così ora il Figlio
di Dio, a quanti si sentono minacciati e impediti nella loro
esistenza, annuncia che anche la loro vita è un bene, al
quale l'amore del Padre dà senso e valore.
«
I ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i
lebbrosi vengono sanati, i sordi odono, i morti risuscitano,
ai poveri è annunziata la buona novella » (Lc 7, 22).
Con queste parole del profeta Isaia (35, 5-6; 61, 1), Gesù
presenta il significato della propria missione: così quanti
soffrono per un'esistenza in qualche modo « diminuita »,
ascoltano da lui la buona novella dell'interesse di Dio
nei loro confronti ed hanno la conferma che anche la loro vita
è un dono gelosamente custodito nelle mani del Padre (cf. Mt
6, 25-34).
Sono
i « poveri » ad essere interpellati particolarmente dalla
predicazione e dall'azione di Gesù. Le folle di malati e di
emarginati, che lo seguono e lo cercano (cf. Mt 4,
23-25), trovano nella sua parola e nei suoi gesti la
rivelazione di quale grande valore abbia la loro vita e di
come siano fondate le loro attese di salvezza.
Non
diversamente accade nella missione della Chiesa, fin dalle sue
origini. Essa, che annuncia Gesù come colui che « passò
beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il
potere del diavolo, perché Dio era con lui » (At 10,
38), sa di essere portatrice di un messaggio di salvezza che
risuona in tutta la sua novità proprio nelle situazioni di
miseria e di povertà della vita dell'uomo. Così fa Pietro
con la guarigione dello storpio, posto ogni giorno presso la
porta « Bella » del tempio di Gerusalemme a chiedere
l'elemosina: « Non possiedo né argento né oro, ma quello
che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno,
cammina! » (At 3, 6). Nella fede in Gesù, « autore
della vita » (At 3, 15), la vita che giace abbandonata
e implorante ritrova consapevolezza di sé e dignità piena.
La
parola e i gesti di Gesù e della sua Chiesa non riguardano
solo chi è nella malattia, nella sofferenza o nelle varie
forme di emarginazione sociale. Più profondamente toccano il
senso stesso della vita di ogni uomo nelle sue dimensioni
morali e spirituali. Solo chi riconosce che la propria
vita è segnata dalla malattia del peccato, nell'incontro con
Gesù Salvatore può ritrovare la verità e l'autenticità
della propria esistenza, secondo le sue stesse parole: « Non
sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; io non
sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori a convertirsi
» (Lc 5, 31-32).
Chi,
invece, come il ricco agricoltore della parabola evangelica,
pensa di poter assicurare la propria vita mediante il possesso
dei soli beni materiali, in realtà si illude: essa gli sta
sfuggendo, ed egli ne resterà ben presto privo, senza essere
arrivato a percepirne il vero significato: « Stolto, questa
notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai
preparato di chi sarà? » (Lc 12, 20).
33.
È nella vita stessa di Gesù, dall'inizio alla fine, che si
ritrova questa singolare « dialettica » tra l'esperienza
della precarietà della vita umana e l'affermazione del suo
valore. Infatti, la precarietà segna la vita di Gesù fin
dalla sua nascita. Egli trova certamente l'accoglienza dei
giusti, che si uniscono al « sì » pronto e gioioso di Maria
(cf. Lc 1, 38). Ma c'è anche, da subito, il rifiuto
di un mondo che si fa ostile e cerca il bambino « per
ucciderlo » (Mt 2, 13), oppure resta indifferente e
disattento al compiersi del mistero di questa vita che entra
nel mondo: « non c'era posto per loro nell'albergo » (Lc 2,
7). Proprio dal contrasto tra le minacce e le insicurezze da
una parte e la potenza del dono di Dio dall'altra, risplende
con maggior forza la gloria che si sprigiona dalla casa di
Nazaret e dalla mangiatoia di Betlemme: questa vita che nasce
è salvezza per l'intera umanità (cf. Lc 2, 11).
Contraddizioni
e rischi della vita vengono assunti pienamente da Gesù: « da
ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi
diventaste ricchi per mezzo della sua povertà » (2 Cor 8,
9). La povertà, di cui parla Paolo, non è solo spogliamento
dei privilegi divini, ma anche condivisione delle condizioni
più umili e precarie della vita umana (cf. Fil 2,
6-7). Gesù vive questa povertà lungo tutto il corso della
sua vita, fino al momento culminante della Croce: « umiliò
se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di
croce. Per questo Dio l'ha esaltato e gli ha dato il nome che
è al di sopra di ogni altro nome » (Fil 2, 8-9). È
proprio nella sua morte che Gesù rivela tutta la
grandezza e il valore della vita, in quanto il suo donarsi
in croce diventa fonte di vita nuova per tutti gli uomini (cf.
Gv 12, 32). In questo peregrinare nelle contraddizioni
e nella stessa perdita della vita, Gesù è guidato dalla
certezza che essa è nelle mani del Padre. Per questo sulla
Croce può dirgli: « Padre nelle tue mani consegno il mio
spirito » (Lc 23, 46), cioè la mia vita. Davvero
grande è il valore della vita umana se il Figlio di Dio l'ha
assunta e l'ha resa luogo nel quale la salvezza si attua per
l'intera umanità!
«
Chiamati... ad essere conformi all'immagine del Figlio suo » (Rm
8, 28-29): la gloria di Dio risplende sul volto
dell'uomo
34.
La vita è sempre un bene. È, questa, una intuizione o
addirittura un dato di esperienza, di cui l'uomo è chiamato a
cogliere la ragione profonda.
Perché
la vita è un bene? L'interrogativo
attraversa tutta la Bibbia e fin dalle sue prime pagine trova
una risposta efficace e mirabile. La vita che Dio dona
all'uomo è diversa e originale di fronte a quella di ogni
altra creatura vivente, in quanto egli, pur imparentato con la
polvere della terra (cf. Gn 2, 7; 3, 19; Gb 34,
15; Sal 103/102, 14; 104/103, 29), è nel mondo
manifestazione di Dio, segno della sua presenza, orma della
sua gloria (cf. Gn 1, 26-27; Sal 8, 6). È
quanto ha voluto sottolineare anche sant'Ireneo di Lione con
la sua celebre definizione: « l'uomo che vive è la gloria di
Dio ».(23) All'uomo è donata un'altissima dignità, che
ha le sue radici nell'intimo legame che lo unisce al suo
Creatore: nell'uomo risplende un riflesso della stessa realtà
di Dio.
Lo
afferma il libro della Genesi nel primo racconto delle
origini, ponendo l'uomo al vertice dell'attività creatrice di
Dio, come suo coronamento, al termine di un processo che
dall'indistinto caos porta alla creatura più perfetta. Tutto
nel creato è ordinato all'uomo e tutto è a lui sottomesso: «
Riempite la terra; soggiogatela e dominate... su ogni essere
vivente » (1, 28), comanda Dio all'uomo e alla donna. Un
messaggio simile viene anche dall'altro racconto delle
origini: « Il Signore Dio prese l'uomo e lo pose nel giardino
di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse » (Gn 2,
15). Si riafferma così il primato dell'uomo sulle cose: esse
sono finalizzate a lui e affidate alla sua responsabilità,
mentre per nessuna ragione egli può essere asservito ai suoi
simili e quasi ridotto al rango di cosa.
Nella
narrazione biblica la distinzione dell'uomo dalle altre
creature è evidenziata soprattutto dal fatto che solo la sua
creazione è presentata come frutto di una speciale decisione
da parte di Dio, di una deliberazione che consiste nello
stabilire un legame particolare e specifico con il
Creatore: « Facciamo l'uomo a nostra immagine, a nostra
somiglianza » (Gn 1, 26). La vita che Dio offre
all'uomo è un dono con cui Dio partecipa qualcosa di sé
alla sua creatura.
Israele
si interrogherà a lungo sul senso di questo legame
particolare e specifico dell'uomo con Dio. Anche il libro del
Siracide riconosce che Dio nel creare gli uomini « secondo la
sua natura li rivestì di forza, e a sua immagine li formò »
(17, 3). A ciò l'autore sacro riconduce non solo il loro
dominio sul mondo, ma anche le facoltà spirituali più
proprie dell'uomo, come la ragione, il discernimento del
bene e del male, la volontà libera: « Li riempì di dottrina
e d'intelligenza, e indicò loro anche il bene e il male » (Sir
17, 6). La capacità di attingere la verità e la
libertà sono prerogative dell'uomo in quanto creato ad
immagine del suo Creatore, il Dio vero e giusto (cf. Dt 32,
4). Soltanto l'uomo, fra tutte le creature visibili, è «
capa- ce di conoscere e di amare il proprio Creatore ».(24)
La vita che Dio dona all'uomo è ben più di un esistere nel
tempo. È tensione verso una pienezza di vita; è germe di
una esistenza che va oltre i limiti stessi del tempo: « Sì,
Dio ha creato l'uomo per l'incorruttibilità; lo fece a
immagine della propria natura » (Sap 2, 23).
35.
Anche il racconto jahvista delle origini esprime la stessa
convinzione. L'antica narrazione, infatti, parla di un soffio
divino che viene inalato nell'uomo perché questi
entri nella vita: « Il Signore Dio plasmò l'uomo con polvere
del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l'uomo
divenne un essere vivente » (Gn 2, 7).
L'origine
divina di questo spirito di vita spiega la perenne
insoddisfazione che accompagna l'uomo nei suoi giorni. Fatto
da Dio, portando in sé una traccia indelebile di Dio, l'uomo
tende naturalmente a lui. Quando ascolta l'aspirazione
profonda del suo cuore, ogni uomo non può non fare propria la
parola di verità espressa da sant'Agostino: « Tu ci hai
fatti per te, o Signore, e il nostro cuore è inquieto sino a
quando non riposa in Te ».(25)
Quanto
mai eloquente è l'insoddisfazione di cui è preda la vita
dell'uomo nell'Eden fin quando il suo unico riferimento rimane
il mondo vegetale e animale (cf. Gn 2, 20). Solo
l'apparizione della donna, di un essere cioè che è carne
dalla sua carne e osso dalle sue ossa (cf. Gn 2, 23), e
in cui ugualmente vive lo spirito di Dio Creatore, può
soddisfare l'esigenza di dialogo inter-personale che è così
vitale per l'esistenza umana. Nell'altro, uomo o donna, si
riflette Dio stesso, approdo definitivo e appagante di ogni
persona.
«
Che cosa è l'uomo perché te ne ricordi, il figlio dell'uomo
perché te ne curi? », si chiede il Salmista (Sal 8,
5). Di fronte all'immensità dell'universo, egli è ben
piccola cosa; ma proprio questo contrasto fa emergere la sua
grandezza: « Lo hai fatto poco meno degli angeli (ma si
potrebbe tradurre anche: « poco meno di Dio »), di gloria e
di onore lo hai coronato » (Sal 8, 6). La gloria di
Dio risplende sul volto dell'uomo. In lui il Creatore
trova il suo riposo, come commenta stupito e commosso sant'Ambrogio:
« È finito il sesto giorno e si è conclusa la creazione del
mondo con la formazione di quel capolavoro che è l'uomo, il
quale esercita il dominio su tutti gli esseri viventi ed è
come il culmine dell'universo e la suprema bellezza di ogni
essere creato. Veramente dovremmo mantenere un reverente
silenzio, poiché il Signore si riposò da ogni opera del
mondo. Si riposò poi nell'intimo dell'uomo, si riposò nella
sua mente e nel suo pensiero; infatti aveva creato l'uomo
dotato di ragione, capace d'imitarlo, emulo delle sue virtù,
bramoso delle grazie celesti. In queste sue doti riposa Iddio
che ha detto: "O su chi riposerò, se non su chi è
umile, tranquillo e teme le mie parole?" (Is 66,
1-2). Ringrazio il Signore Dio nostro che ha creato un'opera
così meravigliosa nella quale trovare il suo riposo ».(26)
36.
Purtroppo lo stupendo progetto di Dio viene offuscato dalla
irruzione del peccato nella storia. Con il peccato l'uomo si
ribella al Creatore, finendo con l'idolatrare le creature: «
Hanno venerato e adorato la creatura al posto del Creatore »
(Rm 1, 25). In questo modo l'essere umano non solo
deturpa in se stesso l'immagine di Dio, ma è tentato di
offenderla anche negli altri, sostituendo ai rapporti di
comunione atteggiamenti di diffidenza, di indifferenza, di
inimicizia, fino all'odio omicida. Quando non si riconosce Dio
come Dio, si tradisce il senso profondo dell'uomo e si
pregiudica la comunione tra gli uomini.
Nella
vita dell'uomo, l'immagine di Dio torna a risplendere e si
manifesta in tutta la sua pienezza con la venuta nella carne
umana del Figlio di Dio: « Egli è immagine del Dio
invisibile » (Col 1, 15), « irradiazione della sua
gloria e impronta della sua sostanza » (Eb 1, 3). Egli
è l'immagine perfetta del Padre.
Il
progetto di vita consegnato al primo Adamo trova finalmente in
Cristo il suo compimento. Mentre la disobbedienza di Adamo
rovina e deturpa il disegno di Dio sulla vita dell'uomo e
introduce la morte nel mondo, l'obbedienza redentrice di
Cristo è fonte di grazia che si riversa sugli uomini
spalancando a tutti le porte del regno della vita (cf. Rm 5,
12-21). Afferma l'apostolo Paolo: « Il primo uomo, Adamo,
divenne un essere vivente, ma l'ultimo Adamo divenne spirito
datore di vita » (1 Cor 15, 45).
A
quanti accettano di porsi alla sequela di Cristo viene donata
la pienezza della vita: in loro l'immagine divina viene
restaurata, rinnovata e condotta alla perfezione. Questo è il
disegno di Dio sugli esseri umani: che divengano « conformi
all'immagine del Figlio suo » (Rm 8, 29). Solo così,
nello splendore di questa immagine, l'uomo può essere
liberato dalla schiavitù dell'idolatria, può ricostruire la
fraternità dispersa e ritrovare la sua identità.
«
Chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno » (Gv
11, 26): il dono della vita eterna
37.
La vita che il Figlio di Dio è venuto a donare agli uomini
non si riduce alla sola esistenza nel tempo. La vita, che da
sempre è « in lui » e costituisce « la luce degli uomini
» (Gv 1, 4), consiste nell'essere generati da Dio e
nel partecipare alla pienezza del suo amore: « A quanti
l'hanno accolto, ha dato il potere di diventare figli di Dio:
a quelli che credono nel suo nome, i quali non da sangue, né
da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono
stati generati » (Gv 1, 12-13).
A
volte Gesù chiama questa vita, che egli è venuto a donare,
semplicemente così: « la vita »; e presenta la generazione
da Dio come una condizione necessaria per poter raggiungere il
fine per cui Dio ha creato l'uomo: « Se uno non rinasce
dall'alto, non può vedere il regno di Dio » (Gv 3,
3). Il dono di questa vita costituisce l'oggetto proprio della
missione di Gesù: egli « è colui che discende dal cielo e dà
la vita al mondo » (Gv 6, 33), così che può
affermare con piena verità: « Chi segue me... avrà la luce
della vita » (Gv 8, 12).
Altre
volte Gesù parla di « vita eterna », dove l'aggettivo non
richiama soltanto una prospettiva sovratemporale. « Eterna »
è la vita che Gesù promette e dona, perché è pienezza di
partecipazione alla vita dell' « Eterno ». Chiunque crede in
Gesù ed entra in comunione con lui ha la vita eterna (cf. Gv
3, 15; 6, 40), perché da lui ascolta le uniche parole che
rivelano e infondono pienezza di vita alla sua esistenza; sono
le « parole di vita eterna » che Pietro riconosce nella sua
confessione di fede: « Signore, da chi andremo? Tu hai parole
di vita eterna; noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il
Santo di Dio » (Gv 6, 68-69). In che cosa consista poi
la vita eterna, lo dichiara Gesù stesso rivolgendosi al Padre
nella grande preghiera sacerdotale: « Questa è la vita
eterna: che conoscano te, l'unico vero Dio, e colui che hai
mandato, Gesù Cristo » (Gv 17, 3). Conoscere Dio e il
suo Figlio è accogliere il mistero della comunione d'amore
del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo nella propria
vita, che si apre già fin d'ora alla vita eterna nella
partecipazione alla vita divina.
38.
La vita eterna è, dunque, la vita stessa di Dio ed insieme la
vita dei figli di Dio. Stupore sempre nuovo e
gratitudine senza limiti non possono non prendere il credente
di fronte a questa inattesa e ineffabile verità che ci viene
da Dio in Cristo. Il credente fa sue le parole dell'apostolo
Giovanni: « Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere
chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!... Carissimi, noi
fin d'ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato
ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà
manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così
come egli è » (1 Gv 3, 1-2).
Così
giunge al suo culmine la verità cristiana sulla vita. La
dignità di questa non è legata solo alle sue origini, al suo
venire da Dio, ma anche al suo fine, al suo destino di
comunione con Dio nella conoscenza e nell'amore di Lui. È
alla luce di questa verità che sant'Ireneo precisa e completa
la sua esaltazione dell'uomo: « gloria di Dio » è, sì, «
l'uomo che vive », ma « la vita dell'uomo consiste nella
visione di Dio ».(27)
Nascono
da qui immediate conseguenze per la vita umana nella sua
stessa condizione terrena, nella quale è già
germogliata ed è in crescita la vita eterna. Se l'uomo ama
istintivamente la vita perché è un bene, tale amore trova
ulteriore motivazione e forza, nuova ampiezza e profondità
nelle dimensioni divine di questo bene. In simile prospettiva,
l'amore che ogni essere umano ha per la vita non si riduce
alla semplice ricerca di uno spazio in cui esprimere se stesso
ed entrare in relazione con gli altri, ma si sviluppa nella
gioiosa consapevolezza di poter fare della propria esistenza
il « luogo » della manifestazione di Dio, dell'incontro e
della comunione con Lui. La vita che Gesù ci dona non svaluta
la nostra esistenza nel tempo, ma la assume e la conduce al
suo ultimo destino: « Io sono la risurrezione e la vita...;
chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno » (Gv
11, 25.26).
«
Domanderò conto ... a ognuno di suo fratello » (Gn
9, 5): venerazione e amore per la vita di tutti
39.
La vita dell'uomo proviene da Dio, è suo dono, sua immagine e
impronta, partecipazione del suo soffio vitale. Di questa
vita, pertanto, Dio è l'unico signore: l'uomo non
può disporne. Dio stesso lo ribadisce a Noè dopo il diluvio:
« Domanderò conto della vita dell'uomo all'uomo, a ognuno di
suo fratello » (Gn 9, 5). E il testo biblico si
preoccupa di sottolineare come la sacralità della vita abbia
il suo fondamento in Dio e nella sua azione creatrice: «
Perché ad immagine di Dio Egli ha fatto l'uomo » (Gn 9,
6).
La
vita e la morte dell'uomo sono, dunque, nelle mani di Dio, in
suo potere: « Egli ha in mano l'anima di ogni vivente e il
soffio d'ogni carne umana », esclama Giobbe (12, 10). « Il
Signore fa morire e fa vivere, scendere agli inferi e risalire
» (1 Sam 2, 6). Egli solo può dire: « Sono io che do
la morte e faccio vivere » (Dt 32, 39).
Ma
questo potere Dio non lo esercita come arbitrio minaccioso,
bensì come cura e sollecitudine amorosa nei riguardi delle
sue creature. Se è vero che la vita dell'uomo è nelle
mani di Dio, non è men vero che queste sono mani amorevoli
come quelle di una madre che accoglie, nutre e si prende cura
del suo bambino: « Io sono tranquillo e sereno come bimbo
svezzato in braccio a sua madre, come un bimbo svezzato è
l'anima mia » (Sal 131/130, 2; cf. Is 49, 15;
66, 12-13; Os 11, 4). Così nelle vicende dei popoli e
nella sorte degli individui Israele non vede il frutto di una
pura casualità o di un destino cieco, ma l'esito di un
disegno d'amore con il quale Dio raccoglie tutte le
potenzialità di vita e contrasta le forze di morte, che
nascono dal peccato: « Dio non ha creato la morte e non gode
per la rovina dei viventi. Egli infatti ha creato tutto per
l'esistenza » (Sap 1, 13-14).
40.
Dalla sacralità della vita scaturisce la sua inviolabilità,
inscritta fin dalle origini nel cuore dell'uomo, nella sua
coscienza. La domanda « Che hai fatto? » (Gn 4, 10),
con cui Dio si rivolge a Caino dopo che questi ha ucciso il
fratello Abele, traduce l'esperienza di ogni uomo: nel
profondo della sua coscienza, egli viene sempre richiamato
alla inviolabilità della vita — della sua vita e di quella
degli altri —, come realtà che non gli appartiene, perché
proprietà e dono di Dio Creatore e Padre.
Il
comandamento relativo all'inviolabilità della vita umana
risuona al centro delle « dieci parole » nell'Alleanza
del Sinai (cf. Es 34, 28). Esso proibisce,
anzitutto, l'omicidio: « Non uccidere » (Es 20, 13);
« Non far morire l'innocente e il giusto » (Es 23,
7); ma proibisce anche — come viene esplicitato
nell'ulteriore legislazione di Israele — ogni lesione
inflitta all'altro (cf. Es 21, 12-27). Certo, bisogna
riconoscere che nell'Antico Testamento questa sensibilità per
il valore della vita, pur già così marcata, non raggiunge
ancora la finezza del Discorso della Montagna, come emerge da
alcuni aspetti della legislazione allora vigente, che
prevedeva pene corporali non lievi e persino la pena di morte.
Ma il messaggio complessivo, che spetterà al Nuovo Testamento
di portare alla perfezione, è un forte appello al rispetto
dell'inviolabilità della vita fisica e dell'integrità
personale, ed ha il suo vertice nel comandamento positivo che
obbliga a farsi carico del prossimo come di se stessi: «
Amerai il tuo prossimo come te stesso » (Lv 19, 18).
41.
Il comandamento del « non uccidere », incluso e approfondito
in quello positivo dell'amore del prossimo, viene ribadito
in tutta la sua validità dal Signore Gesù. Al giovane
ricco che gli chiede: « Maestro, che cosa devo fare di buono
per ottenere la vita eterna? », risponde: « Se vuoi entrare
nella vita, osserva i comandamenti » (Mt 19, 16.17). E
cita, come primo, il « non uccidere » (v. 18). Nel Discorso
della Montagna, Gesù esige dai discepoli una giustizia
superiore a quella degli scribi e dei farisei anche nel
campo del rispetto della vita: « Avete inteso che fu detto
agli antichi: Non uccidere; chi avrà ucciso sarà sottoposto
a giudizio. Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio
fratello, sarà sottoposto a giudizio » (Mt 5, 21-22).
Con
la sua parola e i suoi gesti Gesù esplicita ulteriormente le
esigenze positive del comandamento circa l'inviolabilità
della vita. Esse erano già presenti nell'Antico Testamento,
dove la legislazione si preoccupava di garantire e
salvaguardare le situazioni di vita debole e minacciata: il
forestiero, la vedova, l'orfano, il malato, il povero in
genere, la stessa vita prima della nascita (cf. Es 21,
22; 22, 20-26). Con Gesù queste esigenze positive acquistano
vigore e slancio nuovi e si manifestano in tutta la loro
ampiezza e profondità: vanno dal prendersi cura della vita
del fratello (familiare, appartenente allo stesso
popolo, straniero che abita nella terra di Israele), al farsi
carico dell'estraneo, fino all'amare il nemico.
L'estraneo
non è più tale per chi deve farsi prossimo di
chiunque è nel bisogno fino ad assumersi la responsabilità
della sua vita, come insegna in modo eloquente e incisivo la
parabola del buon samaritano (cf. Lc 10, 25-37). Anche
il nemico cessa di essere tale per chi è tenuto ad amarlo (cf.
Mt 5, 38-48; Lc 6, 27-35) e a « fargli del bene
» (cf. Lc 6, 27.33.35), venendo incontro alle necessità
della sua vita con prontezza e senso di gratuità (cf. Lc 6,
34-35). Vertice di questo amore è la preghiera per il nemico,
mediante la quale ci si pone in sintonia con l'amore
provvidente di Dio: « Ma io vi dico: amate i vostri nemici e
pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del
Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i
malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra
gli ingiusti » (Mt 5, 44-45; cf. Lc 6, 28.35).
Così
il comandamento di Dio a salvaguardia della vita dell'uomo ha
il suo aspetto più profondo nell'esigenza di venerazione e
di amore nei confronti di ogni persona e della sua vita.
È questo l'insegnamento che l'apostolo Paolo, facendo eco
alla parola di Gesù (cf. Mt 19, 17-18), rivolge ai
cristiani di Roma: « Il precetto: Non commettere adulterio,
non uccidere, non rubare, non desiderare e qualsiasi altro
comandamento, si riassume in queste parole: Amerai il
prossimo tuo come te stesso. L'amore non fa nessun male al
prossimo: pieno compimento della legge è l'amore » (Rm 13,
9-10).
«
Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra;
soggiogatela » (Gn
1, 28): le responsabilità dell'uomo verso la vita
42.
Difendere e promuovere, venerare e amare la vita è un compito
che Dio affida a ogni uomo, chiamandolo, come sua palpitante
immagine, a partecipare alla signoria che Egli ha sul mondo:
« Dio li benedisse e disse loro: "Siate fecondi e
moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui
pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere
vivente, che striscia sulla terra" » (Gn 1, 28).
Il
testo biblico mette in luce l'ampiezza e la profondità della
signoria che Dio dona all'uomo. Si tratta, anzitutto, del dominio
sulla terra e su ogni essere vivente, come ricorda il
libro della Sapienza: « Dio dei padri e Signore di
misericordia... con la tua sapienza hai formato l'uomo, perché
domini sulle creature che tu hai fatto, e governi il mondo con
santità e giustizia » (9, 1.2-3). Anche il Salmista esalta
il dominio dell'uomo come segno della gloria e dell'onore
ricevuti dal Creatore: « Gli hai dato potere sulle opere
delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi; tutti i
greggi e gli armenti, tutte le bestie della campagna; gli
uccelli del cielo e i pesci del mare, che percorrono le vie
del mare » (Sal 8, 7-9).
Chiamato
a coltivare e custodire il giardino del mondo (cf. Gn
2, 15), l'uomo ha una specifica responsabilità sull'ambiente
di vita, ossia sul creato che Dio ha posto al servizio
della sua dignità personale, della sua vita: in rapporto non
solo al presente, ma anche alle generazioni future. È la questione
ecologica — dalla preservazione degli « habitat »
naturali delle diverse specie animali e delle varie forme di
vita, alla « ecologia umana » propriamente detta (28) —
che trova nella pagina biblica una luminosa e forte
indicazione etica per una soluzione rispettosa del grande bene
della vita, di ogni vita. In realtà, « il dominio accordato
dal Creatore all'uomo non è un potere assoluto, né si può
parlare di libertà di "usare e abusare", o di
disporre delle cose come meglio aggrada. La limitazione
imposta dallo stesso Creatore fin dal principio, ed espressa
simbolicamente con la proibizione di "mangiare il frutto
dell'albero" (cf. Gn 2, 16-17), mostra con
sufficiente chiarezza che, nei confronti della natura
visibile, siamo sottomessi a leggi non solo biologiche, ma
anche morali, che non si possono impunemente trasgredire ».(29)
43.
Una certa partecipazione dell'uomo alla signoria di Dio si
manifesta anche nella specifica responsabilità che gli
viene affidata nei confronti della vita propriamente umana.
È responsabilità che tocca il suo vertice nella
donazione della vita mediante la generazione da parte
dell'uomo e della donna nel matrimonio, come ci ricorda il
Concilio Vaticano II: « Lo stesso Dio che disse: "non è
bene che l'uomo sia solo" (Gn 2, 18) e che
"creò all'inizio l'uomo maschio e femmina" (Mt 19,
4), volendo comunicare all'uomo una certa speciale
partecipazione nella sua opera creatrice, benedisse l'uomo e
la donna, dicendo loro: "crescete e moltiplicatevi"
(Gn 1, 28) ».(30)
Parlando
di « una certa speciale partecipazione » dell'uomo e della
donna all'« opera creatrice » di Dio, il Concilio intende
rilevare come la generazione del figlio sia un evento
profondamente umano e altamente religioso, in quanto coinvolge
i coniugi che formano « una sola carne » (Gn 2, 24)
ed insieme Dio stesso che si fa presente. Come ho scritto
nella Lettera alle Famiglie, « quando dall'unione
coniugale dei due nasce un nuovo uomo, questi porta con sé al
mondo una particolare immagine e somiglianza di Dio stesso: nella
biologia della generazione è inscritta la genealogia della
persona. Affermando che i coniugi, come genitori, sono
collaboratori di Dio Creatore nel concepimento e nella
generazione di un nuovo essere umano non ci riferiamo solo
alle leggi della biologia; intendiamo sottolineare piuttosto
che nella paternità e maternità umane Dio stesso è
presente in modo diverso da come avviene in ogni altra
generazione "sulla terra". Infatti soltanto da Dio
può provenire quella "immagine e somiglianza" che
è propria dell'essere umano, così come è avvenuto nella
creazione. La generazione è la continuazione della creazione
».(31)
È
quanto insegna, con linguaggio immediato ed eloquente, il
testo sacro riportando il grido gioioso della prima donna, «
la madre di tutti i viventi » (Gn 3, 20). Consapevole
dell'intervento di Dio, Eva esclama: « Ho acquistato un uomo
dal Signore » (Gn 4, 1). Nella generazione dunque,
mediante la comunicazione della vita dai genitori al figlio,
si trasmette, grazie alla creazione dell'anima immortale,(32)
l'immagine e la somiglianza di Dio stesso. In questo senso si
esprime l'inizio del « libro della genealogia di Adamo »: «
Quando Dio creò l'uomo, lo fece a somiglianza di Dio; maschio
e femmina li creò, li benedisse e li chiamò uomini quando
furono creati. Adamo aveva centotrenta anni quando generò a
sua immagine, a sua somiglianza, un figlio e lo chiamò Set »
(Gn 5, 1-3). Proprio in questo loro ruolo di
collaboratori di Dio, che trasmette la sua immagine alla
nuova creatura, sta la grandezza dei coniugi disposti « a
cooperare con l'amore del Creatore e del Salvatore, che
attraverso di loro continuamente dilata e arricchisce la Sua
famiglia ».(33) In questa luce il Vescovo Anfilochio esaltava
il « matrimonio santo, eletto ed elevato al di sopra di tutti
i doni terreni » come « generatore dell'umanità, artefice
di immagini di Dio ».(34)
Così
l'uomo e la donna uniti in matrimonio sono associati ad
un'opera divina: mediante l'atto della generazione, il dono di
Dio viene accolto e una nuova vita si apre al futuro.
Ma,
al di là della missione specifica dei genitori, il compito
di accogliere e servire la vita riguarda tutti e deve
manifestarsi soprattutto verso la vita nelle condizioni di
maggior debolezza. È Cristo stesso che ce lo ricorda,
chiedendo di essere amato e servito nei fratelli provati da
qualsiasi tipo di sofferenza: affamati, assetati, forestieri,
nudi, malati, carcerati... Quanto è fatto a ciascuno di loro
è fatto a Cristo stesso (cf. Mt 25, 31-46).
«
Sei tu che hai creato le mie viscere » (Sal
139/138, 13): la dignità del bambino non ancora nato
44.
La vita umana viene a trovarsi in situazione di grande
precarietà quando entra nel mondo e quando esce dal tempo per
approdare all'eternità. Sono ben presenti nella Parola di Dio
— soprattutto nei riguardi dell'esistenza insidiata dalla
malattia e dalla vecchiaia — gli inviti alla cura e al
rispetto. Se mancano inviti diretti ed espliciti a
salvaguardare la vita umana alle sue origini, in specie la
vita non ancora nata, come anche quella vicina alla sua fine,
ciò si spiega facilmente per il fatto che anche la sola
possibilità di offendere, aggredire o addirittura negare la
vita in queste condizioni esula dall'orizzonte religioso e
culturale del popolo di Dio.
Nell'Antico
Testamento la sterilità è temuta come una maledizione,
mentre la prole numerosa è sentita come una benedizione: «
Dono del Signore sono i figli, è sua grazia il frutto del
grembo » (Sal 127/126, 3; cf. Sal 128/127,
3-4). Gioca in questa convinzione anche la consapevolezza di
Israele di essere il popolo dell'Alleanza, chiamato a
moltiplicarsi secondo la promessa fatta ad Abramo: « Guarda
il cielo e conta le stelle, se riesci a contarle... tale sarà
la tua discendenza » (Gn 15, 5). Ma è soprattutto
operante la certezza che la vita trasmessa dai genitori ha la
sua origine in Dio, come attestano le tante pagine bibliche
che con rispetto e amore parlano del concepimento, del
plasmarsi della vita nel grembo materno, della nascita e dello
stretto legame che v'è tra il momento iniziale dell'esistenza
e l'agire di Dio Creatore.
«
Prima di formarti nel grembo materno, ti conoscevo, prima che
tu uscissi alla luce, ti avevo consacrato » (Ger 1,
5):l'esistenza di ogni individuo, fin dalle sue origini, è
nel disegno di Dio. Giobbe, dal fondo del suo dolore, si
ferma a contemplare l'opera di Dio nel miracoloso formarsi del
suo corpo nel grembo della madre, traendone motivo di fiducia
ed esprimendo la certezza dell'esistenza di un progetto divino
sulla sua vita: « Le tue mani mi hanno plasmato e mi hanno
fatto integro in ogni parte; vorresti ora distruggermi?
Ricordati che come argilla mi hai plasmato e in polvere mi
farai tornare. Non m'hai colato forse come latte e fatto
accagliare come cacio? Di pelle e di carne mi hai rivestito,
d'ossa e di nervi mi hai intessuto. Vita e benevolenza tu mi
hai concesso e la tua premura ha custodito il mio spirito »
(10, 8-12). Accenti di adorante stupore per l'intervento di
Dio sulla vita in formazione nel grembo materno risuonano
anche nei Salmi.(35)
Come
pensare che anche un solo momento di questo meraviglioso
processo dello sgorgare della vita possa essere sottratto
all'opera sapiente e amorosa del Creatore e lasciato in balìa
dell'arbitrio dell'uomo? Non lo pensa certo la madre dei sette
fratelli, che professa la sua fede in Dio, principio e
garanzia della vita fin dal suo concepimento, e al tempo
stesso fondamento della speranza della nuova vita oltre la
morte: « Non so come siate apparsi nel mio seno; non io vi ho
dato lo spirito e la vita, né io ho dato forma alle membra di
ciascuno di voi. Senza dubbio il Creatore del mondo, che ha
plasmato all'origine l'uomo e ha provveduto alla generazione
di tutti, per la sua misericordia vi restituirà di nuovo lo
spirito e la vita, come voi ora per le sue leggi non vi curate
di voi stessi » (2 Mac 7, 22-23).
45.
La rivelazione del Nuovo Testamento conferma l'indiscusso
riconoscimento del valore della vita fin dai suoi inizi.
L'esaltazione della fecondità e l'attesa premurosa della vita
risuonano nelle parole con cui Elisabetta gioisce per la sua
gravidanza: « Il Signore... si è degnato di togliere la mia
vergogna » (Lc 1, 25). Ma ancor più il valore della
persona fin dal suo concepimento è celebrato nell'incontro
tra la Vergine Maria ed Elisabetta, e tra i due fanciulli che
esse portano in grembo. Sono proprio loro, i bambini, a
rivelare l'avvento dell'era messianica: nel loro incontro
inizia ad operare la forza redentrice della presenza del
Figlio di Dio tra gli uomini. « Subito — scrive sant'Ambrogio
— si fanno sentire i benefici della venuta di Maria e della
presenza del Signore... Elisabetta udì per prima la voce, ma
Giovanni percepì per primo la grazia; essa udì secondo
l'ordine della natura, egli esultò in virtù del mistero;
essa sentì l'arrivo di Maria, egli del Signore; la donna
l'arrivo della donna, il bambino l'arrivo del Bambino. Esse
parlano delle grazie ricevute, essi nel seno delle loro madri
realizzano la grazia e il mistero della misericordia a
profitto delle madri stesse: e queste per un duplice miracolo
profetizzano sotto l'ispirazione dei figli che portano. Del
figlio si dice che esultò, della madre che fu ricolma di
Spirito Santo. Non fu prima la madre a essere ricolma dello
Spirito, ma fu il figlio, ripieno di Spirito Santo, a
ricolmare anche la madre ».(36)
«
Ho creduto anche quando dicevo: "Sono troppo
infelice" » (Sal
116/115, 10): la vita nella vecchiaia e nella sofferenza
46.
Anche per quanto riguarda gli ultimi istanti dell'esistenza,
sarebbe anacronistico attendersi dalla rivelazione biblica un
espresso riferimento all'attuale problematica del rispetto
delle persone anziane e malate e un'esplicita condanna dei
tentativi di anticiparne violentemente la fine: siamo infatti
in un contesto culturale e religioso che non è intaccato da
simile tentazione, e che anzi, per quanto riguarda l'anziano,
riconosce nella sua saggezza ed esperienza una insostituibile
ricchezza per la famiglia e la società.
La
vecchiaia è segnata da prestigio e circondata da venerazione
(cf. 2 Mac 6, 23). E il giusto non chiede di essere
privato della vecchiaia e del suo peso; al contrario così
egli prega: « Sei tu, Signore, la mia speranza, la mia
fiducia fin dalla mia giovinezza... E ora, nella vecchiaia e
nella canizie, Dio, non abbandonarmi, finché io annunzi la
tua potenza, a tutte le generazioni le tue meraviglie » (Sal
71/70, 5.18). L'ideale del tempo messianico è proposto
come quello in cui « non ci sarà più... un vecchio che non
giunga alla pienezza dei suoi giorni » (Is 65, 20).
Ma,
nella vecchiaia, come affrontare il declino inevitabile della
vita? Come atteggiarsi di fronte alla morte? Il credente sa
che la sua vita sta nelle mani di Dio: « Signore, nelle
tue mani è la mia vita » (cf. Sal 16/15, 5), e da lui
accetta anche il morire: « Questo è il decreto del Signore
per ogni uomo; perché ribellarsi al volere dell'Altissimo? »
(Sir 41, 4). Come della vita, così della morte l'uomo
non è padrone; nella sua vita come nella sua morte, egli deve
affidarsi totalmente al « volere dell'Altissimo », al suo
disegno di amore.
Anche
nel momento della malattia, l'uomo è chiamato a vivere
lo stesso affidamento al Signore e a rinnovare la sua
fondamentale fiducia in lui che « guarisce tutte le malattie
» (cf. Sal 103/102, 3). Quando ogni orizzonte di
salute sembra chiudersi di fronte all'uomo — tanto da
indurlo a gridare: « I miei giorni sono come ombra che
declina, e io come erba inaridisco » (Sal 102/101, 12)
—, anche allora il credente è animato dalla fede
incrollabile nella potenza vivificante di Dio. La malattia non
lo spinge alla disperazione e alla ricerca della morte, ma
all'invocazione piena di speranza: « Ho creduto anche quando
dicevo: "Sono troppo infelice" (Sal 116/115,
10); « Signore Dio mio, a te ho gridato e mi hai guarito.
Signore, mi hai fatto risalire dagli inferi, mi hai dato vita
perché non scendessi nella tomba » (Sal 30/29, 3-4).
47.
La missione di Gesù, con le numerose guarigioni operate,
indica quanto Dio abbia a cuore anche la vita corporale
dell'uomo. « Medico della carne e dello spirito »,(37)
Gesù è mandato dal Padre ad annunciare la buona novella ai
poveri e a sanare i cuori affranti (cf. Lc 4, 18; Is
61, 1). Inviando poi i suoi discepoli nel mondo, egli
affida loro una missione, nella quale la guarigione dei malati
si accompagna all'annuncio del Vangelo: « E strada facendo,
predicate che il regno dei cieli è vicino. Guarite gli
infermi, risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i
demoni » (Mt 10, 7-8; cf. Mc 6, 13; 16, 18).
Certo,
la vita del corpo nella sua condizione terrena non è un
assoluto per il credente, tanto che gli può essere
richiesto di abbandonarla per un bene superiore; come dice Gesù,
« chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi
perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la
salverà » (Mc 8, 35). Diverse sono, a questo
proposito, le testimonianze del Nuovo Testamento. Gesù non
esita a sacrificare sé stesso e, liberamente, fa della sua
vita una offerta al Padre (cf. Gv 10, 17) e ai suoi (cf.
Gv 10, 15). Anche la morte di Giovanni il Battista,
precursore del Salvatore, attesta che l'esistenza terrena non
è il bene assoluto: è più importante la fedeltà alla
parola del Signore anche se essa può mettere in gioco la vita
(cf. Mc 6, 17-29). E Stefano, mentre viene privato
della vita nel tempo, perché testimone fedele della
risurrezione del Signore, segue le orme del Maestro e va
incontro ai suoi lapidatori con le parole del perdono (cf. At
7, 59-60), aprendo la strada all'innumerevole schiera di
martiri, venerati dalla Chiesa fin dall'inizio.
Nessun
uomo, tuttavia, può scegliere arbitrariamente di vivere o di
morire; di tale scelta, infatti, è padrone assoluto soltanto
il Creatore, colui nel quale « viviamo, ci muoviamo ed
esistiamo » (At 17, 28).
«
Quanti si attengono ad essa avranno la vita » (Bar
4, 1): dalla Legge del Sinai al dono dello Spirito
48.
La vita porta indelebilmente inscritta in sé una sua verità.
L'uomo, accogliendo il dono di Dio, deve impegnarsi amantenere
la vita in questa verità, che le è essenziale.
Distaccarsene equivale a condannare se stessi
all'insignificanza e all'infelicità, con la conseguenza di
poter diventare anche una minaccia per l'esistenza altrui,
essendo stati rotti gli argini che garantiscono il rispetto e
la difesa della vita, in ogni situazione.
La
verità della vita è rivelata dal comandamento di Dio. La
parola del Signore indica concretamente quale indirizzo la
vita debba seguire per poter rispettare la propria verità e
salvaguardare la propria dignità. Non è soltanto lo
specifico comandamento « non uccidere » (Es 20, 13; Dt
5, 17) ad assicurare la protezione della vita: tutta
intera la Legge del Signore è a servizio di tale
protezione, perché rivela quella verità nella quale la vita
trova il suo pieno significato.
Non
meraviglia, dunque, che l'Alleanza di Dio con il suo popolo
sia così fortemente legata alla prospettiva della vita, anche
nella sua dimensione corporea. Il comandamento è in
essa offerto come via della vita: « Io pongo oggi
davanti a te la vita e il bene, la morte e il male; poiché io
oggi ti comando di amare il Signore tuo Dio, di camminare per
le sue vie, di osservare i suoi comandi, le sue leggi e le sue
norme, perché tu viva e ti moltiplichi e il Signore tuo Dio
ti benedica nel paese che tu stai per entrare a prendere in
possesso » (Dt 30, 15-16). È in questione non
soltanto la terra di Canaan e l'esistenza del popolo di
Israele, ma il mondo di oggi e del futuro e l'esistenza di
tutta l'umanità. Infatti, non è assolutamente possibile che
la vita resti autentica e piena distaccandosi dal bene; e il
bene, a sua volta, è essenzialmente legato ai comandamenti
del Signore, cioè alla « legge della vita » (Sir 17,
9). Il bene da compiere non si sovrappone alla vita come un
peso che grava su di essa, perché la ragione stessa della
vita è precisamente il bene e la vita è costruita solo
mediante il compimento del bene.
È
dunque il complesso della Legge a salvaguardare
pienamente la vita dell'uomo. Ciò spiega come sia difficile
mantenersi fedeli al « non uccidere » quando non vengono
osservate le altre « parole di vita » (At 7, 38),
alle quali questo comandamento è connesso. Al di fuori di
questo orizzonte, il comandamento finisce per diventare un
semplice obbligo estrinseco, di cui ben presto si vorranno
vedere i limiti e si cercheranno le attenuazioni o le
eccezioni. Solo se ci si apre alla pienezza della verità su
Dio, sull'uomo e sulla storia, la parola « non uccidere »
torna a risplendere come bene per l'uomo in tutte le sue
dimensioni e relazioni. In questa prospettiva possiamo
cogliere la pienezza di verità contenuta nel passo del libro
del Deuteronomio, ripreso da Gesù nella risposta alla prima
tentazione: « L'uomo non vive soltanto di pane, ma... di
quanto esce dalla bocca del Signore » (8, 3; cf. Mt 4,
4). È ascoltando la parola del Signore che l'uomo può vivere
secondo dignità e giustizia; è osservando la Legge di Dio
che l'uomo può portare frutti di vita e di felicità: «
quanti si attengono ad essa avranno la vita, quanti
l'abbandonano moriranno » (Bar 4, 1).
49.
La storia di Israele mostra quanto sia difficile mantenere
la fedeltà alla legge della vita, che Dio ha inscritto
nel cuore degli uomini e ha consegnato sul Sinai al popolo
dell'Alleanza. Di fronte alla ricerca di progetti di vita
alternativi al piano di Dio, sono in particolare i Profeti a
richiamare con forza che solo il Signore è l'autentica fonte
della vita. Così Geremia scrive: « Il mio popolo ha commesso
due iniquità: essi hanno abbandonato me, sorgente di acqua
viva, per scavarsi cisterne, cisterne screpolate, che non
tengono l'acqua » (2, 13). I Profeti puntano il dito
accusatore su quanti disprezzano la vita e violano i diritti
delle persone: « Calpestano come la polvere della terra la
testa dei poveri » (Am 2, 7); « Essi hanno riempito
questo luogo di sangue innocente » (Ger 19, 4). E tra
essi il profeta Ezechiele più volte stigmatizza la città di
Gerusalemme, chiamandola « la città sanguinaria » (22, 2;
24, 6.9), la « città che sparge il sangue in mezzo a se
stessa » (22, 3).
Ma
mentre denunciano le offese alla vita, i Profeti si
preoccupano soprattutto di suscitare l'attesa di un nuovo
principio di vita, capace di fondare un rinnovato rapporto
con Dio e con i fratelli, dischiudendo possibilità inedite e
straordinarie per comprendere e attuare tutte le esigenze
insite nel Vangelo della vita . Ciò sarà possibile
unicamente grazie al dono di Dio, che purifica e rinnova: «
Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati; io vi
purificherò da tutte le vostre sozzure e da tutti i vostri
idoli; vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno
spirito nuovo » (Ez 36, 25-26; cf. Ger 31,
31-34). Grazie a questo « cuore nuovo » si può comprendere
e realizzare il senso più vero e profondo della vita: quello
di essere un dono che si compie nel donarsi. È il
messaggio luminoso che sul valore della vita ci viene dalla
figura del Servo del Signore: « Quan- do offrirà se stesso
in espiazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo... Dopo
il suo intimo tormento vedrà la luce » (Is 53,
10.11).
È
nella vicenda di Gesù di Nazaret che la Legge si compie e il
cuore nuovo viene donato mediante il suo Spirito. Gesù,
infatti, non rinnega la Legge, ma la porta a compimento (cf. Mt
5, 17): Legge e Profeti si riassumono nella regola d'oro
dell'amore reciproco (cf. Mt 7, 12). In Lui la Legge
diventa definitivamente « vangelo », buona notizia della
signoria di Dio sul mondo, che riporta tutta l'esistenza alle
sue radici e alle sue prospettive originarie. È la Legge
Nuova, « la legge dello Spirito che dà vita in Cristo
Gesù » (Rm 8, 2), la cui espressione fondamentale, a
imitazione del Signore che dà la vita per i propri amici (cf.
Gv 15, 13), è il dono di sé nell'amore ai fratelli: «
Noi sappiamo di essere passati dalla morte alla vita, perché
amiamo i fratelli » (1 Gv 3, 14). È legge di libertà,
di gioia e di beatitudine.
«
Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto » (Gv
19, 37): sull'albero della Croce si compie il Vangelo
della vita
50.
Al termine di questo capitolo, nel quale abbiamo meditato il
messaggio cristiano sulla vita, vorrei fermarmi con ciascuno
di voi a contemplare Colui che hanno trafitto e che
attira tutti a sé (cf. Gv 19, 37; 12, 32). Guardando
« lo spettacolo » della Croce (cf. Lc 23, 48),
potremo scoprire in questo albero glorioso il compimento e la
rivelazione piena di tutto il Vangelo della vita.
Nelle
prime ore del pomeriggio del venerdì santo, « il sole si
eclissò e si fece buio su tutta la terra... Il velo del
tempio si squarciò nel mezzo » (Lc 23, 44.45). È il
simbolo di un grande sconvolgimento cosmico e di una immane
lotta tra le forze del bene e le forze del male, tra la vita e
la morte. Noi pure, oggi, ci troviamo nel mezzo di una lotta
drammatica tra la « cultura della morte » e la « cultura
della vita ». Ma da questa oscurità lo splendore della Croce
non viene sommerso; essa, anzi, si staglia ancora più nitida
e luminosa e si rivela come il centro, il senso e il fine di
tutta la storia e di ogni vita umana.
Gesù
è inchiodato sulla Croce e viene innalzato da terra. Vive il
momento della sua massima « impotenza » e la sua vita sembra
totalmente consegnata agli scherni dei suoi avversari e alle
mani dei suoi uccisori: viene beffeggiato, deriso, oltraggiato
(cf. Mc 15, 24-36). Eppure, proprio di fronte a tutto
ciò e « vistolo spirare in quel modo », il centurione
romano esclama: « Veramente quest'uomo era Figlio di Dio! »
(Mc 15, 39). Si rivela così, nel momento della sua
estrema debolezza, l'identità del Figlio di Dio: sulla
Croce si manifesta la sua gloria!
Con
la sua morte, Gesù illumina il senso della vita e della morte
di ogni essere umano. Prima di morire, Gesù prega il Padre
invocando il perdono per i suoi persecutori (cf. Lc 23,
34) e al malfattore, che gli chiede di ricordarsi di lui nel
suo regno, risponde: « In verità ti dico, oggi sarai con me
nel paradiso » (Lc 23, 43). Dopo la sua morte « i
sepolcri si aprirono e molti corpi di santi morti
risuscitarono » (Mt 27, 52). La salvezza operata da
Gesù è donazione di vita e di risurrezione. Lungo la sua
esistenza, Gesù aveva donato salvezza anche sanando e
beneficando tutti (cf. At 10, 38). Ma i miracoli, le
guarigioni e le stesse risuscitazioni erano segno di un'altra
salvezza, consistente nel perdono dei peccati, ossia nella
liberazione dell'uomo dalla malattia più profonda, e nella
sua elevazione alla vita stessa di Dio.
Sulla
Croce si rinnova e si realizza nella sua piena e definitiva
perfezione il prodigio del serpente innalzato da Mosè nel
deserto (cf. Gv 3, 14-15; Nm 21, 8-9). Anche
oggi, volgendo lo sguardo a Colui che è stato trafitto, ogni
uomo minacciato nella sua esistenza incontra la sicura
speranza di trovare liberazione e redenzione.
51.
Ma c'è ancora un altro avvenimento preciso che attira il mio
sguardo e suscita la mia commossa meditazione: « Dopo aver
ricevuto l'aceto, Gesù disse: 'Tutto è compiuto!'. E,
chinato il capo, rese lo spirito » (Gv 19, 30). E il
soldato romano « gli colpì il costato con la lancia e subito
ne uscì sangue e acqua » (Gv 19, 34).
Tutto
ormai è giunto al suo pieno compimento. Il « rendere lo
spirito » descrive la morte di Gesù, simile a quella di ogni
altro essere umano, ma sembra alludere anche al « dono dello
Spirito », col quale Egli ci riscatta dalla morte e ci apre a
una vita nuova.
È
la vita stessa di Dio che viene partecipata all'uomo. È la
vita che, mediante i sacramenti della Chiesa — di cui il
sangue e l'acqua sgorgati dal fianco di Cristo sono simbolo
— viene continuamente comunicata ai figli di Dio, costituiti
così come popolo della Nuova Alleanza. Dalla Croce, fonte
di vita, nasce e si diffonde il « popolo della vita ».
La
contemplazione della Croce ci porta così alle radici più
profonde di quanto è accaduto. Gesù, che entrando nel mondo
aveva detto: « Ecco, io vengo per fare, o Dio, la tua volontà
» (cf.Eb 10, 9), si rese in tutto obbediente al Padre
e, avendo « amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino
alla fine » (Gv 13, 1), donando tutto se stesso per
loro.
Lui,
che non era « venuto per essere servito, ma per servire e
dare la propria vita in riscatto per molti » (Mc 10,
45), raggiunge sulla Croce il vertice dell'amore. « Nessuno
ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri
amici » (Gv 15, 13). Ed egli è morto per noi mentre
eravamo ancora peccatori (cf. Rm 5, 8).
In
tal modo egli proclama che la vita raggiunge il suo centro,
il suo senso e la sua pienezza quando viene donata.
La
meditazione a questo punto si fa lode e ringraziamento e,
nello stesso tempo, ci sollecita a imitare Gesù e a seguirne
le orme (cf. 1 Pt 2, 21).
Anche
noi siamo chiamati a dare la nostra vita per i fratelli
realizzando così in pienezza di verità il senso e il destino
della nostra esistenza.
Lo
potremo fare perché Tu, o Signore, ci hai donato l'esempio e
ci hai comunicato la forza del tuo Spirito. Lo potremo fare se
ogni giorno, con Te e come Te, saremo obbedienti al Padre e
faremo la sua volontà.
Concedici,
perciò, di ascoltare con cuore docile e generoso ogni parola
che esce dalla bocca di Dio: impareremo così non solo a «
non uccidere » la vita dell'uomo, ma a venerarla, amarla e
promuoverla.
CAPITOLO III
NON
UCCIDERE
LA LEGGE SANTA DI
DIO
«
Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti » (Mt
19, 17): Vangelo e comandamento
52.
« Ed ecco un tale gli si avvicinò e gli disse:
"Maestro, che cosa devo fare di buono per ottenere la
vita eterna?" » (Mt 19, 16). Gesù rispose: « Se
vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti » (Mt 19,
17). Il Maestro parla della vita eterna, ossia della
partecipazione alla vita stessa di Dio. A questa vita si
giunge attraverso l'osservanza dei comandamenti del Signore,
compreso dunque il comandamento « non uccidere ». Proprio
questo è il primo precetto del Decalogo che Gesù ricorda al
giovane che gli chiede quali comandamenti debba osservare: «
Gesù rispose: "Non uccidere, non commettere adulterio,
non rubare..." » (Mt 19, 18).
Il
comandamento di Dio non è mai separato dal suo amore: è
sempre un dono per la crescita e la gioia dell'uomo. Come
tale, costituisce un aspetto essenziale e un elemento
irrinunciabile del Vangelo, anzi esso stesso si configura come
« vangelo », ossia buona e lieta notizia. Anche il Vangelo
della vita è un grande dono di Dio e insieme un compito
impegnativo per l'uomo. Esso suscita stupore e gratitudine
nella persona libera e chiede di essere accolto, custodito e
valorizzato con vivo senso di responsabilità: donandogli la
vita, Dio esige dall'uomo che la ami, la rispetti e la
promuova. In tal modo il dono si fa comandamento, e il
comandamento è esso stesso un dono.
L'uomo,
immagine vivente di Dio, è voluto dal suo Creatore come re e
signore. « Dio ha fatto l'uomo — scrive san Gregorio di
Nissa — in modo tale che potesse svolgere la sua funzione di
re della terra... L'uomo è stato creato a immagine di Colui
che governa l'universo. Tutto dimostra che fin dal principio
la sua natura è contrassegnata dalla regalità... Anche
l'uomo è re. Creato per dominare il mondo, ha ricevuto la
somiglianza col re universale, è l'immagine viva che
partecipa con la sua dignità alla perfezione del divino
modello ».(38) Chiamato ad essere fecondo e a moltiplicarsi,
a soggiogare la terra e a dominare sugli esseri infraumani (cf.
Gn 1, 28), l'uomo è re e signore non solo delle cose,
ma anche ed anzitutto di se stesso (39) e, in un certo senso,
della vita che gli è donata e che egli puó trasmettere
mediante l'opera generatrice compiuta nell'amore e nel
rispetto del disegno di Dio. La sua, tuttavia, non è una
signoria assoluta, ma ministeriale; è riflesso
reale della signoria unica e infinita di Dio. Per questo
l'uomo deve viverla con sapienza e amore, partecipando
alla sapienza e all'amore incommensurabili di Dio. E ciò
avviene con l'obbedienza alla sua Legge santa: un'obbedienza
libera e gioiosa (cf. Sal 119/118), che nasce ed è
nutrita dalla consapevolezza che i precetti del Signore sono
dono di grazia affidati all'uomo sempre e solo per il suo
bene, per la custodia della sua dignità personale e per il
perseguimento della sua felicità.
Come
già di fronte alle cose, ancor più di fronte alla vita,
l'uomo non è padrone assoluto e arbitro insindacabile, ma —
e in questo sta la sua impareggiabile grandezza — è «
ministro del disegno di Dio ».(40)
La
vita viene affidata all'uomo come un tesoro da non disperdere,
come un talento da trafficare. Di essa l'uomo deve rendere
conto al suo Signore (cf. Mt 25, 14-30; Lc 19,
12-27).
«
Domanderò conto della vita dell'uomo all'uomo » (Gn
9, 5): la vita umana è sacra e inviolabile
53.
« La vita umana è sacra perché, fin dal suo inizio,
comporta "l'azione creatrice di Dio" e rimane per
sempre in una relazione speciale con il Creatore, suo unico
fine. Solo Dio è il Signore della vita dal suo inizio alla
sua fine: nessuno, in nessuna circostanza, può rivendicare a
sé il diritto di distruggere direttamente un essere umano
innocente ».(41) Con queste parole l'Istruzione Donum
vitae espone il contenuto centrale della rivelazione di
Dio sulla sacralità e inviolabilità della vita umana.
La
Sacra Scrittura, infatti, presenta all'uomo il precetto
« non uccidere » come comandamento divino (Es 20, 13;
Dt 5, 17). Esso — come ho già sottolineato — si
trova nel Decalogo, al cuore dell'Alleanza che il Signore
conclude con il popolo eletto; ma era già contenuto
nell'originaria alleanza di Dio con l'umanità dopo il castigo
purificatore del diluvio, provocato dal dilagare del peccato e
della violenza (cf. Gn 9, 5-6).
Dio
si proclama Signore assoluto della vita dell'uomo, plasmato a
sua immagine e somiglianza (cf. Gn 1, 26-28). La vita
umana presenta, pertanto, un carattere sacro ed inviolabile,
in cui si rispecchia l'inviolabilità stessa del Creatore.
Proprio per questo sarà Dio a farsi giudice severo di ogni
violazione del comandamento « non uccidere », posto alle
basi dell'intera convivenza sociale. Egli è il « goel »,
ossia il difensore dell'innocente (cf. Gn 4, 9-15; Is
41, 14; Ger 50, 34; Sal 19/18, 15). Anche in
questo modo Dio dimostra di non godere della rovina dei
viventi (cf. Sap 1, 13). Solo Satana ne può godere:
per la sua invidia la morte è entrata nel mondo (cf. Sap 2,
24). Egli, che è « omicida fin da principio », è anche «
menzognero e padre della menzogna » (Gv 8, 44):
ingannando l'uomo, lo conduce a traguardi di peccato e di
morte, presentati come mete e frutti di vita.
54.
Esplicitamente, il precetto « non uccidere » ha un forte
contenuto negativo: indica il confine estremo che non può mai
essere valicato. Implicitamente, però, esso spinge ad un
atteggiamento positivo di rispetto assoluto per la vita
portando a promuoverla e a progredire sulla via dell'amore che
si dona, accoglie e serve. Anche il popolo dell'Alleanza, pur
con lentezze e contraddizioni, ha conosciuto una maturazione
progressiva secondo questo orientamento, preparandosi così al
grande annuncio di Gesù: l'amore del prossimo è comandamento
simile a quello dell'amore di Dio; « da questi due
comandamenti dipende tutta la Legge e i Profeti » (cf. Mt 22,
36-40). « Il precetto... non uccidere... e qualsiasi altro
comandamento — sottolinea san Paolo — si riassume in
queste parole: "Amerai il prossimo tuo come te
stesso" » (Rm 13, 9; cf. Gal 5, 14).
Assunto e portato a compimento nella Legge Nuova, il precetto
« non uccidere » rimane come condizione irrinunciabile per
poter « entrare nella vita » (cf. Mt 19, 16-19). In
questa stessa prospettiva, risuona perentoria anche la parola
dell'apostolo Giovanni: « Chiun- que odia il proprio fratello
è omicida e voi sapete che nessun omicida possiede in se
stesso la vita eterna » (1 Gv 3, 15).
Sin
dai suoi inizi, la Tradizione viva della Chiesa —
come testimonia la Didachè, il più antico scritto
cristiano non biblico — ha riproposto in modo categorico il
comandamento « non uccidere »: « Vi sono due vie, una della
vita, e l'altra della morte; vi è una grande differenza fra
di esse... Secondo precetto della dottrina: Non ucciderai...
non farai perire il bambino con l'aborto né l'ucciderai dopo
che è nato... La via della morte è questa: ... non hanno
compassione per il povero, non soffrono con il sofferente, non
riconoscono il loro Creatore, uccidono i loro figli e con
l'aborto fanno perire creature di Dio; allontanano il
bisognoso, opprimono il tribolato, sono avvocati dei ricchi e
giudici ingiusti dei poveri; sono pieni di ogni peccato.
Possiate star sempre lontani, o figli, da tutte queste colpe!
».(42)
Procedendo
nel tempo, la stessa Tradizione della Chiesa ha sempre
unanimemente insegnato il valore assoluto e permanente del
comandamento « non uccidere ». È noto che, nei primi
secoli, l'omicidio veniva posto fra i tre peccati più gravi
— insieme all'apostasia e all'adulterio — e si esigeva una
penitenza pubblica particolarmente onerosa e lunga prima che
all'omicida pentito venissero concessi il perdono e la
riammissione nella comunione ecclesiale.
55.
La cosa non deve stupire: uccidere l'essere umano, nel quale
è presente l'immagine di Dio, è peccato di particolare
gravità. Solo Dio è padrone della vita! Da sempre,
tuttavia, di fronte ai molteplici e spesso drammatici casi che
la vita individuale e sociale presenta, la riflessione dei
credenti ha cercato di raggiungere un'intelligenza più
completa e profonda di quanto il comandamento di Dio proibisca
e prescriva.(43) Vi sono, infatti, situazioni in cui i valori
proposti dalla Legge di Dio appaiono sotto forma di un vero
paradosso. È il caso, ad esempio, della legittima difesa, in
cui il diritto a proteggere la propria vita e il dovere di non
ledere quella dell'altro risultano in concreto difficilmente
componibili. Indubbiamente, il valore intrinseco della vita e
il dovere di portare amore a se stessi non meno che agli altri
fondano un vero diritto alla propria difesa. Lo stesso
esigente precetto dell'amore per gli altri, enunciato
nell'Antico Testamento e confermato da Gesù, suppone l'amore
per se stessi quale termine di confronto: « Amerai il
prossimo tuo come te stesso » (Mc 12, 31). Al
diritto di difendersi, dunque, nessuno potrebbe rinunciare per
scarso amore alla vita o a se stesso, ma solo in forza di un
amore eroico, che approfondisce e trasfigura lo stesso amore
di sé, secondo lo spirito delle beatitudini evangeliche (cf. Mt
5, 38-48) nella radicalità oblativa di cui è esempio
sublime lo stesso Signore Gesù.
D'altra
parte, « la legittima difesa può essere non soltanto un
diritto, ma un grave dovere, per chi è responsabile della
vita di altri, del bene comune della famiglia o della comunità
civile ».(44) Accade purtroppo che la necessità di porre
l'aggressore in condizione di non nuocere comporti talvolta la
sua soppressione. In tale ipotesi, l'esito mortale va
attribuito allo stesso aggressore che vi si è esposto con la
sua azione, anche nel caso in cui egli non fosse moralmente
responsabile per mancanza dell'uso della ragione.(45)
56.
In questo orizzonte si colloca anche il problema della pena
di morte, su cui si registra, nella Chiesa come nella
società civile, una crescente tendenza che ne chiede
un'applicazione assai limitata ed anzi una totale abolizione.
Il problema va inquadrato nell'ottica di una giustizia penale
che sia sempre più conforme alla dignità dell'uomo e
pertanto, in ultima analisi, al disegno di Dio sull'uomo e
sulla società. In effetti, la pena che la società infligge
« ha come primo scopo di riparare al disordine introdotto
dalla colpa ».(46) La pubblica autorità deve farsi vindice
della violazione dei diritti personali e sociali mediante
l'imposizione al reo di una adeguata espiazione del crimine,
quale condizione per essere riammesso all'esercizio della
propria libertà. In tal modo l'autorità ottiene anche lo
scopo di difendere l'ordine pubblico e la sicurezza delle
persone, non senza offrire allo stesso reo uno stimolo e un
aiuto a correggersi e redimersi.(47)
È
chiaro che, proprio per conseguire tutte queste finalità, la
misura e la qualità della pena devono essere attentamente
valutate e decise, e non devono giungere alla misura estrema
della soppressione del reo se non in casi di assoluta necessità,
quando cioè la difesa della società non fosse possibile
altrimenti. Oggi, però, a seguito dell'organizzazione sempre
più adeguata dell'istituzione penale, questi casi sono ormai
molto rari, se non addirittura praticamente inesistenti.
In
ogni caso resta valido il principio indicato dal nuovo
Catechismo della Chiesa Cattolica, secondo cui « se i
mezzi incruenti sono sufficienti per difendere le vite umane
dall'aggressore e per proteggere l'ordine pubblico e la
sicurezza delle persone, l'autorità si limiterà a questi
mezzi, poiché essi sono meglio rispondenti alle condizioni
concrete del bene comune e sono più conformi alla dignità
della persona umana ».(48)
57.
Se così grande attenzione va posta al rispetto di ogni vita,
persino di quella del reo e dell'ingiusto aggressore, il
comandamento « non uccidere » ha valore assoluto quando si
riferisce alla persona innocente. E ciò tanto più se
si tratta di un essere umano debole e indifeso, che solo nella
forza assoluta del comandamento di Dio trova la sua radicale
difesa rispetto all'arbitrio e alla prepotenza altrui.
In
effetti, l'inviolabilità assoluta della vita umana innocente
è una verità morale esplicitamente insegnata nella Sacra
Scrittura, costantemente ritenuta nella Tradizione della
Chiesa e unanimemente proposta dal suo Magistero. Tale
unanimità è frutto evidente di quel « senso soprannaturale
della fede » che, suscitato e sorretto dallo Spirito Santo,
garantisce dall'errore il popolo di Dio, quando « esprime
l'universale suo consenso in materia di fede e di costumi ».(49)
Dinanzi
al progressivo attenuarsi nelle coscienze e nella società
della percezione dell'assoluta e grave illiceità morale della
diretta soppressione di ogni vita umana innocente,
specialmente al suo inizio e al suo termine, il Magistero
della Chiesa ha intensificato i suoi interventi a difesa
della sacralità e dell'inviolabilità della vita umana. Al
Magistero pontificio, particolarmente insistente, s'è sempre
unito quello episcopale, con numerosi e ampi documenti
dottrinali e pastorali, sia di Conferenze Episcopali, sia di
singoli Vescovi. Né è mancato, forte e incisivo nella sua
brevità, l'intervento del Concilio Vaticano II.(50)
Pertanto,
con l'autorità che Cristo ha conferito a Pietro e ai suoi
Successori, in comunione con i Vescovi della Chiesa cattolica,
confermo che l'uccisione diretta e volontaria di un essere
umano innocente è sempre gravemente immorale. Tale
dottrina, fondata in quella legge non scritta che ogni uomo,
alla luce della ragione, trova nel proprio cuore (cf. Rm 2,
14-15), è riaffermata dalla Sacra Scrittura, trasmessa dalla
Tradizione della Chiesa e insegnata dal Magistero ordinario e
universale.(51)
La
scelta deliberata di privare un essere umano innocente della
sua vita è sempre cattiva dal punto di vista morale e non può
mai essere lecita né come fine, né come mezzo per un fine
buono. È, infatti, grave disobbedienza alla legge morale,
anzi a Dio stesso, autore e garante di essa; contraddice le
fondamentali virtù della giustizia e della carità. « Niente
e nessuno può autorizzare l'uccisione di un essere umano
innocente, feto o embrione che sia, bambino o adulto, vecchio,
ammalato incurabile o agonizzante. Nessuno, inoltre, può
richiedere questo gesto omicida per se stesso o per un altro
affidato alla sua responsabilità, né può acconsentirvi
esplicitamente o implicitamente. Nessuna autorità può
legittimamente imporlo né permetterlo ».(52)
Nel
diritto alla vita, ogni essere umano innocente è
assolutamente uguale a tutti gli altri. Tale uguaglianza è la
base di ogni autentico rapporto sociale che, per essere
veramente tale, non può non fondarsi sulla verità e sulla
giustizia, riconoscendo e tutelando ogni uomo e ogni donna
come persona e non come una cosa di cui si possa disporre. Di
fronte alla norma morale che proibisce la soppressione diretta
di un essere umano innocente « non ci sono privilegi né
eccezioni per nessuno. Essere il padrone del mondo o
l'ultimo miserabile sulla faccia della terra non fa alcuna
differenza: davanti alle esigenze morali siamo tutti
assolutamente uguali ».(53)
«
Ancora informe mi hanno visto i tuoi occhi » (Sal
139/138, 16): il delitto abominevole dell'aborto
58.
Fra tutti i delitti che l'uomo può compiere contro la vita,
l'aborto procurato presenta caratteristiche che lo rendono
particolarmente grave e deprecabile. Il Concilio Vaticano II
lo definisce, insieme all'infanticidio, « delitto abominevole
».(54)
Ma
oggi, nella coscienza di molti, la percezione della sua gravità
è andata progressivamente oscurandosi. L'accettazione
dell'aborto nella mentalità, nel costume e nella stessa legge
è segno eloquente di una pericolosissima crisi del senso
morale, che diventa sempre più incapace di distinguere tra il
bene e il male, persino quando è in gioco il diritto
fondamentale alla vita. Di fronte a una così grave
situazione, occorre più che mai il coraggio di guardare in
faccia alla verità e di chiamare le cose con il loro nome,
senza cedere a compromessi di comodo o alla tentazione di
autoinganno. A tale proposito risuona categorico il rimprovero
del Profeta: « Guai a coloro che chiamano bene il male e male
il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre
» (Is 5, 20). Proprio nel caso dell'aborto si registra
la diffusione di una terminologia ambigua, come quella di «
interruzione della gravidanza », che tende a nasconderne la
vera natura e ad attenuarne la gravità nell'opinione
pubblica. Forse questo fenomeno linguistico è esso stesso
sintomo di un disagio delle coscienze. Ma nessuna parola vale
a cambiare la realtà delle cose: l'aborto procurato è
l'uccisione deliberata e diretta, comunque venga attuata, di
un essere umano nella fase iniziale della sua esistenza,
compresa tra il concepimento e la nascita.
La
gravità morale dell'aborto procurato appare in tutta la sua
verità se si riconosce che si tratta di un omicidio e, in
particolare, se si considerano le circostanze specifiche che
lo qualificano. Chi viene soppresso è un essere umano che si
affaccia alla vita, ossia quanto di più innocente in
assoluto si possa immaginare: mai potrebbe essere considerato
un aggressore, meno che mai un ingiusto aggressore! È debole,
inerme, al punto di essere privo anche di quella minima
forma di difesa che è costituita dalla forza implorante dei
gemiti e del pianto del neonato. È totalmente affidato alla
protezione e alle cure di colei che lo porta in grembo.
Eppure, talvolta, è proprio lei, la mamma, a deciderne e a
chiederne la soppressione e persino a procurarla.
È
vero che molte volte la scelta abortiva riveste per la madre
carattere drammatico e doloroso, in quanto la decisione di
disfarsi del frutto del concepimento non viene presa per
ragioni puramente egoistiche e di comodo, ma perché si
vorrebbero salvaguardare alcuni importanti beni, quali la
propria salute o un livello dignitoso di vita per gli altri
membri della famiglia. Talvolta si temono per il nascituro
condizioni di esistenza tali da far pensare che per lui
sarebbe meglio non nascere. Tuttavia, queste e altre simili
ragioni, per quanto gravi e drammatiche, non possono mai
giustificare la soppressione deliberata di un essere umano
innocente.
59.
A decidere della morte del bambino non ancora nato, accanto
alla madre, ci sono spesso altre persone. Anzitutto, può
essere colpevole il padre del bambino, non solo quando
espressamente spinge la donna all'aborto, ma anche quando
indirettamente favorisce tale sua decisione perché la lascia
sola di fronte ai problemi della gravidanza: (55) in tal modo
la famiglia viene mortalmente ferita e profanata nella sua
natura di comunità di amore e nella sua vocazione ad essere
« santuario della vita ». Né vanno taciute le
sollecitazioni che a volte provengono dal più ampio contesto
familiare e dagli amici. Non di rado la donna è sottoposta a
pressioni talmente forti da sentirsi psicologicamente
costretta a cedere all'aborto: non v'è dubbio che in questo
caso la responsabilità morale grava particolarmente su quelli
che direttamente o indirettamente l'hanno forzata ad abortire.
Responsabili sono pure i medici e il personale sanitario,
quando mettono a servizio della morte la competenza acquisita
per promuovere la vita.
Ma
la responsabilità coinvolge anche i legislatori, che hanno
promosso e approvato leggi abortive e, nella misura in cui la
cosa dipende da loro, gli amministratori delle strutture
sanitarie utilizzate per praticare gli aborti. Una
responsabilità generale non meno grave riguarda sia quanti
hanno favorito il diffondersi di una mentalità di
permissivismo sessuale e disistima della maternità, sia
coloro che avrebbero dovuto assicurare — e non l'hanno fatto
— valide politiche familiari e sociali a sostegno delle
famiglie, specialmente di quelle numerose o con particolari
difficoltà economiche ed educative. Non si può infine
sottovalutare la rete di complicità che si allarga fino a
comprendere istituzioni internazionali, fondazioni e
associazioni che si battono sistematicamente per la
legalizzazione e la diffusione dell'aborto nel mondo. In tal
senso l'aborto va oltre la responsabilità delle singole
persone e il danno loro arrecato, assumendo una dimensione
fortemente sociale: è una ferita gravissima inferta
alla società e alla sua cultura da quanti dovrebbero esserne
i costruttori e i difensori. Come ho scritto nella mia Lettera
alle Famiglie, « ci troviamo di fronte ad un'enorme
minaccia contro la vita, non solo di singoli individui, ma
anche dell'intera civiltà ».(56) Ci troviamo di fronte a
quella che può definirsi una « struttura di peccato »
contro la vita umana non ancora nata.
60.
Alcuni tentano di giustificare l'aborto sostenendo che il
frutto del concepimento, almeno fin a un certo numero di
giorni, non può essere ancora considerato una vita umana
personale. In realtà, « dal momento in cui l'ovulo è
fecondato, si inaugura una vita che non è quella del padre o
della madre, ma di un nuovo essere umano che si sviluppa per
proprio conto. Non sarà mai reso umano se non lo è stato fin
da allora. A questa evidenza di sempre... la scienza genetica
moderna fornisce preziose conferme. Essa ha mostrato come dal
primo istante si trovi fissato il programma di ciò che sarà
questo vivente: una persona, questa persona individua con le
sue note caratteristiche già ben determinate. Fin dalla
fecondazione è iniziata l'avventura di una vita umana, di cui
ciascuna delle grandi capacità richiede tempo, per impostarsi
e per trovarsi pronta ad agire ».(57) Anche se la presenza di
un'anima spirituale non può essere rilevata dall'osservazione
di nessun dato sperimentale, sono le stesse conclusioni della
scienza sull'embrione umano a fornire « un'indicazione
preziosa per discernere razionalmente una presenza personale
fin da questo primo comparire di una vita umana: come un
individuo umano non sarebbe una persona umana? ».(58)
Del
resto, tale è la posta in gioco che, sotto il profilo
dell'obbligo morale, basterebbe la sola probabilità di
trovarsi di fronte a una persona per giustificare la più
netta proibizione di ogni intervento volto a sopprimere
l'embrione umano. Proprio per questo, al di là dei dibattiti
scientifici e delle stesse affermazioni filosofiche nelle
quali il Magistero non si è espressamente impegnato, la
Chiesa ha sempre insegnato, e tuttora insegna, che al frutto
della generazione umana, dal primo momento della sua
esistenza, va garantito il rispetto incondizionato che è
moralmente dovuto all'essere umano nella sua totalità e unità
corporale e spirituale: « L'essere umano va rispettato e
trattato come una persona fin dal suo concepimento e,
pertanto, da quello stesso momento gli si devono riconoscere i
diritti della persona, tra i quali anzitutto il diritto
inviolabile di ogni essere umano innocente alla vita ».(59)
61.
I testi della Sacra Scrittura, che non parlano mai di
aborto volontario e quindi non presentano condanne dirette e
specifiche in proposito, mostrano una tale considerazione
dell'essere umano nel grembo materno, da esigere come logica
conseguenza che anche ad esso si estenda il comandamento di
Dio: « non uccidere ».
La
vita umana è sacra e inviolabile in ogni momento della sua
esistenza, anche in quello iniziale che precede la nascita.
L'uomo, fin dal grembo materno, appartiene a Dio che tutto
scruta e conosce, che lo forma e lo plasma con le sue mani,
che lo vede mentre è ancora un piccolo embrione informe e che
in lui intravede l'adulto di domani i cui giorni sono contati
e la cui vocazione è già scritta nel « libro della vita »
(cf. Sal 139/138, 1.13-16). Anche lì, quando è ancora
nel grembo materno, — come testimoniano numerosi testi
biblici (60) — l'uomo è il termine personalissimo
dell'amorosa e paterna provvidenza di Dio.
La
Tradizione cristiana — come ben rileva la Dichiarazione
emanata al riguardo dalla Congregazione per la Dottrina della
Fede (61) — è chiara e unanime, dalle origini fino ai
nostri giorni, nel qualificare l'aborto come disordine morale
particolarmente grave. Fin dal suo primo confronto con il
mondo greco-romano, nel quale erano ampiamente praticati
l'aborto e l'infanticidio, la comunità cristiana si è
radicalmente opposta, con la sua dottrina e con la sua prassi,
ai costumi diffusi in quella società, come dimostra la già
citata Didachè.(62) Tra gli scrittori ecclesiastici di
area greca, Atenagora ricorda che i cristiani considerano come
omicide le donne che fanno ricorso a medicine abortive, perché
i bambini, anche se ancora nel seno della madre, « sono già
l'oggetto delle cure della Provvidenza divina ».(63) Tra i
latini, Tertulliano afferma: « È un omicidio anticipato
impedire di nascere; poco importa che si sopprima l'anima già
nata o che la si faccia scomparire nel nascere. È già un
uomo colui che lo sarà ».(64)
Lungo
la sua storia ormai bimillenaria, questa medesima dottrina è
stata costantemente insegnata dai Padri della Chiesa, dai suoi
Pastori e Dottori. Anche le discussioni di carattere
scientifico e filosofico circa il momento preciso
dell'infusione dell'anima spirituale non hanno mai comportato
alcuna esitazione circa la condanna morale dell'aborto.
62.
Il più recente Magistero pontificio ha ribadito con
grande vigore questa dottrina comune. In particolare Pio XI
nell'Enciclica Casti connubii ha respinto le
pretestuose giustificazioni dell'aborto; (65) Pio XII ha
escluso ogni aborto diretto, cioè ogni atto che tende
direttamente a distruggere la vita umana non ancora nata, «
sia che tale distruzione venga intesa come fine o soltanto
come mezzo al fine »; (66) Giovanni XXIII ha riaffermato che
la vita umana è sacra, perché « fin dal suo affiorare
impegna direttamente l'azione creatrice di Dio ».(67) Il
Concilio Vaticano II, come già ricordato, ha condannato con
grande severità l'aborto: « La vita, una volta concepita,
deve essere protetta con la massima cura; e l'aborto come
l'infanticidio sono abominevoli delitti ».(68)
La
disciplina canonica della Chiesa, fin dai primi secoli,
ha colpito con sanzioni penali coloro che si macchiavano della
colpa dell'aborto e tale prassi, con pene più o meno gravi,
è stata confermata nei vari periodi storici. Il Codice di
Diritto Canonico del 1917 comminava per l'aborto la pena
della scomunica.(69) Anche la rinnovata legislazione canonica
si pone in questa linea quando sancisce che « chi procura
l'aborto ottenendo l'effetto incorre nella scomunica latae
sententiae »,(70) cioè automatica. La scomunica colpisce
tutti coloro che commettono questo delitto conoscendo la pena,
inclusi anche quei complici senza la cui opera esso non
sarebbe stato realizzato: (71) con tale reiterata sanzione, la
Chiesa addita questo delitto come uno dei più gravi e
pericolosi, spingendo così chi lo commette a ritrovare
sollecitamente la strada della conversione. Nella Chiesa,
infatti, la pena della scomunica è finalizzata a rendere
pienamente consapevoli della gravità di un certo peccato e a
favorire quindi un'adeguata conversione e penitenza.
Di
fronte a una simile unanimità nella tradizione dottrinale e
disciplinare della Chiesa, Paolo VI ha potuto dichiarare che
tale insegnamento non è mutato ed è immutabile.(72)
Pertanto, con l'autorità che Cristo ha conferito a Pietro e
ai suoi Successori, in comunione con i Vescovi — che a varie
riprese hanno condannato l'aborto e che nella consultazione
precedentemente citata, pur dispersi per il mondo, hanno
unanimemente consentito circa questa dottrina — dichiaro
che l'aborto diretto, cioè voluto come fine o come mezzo,
costituisce sempre un disordine morale grave, in quanto
uccisione deliberata di un essere umano innocente. Tale
dottrina è fondata sulla legge naturale e sulla Parola di Dio
scritta, è trasmessa dalla Tradizione della Chiesa ed
insegnata dal Magistero ordinario e universale.(73)
Nessuna
circostanza, nessuna finalità, nessuna legge al mondo potrà
mai rendere lecito un atto che è intrinsecamente illecito,
perché contrario alla Legge di Dio, scritta nel cuore di ogni
uomo, riconoscibile dalla ragione stessa, e proclamata dalla
Chiesa.
63.
La valutazione morale dell'aborto è da applicare anche alle
recenti forme di intervento sugli embrioni umani che,
pur mirando a scopi in sé legittimi, ne comportano
inevitabilmente l'uccisione. È il caso della sperimentazione
sugli embrioni, in crescente espansione nel campo della
ricerca biomedica e legalmente ammessa in alcuni Stati. Se «
si devono ritenere leciti gli interventi sull'embrione umano a
patto che rispettino la vita e l'integrità dell'embrione, non
comportino per lui rischi sproporzionati, ma siano finalizzati
alla sua guarigione, al miglioramento delle sue condizioni di
salute o alla sua sopravvivenza individuale »,(74) si deve
invece affermare che l'uso degli embrioni o dei feti umani
come oggetto di sperimentazione costituisce un delitto nei
riguardi della loro dignità di esseri umani, che hanno
diritto al medesimo rispetto dovuto al bambino già nato e ad
ogni persona.(75)
La
stessa condanna morale riguarda anche il procedimento che
sfrutta gli embrioni e i feti umani ancora vivi — talvolta
« prodotti » appositamente per questo scopo mediante la
fecondazione in vitro — sia come « materiale biologico »
da utilizzare sia come fornitori di organi o di tessuti da
trapiantare per la cura di alcune malattie. In realtà,
l'uccisione di creature umane innocenti, seppure a vantaggio
di altre, costituisce un atto assolutamente inaccettabile.
Una
speciale attenzione deve essere riservata alla valutazione
morale delle tecniche diagnostiche prenatali, che
permettono di individuare precocemente eventuali anomalie del
nascituro. Infatti, per la complessità di queste tecniche,
tale valutazione deve farsi più accurata e articolata. Quando
sono esenti da rischi sproporzionati per il bambino e per la
madre e sono ordinate a rendere possibile una terapia precoce
o anche a favorire una serena e consapevole accettazione del
nascituro, queste tecniche sono moralmente lecite. Dal momento
però che le possibilità di cura prima della nascita sono
oggi ancora ridotte, accade non poche volte che queste
tecniche siano messe al servizio di una mentalità eugenetica,
che accetta l'aborto selettivo, per impedire la nascita di
bambini affetti da vari tipi di anomalie. Una simile mentalità
è ignominiosa e quanto mai riprovevole, perché pretende di
misurare il valore di una vita umana soltanto secondo
parametri di « normali- tà » e di benessere fisico, aprendo
così la strada alla legittimazione anche dell'infanticidio e
dell'eutanasia.
In
realtà, però, proprio il coraggio e la serenità con cui
tanti nostri fratelli, affetti da gravi menomazioni, conducono
la loro esistenza quando sono da noi accettati ed amati,
costituiscono una testimonianza particolarmente efficace dei
valori autentici che qualificano la vita e che la rendono,
anche in condizioni di difficoltà, preziosa per sé e per gli
altri. La Chiesa è vicina a quei coniugi che, con grande
ansia e sofferenza, accettano di accogliere i loro bambini
gravemente colpiti da handicap, così come è grata a tutte
quelle famiglie che, con l'adozione, accolgono quanti sono
stati abbandonati dai loro genitori a motivo di menomazioni o
malattie.
«
Sono io che do la morte e faccio vivere » (Dt
32, 39): il dramma dell'eutanasia
64.
All'altro capo dell'esistenza, l'uomo si trova posto di fronte
al mistero della morte. Oggi, in seguito ai progressi della
medicina e in un contesto culturale spesso chiuso alla
trascendenza, l'esperienza del morire si presenta con alcune
caratteristiche nuove. Infatti, quando prevale la tendenza ad
apprezzare la vita solo nella misura in cui porta piacere e
benessere, la sofferenza appare come uno scacco
insopportabile, di cui occorre liberarsi ad ogni costo. La
morte, considerata « assurda » se interrompe improvvisamente
una vita ancora aperta a un futuro ricco di possibili
esperienze interessanti, diventa invece una « liberazione
rivendicata » quando l'esistenza è ritenuta ormai priva di
senso perché immersa nel dolore e inesorabilmente votata ad
un'ulteriore più acuta sofferenza.
Inoltre,
rifiutando o dimenticando il suo fondamentale rapporto con
Dio, l'uomo pensa di essere criterio e norma a se stesso e
ritiene di avere il diritto di chiedere anche alla società di
garantirgli possibilità e modi di decidere della propria vita
in piena e totale autonomia. È, in particolare, l'uomo che
vive nei Paesi sviluppati a comportarsi così: egli si sente
spinto a ciò anche dai continui progressi della medicina e
dalle sue tecniche sempre più avanzate. Mediante sistemi e
apparecchiature estremamente sofisticati, la scienza e la
pratica medica sono oggi in grado non solo di risolvere casi
precedentemente insolubili e di lenire o eliminare il dolore,
ma anche di sostenere e protrarre la vita perfino in
situazioni di debolezza estrema, di rianimare artificialmente
persone le cui funzioni biologiche elementari hanno subito
tracolli improvvisi, di intervenire per rendere disponibili
organi da trapiantare.
In
un tale contesto si fa sempre più forte la tentazione dell'eutanasia,
cioè di impadronirsi della morte, procurandola in
anticipo e ponendo così fine « dolcemente » alla vita
propria o altrui. In realtà, ciò che potrebbe sembrare
logico e umano, visto in profondità si presenta assurdo e
disumano. Siamo qui di fronte a uno dei sintomi più
allarmanti della « cultura di morte », che avanza
soprattutto nelle società del benessere, caratterizzate da
una mentalità efficientistica che fa apparire troppo oneroso
e insopportabile il numero crescente delle persone anziane e
debilitate. Esse vengono molto spesso isolate dalla famiglia e
dalla società, organizzate quasi esclusivamente sulla base di
criteri di efficienza produttiva, secondo i quali una vita
irrimediabilmente inabile non ha più alcun valore.
65.
Per un corretto giudizio morale sull'eutanasia, occorre
innanzitutto chiaramente definirla. Per eutanasia in senso
vero e proprio si deve intendere un'azione o un'omissione
che di natura sua e nelle intenzioni procura la morte, allo
scopo di eliminare ogni dolore. « L'eutanasia si situa,
dunque, al livello delle intenzioni e dei metodi usati ».(76)
Da
essa va distinta la decisione di rinunciare al cosiddetto « accanimento
terapeutico », ossia a certi interventi medici non più
adeguati alla reale situazione del malato, perché ormai
sproporzionati ai risultati che si potrebbero sperare o anche
perché troppo gravosi per lui e per la sua famiglia. In
queste situazioni, quando la morte si preannuncia imminente e
inevitabile, si può in coscienza « rinunciare a trattamenti
che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso
della vita, senza tuttavia interrompere le cure normali dovute
all'ammalato in simili casi ».(77) Si dà certamente
l'obbligo morale di curarsi e di farsi curare, ma tale obbligo
deve misurarsi con le situazioni concrete; occorre cioè
valutare se i mezzi terapeutici a disposizione siano
oggettivamente proporzionati rispetto alle prospettive di
miglioramento. La rinuncia a mezzi straordinari o
sproporzionati non equivale al suicidio o all'eutanasia;
esprime piuttosto l'accettazione della condizione umana di
fronte alla morte.(78)
Nella
medicina moderna vanno acquistando rilievo particolare le
cosiddette « cure palliative », destinate a rendere
più sopportabile la sofferenza nella fase finale della
malattia e ad assicurare al tempo stesso al paziente un
adeguato accompagnamento umano. In questo contesto sorge, tra
gli altri, il problema della liceità del ricorso ai diversi
tipi di analgesici e sedativi per sollevare il malato dal
dolore, quando ciò comporta il rischio di abbreviargli la
vita. Se, infatti, può essere considerato degno di lode chi
accetta volontariamente di soffrire rinunciando a interventi
antidolorifici per conservare la piena lucidità e
partecipare, se credente, in maniera consapevole alla passione
del Signore, tale comportamento « eroico » non può essere
ritenuto doveroso per tutti. Già Pio XII aveva affermato che
è lecito sopprimere il dolore per mezzo di narcotici, pur con
la conseguenza di limitare la coscienza e di abbreviare la
vita, « se non esistono altri mezzi e se, nelle date
circostanze, ciò non impedisce l'adempimento di altri doveri
religiosi e morali ».(79) In questo caso, infatti, la morte
non è voluta o ricercata, nonostante che per motivi
ragionevoli se ne corra il rischio: semplicemente si vuole
lenire il dolore in maniera efficace, ricorrendo agli
analgesici messi a disposizione dalla medicina. Tuttavia, «
non si deve privare il moribondo della coscienza di sé senza
grave motivo »: (80) avvicinandosi alla morte, gli uomini
devono essere in grado di poter soddisfare ai loro obblighi
morali e familiari e soprattutto devono potersi preparare con
piena coscienza all'incontro definitivo con Dio.
Fatte
queste distinzioni, in conformità con il Magistero dei miei
Predecessori (81) e in comunione con i Vescovi della Chiesa
cattolica, confermo che l'eutanasia è una grave violazione
della Legge di Dio, in quanto uccisione deliberata
moralmente inaccettabile di una persona umana. Tale dottrina
è fondata sulla legge naturale e sulla Parola di Dio scritta,
è trasmessa dalla Tradizione della Chiesa ed insegnata dal
Magistero ordinario e universale.(82)
Una
tale pratica comporta, a seconda delle circostanze, la malizia
propria del suicidio o dell'omicidio.
66.
Ora, il suicidio è sempre moralmente inaccettabile quanto
l'omicidio. La tradizione della Chiesa l'ha sempre respinto
come scelta gravemente cattiva.(83) Benché determinati
condizionamenti psicologici, culturali e sociali possano
portare a compiere un gesto che contraddice così radicalmente
l'innata inclinazione di ognuno alla vita, attenuando o
annullando la responsabilità soggettiva, il suicidio, sotto
il profilo oggettivo, è un atto gravemente immorale, perché
comporta il rifiuto dell'amore verso se stessi e la rinuncia
ai doveri di giustizia e di carità verso il prossimo, verso
le varie comunità di cui si fa parte e verso la società nel
suo insieme.(84) Nel suo nucleo più profondo, esso
costituisce un rifiuto della sovranità assoluta di Dio sulla
vita e sulla morte, così proclamata nella preghiera
dell'antico saggio di Israele: « Tu hai potere sulla vita e
sulla morte; conduci giù alle porte degli inferi e fai
risalire » (Sap 16, 13; cf. Tb 13, 2).
Condividere
l'intenzione suicida di un altro e aiutarlo a realizzarla
mediante il cosiddetto « suicidio assistito » significa
farsi collaboratori, e qualche volta attori in prima persona,
di un'ingiustizia, che non può mai essere giustificata,
neppure quando fosse richiesta. « Non è mai lecito —
scrive con sorprendente attualità sant'Agostino — uccidere
un altro: anche se lui lo volesse, anzi se lo chiedesse perché,
sospeso tra la vita e la morte, supplica di essere aiutato a
liberare l'anima che lotta contro i legami del corpo e
desidera distaccarsene; non è lecito neppure quando il malato
non fosse più in grado di vivere ».(85) Anche se non
motivata dal rifiuto egoistico di farsi carico dell'esistenza
di chi soffre, l'eutanasia deve dirsi una falsa pietà, anzi
una preoccupante « perversione » di essa: la vera «
compassione », infatti, rende solidale col dolore altrui, non
sopprime colui del quale non si può sopportare la sofferenza.
E tanto più perverso appare il gesto dell'eutanasia se viene
compiuto da coloro che — come i parenti — dovrebbero
assistere con pazienza e con amore il loro congiunto o da
quanti — come i medici —, per la loro specifica
professione, dovrebbero curare il malato anche nelle
condizioni terminali più penose.
La
scelta dell'eutanasia diventa più grave quando si configura
come un omicidio che gli altri praticano su una persona
che non l'ha richiesta in nessun modo e che non ha mai dato ad
essa alcun consenso. Si raggiunge poi il colmo dell'arbitrio e
dell'ingiustizia quando alcuni, medici o legislatori, si
arrogano il potere di decidere chi debba vivere e chi debba
morire. Si ripropone così la tentazione dell'Eden: diventare
come Dio « conoscendo il bene e il male » (cf. Gn 3,
5). Ma Dio solo ha il potere di far morire e di far vivere: «
Sono io che do la morte e faccio vivere » (Dt 32, 39;
cf. 2 Re 5, 7; 1 Sam 2, 6). Egli attua il suo
potere sempre e solo secondo un disegno di sapienza e di
amore. Quando l'uomo usurpa tale potere, soggiogato da una
logica di stoltezza e di egoismo, inevitabilmente lo usa per
l'ingiustizia e per la morte.
Così
la vita del più debole è messa nelle mani del più forte;
nella società si perde il senso della giustizia ed è minata
alla radice la fiducia reciproca, fondamento di ogni autentico
rapporto tra le persone.
67.
Ben diversa, invece, è la via dell'amore e della vera pietà,
che la nostra comune umanità impone e che la fede in Cristo
Redentore, morto e risorto, illumina con nuove ragioni. La
domanda che sgorga dal cuore dell'uomo nel confronto supremo
con la sofferenza e la morte, specialmente quando è tentato
di ripiegarsi nella disperazione e quasi di annientarsi in
essa, è soprattutto domanda di compagnia, di solidarietà e
di sostegno nella prova. È richiesta di aiuto per continuare
a sperare, quando tutte le speranze umane vengono meno. Come
ci ha ricordato il Concilio Vaticano II, « in faccia alla
morte l'enigma della condizione umana diventa sommo » per
l'uomo; e tuttavia « l'istinto del cuore lo fa giudicare
rettamente, quando aborrisce e respinge l'idea di una totale
rovina e di un annientamento definitivo della sua persona. Il
germe dell'eternità che porta in sé, irriducibile com'è
alla sola materia, insorge contro la morte ».(86)
Questa
naturale ripugnanza per la morte e questa germinale speranza
di immortalità sono illuminate e portate a compimento dalla
fede cristiana, che promette e offre la partecipazione alla
vittoria del Cristo Risorto: è la vittoria di Colui che,
mediante la sua morte redentrice, ha liberato l'uomo dalla
morte, « salario del peccato » (Rm 6, 23), e gli ha
donato lo Spirito, pegno di risurrezione e di vita (cf. Rm 8,
11). La certezza dell'immortalità futura e la speranza
nella risurrezione promessa proiettano una luce nuova sul
mistero del soffrire e del morire e infondono nel credente una
forza straordinaria per affidarsi al disegno di Dio.
L'apostolo
Paolo ha espresso questa novità nei termini di
un'appartenenza totale al Signore che abbraccia qualsiasi
condizione umana: « Nessuno di noi vive per se stesso e
nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo
per il Signore; se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia
che viviamo, sia che moriamo, siamo dunque del Signore » (Rm
14, 7-8). Morire per il Signore significa vivere la
propria morte come atto supremo di obbedienza al Padre (cf. Fil
2, 8), accettando di incontrarla nell'« ora » voluta e
scelta da lui (cf. Gv 13, 1), che solo può dire quando
il cammino terreno è compiuto. Vivere per il Signore significa
anche riconoscere che la sofferenza, pur restando in se stessa
un male e una prova, può sempre diventare sorgente di bene.
Lo diventa se viene vissuta per amore e con amore, nella
partecipazione, per dono gratuito di Dio e per libera scelta
personale, alla sofferenza stessa di Cristo crocifisso. In tal
modo, chi vive la sua sofferenza nel Signore viene più
pienamente conformato a lui (cf. Fil 3, 10; 1 Pt 2,
21) e intimamente associato alla sua opera redentrice a favore
della Chiesa e dell'umanità.(87) È questa l'esperienza
dell'Apostolo, che anche ogni persona che soffre è chiamata a
rivivere: « Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi
e completo nella mia carne quello che manca alle tribolazioni
di Cristo nella mia carne, a favore del suo corpo che è la
Chiesa » (Col 1, 24).
«
Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini » (At
5, 29): la legge civile e la legge morale
68.
Una delle caratteristiche proprie degli attuali attentati alla
vita umana — come si è già detto più volte — consiste
nella tendenza ad esigere una loro legittimazione
giuridica, quasi fossero diritti che lo Stato, almeno a
certe condizioni, deve riconoscere ai cittadini e,
conseguentemente, nella tendenza a pretendere la loro
attuazione con l'assistenza sicura e gratuita dei medici e
degli operatori sanitari.
Si
pensa non poche volte che la vita di chi non è ancora nato o
è gravemente debilitato sia un bene solo relativo: secondo
una logica proporzionalista o di puro calcolo, dovrebbe essere
confrontata e soppesata con altri beni. E si ritiene pure che
solo chi si trova nella situazione concreta e vi è
personalmente coinvolto possa compiere una giusta ponderazione
dei beni in gioco: di conseguenza, solo lui potrebbe decidere
della moralità della sua scelta. Lo Stato, perciò,
nell'interesse della convivenza civile e dell'armonia sociale,
dovrebbe rispettare questa scelta, giungendo anche ad
ammettere l'aborto e l'eutanasia.
Si
pensa, altre volte, che la legge civile non possa esigere che
tutti i cittadini vivano secondo un grado di moralità più
elevato di quello che essi stessi riconoscono e condividono.
Per questo la legge dovrebbe sempre esprimere l'opinione e la
volontà della maggioranza dei cittadini e riconoscere loro,
almeno in certi casi estremi, anche il diritto all'aborto e
all'eutanasia. Del resto, la proibizione e la punizione
dell'aborto e dell'eutanasia in questi casi condurrebbero
inevitabilmente — così si dice — ad un aumento di
pratiche illegali: esse, peraltro, non sarebbero soggette al
necessario controllo sociale e verrebbero attuate senza la
dovuta sicurezza medica. Ci si chiede, inoltre, se sostenere
una legge concretamente non applicabile non significhi, alla
fine, minare anche l'autorità di ogni altra legge.
Nelle
opinioni più radicali, infine, si giunge a sostenere che, in
una società moderna e pluralistica, dovrebbe essere
riconosciuta a ogni persona piena autonomia di disporre della
propria vita e della vita di chi non è ancora nato: non
spetterebbe, infatti, alla legge la scelta tra le diverse
opinioni morali e, tanto meno, essa potrebbe pretendere di
imporne una particolare a svantaggio delle altre.
69.
In ogni caso, nella cultura democratica del nostro tempo si è
largamente diffusa l'opinione secondo la quale l'ordinamento
giuridico di una società dovrebbe limitarsi a registrare e
recepire le convinzioni della maggioranza e, pertanto,
dovrebbe costruirsi solo su quanto la maggioranza stessa
riconosce e vive come morale. Se poi si ritiene addirittura
che una verità comune e oggettiva sia di fatto inaccessibile,
il rispetto della libertà dei cittadini — che in un regime
democratico sono ritenuti i veri sovrani — esigerebbe che, a
livello legislativo, si riconosca l'autonomia delle singole
coscienze e quindi, nello stabilire quelle norme che in ogni
caso sono necessarie alla convivenza sociale, ci si adegui
esclusivamente alla volontà della maggioranza, qualunque essa
sia. In tal modo, ogni politico, nella sua azione, dovrebbe
separare nettamente l'ambito della coscienza privata da quello
del comportamento pubblico.
Si
registrano, di conseguenza, due tendenze, in apparenza
diametralmente opposte. Da un lato, i singoli individui
rivendicano per sé la più completa autonomia morale di
scelta e chiedono che lo Stato non faccia propria e non
imponga nessuna concezione etica, ma si limiti a garantire lo
spazio più ampio possibile alla libertà di ciascuno, con
l'unico limite esterno di non ledere lo spazio di autonomia al
quale anche ogni altro cittadino ha diritto. Dall'altro lato,
si pensa che, nell'esercizio delle funzioni pubbliche e
professionali, il rispetto dell'altrui libertà di scelta
imponga a ciascuno di prescindere dalle proprie convinzioni
per mettersi a servizio di ogni richiesta dei cittadini, che
le leggi riconoscono e tutelano, accettando come unico
criterio morale per l'esercizio delle proprie funzioni quanto
è stabilito da quelle medesime leggi. In questo modo la
responsabilità della persona viene delegata alla legge
civile, con un'abdicazione alla propria coscienza morale
almeno nell'ambito dell'azione pubblica.
70.
Comune radice di tutte queste tendenze è il relativismo
etico che contraddistingue tanta parte della cultura
contemporanea. Non manca chi ritiene che tale relativismo sia
una condizione della democrazia, in quanto solo esso
garantirebbe tolleranza, rispetto reciproco tra le persone, e
adesione alle decisioni della maggioranza, mentre le norme
morali, considerate oggettive e vincolanti, porterebbero
all'autoritarismo e all'intolleranza.
Ma
è proprio la problematica del rispetto della vita a mostrare
quali equivoci e contraddizioni, accompagnati da terribili
esiti pratici, si celino in questa posizione.
È
vero che la storia registra casi in cui si sono commessi dei
crimini in nome della « verità ». Ma crimini non meno gravi
e radicali negazioni della libertà si sono commessi e si
commettono anche in nome del « relativismo etico ». Quando
una maggioranza parlamentare o sociale decreta la legittimità
della soppressione, pur a certe condizioni, della vita umana
non ancora nata, non assume forse una decisione « tirannica
» nei confronti dell'essere umano più debole e indifeso? La
coscienza universale giustamente reagisce nei confronti dei
crimini contro l'umanità di cui il nostro secolo ha fatto così
tristi esperienze. Forse che questi crimini cesserebbero di
essere tali se, invece di essere commessi da tiranni senza
scrupoli, fossero legittimati dal consenso popolare?
In
realtà, la democrazia non può essere mitizzata fino a farne
un surrogato della moralità o un toccasana dell'immoralità.
Fondamentalmente, essa è un « ordinamento » e, come tale,
uno strumento e non un fine. Il suo carattere « morale » non
è automatico, ma dipende dalla conformità alla legge morale
a cui, come ogni altro comportamento umano, deve sottostare:
dipende cioè dalla moralità dei fini che persegue e dei
mezzi di cui si serve. Se oggi si registra un consenso
pressoché universale sul valore della democrazia, ciò va
considerato un positivo « segno dei tempi », come anche il
Magistero della Chiesa ha più volte rilevato.(88) Ma il
valore della democrazia sta o cade con i valori che essa
incarna e promuove: fondamentali e imprescindibili sono
certamente la dignità di ogni persona umana, il rispetto dei
suoi diritti intangibili e inalienabili, nonché l'assunzione
del « bene comune » come fine e criterio regolativo della
vita politica.
Alla
base di questi valori non possono esservi provvisorie e
mutevoli « maggioranze » di opinione, ma solo il
riconoscimento di una legge morale obiettiva che, in quanto «
legge naturale » iscritta nel cuore dell'uomo, è punto di
riferimento normativo della stessa legge civile. Quando, per
un tragico oscuramento della coscienza collettiva, lo
scetticismo giungesse a porre in dubbio persino i principi
fondamentali della legge morale, lo stesso ordinamento
democratico sarebbe scosso nelle sue fondamenta, riducendosi a
un puro meccanismo di regolazione empirica dei diversi e
contrapposti interessi.(89)
Qualcuno
potrebbe pensare che anche una tale funzione, in mancanza di
meglio, sia da apprezzare ai fini della pace sociale. Pur
riconoscendo un qualche aspetto di verità in una tale
valutazione, è difficile non vedere che, senza un ancoraggio
morale obiettivo, neppure la democrazia può assicurare una
pace stabile, tanto più che la pace non misurata sui valori
della dignità di ogni uomo e della solidarietà tra tutti gli
uomini è non di rado illusoria. Negli stessi regimi
partecipativi, infatti, la regolazione degli interessi avviene
spesso a vantaggio dei più forti, essendo essi i più capaci
di manovrare non soltanto le leve del potere, ma anche la
formazione del consenso. In una tale situazione, la democrazia
diventa facilmente una parola vuota.
71.
Urge dunque, per l'avvenire della società e lo sviluppo di
una sana democrazia, riscoprire l'esistenza di valori umani e
morali essenziali e nativi, che scaturiscono dalla verità
stessa dell'essere umano ed esprimono e tutelano la dignità
della persona: valori, pertanto, che nessun individuo, nessuna
maggioranza e nessuno Stato potranno mai creare, modificare o
distruggere, ma dovranno solo riconoscere, rispettare e
promuovere.
Occorre
riprendere, in tal senso, gli elementi fondamentali della
visione dei rapporti tra legge civile e legge morale, quali
sono proposti dalla Chiesa, ma che pure fanno parte del
patrimonio delle grandi tradizioni giuridiche dell'umanità.
Certamente,
il compito della legge civile è diverso e di ambito più
limitato rispetto a quello della legge morale. Però « in
nessun ambito di vita la legge civile può sostituirsi alla
coscienza né può dettare norme su ciò che esula dalla sua
competenza »,(90) che è quella di assicurare il bene comune
delle persone, attraverso il riconoscimento e la difesa dei
loro fondamentali diritti, la promozione della pace e della
pubblica moralità.(91) Il compito della legge civile
consiste, infatti, nel garantire un'ordinata convivenza
sociale nella vera giustizia, perché tutti « possiamo
trascorrere una vita calma e tranquilla con tutta pietà e
dignità » (1 Tm 2, 2). Proprio per questo, la legge
civile deve assicurare per tutti i membri della società il
rispetto di alcuni diritti fondamentali, che appartengono
nativamente alla persona e che qualsiasi legge positiva deve
riconoscere e garantire. Primo e fondamentale tra tutti è
l'inviolabile diritto alla vita di ogni essere umano
innocente. Se la pubblica autorità può talvolta rinunciare a
reprimere quanto provocherebbe, se proibito, un danno più
grave,(92) essa non può mai accettare però di legittimare,
come diritto dei singoli — anche se questi fossero la
maggioranza dei componenti la società —, l'offesa inferta
ad altre persone attraverso il misconoscimento di un loro
diritto così fondamentale come quello alla vita. La
tolleranza legale dell'aborto o dell'eutanasia non può in
alcun modo richiamarsi al rispetto della coscienza degli
altri, proprio perché la società ha il diritto e il dovere
di tutelarsi contro gli abusi che si possono verificare in
nome della coscienza e sotto il pretesto della libertà.(93)
Nell'Enciclica
Pacem in terris, Giovanni XXIII aveva ricordato in
proposito: « Nell'epoca moderna l'attuazione del bene comune
trova la sua indicazione di fondo nei diritti e nei doveri
della persona. Per cui i compiti precipui dei poteri pubblici
consistono, soprattutto, nel riconoscere, rispettare,
comporre, tutelare e promuovere quei diritti; e nel
contribuire, di conseguenza, a rendere più facile
l'adempimento dei rispettivi doveri. "Tutelare
l'intangibile campo dei diritti della persona umana e renderle
agevole il compimento dei suoi doveri vuol essere ufficio
essenziale di ogni pubblico potere". Per cui ogni atto
dei poteri pubblici, che sia o implichi un misconoscimento o
una violazione di quei diritti, è un atto contrastante con la
loro stessa ragion d'essere e rimane per ciò stesso
destituito d'ogni valore giuridico ».(94)
72.
In continuità con tutta la tradizione della Chiesa è anche
la dottrina sulla necessaria conformità della legge civile
con la legge morale, come appare, ancora una volta,
dall'enciclica citata di Giovanni XXIII: « L'autorità è
postulata dall'ordine morale e deriva da Dio. Qualora pertanto
le sue leggi o autorizzazioni siano in contrasto con quell'ordine,
e quindi in contrasto con la volontà di Dio, esse non hanno
forza di obbligare la coscienza...; in tal caso, anzi,
chiaramente l'autorità cessa di essere tale e degenera in
sopruso ».(95) È questo il limpido insegnamento di san
Tommaso d'Aquino, che tra l'altro scrive: « La legge umana in
tanto è tale in quanto è conforme alla retta ragione e
quindi deriva dalla legge eterna. Quando invece una legge è
in contrasto con la ragione, la si denomina legge iniqua; in
tal caso però cessa di essere legge e diviene piuttosto un
atto di violenza ».(96) E ancora: « Ogni legge posta dagli
uomini in tanto ha ragione di legge in quanto deriva dalla
legge naturale. Se invece in qualche cosa è in contrasto con
la legge naturale, allora non sarà legge bensì corruzione
della legge ».(97)
Ora
la prima e più immediata applicazione di questa dottrina
riguarda la legge umana che misconosce il diritto fondamentale
e fontale alla vita, diritto proprio di ogni uomo. Così le
leggi che, con l'aborto e l'eutanasia, legittimano la
soppressione diretta di esseri umani innocenti sono in totale
e insanabile contraddizione con il diritto inviolabile alla
vita proprio di tutti gli uomini e negano, pertanto,
l'uguaglianza di tutti di fronte alla legge. Si potrebbe
obiettare che tale non è il caso dell'eutanasia, quando essa
è richiesta in piena coscienza dal soggetto interessato. Ma
uno Stato che legittimasse tale richiesta e ne autorizzasse la
realizzazione, si troverebbe a legalizzare un caso di
suicidio-omicidio, contro i principi fondamentali
dell'indisponibilità della vita e della tutela di ogni vita
innocente. In questo modo si favorisce una diminuzione del
rispetto della vita e si apre la strada a comportamenti
distruttivi della fiducia nei rapporti sociali.
Le
leggi che autorizzano e favoriscono l'aborto e l'eutanasia si
pongono dunque radicalmente non solo contro il bene del
singolo, ma anche contro il bene comune e, pertanto, sono del
tutto prive di autentica validità giuridica. Il
misconoscimento del diritto alla vita, infatti, proprio perché
porta a sopprimere la persona per il cui servizio la società
ha motivo di esistere, è ciò che si contrappone più
frontalmente e irreparabilmente alla possibilità di
realizzare il bene comune. Ne segue che, quando una legge
civile legittima l'aborto o l'eutanasia cessa, per ciò
stesso, di essere una vera legge civile, moralmente
obbligante.
73.
L'aborto e l'eutanasia sono dunque crimini che nessuna legge
umana può pretendere di legittimare. Leggi di questo tipo non
solo non creano nessun obbligo per la coscienza, ma sollevano
piuttosto un grave e preciso obbligo di opporsi ad esse
mediante obiezione di coscienza. Fin dalle origini della
Chiesa, la predicazione apostolica ha inculcato ai cristiani
il dovere di obbedire alle autorità pubbliche legittimamente
costituite (cf. Rm 13, 1-7; 1 Pt 2, 13-14), ma
nello stesso tempo ha ammonito fermamente che « bisogna
obbedire a Dio piuttosto che agli uomini » (At 5, 29).
Già nell'Antico Testamento, proprio in riferimento alle
minacce contro la vita, troviamo un esempio significativo di
resistenza al comando ingiusto dell'autorità. Al faraone, che
aveva ordinato di far morire ogni neonato maschio, le
levatrici degli Ebrei si opposero. Esse « non fecero come
aveva loro ordinato il re di Egitto e lasciarono vivere i
bambini » (Es 1, 17). Ma occorre notare il motivo
profondo di questo loro comportamento: « Le levatrici
temettero Dio » (ivi). È proprio dall'obbedienza
a Dio — al quale solo si deve quel timore che è
riconoscimento della sua assoluta sovranità — che nascono
la forza e il coraggio di resistere alle leggi ingiuste degli
uomini. È la forza e il coraggio di chi è disposto anche ad
andare in prigione o ad essere ucciso di spada, nella certezza
che « in questo sta la costanza e la fede dei santi » (Ap
13, 10).
Nel
caso quindi di una legge intrinsecamente ingiusta, come è
quella che ammette l'aborto o l'eutanasia, non è mai lecito
conformarsi ad essa, « né partecipare ad una campagna di
opinione in favore di una legge siffatta, né dare ad essa il
suffragio del proprio voto ».(98)
Un
particolare problema di coscienza potrebbe porsi in quei casi
in cui un voto parlamentare risultasse determinante per
favorire una legge più restrittiva, volta cioè a restringere
il numero degli aborti autorizzati, in alternativa ad una
legge più permissiva già in vigore o messa al voto. Simili
casi non sono rari. Si registra infatti il dato che mentre in
alcune parti del mondo continuano le campagne per
l'introduzione di leggi a favore dell'aborto, sostenute non
poche volte da potenti organismi internazionali, in altre
Nazioni invece — in particolare in quelle che hanno già
fatto l'amara esperienza di simili legislazioni permissive —
si vanno manifestando segni di ripensamento. Nel caso
ipotizzato, quando non fosse possibile scongiurare o abrogare
completamente una legge abortista, un parlamentare, la cui
personale assoluta opposizione all'aborto fosse chiara e a
tutti nota, potrebbe lecitamente offrire il proprio sostegno a
proposte mirate a limitare i danni di una tale legge e
a diminuirne gli effetti negativi sul piano della cultura e
della moralità pubblica. Così facendo, infatti, non si attua
una collaborazione illecita a una legge ingiusta; piuttosto si
compie un legittimo e doveroso tentativo di limitarne gli
aspetti iniqui.
74.
L'introduzione di legislazioni ingiuste pone spesso gli uomini
moralmente retti di fronte a difficili problemi di coscienza
in materia di collaborazione in ragione della doverosa
affermazione del proprio diritto a non essere costretti a
partecipare ad azioni moralmente cattive. Talvolta le scelte
che si impongono sono dolorose e possono richiedere il
sacrificio di affermate posizioni professionali o la rinuncia
a legittime prospettive di avanzamento nella carriera. In
altri casi, può risultare che il compiere alcune azioni in se
stesse indifferenti, o addirittura positive, previste
nell'articolato di legislazioni globalmente ingiuste, consenta
la salvaguardia di vite umane minacciate. D'altro canto, però,
si può giustamente temere che la disponibilità a compiere
tali azioni non solo comporti uno scandalo e favorisca
l'indebolirsi della necessaria opposizione agli attentati
contro la vita, ma induca insensibilmente ad arrendersi sempre
più ad una logica permissiva.
Per
illuminare questa difficile questione morale occorre
richiamare i principi generali sulla cooperazione ad azioni
cattive. I cristiani, come tutti gli uomini di buona
volontà, sono chiamati, per un grave dovere di coscienza, a
non prestare la loro collaborazione formale a quelle pratiche
che, pur ammesse dalla legislazione civile, sono in contrasto
con la Legge di Dio. Infatti, dal punto di vista morale, non
è mai lecito cooperare formalmente al male. Tale cooperazione
si verifica quando l'azione compiuta, o per la sua stessa
natura o per la configurazione che essa viene assumendo in un
concreto contesto, si qualifica come partecipazione diretta ad
un atto contro la vita umana innocente o come condivisione
dell'intenzione immorale dell'agente principale. Questa
cooperazione non può mai essere giustificata né invocando il
rispetto della libertà altrui, né facendo leva sul fatto che
la legge civile la prevede e la richiede: per gli atti che
ciascuno personalmente compie esiste, infatti, una
responsabilità morale a cui nessuno può mai sottrarsi e
sulla quale ciascuno sarà giudicato da Dio stesso (cf. Rm 2,
6; 14, 12).
Rifiutarsi
di partecipare a commettere un'ingiustizia è non solo un
dovere morale, ma è anche un diritto umano basilare. Se così
non fosse, la persona umana sarebbe costretta a compiere
un'azione intrinsecamente incompatibile con la sua dignità e
in tal modo la sua stessa libertà, il cui senso e fine
autentici risiedono nell'orientamento al vero e al bene, ne
sarebbe radicalmente compromessa. Si tratta, dunque, di un
diritto essenziale che, proprio perché tale, dovrebbe essere
previsto e protetto dalla stessa legge civile. In tal senso,
la possibilità di rifiutarsi di partecipare alla fase
consultiva, preparatoria ed esecutiva di simili atti contro la
vita dovrebbe essere assicurata ai medici, agli operatori
sanitari e ai responsabili delle istituzioni ospedaliere,
delle cliniche e delle case di cura. Chi ricorre all'obiezione
di coscienza deve essere salvaguardato non solo da sanzioni
penali, ma anche da qualsiasi danno sul piano legale,
disciplinare, economico e professionale.
«
Amerai il prossimo tuo come te stesso » (Lc
10, 27): « promuovi » la vita.
75.
I comandamenti di Dio ci insegnano la via della vita. Iprecetti
morali negativi, cioè quelli che dichiarano moralmente
inaccettabile la scelta di una determinata azione, hanno un
valore assoluto per la libertà umana: essi valgono sempre e
comunque, senza eccezioni. Indicano che la scelta di
determinati comportamenti è radicalmente incompatibile con
l'amore verso Dio e con la dignità della persona, creata a
sua immagine: tale scelta, perciò, non può essere riscattata
dalla bontà di nessuna intenzione e di nessuna conseguenza,
è in contrasto insanabile con la comunione tra le persone,
contraddice la decisione fondamentale di orientare la propria
vita a Dio.(99)
Già
in questo senso i precetti morali negativi hanno
un'importantissima funzione positiva: il « no » che esigono
incondizionatamente dice il limite invalicabile al di sotto
del quale l'uomo libero non può scendere e, insieme, indica
il minimo che egli deve rispettare e dal quale deve partire
per pronunciare innumerevoli « sì », capaci di occupare
progressivamente l'intero orizzonte del bene (cf. Mt
5, 48). I comandamenti, in particolare i precetti morali
negativi, sono l'inizio e la prima tappa necessaria del
cammino verso la libertà: « La prima libertà — scrive
sant'Agostino — consiste nell'essere esenti da crimini...
come sarebbero l'omicidio, l'adulterio, la fornicazione, il
furto, la frode, il sacrilegio e così via. Quando uno
comincia a non avere questi crimini (e nessun cristiano deve
averli), comincia a levare il capo verso la libertà, ma
questo non è che l'inizio della libertà, non la libertà
perfetta ».(100)
76.
Il comandamento « non uccidere » stabilisce quindi il punto
di partenza di un cammino di vera libertà, che ci porta a
promuovere attivamente la vita e sviluppare determinati
atteggiamenti e comportamenti al suo servizio: così facendo
esercitiamo la nostra responsabilità verso le persone che ci
sono affidate e manifestiamo, nei fatti e nella verità, la
nostra riconoscenza a Dio per il grande dono della vita (cf. Sal
139/138, 13-14).
Il
Creatore ha affidato la vita dell'uomo alla sua responsabile
sollecitudine, non perché ne disponga in modo arbitrario, ma
perché la custodisca con saggezza e la amministri con
amorevole fedeltà. Il Dio dell'Alleanza ha affidato la vita
di ciascun uomo all'altro uomo suo fratello, secondo la legge
della reciprocità del dare e del ricevere, del dono di sé e
dell'accoglienza dell'altro. Nella pienezza dei tempi,
incarnandosi e donando la sua vita per l'uomo, il Figlio di
Dio ha mostrato a quale altezza e profondità possa giungere
questa legge della reciprocità. Con il dono del suo Spirito,
Cristo dà contenuti e significati nuovi alla legge della
reciprocità, all'affidamento dell'uomo all'uomo. Lo Spirito,
che è artefice di comunione nell'amore, crea tra gli uomini
una nuova fraternità e solidarietà, vero riflesso del
mistero di reciproca donazione e accoglienza proprio della
Trinità santissima. Lo stesso Spirito diventa la legge nuova,
che dona ai credenti la forza e sollecita la loro
responsabilità per vivere reciprocamente il dono di sé e
l'accoglienza dell'altro, partecipando all'amore stesso di Gesù
Cristo e secondo la sua misura.
77.
Da questa legge nuova viene animato e plasmato anche il
comandamento del « non uccidere ». Per il cristiano, quindi,
esso implica in definitiva l'imperativo di rispettare, amare e
promuovere la vita di ogni fratello, secondo le esigenze e le
dimensioni dell'amore di Dio in Gesù Cristo. « Egli ha dato
la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita
per i fratelli » (1 Gv 3, 16).
Il
comandamento del « non uccidere », anche nei suoi contenuti
più positivi di rispetto, amore e promozione della vita
umana, vincola ogni uomo. Esso, infatti, risuona nella
coscienza morale di ciascuno come un'eco insopprimibile
dell'alleanza originaria di Dio creatore con l'uomo; da tutti
può essere conosciuto alla luce della ragione e può essere
osservato grazie all'opera misteriosa dello Spirito che,
soffiando dove vuole (cf. Gv 3, 8), raggiunge e
coinvolge ogni uomo che vive in questo mondo.
È
dunque un servizio d'amore quello che tutti siamo impegnati ad
assicurare al nostro prossimo, perché la sua vita sia difesa
e promossa sempre, ma soprattutto quando è più debole o
minacciata. È una sollecitudine non solo personale ma
sociale, che tutti dobbiamo coltivare, ponendo
l'incondizionato rispetto della vita umana a fondamento di una
rinnovata società.
Ci
è chiesto di amare e onorare la vita di ogni uomo e di ogni
donna e di lavorare con costanza e con coraggio, perché nel
nostro tempo, attraversato da troppi segni di morte, si
instauri finalmente una nuova cultura della vita, frutto della
cultura della verità e dell'amore.
CAPITOLO IV
L'AVETE
FATTO A ME
PER UNA NUOVA
CULTURA DELLA VITA UMANA
«
Voi siete il popolo che Dio si è acquistato perché proclami
le sue opere meravigliose » (1
Pt 2, 9): il popolo della vita e per la vita
78.
La Chiesa ha ricevuto il Vangelo come annuncio e fonte di
gioia e di salvezza. L'ha ricevuto in dono da Gesù, inviato
dal Padre « per annunziare ai poveri un lieto messaggio » (Lc
4, 18). L'ha ricevuto mediante gli Apostoli, da Lui
mandati in tutto il mondo (cf. Mc 16, 15; Mt 28,
19-20). Nata da questa azione evangelizzatrice, la Chiesa
sente risuonare in se stessa ogni giorno la parola ammonitrice
dell'Apostolo: « Guai a me se non predicassi il Vangelo » (1
Cor 9, 16). « Evangelizzare, infatti, — come
scriveva Paolo VI — è la grazia e la vocazione propria
della Chiesa, la sua identità più profonda. Essa esiste
per evangelizzare ».(101)
L'evangelizzazione
è un'azione globale e dinamica, che coinvolge la Chiesa nella
sua partecipazione alla missione profetica, sacerdotale e
regale del Signore Gesù. Essa, pertanto, comporta
inscindibilmente le dimensioni dell'annuncio, della
celebrazione e del servizio della carità. È un atto
profondamente ecclesiale, che chiama in causa tutti i
diversi operai del Vangelo, ciascuno secondo i propri carismi
e il proprio ministero.
Così
è anche quando si tratta di annunciare il Vangelo della
vita, parte integrante del Vangelo che è Gesù Cristo. Di
questo Vangelo noi siamo al servizio, sostenuti dalla
consapevolezza di averlo ricevuto in dono e di essere inviati
a proclamarlo a tutta l'umanità « fino agli estremi confini
della terra » (At 1, 8). Nutriamo perciò umile e
grata coscienza di essere il popolo della vita e per la
vita e in tal modo ci presentiamo davanti a tutti.
79.
Siamo il popolo della vita perché Dio, nel suo amore
gratuito, ci ha donato il Vangelo della vita e da
questo stesso Vangelo noi siamo stati trasformati e salvati.
Siamo stati riconquistati dall' « autore della vita » (At
3, 15) a prezzo del suo sangue prezioso (cf. 1 Cor 6,
20; 7, 23; 1 Pt 1, 19) e mediante il lavacro
battesimale siamo stati inseriti in lui (cf. Rm 6, 4-5;
Col 2, 12), come rami che dall'unico albero traggono
linfa e fecondità (cf. Gv 15, 5). Rinnovati
interiormente dalla grazia dello Spirito, « che è Signore e
dà la vita », siamo diventati un popolo per la vita e
come tali siamo chiamati a comportarci.
Siamo
mandati: essere al
servizio della vita non è per noi un vanto, ma un dovere, che
nasce dalla coscienza di essere « il popolo che Dio si è
acquistato perché proclami le sue opere meravigliose » (1
Pt 2, 9). Nel nostro cammino ci guida e ci sostiene la
legge dell'amore: è l'amore di cui è sorgente e modello
il Figlio di Dio fatto uomo, che « morendo ha dato la vita al
mondo ».(102)
Siamo
mandati come popolo. L'impegno
a servizio della vita grava su tutti e su ciascuno. È una
responsabilità propriamente « ecclesiale », che esige
l'azione concertata e generosa di tutti i membri e di tutte le
articolazioni della comunità cristiana. Il compito
comunitario però non elimina né diminuisce la responsabilità
della singola persona, alla quale è rivolto il comando
del Signore a « farsi prossimo » di ogni uomo: « Và e
anche tu fà lo stesso » (Lc 10, 37).
Tutti
insieme sentiamo il dovere di annunciare il Vangelo della
vita, di celebrarlo nella liturgia e nell'intera
esistenza, diservirlo con le diverse iniziative e
strutture di sostegno e di promozione.
«
Quello che abbiamo veduto e udito noi lo annunziamo anche a
voi » (1 Gv 1,
3): annunciare il Vangelo della vita
80.
« Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito,
ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi
abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato,
ossia il Verbo della vita... noi lo annunziamo anche a voi,
perché anche voi siate in comunione con noi » (1 Gv 1,
1.3). Gesù è l'unico Vangelo: noi non abbiamo altro da dire
e da testimoniare.
È
proprio l'annuncio di Gesù ad essere annuncio della vita.
Egli, infatti, è « il Verbo della vita » (1 Gv 1,
1). In lui « la vita si è fatta visibile » (1 Gv 1,
2); anzi lui stesso è « la vita eterna, che era presso il
Padre e si è resa visibile a noi » (ivi). Questa
stessa vita, grazie al dono dello Spirito, è stata comunicata
all'uomo. Ordinata alla vita in pienezza, la « vita eterna »,
anche la vita terrena di ciascuno acquista il suo senso pieno.
Illuminati
da questo Vangelo della vita, sentiamo il bisogno di
proclamarlo e di testimoniarlo nella novità sorprendente che
lo contraddistingue: poiché si identifica con Gesù stesso,
apportatore di ogni novità (103) e vincitore della «
vecchiezza » che deriva dal peccato e porta alla morte,(104)
tale Vangelo supera ogni aspettativa dell'uomo e svela a quali
sublimi altezze viene elevata, per grazia, la dignità della
persona. Così la contempla san Gregorio di Nissa: « L'uomo
che, tra gli esseri, non conta nulla, che è polvere, erba,
vanità, una volta che è adottato dal Dio dell'universo come
figlio, diventa familiare di questo Essere, la cui eccellenza
e grandezza nessuno può vedere, ascoltare e comprendere. Con
quale parola, pensiero o slancio dello spirito si potrà
esaltare la sovrabbondanza di questa grazia? L'uomo sorpassa
la sua natura: da mortale diventa immortale, da perituro
imperituro, da effimero eterno, da uomo diventa dio ».(105)
La
gratitudine e la gioia per l'incommensurabile dignità
dell'uomo ci spinge a rendere tutti partecipi di questo
messaggio: « Quello che abbiamo veduto e udito, noi lo
annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione
con noi » (1 Gv 1, 3). È necessario far giungere il Vangelo
della vita al cuore di ogni uomo e donna e immetterlo
nelle pieghe più recondite dell'intera società.
81.
Si tratta di annunciare anzitutto il centro di questo
Vangelo. Esso è annuncio di un Dio vivo e vicino, che ci
chiama a una profonda comunione con sé e ci apre alla
speranza certa della vita eterna; è affermazione
dell'inscindibile legame che intercorre tra la persona, la sua
vita e la sua corporeità; è presentazione della vita umana
come vita di relazione, dono di Dio, frutto e segno del suo
amore; è proclamazione dello straordinario rapporto di Gesù
con ciascun uomo, che consente di riconoscere in ogni volto
umano il volto di Cristo; è indicazione del « dono sincero
di sé » quale compito e luogo di realizzazione piena della
propria libertà.
Nello
stesso tempo, si tratta di additare tutte le conseguenze
di questo stesso Vangelo, che così si possono riassumere: la
vita umana, dono prezioso di Dio, è sacra e inviolabile e per
questo, in particolare, sono assolutamente inaccettabili
l'aborto procurato e l'eutanasia; la vita dell'uomo non solo
non deve essere soppressa, ma va protetta con ogni amorosa
attenzione; la vita trova il suo senso nell'amore ricevuto e
donato, nel cui orizzonte attingono piena verità la sessualità
e la procreazione umana; in questo amore anche la sofferenza e
la morte hanno un senso e, pur permanendo il mistero che le
avvolge, possono diventare eventi di salvezza; il rispetto per
la vita esige che la scienza e la tecnica siano sempre
ordinate all'uomo e al suo sviluppo integrale; l'intera società
deve rispettare, difendere e promuovere la dignità di ogni
persona umana, in ogni momento e condizione della sua vita.
82.
Per essere veramente un popolo al servizio della vita
dobbiamo, con costanza e coraggio, proporre questi contenuti
fin dal primo annuncio del Vangelo e, in seguito, nella
catechesi e nelle diverse forme di predicazione, nel dialogo
personale e in ogni azione educativa. Agli educatori,
insegnanti, catechisti e teologi, spetta il compito di mettere
in risalto le ragioni antropologiche che fondano e
sostengono il rispetto di ogni vita umana. In tal modo, mentre
faremo risplendere l'originale novità del Vangelo della
vita, potremo aiutare tutti a scoprire anche alla luce
della ragione e dell'esperienza, come il messaggio cristiano
illumini pienamente l'uomo e il significato del suo essere ed
esistere; troveremo preziosi punti di incontro e di dialogo
anche con i non credenti, tutti insieme impegnati a far
sorgere una nuova cultura della vita.
Circondati
dalle voci più contrastanti, mentre molti rigettano la sana
dottrina intorno alla vita dell'uomo, sentiamo rivolta anche a
noi la supplica indirizzata da Paolo a Timoteo: « Annunzia la
parola, insisti in ogni occasione opportuna e non opportuna,
ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e dottrina
» (2 Tm 4, 2). Questa esortazione deve risuonare con
particolare vigore nel cuore di quanti, nella Chiesa,
partecipano più direttamente, a diverso titolo, alla sua
missione di « maestra » della verità. Risuoni innanzitutto
per noi Vescovi: a noi per primi è chiesto di farci
annunciatori instancabili delVangelo della vita; a noi
è pure affidato il compito di vigilare sulla trasmissione
integra e fedele dell'insegnamento riproposto in questa
Enciclica e di ricorrere alle misure più opportune perché i
fedeli siano preservati da ogni dottrina ad esso contraria.
Una speciale attenzione dobbiamo porre perché nelle facoltà
teologiche, nei seminari e nelle diverse istituzioni
cattoliche venga diffusa, illustrata e approfondita la
conoscenza della sana dottrina.(106) L'esortazione di Paolo
risuoni per tutti i teologi, per i pastori e per
quanti altri svolgono compiti diinsegnamento, catechesi e
formazione delle coscienze: consapevoli del ruolo ad essi
spettante, non si assumano mai la grave responsabilità di
tradire la verità e la loro stessa missione esponendo idee
personali contrarie al Vangelo della vita quale il
Magistero fedelmente ripropone e interpreta.
Nell'annunciare
questo Vangelo, non dobbiamo temere l'ostilità e
l'impopolarità, rifiutando ogni compromesso ed ambiguità,
che ci conformerebbero alla mentalità di questo mondo (cf. Rm
12, 2). Dobbiamo essere nel mondo ma non del
mondo (cf. Gv 15, 19; 17, 16), con la forza che ci
viene da Cristo, che con la sua morte e risurrezione ha vinto
il mondo (cf. Gv 16, 33).
«
Ti lodo perché mi hai fatto come un prodigio » (Sal
139/138, 14): celebrare il Vangelo della vita
83.
Mandati nel mondo come « popolo per la vita », il nostro
annuncio deve diventare anche una vera e propria
celebrazione del Vangelo della vita. È anzi questa stessa
celebrazione, con la forza evocativa dei suoi gesti, simboli e
riti, a diventare luogo prezioso e significativo per
trasmettere la bellezza e la grandezza di questo Vangelo.
A
tal fine, urge anzitutto coltivare, in noi e negli
altri, uno sguardo contemplativo.(107) Questo nasce
dalla fede nel Dio della vita, che ha creato ogni uomo
facendolo come un prodigio (cf. Sal 139/138, 14). È lo
sguardo di chi vede la vita nella sua profondità, cogliendone
le dimensioni di gratuità, di bellezza, di provocazione alla
libertà e alla responsabilità. È lo sguardo di chi non
pretende d'impossessarsi della realtà, ma la accoglie come un
dono, scoprendo in ogni cosa il riflesso del Creatore e in
ogni persona la sua immagine vivente (cf. Gn 1, 27; Sal
8, 6). Questo sguardo non si arrende sfiduciato di fronte
a chi è nella malattia, nella sofferenza, nella marginalità
e alle soglie della morte; ma da tutte queste situazioni si
lascia interpellare per andare alla ricerca di un senso e,
proprio in queste circostanze, si apre a ritrovare nel volto
di ogni persona un appello al confronto, al dialogo, alla
solidarietà.
È
tempo di assumere tutti questo sguardo, ridiventando capaci,
con l'animo colmo di religioso stupore, di venerare e
onorare ogni uomo, come ci invitava a fare Paolo VI in uno
dei suoi messaggi natalizi.(108) Animato da questo sguardo
contemplativo, il popolo nuovo dei redenti non può non
prorompere in inni di gioia, di lode e di ringraziamento
per il dono inestimabile della vita, per il mistero della
chiamata di ogni uomo a partecipare in Cristo alla vita di
grazia e a un'esistenza di comunione senza fine con Dio
Creatore e Padre.
84.
Celebrare il Vangelo della vita significa celebrare il Dio
della vita, il Dio che dona la vita: « Noi dobbiamo
celebrare la Vita eterna, dalla quale procede qualsiasi altra
vita. Da essa riceve la vita, proporzionalmente alle sue
capacità, ogni essere che partecipa in qualche modo alla
vita. Questa Vita divina, che è al di sopra di qualsiasi
vita, vivifica e conserva la vita. Qualsiasi vita e qualsiasi
movimento vitale procedono da questa Vita che trascende ogni
vita ed ogni principio di vita. Ad essa le anime debbono la
loro incorruttibilità, come pure grazie ad essa vivono tutti
gli animali e tutte le piante, che ricevono della vita l'eco
più debole. Agli uomini, esseri composti di spirito e di
materia, la Vita dona la vita. Se poi ci accade di
abbandonarla, allora la Vita, per il traboccare del suo amore
verso l'uomo, ci converte e ci richiama a sé. Non solo: ci
promette di condurci, anime e corpi, alla vita perfetta,
all'immortalità. È troppo poco dire che questa Vita è viva:
essa è Principio di vita, Causa e Sorgente unica di vita.
Ogni vivente deve contemplarla e lodarla: è Vita che trabocca
vita ».(109)
Anche
noi, come il Salmista, nella preghiera quotidiana,
individuale e comunitaria, lodiamo e benediciamo Dio nostro
Padre, che ci ha tessuti nel seno materno e ci ha visti e
amati quando ancora eravamo informi (cf. Sal 139/138,
13. 15-16), ed esclamiamo con gioia incontenibile: « Ti lodo,
perché mi hai fatto come un prodigio; sono stupende le tue
opere, tu mi conosci fino in fondo » (Sal 139/138,
14). Sì, « questa vita mortale è, nonostante i suoi
travagli, i suoi oscuri misteri, le sue sofferenze, la sua
fatale caducità, un fatto bellissimo, un prodigio sempre
originale e commovente, un avvenimento degno d'essere cantato
in gaudio e in gloria ».(110) Di più, l'uomo e la sua vita
non ci appaiono solo come uno dei prodigi più alti della
creazione: all'uomo Dio ha conferito una dignità quasi divina
(cf. Sal 8, 6-7). In ogni bimbo che nasce e in ogni
uomo che vive o che muore noi riconosciamo l'immagine della
gloria di Dio: questa gloria noi celebriamo in ogni uomo,
segno del Dio vivente, icona di Gesù Cristo.
Siamo
chiamati ad esprimere stupore e gratitudine per la vita
ricevuta in dono e ad accogliere, gustare e comunicare il Vangelo
della vita non solo con la preghiera personale e
comunitaria, ma soprattutto con le celebrazioni dell'anno
liturgico. Sono qui da ricordare in particolare i Sacramenti,
segni efficaci della presenza e dell'azione salvifica del
Signore Gesù nell'esistenza cristiana: essi rendono gli
uomini partecipi della vita divina, assicurando loro l'energia
spirituale necessaria per realizzare nella sua piena verità
il significato del vivere, del soffrire e del morire. Grazie
ad una genuina riscoperta del senso dei riti e ad una loro
adeguata valorizzazione, le celebrazioni liturgiche,
soprattutto quelle sacramentali, saranno sempre più in grado
di esprimere la verità piena sulla nascita, la vita, la
sofferenza e la morte, aiutando a vivere queste realtà come
partecipazione al mistero pasquale di Cristo morto e risorto.
85.
Nella celebrazione del Vangelo della vita occorre saperapprezzare
e valorizzare anche i gesti e i simboli, di cui sono ricche le
diverse tradizioni e consuetudini culturali e popolari.
Sono momenti e forme di incontro con cui, nei diversi Paesi e
culture, si manifestano la gioia per una vita che nasce, il
rispetto e la difesa di ogni esistenza umana, la cura per chi
soffre o è nel bisogno, la vicinanza all'anziano o al
morente, la condivisione del dolore di chi è nel lutto, la
speranza e il desiderio dell'immortalità.
In
questa prospettiva, accogliendo anche il suggerimento offerto
dai Cardinali nel Concistoro del 1991, propongo che si celebri
ogni anno nelle varie Nazioni una Giornata per la Vita,
quale già si attua ad iniziativa di alcune Conferenze
Episcopali. È necessario che tale Giornata venga preparata e
celebrata con l'attiva partecipazione di tutte le componenti
della Chiesa locale. Suo scopo fondamentale è quello di
suscitare, nelle coscienze, nelle famiglie, nella Chiesa e
nella società civile, il riconoscimento del senso e del
valore della vita umana in ogni suo momento e condizione,
ponendo particolarmente al centro dell'attenzione la gravità
dell'aborto e dell'eutanasia, senza tuttavia trascurare gli
altri momenti e aspetti della vita, che meritano di essere
presi di volta in volta in attenta considerazione, secondo
quanto suggerito dall'evolversi della situazione storica.
86.
Nella logica del culto spirituale gradito a Dio (cf. Rm
12, 1), la celebrazione del Vangelo della vita chiede
di realizzarsi soprattutto nell'esistenza quotidiana, vissuta
nell'amore per gli altri e nella donazione di se stessi. Sarà
così tutta la nostra esistenza a farsi accoglienza autentica
e responsabile del dono della vita e lode sincera e
riconoscente a Dio che ci ha fatto tale dono. È quanto già
avviene in tantissimi gesti di donazione, spesso umile e
nascosta, compiuti da uomini e donne, bambini e adulti,
giovani e anziani, sani e ammalati.
È
in questo contesto, ricco di umanità e di amore, che nascono
anche i gesti eroici. Essi sono la celebrazione più
solenne del Vangelo della vita, perché lo proclamano con
il dono totale di sé; sono la manifestazione luminosa del
grado più elevato di amore, che è dare la vita per la
persona amata (cf. Gv 15, 13); sono la partecipazione
al mistero della Croce, nella quale Gesù svela quanto valore
abbia per lui la vita di ogni uomo e come questa si realizzi
in pienezza nel dono sincero di sé. Al di là dei fatti
clamorosi, c'è l'eroismo del quotidiano, fatto di piccoli o
grandi gesti di condivisione che alimentano un'autentica
cultura della vita. Tra questi gesti merita particolare
apprezzamento la donazione di organi compiuta in forme
eticamente accettabili, per offrire una possibilità di salute
e perfino di vita a malati talvolta privi di speranza.
A
tale eroismo del quotidiano appartiene la testimonianza
silenziosa, ma quanto mai feconda ed eloquente, di « tutte le
madri coraggiose, che si dedicano senza riserve alla propria
famiglia, che soffrono nel dare alla luce i propri figli, e
poi sono pronte ad intraprendere ogni fatica, ad affrontare
ogni sacrificio, per trasmettere loro quanto di meglio esse
custodiscono in sé ».(111) Nel vivere la loro missione «
non sempre queste madri eroiche trovano sostegno nel loro
ambiente. Anzi, i modelli di civiltà, spesso promossi e
propagati dai mezzi di comunicazione, non favoriscono la
maternità. Nel nome del progresso e della modernità vengono
presentati come ormai superati i valori della fedeltà, della
castità, del sacrificio, nei quali si sono distinte e
continuano a distinguersi schiere di spose e di madri
cristiane... Vi ringraziamo, madri eroiche, per il vostro
amore invincibile! Vi ringraziamo per l'intrepida fiducia in
Dio e nel suo amore. Vi ringraziamo per il sacrificio della
vostra vita... Cristo nel Mistero pasquale vi restituisce il
dono che gli avete fatto. Egli infatti ha il potere di
restituirvi la vita che gli avete portato in offerta ».(112)
«
Che giova, fratelli miei se uno dice di avere la fede ma non
ha le opere? » (Gc
2, 14): servire il Vangelo della vita
87.
In forza della partecipazione alla missione regale di Cristo,
il sostegno e la promozione della vita umana devono attuarsi
mediante il servizio della carità, che si esprime
nella testimonianza personale, nelle diverse forme di
volontariato, nell'animazione sociale e nell'impegno politico.
È, questa, un'esigenza particolarmente pressante nell'ora
presente, nella quale la « cultura della morte » così
fortemente si contrappone alla « cultura della vita » e
spesso sembra avere il sopravvento. Ancor prima, però, è
un'esigenza che nasce dalla « fede che opera per mezzo della
carità » (Gal 5, 6), come ci ammonisce la Lettera di
Giacomo: « Che giova, fratelli miei, se uno dice di avere la
fede ma non ha le opere? Forse che quella fede può salvarlo?
Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti
del cibo quotidiano e uno di voi dice loro: "Andatevene
in pace, riscaldatevi e saziatevi", ma non date loro il
necessario per il corpo, che giova? Così anche la fede: se
non ha le opere, è morta in se stessa » (2, 14-17).
Nel
servizio della carità c'è un atteggiamento che ci deve
animare e contraddistinguere: dobbiamo prenderci cura
dell'altro in quanto persona affidata da Dio alla nostra
responsabilità. Come discepoli di Gesù, siamo chiamati a
farci prossimi di ogni uomo (cf. Lc 10, 29-37),
riservando una speciale preferenza a chi è più povero, solo
e bisognoso. Proprio attraverso l'aiuto all'affamato,
all'assetato, al forestiero, all'ignudo, al malato, al
carcerato — come pure al bambino non ancora nato,
all'anziano sofferente o vicino alla morte — ci è dato di
servire Gesù, come Egli stesso ha dichiarato: « Ogni volta
che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli
più piccoli, l'avete fatto a me » (Mt 25, 40). Per
questo, non possiamo non sentirci interpellati e giudicati
dalla pagina sempre attuale di san Giovanni Crisostomo: «
Vuoi onorare il corpo di Cristo? Non trascurarlo quando si
trova nudo. Non rendergli onore qui nel tempio con stoffe di
seta, per poi trascurarlo fuori, dove patisce freddo e nudità
».(113)
Il
servizio della carità nei riguardi della vita deve essere
profondamente unitario: non può tollerare unilateralismi
e discriminazioni, perché la vita umana è sacra e
inviolabile in ogni sua fase e situazione; essa è un bene
indivisibile. Si tratta dunque di « prendersi cura » di
tutta la vita e della vita di tutti. Anzi, ancora più
profondamente, si tratta di andare fino alle radici stesse
della vita e dell'amore.
Proprio
partendo da un amore profondo per ogni uomo e donna, si è
sviluppata lungo i secoli una straordinaria storia di carità,
che ha introdotto nella vita ecclesiale e civile numerose
strutture di servizio alla vita, che suscitano l'ammirazione
di ogni osservatore non prevenuto. È una storia che, con
rinnovato senso di responsabilità, ogni comunità cristiana
deve continuare a scrivere con una molteplice azione pastorale
e sociale. In tal senso si devono mettere in atto forme
discrete ed efficaci diaccompagnamento della vita nascente,
con una speciale vicinanza a quelle mamme che, anche senza
il sostegno del padre, non temono di mettere al mondo il loro
bambino e di educarlo. Analoga cura deve essere riservata alla
vita nella marginalità o nella sofferenza, specie nelle sue
fasi finali.
88.
Tutto questo comporta una paziente e coraggiosa opera
educativa che solleciti tutti e ciascuno a farsi carico
dei pesi degli altri (cf. Gal 6, 2); richiede una
continua promozione di vocazioni al servizio, in
particolare tra i giovani; implica la realizzazione di progetti
e iniziative concrete, stabili ed evangelicamente
ispirate.
Molteplici
sono gli strumenti da valorizzare con competenza e
serietà di impegno. Alle sorgenti della vita, i centri per
i metodi naturali di regolazione della fertilità vanno
promossi come un valido aiuto per la paternità e maternità
responsabili, nella quale ogni persona, a cominciare dal
figlio, è riconosciuta e rispettata per se stessa e ogni
scelta è animata e guidata dal criterio del dono sincero di sé.
Anche i consultori matrimoniali e familiari, mediante
la loro specifica azione di consulenza e di prevenzione,
svolta alla luce di un'antropologia coerente con la visione
cristiana della persona, della coppia e della sessualità,
costituiscono un prezioso servizio per riscoprire il senso
dell'amore e della vita e per sostenere e accompagnare ogni
famiglia nella sua missione di « santuario della vita ». A
servizio della vita nascente si pongono pure i centri di
aiuto alla vita e le case o i centri di accoglienza della
vita. Grazie alla loro opera, non poche madri nubili e
coppie in difficoltà ritrovano ragioni e convinzioni e
incontrano assistenza e sostegno per superare disagi e paure
nell'accogliere una vita nascente o appena venuta alla luce.
Di
fronte alla vita in condizioni di disagio, di devianza, di
malattia e di marginalità, altri strumenti — come le comunità
di recupero per tossicodipendenti, le comunità alloggio per i
minori o per i malati mentali, i centri di cura e accoglienza
per malati di AIDS, le cooperative di solidarietà soprattutto
per i disabili — sono espressione eloquente di ciò che
la carità sa inventare per dare a ciascuno ragioni nuove di
speranza e possibilità concrete di vita.
Quando
poi l'esistenza terrena volge al termine, è ancora la carità
a trovare le modalità più opportune perché gli anziani,
specialmente se non autosufficienti, e i cosiddetti malati
terminali possano godere di un'assistenza veramente umana
e ricevere risposte adeguate alle loro esigenze, in
particolare alla loro angoscia e solitudine. Insostituibile è
in questi casi il ruolo delle famiglie; ma esse possono
trovare grande aiuto nelle strutture sociali di assistenza e,
quando necessario, nel ricorso alle cure palliative, avvalendosi
degli idonei servizi sanitari e sociali, operanti sia nei
luoghi di ricovero e cura pubblici che a domicilio.
In
particolare, deve essere riconsiderato il ruolo degli
ospedali, delle cliniche e delle case di cura: la
loro vera identità non è solo quella di strutture nelle
quali ci si prende cura dei malati e dei morenti, ma anzitutto
quella di ambienti nei quali la sofferenza, il dolore e la
morte vengono riconosciuti ed interpretati nel loro
significato umano e specificamente cristiano. In modo speciale
tale identità deve mostrarsi chiara ed efficace negli istituti
dipendenti da religiosi o, comunque, legati alla Chiesa.
89.
Queste strutture e luoghi di servizio alla vita, e tutte le
altre iniziative di sostegno e solidarietà che le situazioni
potranno di volta in volta suggerire, hanno bisogno di essere
animate da persone generosamente disponibili e
profondamente consapevoli di quanto decisivo sia il Vangelo
della vita per il bene dell'individuo e della società.
Peculiare
è la responsabilità affidata agli operatori sanitari:
medici, farmacisti, infermieri, cappellani, religiosi e
religiose, amministratori e volontari. La
loro professione li vuole custodi e servitori della vita
umana. Nel contesto culturale e sociale odierno, nel quale la
scienza e l'arte medica rischiano di smarrire la loro nativa
dimensione etica, essi possono essere talvolta fortemente
tentati di trasformarsi in artefici di manipolazione della
vita o addirittura in operatori di morte. Di fronte a tale
tentazione la loro responsabilità è oggi enormemente
accresciuta e trova la sua ispirazione più profonda e il suo
sostegno più forte proprio nell'intrinseca e imprescindibile
dimensione etica della professione sanitaria, come già
riconosceva l'antico e sempre attuale giuramento di
Ippocrate, secondo il quale ad ogni medico è chiesto di
impegnarsi per il rispetto assoluto della vita umana e della
sua sacralità.
Il
rispetto assoluto di ogni vita umana innocente esige anchel'esercizio
dell'obiezione di coscienza di fronte all'aborto procurato
e all'eutanasia. Il « far morire » non può mai essere
considerato come una cura medica, neppure quando l'intenzione
fosse solo quella di assecondare una richiesta del paziente:
è, piuttosto, la negazione della professione sanitaria che si
qualifica come un appassionato e tenace « sì » alla vita.
Anche la ricerca biomedica, campo affascinante e promettente
di nuovi grandi benefici per l'umanità, deve sempre rifiutare
sperimentazioni, ricerche o applicazioni che, misconoscendo
l'inviolabile dignità dell'essere umano, cessano di essere a
servizio degli uomini e si trasformano in realtà che, mentre
sembrano soccorrerli, li opprimono.
90.
Uno specifico ruolo sono chiamate a svolgere le persone
impegnate nel volontariato: esse offrono un apporto
prezioso nel servizio alla vita, quando sanno coniugare
capacità professionale e amore generoso e gratuito. Il Vangelo
della vita le spinge ad elevare i sentimenti di semplice
filantropia all'altezza della carità di Cristo; a
riconquistare ogni giorno, tra fatiche e stanchezze, la
coscienza della dignità di ogni uomo; ad andare alla scoperta
dei bisogni delle persone iniziando — se necessario —
nuovi cammini là dove più urgente è il bisogno e più
deboli sono l'attenzione e il sostegno.
Il
realismo tenace della carità esige che il Vangelo della
vita sia servito anche mediante forme di animazione
sociale e di impegno politico, difendendo e proponendo il
valore della vita nelle nostre società sempre più complesse
e pluraliste. Singoli, famiglie, gruppi, realtà
associative hanno, sia pure a titolo e in modi diversi,
una responsabilità nell'animazione sociale e
nell'elaborazione di progetti culturali, economici, politici e
legislativi che, nel rispetto di tutti e secondo la logica
della convivenza democratica, contribuiscano a edificare una
società nella quale la dignità di ogni persona sia
riconosciuta e tutelata, e la vita di tutti sia difesa e
promossa.
Tale
compito grava in particolare sui responsabili della cosa
pubblica. Chiamati a servire l'uomo e il bene comune,
hanno il dovere di compiere scelte coraggiose a favore della
vita, innanzitutto nell'ambito delle disposizioni
legislative. In un regime democratico, ove le leggi e le
decisioni si formano sulla base del consenso di molti, può
attenuarsi nella coscienza dei singoli che sono investiti di
autorità il senso della responsabilità personale. Ma a
questa nessuno può mai abdicare, soprattutto quando ha un
mandato legislativo o decisionale, che lo chiama a rispondere
a Dio, alla propria coscienza e all'intera società di scelte
eventualmente contrarie al vero bene comune. Se le leggi non
sono l'unico strumento per difendere la vita umana, esse però
svolgono un ruolo molto importante e talvolta determinante nel
promuovere una mentalità e un costume. Ripeto ancora una
volta che una norma che viola il diritto naturale alla vita di
un innocente è ingiusta e, come tale, non può avere valore
di legge. Per questo rinnovo con forza il mio appello a tutti
i politici perché non promulghino leggi che, misconoscendo la
dignità della persona, minano alla radice la stessa
convivenza civile.
La
Chiesa sa che, nel contesto di democrazie pluraliste, per la
presenza di forti correnti culturali di diversa impostazione,
è difficile attuare un'efficace difesa legale della vita.
Mossa tuttavia dalla certezza che la verità morale non può
non avere un'eco nell'intimo di ogni coscienza, essa
incoraggia i politici, cominciando da quelli cristiani, a non
rassegnarsi e a compiere quelle scelte che, tenendo conto
delle possibilità concrete, portino a ristabilire un ordine
giusto nell'affermazione e promozione del valore della vita.
In questa prospettiva, occorre rilevare che non basta
eliminare le leggi inique. Si dovranno rimuovere le cause che
favoriscono gli attentati alla vita, soprattutto assicurando
il dovuto sostegno alla famiglia e alla maternità: la
politica familiare deve essere perno e motore di tutte
le politiche sociali. Pertanto, occorre avviare iniziative
sociali e legislative capaci di garantire condizioni di
autentica libertà nella scelta in ordine alla paternità e
alla maternità; inoltre è necessario reimpostare le
politiche lavorative, urbanistiche, abitative e dei servizi,
perché si possano conciliare tra loro i tempi del lavoro e
quelli della famiglia e diventi effettivamente possibile la
cura dei bambini e degli anziani.
91.
Un capitolo importante della politica per la vita è
costituito oggi dalla problematica demografica. Le
pubbliche autorità hanno certo la responsabilità di prendere
« iniziative al fine di orientare la demografia della
popolazione »; (114) ma tali iniziative devono sempre
presupporre e rispettare la responsabilità primaria ed
inalienabile dei coniugi e delle famiglie e non possono
ricorrere a metodi non rispettosi della persona e dei suoi
diritti fondamentali, a cominciare dal diritto alla vita di
ogni essere umano innocente. È, quindi, moralmente
inaccettabile che, per regolare le nascite, si incoraggi o
addirittura si imponga l'uso di mezzi come la contraccezione,
la sterilizzazione e l'aborto.
Ben
altre sono le vie per risolvere il problema demografico: i
Governi e le varie istituzioni internazionali devono
innanzitutto mirare alla creazione di condizioni economiche,
sociali, medico-sanitarie e culturali che consentano agli
sposi di fare le loro scelte procreative in piena libertà e
con vera responsabilità; devono poi sforzarsi di « potenzia
re le possibilità e distribuire con maggiore giustizia le
ricchezze, affinché tutti possano partecipare equamente ai
beni del creato. Occorre creare soluzioni a livello mondiale,
instaurando un'autentica economia di comunione e
condivisione dei beni, sia sul piano internazionale che su
quello nazionale ».(115) Questa sola è la strada che
rispetta la dignità delle persone e delle famiglie, oltre che
l'autentico patrimonio culturale dei popoli.
Vasto
e complesso è dunque il servizio al Vangelo della vita.
Esso ci appare sempre più come ambito prezioso e favorevole
per una fattiva collaborazione con i fratelli delle altre
Chiese e Comunità ecclesiali nella linea di quell'ecumenismo
delle opere che il Concilio Vaticano II ha autorevolmente
incoraggiato.(116) Esso, inoltre, si presenta come spazio
provvidenziale per il dialogo e la collaborazione con i
seguaci di altre religioni e con tutti gli uomini di buona
volontà: la difesa e la promozione della vita non sono
monopolio di nessuno, ma compito e responsabilità di tutti. La
sfida che ci sta di fronte, alla vigilia del terzo millennio,
è ardua: solo la concorde cooperazione di quanti credono nel
valore della vita potrà evitare una sconfitta della civiltà
dalle conseguenze imprevedibili.
«
Dono del Signore sono i figli, è sua grazia il frutto del
grembo » (Sal 126/125,
3): la famiglia « santuario della vita »
92.
All'interno del « popolo della vita e per la vita »,decisiva
è la responsabilità della famiglia: è una responsabilità
che scaturisce dalla sua stessa natura — quella di essere
comunità di vita e di amore, fondata sul matrimonio — e
dalla sua missione di « custodire, rivelare e comunicare
l'amore ».(117) È in questione l'amore stesso di Dio, del
quale i genitori sono costituiti collaboratori e quasi
interpreti nel trasmettere la vita e nell'educarla secondo il
suo progetto di Padre.(118) È quindi l'amore che si fa
gratuità, accoglienza, donazione: nella famiglia ciascuno è
riconosciuto, rispettato e onorato perché è persona e, se
qualcuno ha più bisogno, più intensa e più vigile è la
cura nei suoi confronti.
La
famiglia è chiamata in causa nell'intero arco di esistenza
dei suoi membri, dalla nascita alla morte. Essa è veramente
« ilsantuario della vita..., il luogo in cui la vita,
dono di Dio, può essere adeguatamente accolta e protetta
contro i molteplici attacchi a cui è esposta, e può
svilupparsi secondo le esigenze di un'autentica crescita umana
».(119) Per questo, determinante e insostituibile è
il ruolo della famiglia nel costruire la cultura della vita.
Come
chiesa domestica, la famiglia è chiamata ad
annunciare, celebrare e servire il Vangelo della vita. È
un compito che riguarda innanzitutto i coniugi, chiamati ad
essere trasmettitori della vita, sulla base di una sempre
rinnovata consapevolezza del senso della generazione, come
evento privilegiato nel quale si manifesta che la vita
umana è un dono ricevuto per essere a sua volta donato. Nella
procreazione di una nuova vita i genitori avvertono che il
figlio « se è frutto della loro reciproca donazione d'amore,
è, a sua volta, un dono per ambedue, un dono che scaturisce
dal dono ».(120)
È
soprattutto attraverso l'educazione dei figli che la
famiglia assolve la sua missione di annunciare il Vangelo
della vita. Con la parola e con l'esempio, nella
quotidianità dei rapporti e delle scelte e mediante gesti e
segni concreti, i genitori iniziano i loro figli alla libertà
autentica, che si realizza nel dono sincero di sé, e
coltivano in loro il rispetto dell'altro, il senso della
giustizia, l'accoglienza cordiale, il dialogo, il servizio
generoso, la solidarietà e ogni altro valore che aiuti a
vivere la vita come un dono. L'opera educativa dei genitori
cristiani deve farsi servizio alla fede dei figli e aiuto loro
offerto perché adempiano la vocazione ricevuta da Dio.
Rientra nella missione educativa dei genitori insegnare e
testimoniare ai figli il vero senso del soffrire e del morire:
lo potranno fare se sapranno essere attenti ad ogni sofferenza
che trovano intorno a sé e, prima ancora, se sapranno
sviluppare atteggiamenti di vicinanza, assistenza e
condivisione verso malati e anziani nell'ambito familiare.
93.
La famiglia, inoltre, celebra il Vangelo della vita con la
preghiera quotidiana, individuale e familiare: con essa
loda e ringrazia il Signore per il dono della vita ed invoca
luce e forza per affrontare i momenti di difficoltà e di
sofferenza, senza mai smarrire la speranza. Ma la celebrazione
che dà significato ad ogni altra forma di preghiera e di
culto è quella che s'esprime nell'esistenza quotidiana
della famiglia, se è un'esistenza fatta di amore e
donazione.
La
celebrazione si trasforma così in un servizio al Vangelo
della vita, che si esprime attraverso la solidarietà,
sperimentata dentro e intorno alla famiglia come attenzione
premurosa, vigile e cordiale nelle azioni piccole e umili di
ogni giorno. Un'espressione particolarmente significativa di
solidarietà tra le famiglie è la disponibilità all'adozione
o all'affidamento dei bambini abbandonati dai loro
genitori o comunque in situazioni di grave disagio. Il vero
amore paterno e materno sa andare al di là dei legami della
carne e del sangue ed accogliere anche bambini di altre
famiglie, offrendo ad essi quanto è necessario per la loro
vita ed il loro pieno sviluppo. Tra le forme di adozione,
merita di essere proposta anche l'adozione a distanza, da
preferire nei casi in cui l'abbandono ha come unico motivo le
condizioni di grave povertà della famiglia. Con tale tipo di
adozione, infatti, si offrono ai genitori gli aiuti necessari
per mantenere ed educare i propri figli, senza doverli
sradicare dal loro ambiente naturale.
Intesa
come « determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per
il bene comune »,(121) la solidarietà chiede di attuarsi
anche attraverso forme di partecipazione sociale e
politica. Di conseguenza, servire il Vangelo della vita
comporta che le famiglie, specie partecipando ad apposite
associazioni, si adoperino affinché le leggi e le istituzioni
dello Stato non ledano in nessun modo il diritto alla vita,
dal concepimento alla morte naturale, ma lo difendano e lo
promuovano.
94.
Un posto particolare va riconosciuto agli anziani. Mentre
in alcune culture la persona più avanzata in età rimane
inserita nella famiglia con un ruolo attivo importante, in
altre culture invece chi è vecchio è sentito come un peso
inutile e viene abbandonato a se stesso: in simile contesto può
sorgere più facilmente la tentazione di ricorrere
all'eutanasia.
L'emarginazione
o addirittura il rifiuto degli anziani sono intollerabili. La
loro presenza in famiglia, o almeno la vicinanza ad essi della
famiglia quando per la ristrettezza degli spazi abitativi o
per altri motivi tale presenza non fosse possibile, sono di
fondamentale importanza nel creare un clima di reciproco
scambio e di arricchente comunicazione fra le varie età della
vita. È importante, perciò, che si conservi, o si
ristabilisca dove è andato smarrito, una sorta di « patto »
tra le generazioni, così che i genitori anziani, giunti al
termine del loro cammino, possano trovare nei figli
l'accoglienza e la solidarietà che essi hanno avuto nei loro
confronti quando s'affacciavano alla vita: lo esige
l'obbedienza al comando divino di onorare il padre e la madre
(cf. Es 20, 12; Lv 19, 3). Ma c'è di più.
L'anziano non è da considerare solo oggetto di attenzione,
vicinanza e servizio. Anch'egli ha un prezioso contributo da
portare al Vangelo della vita. Grazie al ricco
patrimonio di esperienza acquisito lungo gli anni, può e deve
essere dispensatore di sapienza, testimone di speranza e di
carità.
Se
è vero che « l'avvenire dell'umanità passa attraverso la
famiglia »,(122) si deve riconoscere che le odierne
condizioni sociali, economiche e culturali rendono spesso più
arduo e faticoso il compito della famiglia nel servire la
vita. Perché possa realizzare la sua vocazione di «
santuario della vita », quale cellula di una società che ama
e accoglie la vita, è necessario e urgente che la famiglia
stessa sia aiutata e sostenuta. Le società e gli Stati le
devono assicurare tutto quel sostegno, anche economico che è
necessario perché le famiglie possano rispondere in modo più
umano ai propri problemi. Da parte sua la Chiesa deve
promuovere instancabilmente una pastorale familiare capace di
stimolare ogni famiglia a riscoprire e vivere con gioia e con
coraggio la sua missione nei confronti del Vangelo della
vita.
«
Comportatevi come i figli della luce » (Ef
5, 8): per realizzare una svolta culturale
95.
« Comportatevi come i figli della luce... Cercate ciò che è
gradito al Signore, e non partecipate alle opere infruttuose
delle tenebre » (Ef 5, 8.10-11). Nell'odierno contesto
sociale, segnato da una drammatica lotta tra la « cultura
della vita » e la « cultura della morte », occorre far
maturare un forte senso critico, capace di discernere i
veri valori e le autentiche esigenze.
Urgono
una generale mobilitazione delle coscienze e un comune
sforzo etico, per mettere in atto una grande strategia
a favore della vita. Tutti insieme dobbiamo costruire una
nuova cultura della vita: nuova, perché in grado di
affrontare e risolvere gli inediti problemi di oggi circa la
vita dell'uomo; nuova, perché fatta propria con più salda e
operosa convinzione da parte di tutti i cristiani; nuova,
perché capace di suscitare un serio e coraggioso confronto
culturale con tutti. L'urgenza di questa svolta culturale è
legata alla situazione storica che stiamo attraversando, ma si
radica nella stessa missione evangelizzatrice, propria della
Chiesa. Il Vangelo, infatti, mira a « trasformare dal di
dentro, rendere nuova l'umanità »; (123) è come il lievito
che fermenta tutta la pasta (cf. Mt 13, 33) e, come
tale, è destinato a permeare tutte le culture e ad animarle
dall'interno,(124) perché esprimano l'intera verità
sull'uomo e sulla sua vita.
Si
deve cominciare dal rinnovare la cultura della vita
all'interno delle stesse comunità cristiane. Troppo
spesso i credenti, perfino quanti partecipano attivamente alla
vita ecclesiale, cadono in una sorta di dissociazione tra la
fede cristiana e le sue esigenze etiche a riguardo della vita,
giungendo così al soggettivismo morale e a taluni
comportamenti inaccettabili. Dobbiamo allora interrogarci, con
grande lucidità e coraggio, su quale cultura della vita sia
oggi diffusa tra i singoli cristiani, le famiglie, i gruppi e
le comunità delle nostre Diocesi. Con altrettanta chiarezza e
decisione, dobbiamo individuare quali passi siamo chiamati a
compiere per servire la vita secondo la pienezza della sua
verità. Nello stesso tempo, dobbiamo promuovere un confronto
serio e approfondito con tutti, anche con i non credenti, sui
problemi fondamentali della vita umana, nei luoghi
dell'elaborazione del pensiero, come nei diversi ambiti
professionali e là dove si snoda quotidianamente l'esistenza
di ciascuno.
96.
Il primo e fondamentale passo per realizzare questa svolta
culturale consiste nella formazione della coscienza morale circa
il valore incommensurabile e inviolabile di ogni vita umana.
È di somma importanza riscoprire il nesso inscindibile tra
vita e libertà. Sono beni indivisibili: dove è violato
l'uno, anche l'altro finisce per essere violato. Non c'è
libertà vera dove la vita non è accolta e amata; e non c'è
vita piena se non nella libertà. Ambedue queste realtà hanno
poi un riferimento nativo e peculiare, che le lega
indissolubilmente: la vocazione all'amore. Questo amore, come
dono sincero di sé,(125) è il senso più vero della vita e
della libertà della persona.
Non
meno decisiva nella formazione della coscienza è la
riscoperta del legame costitutivo che unisce la libertà alla
verità. Come ho ribadito più volte, sradicare la libertà
dalla verità oggettiva rende impossibile fondare i diritti
della persona su una solida base razionale e pone le premesse
perché nella società si affermino l'arbitrio ingovernabile
dei singoli o il totalitarismo mortificante del pubblico
potere.(126)
È
essenziale allora che l'uomo riconosca l'originaria evidenza
della sua condizione di creatura, che riceve da Dio l'essere e
la vita come un dono e un compito: solo ammettendo questa sua
nativa dipendenza nell'essere, l'uomo può realizzare in
pienezza la sua vita e la sua libertà e insieme rispettare
fino in fondo la vita e la libertà di ogni altra persona. Qui
soprattutto si svela che « al centro di ogni cultura sta
l'atteggiamento che l'uomo assume davanti al mistero più
grande: il mistero di Dio ».(127) Quando si nega Dio e si
vive come se Egli non esistesse, o comunque non si tiene conto
dei suoi comandamenti, si finisce facilmente per negare o
compromettere anche la dignità della persona umana e
l'inviolabilità della sua vita.
97.
Alla formazione della coscienza è strettamente connessal'opera
educativa, che aiuta l'uomo ad essere sempre più uomo, lo
introduce sempre più profondamente nella verità, lo
indirizza verso un crescente rispetto della vita, lo forma
alle giuste relazioni tra le persone.
In
particolare, è necessario educare al valore della vitacominciando
dalle sue stesse radici. È un'illusione pensare di poter
costruire una vera cultura della vita umana, se non si aiutano
i giovani a cogliere e a vivere la sessualità, l'amore e
l'intera esistenza secondo il loro vero significato e nella
loro intima correlazione. La sessualità, ricchezza di tutta
la persona, « manifesta il suo intimo significato nel portare
la persona al dono di sé nell'amore ».(128) La
banalizzazione della sessualità è tra i principali fattori
che stanno all'origine del disprezzo della vita nascente: solo
un amore vero sa custodire la vita. Non ci si può, quindi,
esimere dall'offrire soprattutto agli adolescenti e ai giovani
l'autentica educazione alla sessualità e all'amore, un'educazione
implicante la formazione alla castità, quale virtù
che favorisce la maturità della persona e la rende capace di
rispettare il significato « sponsale » del corpo.
L'opera
di educazione alla vita comporta la formazione dei coniugi
alla procreazione responsabile. Questa, nel suo vero
significato, esige che gli sposi siano docili alla chiamata
del Signore e agiscano come fedeli interpreti del suo disegno:
ciò avviene con l'aprire generosamente la famiglia a nuove
vite, e comunque rimanendo in atteggiamento di apertura e di
servizio alla vita anche quando, per seri motivi e nel
rispetto della legge morale, i coniugi scelgono di evitare
temporaneamente o a tempo indeterminato una nuova nascita. La
legge morale li obbliga in ogni caso a governare le tendenze
dell'istinto e delle passioni e a rispettare le leggi
biologiche iscritte nella loro persona. Proprio tale rispetto
rende legittimo, a servizio della responsabilità nel
procreare, il ricorso ai metodi naturali di regolazione
della fertilità: essi vengono sempre meglio precisati dal
punto di vista scientifico e offrono possibilità concrete per
scelte in armonia con i valori morali. Una onesta
considerazione dei risultati raggiunti dovrebbe far cadere
pregiudizi ancora troppo diffusi e convincere i coniugi nonché
gli operatori sanitari e sociali circa l'importanza di
un'adeguata formazione al riguardo. La Chiesa è riconoscente
verso coloro che con sacrificio personale e dedizione spesso
misconosciuta si impegnano nella ricerca e nella diffusione di
tali metodi, promovendo al tempo stesso un'educazione ai
valori morali che il loro uso suppone.
L'opera
educativa non può non prendere in considerazione anche la
sofferenza e la morte. In
realtà, esse fanno parte dell'esperienza umana, ed è vano,
oltre che fuorviante, cercare di censurarle e rimuoverle.
Ciascuno invece deve essere aiutato a coglierne, nella
concreta e dura realtà, il mistero profondo. Anche il dolore
e la sofferenza hanno un senso e un valore, quando sono
vissuti in stretta connessione con l'amore ricevuto e donato.
In questa prospettiva ho voluto che si celebrasse ogni anno la
Giornata Mondiale del Malato, sottolineando « l'indole
salvifica dell'offerta della sofferenza, che vissuta in
comunione con Cristo appartiene all'essenza stessa della
redenzione ».(129) Del resto perfino la morte è tutt'altro
che un'avventura senza speranza: è la porta dell'esistenza
che si spalanca sull'eternità e, per quanti la vivono in
Cristo, è esperienza di partecipazione al suo mistero di
morte e risurrezione.
98.
In sintesi, possiamo dire che la svolta culturale qui
auspicata esige da tutti il coraggio di assumere un nuovo
stile di vita che s'esprime nel porre a fondamento delle
scelte concrete — a livello personale, familiare, sociale e
internazionale — la giusta scala dei valori: il primato
dell'essere sull'avere,(130) della persona sulle cose.(131)
Questo rinnovato stile di vita implica anche il passaggio
dall'indifferenza all'interessamento per l'altro e dal rifiuto
alla sua accoglienza: gli altri non sono concorrenti da
cui difenderci, ma fratelli e sorelle con cui essere solidali;
sono da amare per se stessi; ci arricchiscono con la loro
stessa presenza.
Nella
mobilitazione per una nuova cultura della vita nessuno si deve
sentire escluso: tutti hanno un ruolo importante da
svolgere. Insieme con quello delle famiglie,
particolarmente prezioso è il compito degli insegnanti e
degli educatori. Molto dipenderà da loro se i giovani,
formati ad una vera libertà, sapranno custodire dentro di sé
e diffondere intorno a sé ideali autentici di vita e sapranno
crescere nel rispetto e nel servizio di ogni persona, in
famiglia e nella società.
Anche
gli intellettuali possono fare molto per costruire una
nuova cultura della vita umana. Un compito particolare spetta
agli intellettuali cattolici, chiamati a rendersi
attivamente presenti nelle sedi privilegiate dell'elaborazione
culturale, nel mondo della scuola e delle università, negli
ambienti della ricerca scientifica e tecnica, nei luoghi della
creazione artistica e della riflessione umanistica.
Alimentando il loro genio e la loro azione alle chiare linfe
del Vangelo, si devono impegnare a servizio di una nuova
cultura della vita con la produzione di contributi seri,
documentati e capaci di imporsi per i loro pregi al rispetto e
all'interesse di tutti. Proprio in questa prospettiva ho
istituito la Pontificia Accademia per la Vita con il
compito di « studiare, informare e formare circa i principali
problemi di biomedicina e di diritto, relativi alla promozione
e alla difesa della vita, soprattutto nel diretto rapporto che
essi hanno con la morale cristiana e le direttive del
magistero della Chiesa ».(132) Uno specifico apporto dovrà
venire anche dalle Università, in particolare da
quellecattoliche, e dai Centri, Istituti e Comitati
di bioetica.
Grande
e grave è la responsabilità degli operatori dei mass
media, chiamati ad adoperarsi perché i messaggi trasmessi
con tanta efficacia contribuiscano alla cultura della vita.
Devono allora presentare esempi alti e nobili di vita e dare
spazio alle testimonianze positive e talvolta eroiche di amore
all'uomo; proporre con grande rispetto i valori della
sessualità e dell'amore, senza indugiare su ciò che deturpa
e svilisce la dignità dell'uomo. Nella lettura della realtà,
devono rifiutare di mettere in risalto quanto può insinuare o
far crescere sentimenti o atteggiamenti di indifferenza, di
disprezzo o di rifiuto nei confronti della vita. Nella
scrupolosa fedeltà alla verità dei fatti, sono chiamati a
coniugare insieme la libertà di informazione, il rispetto di
ogni persona e un profondo senso di umanità.
99.
Nella svolta culturale a favore della vita le donne hanno
uno spazio di pensiero e di azione singolare e forse
determinante: tocca a loro di farsi promotrici di un « nuovo
femminismo » che, senza cadere nella tentazione di rincorrere
modelli « maschilisti », sappia riconoscere ed esprimere il
vero genio femminile in tutte le manifestazioni della
convivenza civile, operando per il superamento di ogni forma
di discriminazione, di violenza e di sfruttamento.
Riprendendo
le parole del messaggio conclusivo del Concilio Vaticano II,
rivolgo anch'io alle donne il pressante invito: «
Riconciliate gli uomini con la vita ».(133) Voi siete
chiamate a testimoniare il senso dell'amore autentico, di
quel dono di sé e di quella accoglienza dell'altro che si
realizzano in modo specifico nella relazione coniugale, ma che
devono essere l'anima di ogni altra relazione interpersonale.
L'esperienza della maternità favorisce in voi una sensibilità
acuta per l'altra persona e, nel contempo, vi conferisce un
compito particolare: « La maternità contiene in sé una
speciale comunione col mistero della vita, che matura nel seno
della donna... Questo modo unico di contatto col nuovo uomo
che si sta formando crea a sua volta un atteggiamento verso
l'uomo — non solo verso il proprio figlio, ma verso l'uomo
in genere — tale da caratterizzare profondamente tutta la
personalità della donna ».(134) La madre, infatti, accoglie
e porta in sé un altro, gli dà modo di crescere dentro di sé,
gli fa spazio, rispettandolo nella sua alterità. Così, la
donna percepisce e insegna che le relazioni umane sono
autentiche se si aprono all'accoglienza dell'altra persona,
riconosciuta e amata per la dignità che le deriva dal fatto
di essere persona e non da altri fattori, quali l'utilità, la
forza, l'intelligenza, la bellezza, la salute. Questo è il
contributo fondamentale che la Chiesa e l'umanità si
attendono dalle donne. Ed è la premessa insostituibile per
un'autentica svolta culturale.
Un
pensiero speciale vorrei riservare a voi, donne che avete
fatto ricorso all'aborto. La Chiesa sa quanti
condizionamenti possono aver influito sulla vostra decisione,
e non dubita che in molti casi s'è trattato d'una decisione
sofferta, forse drammatica. Probabilmente la ferita nel vostro
animo non s'è ancor rimarginata. In realtà, quanto è
avvenuto è stato e rimane profondamente ingiusto. Non
lasciatevi prendere, però, dallo scoraggiamento e non
abbandonate la speranza. Sappiate comprendere, piuttosto, ciò
che si è verificato e interpretatelo nella sua verità. Se
ancora non l'avete fatto, apritevi con umiltà e fiducia al
pentimento: il Padre di ogni misericordia vi aspetta per
offrirvi il suo perdono e la sua pace nel sacramento della
Riconciliazione. Vi accorgerete che nulla è perduto e potrete
chiedere perdono anche al vostro bambino, che ora vive nel
Signore. Aiutate dal consiglio e dalla vicinanza di persone
amiche e competenti, potrete essere con la vostra sofferta
testimonianza tra i più eloquenti difensori del diritto di
tutti alla vita. Attraverso il vostro impegno per la vita,
coronato eventualmente dalla nascita di nuove creature ed
esercitato con l'accoglienza e l'attenzione verso chi è più
bisognoso di vicinanza, sarete artefici di un nuovo modo di
guardare alla vita dell'uomo.
100.
In questo grande sforzo per una nuova cultura della vita siamo
sostenuti e animati dalla fiducia di chi sa che il Vangelo
della vita, come il Regno di Dio, cresce e dà i suoi
frutti abbondanti (cf. Mc 4, 26-29). È certamente
enorme la sproporzione che esiste tra i mezzi, numerosi e
potenti, di cui sono dotate le forze operanti a sostegno della
« cultura della morte » e quelli di cui dispongono i
promotori di una « cultura della vita e dell'amore ». Ma noi
sappiamo di poter confidare sull'aiuto di Dio, al quale nulla
è impossibile (cf. Mt 19, 26).
Con
questa certezza nel cuore, e mosso da accorata sollecitudine
per le sorti di ogni uomo e donna, ripeto oggi a tutti quanto
ho detto alle famiglie impegnate nei loro difficili compiti
fra le insidie che le minacciano: (135) èurgente una
grande preghiera per la vita, che attraversi il mondo
intero. Con iniziative straordinarie e nella preghiera
abituale, da ogni comunità cristiana, da ogni gruppo o
associazione, da ogni famiglia e dal cuore di ogni credente,
si elevi una supplica appassionata a Dio, Creatore e amante
della vita. Gesù stesso ci ha mostrato col suo esempio che
preghiera e digiuno sono le armi principali e più efficaci
contro le forze del male (cf. Mt 4, 1-11) e ha
insegnato ai suoi discepoli che alcuni demoni non si scacciano
se non in questo modo (cf. Mc 9, 29). Ritroviamo,
dunque, l'umiltà e il coraggio di pregare e digiunare, per
ottenere che la forza che viene dall'Alto faccia crollare i
muri di inganni e di menzogne, che nascondono agli occhi di
tanti nostri fratelli e sorelle la natura perversa di
comportamenti e di leggi ostili alla vita, e apra i loro cuori
a propositi e intenti ispirati alla civiltà della vita e
dell'amore.
«
Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia perfetta
» (1 Gv 1,
4): il Vangelo della vita è per la città degli uomini
101.
« Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia
perfetta » (1 Gv 1, 4). La rivelazione del Vangelo
della vita ci è data come bene da comunicare a tutti:
perché tutti gli uomini siano in comunione con noi e con la
Trinità (cf. 1 Gv 1, 3). Neppure noi potremmo essere
nella gioia piena se non comunicassimo questo Vangelo agli
altri, ma lo tenessimo solo per noi stessi.
Il
Vangelo della vita non è esclusivamente per i
credenti: è per tutti. La questione della vita e della
sua difesa e promozione non è prerogativa dei soli cristiani.
Anche se dalla fede riceve luce e forza straordinarie, essa
appartiene ad ogni coscienza umana che aspira alla verità ed
è attenta e pensosa per le sorti dell'umanità. Nella vita c'è
sicuramente un valore sacro e religioso, ma in nessun modo
esso interpella solo i credenti: si tratta, infatti, di un
valore che ogni essere umano può cogliere anche alla luce
della ragione e che perciò riguarda necessariamente tutti.
Per
questo, la nostra azione di « popolo della vita e per la vita
» domanda di essere interpretata in modo giusto e accolta con
simpatia. Quando la Chiesa dichiara che il rispetto
incondizionato del diritto alla vita di ogni persona innocente
— dal concepimento alla sua morte naturale — è uno dei
pilastri su cui si regge ogni società civile, essa « vuole
semplicemente promuovere uno Stato umano. Uno Stato che
riconosca come suo primario dovere la difesa dei diritti
fondamentali della persona umana, specialmente di quella più
debole ».(136)
Il
Vangelo della vita è per la città degli uomini. Agire
a favore della vita è contribuire al rinnovamento della
società mediante l'edificazione del bene comune. Non è
possibile, infatti, costruire il bene comune senza riconoscere
e tutelare il diritto alla vita, su cui si fondano e si
sviluppano tutti gli altri diritti inalienabili dell'essere
umano. Né può avere solide basi una società che — mentre
afferma valori quali la dignità della persona, la giustizia e
la pace — si contraddice radicalmente accettando o
tollerando le più diverse forme di disistima e violazione
della vita umana, soprattutto se debole ed emarginata. Solo il
rispetto della vita può fondare e garantire i beni più
preziosi e necessari della società, come la democrazia e la
pace.
Infatti,
non ci può essere vera democrazia, se non si riconosce
la dignità di ogni persona e non se ne rispettano i diritti.
Non
ci può essere neppure vera pace, se non si difende
e promuove la vita, come ricordava Paolo VI: « Ogni
delitto contro la vita è un attentato contro la pace,
specialmente se esso intacca il costume del popolo..., mentre
dove i diritti dell'uomo sono realmente professati e
pubblicamente riconosciuti e difesi, la pace diventa
l'atmosfera lieta e operosa della convivenza sociale ».(137)
Il
« popolo della vita » gioisce di poter condividere con tanti
altri il suo impegno, così che sempre più numeroso sia il «
popolo per la vita » e la nuova cultura dell'amore e della
solidarietà possa crescere per il vero bene della città
degli uomini.
CONCLUSIONE
102.
Al termine di questa Enciclica, lo sguardo ritorna
spontaneamente al Signore Gesù, il « Bambino nato per noi »
(cf. Is 9, 5) per contemplare in lui « la Vita » che
« si è manifestata » (1 Gv 1, 2). Nel mistero di
questa nascita si compie l'incontro di Dio con l'uomo e ha
inizio il cammino del Figlio di Dio sulla terra, un cammino
che culminerà nel dono della vita sulla Croce: con la sua
morte Egli vincerà la morte e diventerà per l'umanità
intera principio di vita nuova.
Ad
accogliere « la Vita » a nome di tutti e a vantaggio di
tutti è stata Maria, la Vergine Madre, la quale ha quindi
legami personali strettissimi con il Vangelo della vita. Il
consenso di Maria all'Annunciazione e la sua maternità si
trovano alla sorgente stessa del mistero della vita che Cristo
è venuto a donare agli uomini (cf. Gv 10, 10).
Attraverso la sua accoglienza e la sua cura premurosa per la
vita del Verbo fatto carne, la vita dell'uomo è stata
sottratta alla condanna della morte definitiva ed eterna.
Per
questo Maria « è madre di tutti coloro che rinascono alla
vita, proprio come la Chiesa di cui è modello. È madre di
quella vita di cui tutti vivono. Generando la vita, ha come
rigenerato coloro che di questa vita dovevano vivere ».(138)
Contemplando
la maternità di Maria, la Chiesa scopre il senso della
propria maternità e il modo con cui è chiamata ad
esprimerla. Nello stesso tempo l'esperienza materna della
Chiesa dischiude la prospettiva più profonda per comprendere
l'esperienza di Maria quale incomparabile modello di
accoglienza e di cura della vita.
«
Nel cielo apparve un segno grandioso: una donna vestita di
sole » (Ap 12,
1): la maternità di Maria e della Chiesa
103.
Il rapporto reciproco tra il mistero della Chiesa e Maria si
manifesta con chiarezza nel « segno grandioso » descritto
nell'Apocalisse: « Nel cielo apparve poi un segno grandioso:
una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e
sul suo capo una corona di dodici stelle » (12,1). In questo
segno la Chiesa riconosce una immagine del proprio mistero:
immersa nella storia, essa è consapevole di trascenderla, in
quanto costituisce sulla terra il « germe e l'inizio » del
Regno di Dio.(139) Questo mistero la Chiesa lo vede realizzato
in modo pieno ed esemplare in Maria. È Lei la donna gloriosa,
nella quale il disegno di Dio si è potuto attuare con somma
perfezione.
La
« donna vestita di sole » — rileva il Libro
dell'Apocalisse — « era incinta » (12, 2). La Chiesa è
pienamente consapevole di portare in sé il Salvatore del
mondo, Cristo Signore, e di essere chiamata a donarlo al
mondo, rigenerando gli uomini alla vita stessa di Dio. Non può
però dimenticare che questa sua missione è stata resa
possibile dalla maternità di Maria, che ha concepito e dato
alla luce colui che è « Dio da Dio », « Dio vero da Dio
vero ». Maria è veramente Madre di Dio, la Theotokos nella
cui maternità è esaltata al sommo grado la vocazione alla
maternità inscritta da Dio in ogni donna. Così Maria si pone
come modello per la Chiesa, chiamata ad essere la « nuova Eva
», madre dei credenti, madre dei « viventi » (cf. Gn 3,
20).
La
maternità spirituale della Chiesa non si realizza — anche
di questo la Chiesa è consapevole — se non in mezzo alle
doglie e al « travaglio del parto » (Ap 12, 2), cioè
nella perenne tensione con le forze del male, che continuano
ad attraversare il mondo ed a segnare il cuore degli uomini,
facendo resistenza a Cristo: « In lui era la vita e la vita
era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre, ma le
tenebre non l'hanno accolta » (Gv 1, 4-5).
Come
la Chiesa, anche Maria ha dovuto vivere la sua maternità nel
segno della sofferenza: « Egli è qui... segno di
contraddizione perché siano svelati i pensieri di molti
cuori. E anche a te una spada trafiggerà l'anima » (Lc 2,
34-35). Nelle parole che, agli albori stessi dell'esistenza
del Salvatore, Simeone rivolge a Maria è sinteticamente
raffigurato quel rifiuto nei confronti di Gesù, e con Lui di
Maria, che giungerà al suo vertice sul Calvario. « Presso la
croce di Gesù » (Gv 19, 25), Maria partecipa al dono
che il Figlio fa di sé: offre Gesù, lo dona, lo genera
definitivamente per noi. Il « sì » del giorno
dell'Annunciazione matura in pienezza nel giorno della Croce,
quando per Maria giunge il tempo di accogliere e di generare
come figlio ogni uomo divenuto discepolo, riversando su di lui
l'amore redentore del Figlio: « Gesù allora, vedendo la
madre e lì accanto a lei il discepolo che egli amava, disse
alla madre: "Donna, ecco il tuo figlio" » (Gv 19,
26).
«
Il drago si pose davanti alla donna... per divorare il bambino
appena nato » (Ap
12, 4): la vita insidiata dalle forze del male
104.
Nel Libro dell'Apocalisse il « segno grandioso » della «
donna » (12, 1) è accompagnato da « un altro segno nel
cielo »: « un enorme drago rosso » (12, 3), che raffigura
Satana, potenza personale malefica, e insieme tutte le forze
del male che operano nella storia e contrastano la missione
della Chiesa.
Anche
in questo Maria illumina la Comunità dei Credenti: l'ostilità
delle forze del male è, infatti, una sorda opposizione che,
prima di toccare i discepoli di Gesù, si rivolge contro sua
Madre. Per salvare la vita del Figlio da quanti lo temono come
una pericolosa minaccia, Maria deve fuggire con Giuseppe e il
Bambino in Egitto (cf. Mt 2, 13-15).
Maria
aiuta così la Chiesa a prendere coscienza che la vita è
sempre al centro di una grande lotta tra il bene e il
male, tra la luce e le tenebre. Il drago vuole divorare « il
bambino appena nato » (Ap 12, 4), figura di Cristo,
che Maria genera nella « pienezza del tempo » (Gal 4,
4) e che la Chiesa deve continuamente offrire agli uomini
nelle diverse epoche della storia. Ma in qualche modo è anche
figura di ogni uomo, di ogni bambino, specie di ogni creatura
debole e minacciata, perché — come ricorda il Concilio —
« con la sua incarnazione il Figlio di Dio si è unito in
certo modo a ogni uomo ».(140) Proprio nella « carne » di
ogni uomo, Cristo continua a rivelarsi e ad entrare in
comunione con noi, così che il rifiuto della vita
dell'uomo, nelle sue diverse forme, è realmente
rifiuto di Cristo. È questa la verità affascinante ed
insieme esigente che Cristo ci svela e che la sua Chiesa
ripropone instancabilmente: « Chi accoglie anche uno solo di
questi bambini in nome mio, accoglie me » (Mt 18, 5);
« In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose
a uno di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me
» (Mt 25, 40).
«
Non ci sarà più la morte » (Ap
21, 4): lo splendore della risurrezione
105.
L'annunciazione dell'angelo a Maria è racchiusa tra queste
parole rassicuranti: « Non temere, Maria » e « Nulla è
impossibile a Dio » (Lc 1, 30.37). In verità, tutta
l'esistenza della Vergine Madre è avvolta dalla certezza che
Dio le è vicino e l'accompagna con la sua provvidente
benevolenza. Così è anche della Chiesa, che trova « un
rifugio » (Ap 12, 6) nel deserto, luogo della prova ma
anche della manifestazione dell'amore di Dio verso il suo
popolo (cf. Os 2, 16). Maria è vivente parola di
consolazione per la Chiesa nella sua lotta contro la morte.
Mostrandoci il Figlio, ella ci assicura che in lui le forze
della morte sono già state sconfitte: « Morte e vita si sono
affrontate in un prodigioso duello. Il Signore della vita era
morto; ma ora, vivo, trionfa ».(141)
L'Agnello
immolato vive con
i segni della passione nello splendore della risurrezione.
Solo lui domina tutti gli eventi della storia: ne scioglie i
« sigilli » (cf. Ap 5, 1-10) e afferma, nel tempo e
oltre il tempo, il potere della vita sulla morte. Nella
« nuova Gerusalemme », ossia nel mondo nuovo, verso cui
tende la storia degli uomini, « non ci sarà più la
morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le
cose di prima sono passate » (Ap 21, 4).
E
mentre, come popolo pellegrinante, popolo della vita e per la
vita, camminiamo fiduciosi verso « un nuovo cielo e una nuova
terra » (Ap 21, 1), volgiamo lo sguardo a Colei che è
per noi « segno di sicura speranza e di consolazione ».(142)
O
Maria,
aurora del mondo nuovo,
Madre dei viventi,
affidiamo a Te la causa della vita:
guarda, o Madre, al numero sconfinato
di bimbi cui viene impedito di nascere,
di poveri cui è reso difficile vivere,
di uomini e donne vittime di disumana violenza,
di anziani e malati uccisi dall'indifferenza
o da una presunta pietà.
Fà che quanti credono nel tuo Figlio
sappiano annunciare con franchezza e amore
agli uomini del nostro tempo
il Vangelo della vita.
Ottieni loro la grazia di accoglierlo
come dono sempre nuovo,
la gioia di celebrarlo con gratitudine
in tutta la loro esistenza
e il coraggio di testimoniarlo
con tenacia operosa, per costruire,
insieme con tutti gli uomini di buona volontà,
la civiltà della verità e dell'amore
a lode e gloria di Dio creatore e amante della vita.
Dato
a Roma, presso San Pietro, il 25 marzo, solennità
dell'Annunciazione del Signore, dell'anno 1995, decimosettimo
di Pontificato.
|