LETTERA
ENCICLICA
FIDES
ET RATIO
DEL SOMMO PONTEFICE
GIOVANNI PAOLO II
AI VESCOVI DELLA CHIESA CATTOLICA
CIRCA I RAPPORTI
TRA FEDE E RAGIONE
Venerati Fratelli
nell'Episcopato,
salute e Apostolica Benedizione!
La fede e la ragione sono
come le due ali con le quali lo spirito umano s'innalza verso
la contemplazione della verità. E Dio ad aver posto nel cuore
dell'uomo il desiderio di conoscere la verità e, in
definitiva, di conoscere Lui perché, conoscendolo e amandolo,
possa giungere anche alla piena verità su se stesso (cfr Es
33, 18; Sal 27 [26], 8-9; 63 [62], 2-3; Gv 14,
8; 1 Gv 3, 2).
INTRODUZIONE
«
CONOSCI TE STESSO »
1. Sia in Oriente che in
Occidente, è possibile ravvisare un cammino che, nel corso
dei secoli, ha portato l'umanità a incontrarsi
progressivamente con la verità e a confrontarsi con essa. E
un cammino che s'è svolto — né poteva essere altrimenti
— entro l'orizzonte dell'autocoscienza personale: più
l'uomo conosce la realtà e il mondo e più conosce se stesso
nella sua unicità, mentre gli diventa sempre più impellente
la domanda sul senso delle cose e della sua stessa esistenza.
Quanto viene a porsi come
oggetto della nostra conoscenza diventa per ciò stesso parte
della nostra vita. Il monito Conosci te stesso era
scolpito sull'architrave del tempio di Delfi, a testimonianza
di una verità basilare che deve essere assunta come regola
minima da ogni uomo desideroso di distinguersi, in mezzo a
tutto il creato, qualificandosi come « uomo » appunto in
quanto « conoscitore di se stesso ».
Un semplice sguardo alla
storia antica, d'altronde, mostra con chiarezza come in
diverse parti della terra, segnate da culture differenti,
sorgano nello stesso tempo le domande di fondo che
caratterizzano il percorso dell'esistenza umana: chi sono?
da dove vengo e dove vado? perché la presenza del male? cosa
ci sarà dopo questa vita? Questi interrogativi sono
presenti negli scritti sacri di Israele, ma compaiono anche
nei Veda non meno che negli Avesta; li troviamo negli scritti
di Confucio e Lao-Tze come pure nella predicazione dei
Tirthankara e di Buddha; sono ancora essi ad affiorare nei
poemi di Omero e nelle tragedie di Euripide e Sofocle come
pure nei trattati filosofici di Platone ed Aristotele. Sono
domande che hanno la loro comune scaturigine nella richiesta
di senso che da sempre urge nel cuore dell'uomo: dalla
risposta a tali domande, infatti, dipende l'orientamento da
imprimere all'esistenza.
2. La Chiesa non è
estranea, né può esserlo, a questo cammino di ricerca. Da
quando, nel Mistero pasquale, ha ricevuto in dono la verità
ultima sulla vita dell'uomo, essa s'è fatta pellegrina per le
strade del mondo per annunciare che Gesù Cristo è « la via,
la verità e la vita » (Gv 14, 6). Tra i diversi
servizi che essa deve offrire all'umanità, uno ve n'è che la
vede responsabile in modo del tutto peculiare: è la diaconia
alla verità.(1) Questa missione, da una parte, rende la
comunità credente partecipe dello sforzo comune che l'umanità
compie per raggiungere la verità; (2) dall'altra, la obbliga
a farsi carico dell'annuncio delle certezze acquisite, pur
nella consapevolezza che ogni verità raggiunta è sempre solo
una tappa verso quella piena verità che si manifesterà nella
rivelazione ultima di Dio: « Ora vediamo come in uno
specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo faccia a
faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò
perfettamente » (1 Cor 13, 12).
3. Molteplici sono le
risorse che l'uomo possiede per promuovere il progresso nella
conoscenza della verità, così da rendere la propria
esistenza sempre più umana. Tra queste emerge la filosofia,
che contribuisce direttamente a porre la domanda circa il
senso della vita e ad abbozzarne la risposta: essa, pertanto,
si configura come uno dei compiti più nobili dell'umanità.
Il termine filosofia, secondo l'etimologia greca, significa «
amore per la saggezza ». Di fatto, la filosofia è nata e si
è sviluppata nel momento in cui l'uomo ha iniziato a
interrogarsi sul perché delle cose e sul loro fine. In modi e
forme differenti, essa mostra che il desiderio di verità
appartiene alla stessa natura dell'uomo. E una proprietà
nativa della sua ragione interrogarsi sul perché delle cose,
anche se le risposte via via date si inseriscono in un
orizzonte che rende evidente la complementarità delle
differenti culture in cui l'uomo vive.
La forte incidenza che la
filosofia ha avuto nella formazione e nello sviluppo delle
culture in Occidente non deve farci dimenticare l'influsso che
essa ha esercitato anche nei modi di concepire l'esistenza di
cui vive l'Oriente. Ogni popolo, infatti, possiede una sua
indigena e originaria saggezza che, quale autentica ricchezza
delle culture, tende a esprimersi e a maturare anche in forme
prettamente filosofiche. Quanto questo sia vero lo dimostra il
fatto che una forma basilare di sapere filosofico, presente
fino ai nostri giorni, è verificabile perfino nei postulati a
cui le diverse legislazioni nazionali e internazionali si
ispirano nel regolare la vita sociale.
4. È, comunque, da
rilevare che dietro un unico termine si nascondono significati
differenti. Un'esplicitazione preliminare si rende pertanto
necessaria. Spinto dal desiderio di scoprire la verità ultima
dell'esistenza, l'uomo cerca di acquisire quelle conoscenze
universali che gli consentono di comprendersi meglio e di
progredire nella realizzazione di sé. Le conoscenze
fondamentali scaturiscono dalla meraviglia suscitata in
lui dalla contemplazione del creato: l'essere umano è colto
dallo stupore nello scoprirsi inserito nel mondo, in relazione
con altri suoi simili dei quali condivide il destino. Parte di
qui il cammino che lo porterà poi alla scoperta di orizzonti
di conoscenza sempre nuovi. Senza meraviglia l'uomo cadrebbe
nella ripetitività e, poco alla volta, diventerebbe incapace
di un'esistenza veramente personale.
La capacità speculativa,
che è propria dell'intelletto umano, porta ad elaborare,
mediante l'attività filosofica, una forma di pensiero
rigoroso e a costruire così, con la coerenza logica delle
affermazioni e l'organicità dei contenuti, un sapere
sistematico. Grazie a questo processo, in differenti contesti
culturali e in diverse epoche, si sono raggiunti risultati che
hanno portato all'elaborazione di veri sistemi di pensiero.
Storicamente ciò ha spesso esposto alla tentazione di
identificare una sola corrente con l'intero pensiero
filosofico. E però evidente che, in questi casi, entra in
gioco una certa « superbia filosofica » che pretende di
erigere la propria visione prospettica e imperfetta a lettura
universale. In realtà, ogni sistema filosofico, pur
rispettato sempre nella sua interezza senza
strumentalizzazioni di sorta, deve riconoscere la priorità
del pensare filosofico, da cui trae origine e a cui
deve servire in forma coerente.
In questo senso è
possibile riconoscere, nonostante il mutare dei tempi e i
progressi del sapere, un nucleo di conoscenze filosofiche la
cui presenza è costante nella storia del pensiero. Si pensi,
solo come esempio, ai principi di non contraddizione, di
finalità, di causalità, come pure alla concezione della
persona come soggetto libero e intelligente e alla sua capacità
di conoscere Dio, la verità, il bene; si pensi inoltre ad
alcune norme morali fondamentali che risultano comunemente
condivise. Questi e altri temi indicano che, a prescindere
dalle correnti di pensiero, esiste un insieme di conoscenze in
cui è possibile ravvisare una sorta di patrimonio spirituale
dell'umanità. E come se ci trovassimo dinanzi a una filosofia
implicita per cui ciascuno sente di possedere questi
principi, anche se in forma generica e non riflessa. Queste
conoscenze, proprio perché condivise in qualche misura da
tutti, dovrebbero costituire come un punto di riferimento
delle diverse scuole filosofiche. Quando la ragione riesce a
intuire e a formulare i principi primi e universali
dell'essere e a far correttamente scaturire da questi
conclusioni coerenti di ordine logico e deontologico, allora
può dirsi una ragione retta o, come la chiamavano gli
antichi, orthòs logos, recta ratio.
5. La Chiesa, da parte
sua, non può che apprezzare l'impegno della ragione per il
raggiungimento di obiettivi che rendano l'esistenza personale
sempre più degna. Essa infatti vede nella filosofia la via
per conoscere fondamentali verità concernenti l'esistenza
dell'uomo. Al tempo stesso, considera la filosofia un aiuto
indispensabile per approfondire l'intelligenza della fede e
per comunicare la verità del Vangelo a quanti ancora non la
conoscono.
Facendo pertanto seguito
ad analoghe iniziative dei miei Predecessori, desidero anch'io
rivolgere lo sguardo a questa peculiare attività della
ragione. Mi ci spinge il rilievo che, soprattutto ai nostri
giorni, la ricerca della verità ultima appare spesso
offuscata. Senza dubbio la filosofia moderna ha il grande
merito di aver concentrato la sua attenzione sull'uomo. A
partire da qui, una ragione carica di interrogativi ha
sviluppato ulteriormente il suo desiderio di conoscere sempre
di più e sempre più a fondo. Sono stati così costruiti
sistemi di pensiero complessi, che hanno dato i loro frutti
nei diversi ambiti del sapere, favorendo lo sviluppo della
cultura e della storia. L'antropologia, la logica, le scienze
della natura, la storia, il linguaggio..., in qualche modo
l'intero universo del sapere è stato abbracciato. I positivi
risultati raggiunti non devono, tuttavia, indurre a trascurare
il fatto che quella stessa ragione, intenta ad indagare in
maniera unilaterale sull'uomo come soggetto, sembra aver
dimenticato che questi è pur sempre chiamato ad indirizzarsi
verso una verità che lo trascende. Senza il riferimento ad
essa, ciascuno resta in balia dell'arbitrio e la sua
condizione di persona finisce per essere valutata con criteri
pragmatici basati essenzialmente sul dato sperimentale,
nell'errata convinzione che tutto deve essere dominato dalla
tecnica. E così accaduto che, invece di esprimere al meglio
la tensione verso la verità, la ragione sotto il peso di
tanto sapere si è curvata su se stessa diventando, giorno
dopo giorno, incapace di sollevare lo sguardo verso l'alto per
osare di raggiungere la verità dell'essere. La filosofia
moderna, dimenticando di orientare la sua indagine
sull'essere, ha concentrato la propria ricerca sulla
conoscenza umana. Invece di far leva sulla capacità che
l'uomo ha di conoscere la verità, ha preferito sottolinearne
i limiti e i condizionamenti.
Ne sono derivate varie
forme di agnosticismo e di relativismo, che hanno portato la
ricerca filosofica a smarrirsi nelle sabbie mobili di un
generale scetticismo. Di recente, poi, hanno assunto rilievo
diverse dottrine che tendono a svalutare perfino quelle verità
che l'uomo era certo di aver raggiunte. La legittima pluralità
di posizioni ha ceduto il posto ad un indifferenziato
pluralismo, fondato sull'assunto che tutte le posizioni si
equivalgono: è questo uno dei sintomi più diffusi della
sfiducia nella verità che è dato verificare nel contesto
contemporaneo. A questa riserva non sfuggono neppure alcune
concezioni di vita che provengono dall'Oriente; in esse,
infatti, si nega alla verità il suo carattere esclusivo,
partendo dal presupposto che essa si manifesta in modo uguale
in dottrine diverse, persino contraddittorie tra di loro. In
questo orizzonte, tutto è ridotto a opinione. Si ha
l'impressione di un movimento ondivago: la riflessione
filosofica mentre, da una parte, è riuscita a immettersi
sulla strada che la rende sempre più vicina all'esistenza
umana e alle sue forme espressive, dall'altra, tende a
sviluppare considerazioni esistenziali, ermeneutiche o
linguistiche che prescindono dalla questione radicale circa la
verità della vita personale, dell'essere e di Dio. Di
conseguenza, sono emersi nell'uomo contemporaneo, e non
soltanto presso alcuni filosofi, atteggiamenti di diffusa
sfiducia nei confronti delle grandi risorse conoscitive
dell'essere umano. Con falsa modestia ci si accontenta di
verità parziali e provvisorie, senza più tentare di porre
domande radicali sul senso e sul fondamento ultimo della vita
umana, personale e sociale. E venuta meno, insomma, la
speranza di poter ricevere dalla filosofia risposte definitive
a tali domande.
6. Forte della competenza
che le deriva dall'essere depositaria della Rivelazione di Gesù
Cristo, la Chiesa intende riaffermare la necessità della
riflessione sulla verità. E per questo motivo che ho deciso
di rivolgermi a voi, Venerati Confratelli nell'Episcopato, con
i quali condivido la missione di annunziare « apertamente la
verità » (2 Cor 4, 2), come pure ai teologi e ai
filosofi a cui spetta il dovere di indagare sui diversi
aspetti della verità, ed anche alle persone che sono in
ricerca, per partecipare alcune riflessioni sul cammino che
conduce alla vera sapienza, affinché chiunque ha nel cuore
l'amore per essa possa intraprendere la giusta strada per
raggiungerla e trovare in essa riposo alla sua fatica e gaudio
spirituale.
Mi spinge a questa
iniziativa, anzitutto, la consapevolezza che viene espressa
dalle parole del Concilio Vaticano II, quando afferma che i
Vescovi sono « testimoni della divina e cattolica verità ».(3)
Testimoniare la verità è, dunque, un compito che è stato
affidato a noi Vescovi; ad esso non possiamo rinunciare senza
venir meno al ministero che abbiamo ricevuto. Riaffermando la
verità della fede, possiamo ridare all'uomo del nostro tempo
genuina fiducia nelle sue capacità conoscitive e offrire alla
filosofia una provocazione perché possa recuperare e
sviluppare la sua piena dignità.
Un ulteriore motivo mi
induce a stendere queste riflessioni. Nella Lettera enciclica Veritatis
splendor, ho richiamato l'attenzione su « alcune verità
fondamentali della dottrina cattolica che nell'attuale
contesto rischiano di essere deformate o negate ».(4) Con la
presente Lettera, desidero continuare quella riflessione
concentrando l'attenzione sul tema stesso della verità e
sul suo fondamento in rapporto alla fede. Non si
può negare, infatti, che questo periodo di rapidi e complessi
cambiamenti esponga soprattutto le giovani generazioni, a cui
appartiene e da cui dipende il futuro, alla sensazione di
essere prive di autentici punti di riferimento. L'esigenza di
un fondamento su cui costruire l'esistenza personale e sociale
si fa sentire in maniera pressante soprattutto quando si è
costretti a costatare la frammentarietà di proposte che
elevano l'effimero al rango di valore, illudendo sulla
possibilità di raggiungere il vero senso dell'esistenza.
Accade così che molti trascinano la loro vita fin quasi
sull'orlo del baratro, senza sapere a che cosa vanno incontro.
Ciò dipende anche dal fatto che talvolta chi era chiamato per
vocazione a esprimere in forme culturali il frutto della
propria speculazione, ha distolto lo sguardo dalla verità,
preferendo il successo nell'immediato alla fatica di una
indagine paziente su ciò che merita di essere vissuto. La
filosofia, che ha la grande responsabilità di formare il
pensiero e la cultura attraverso il richiamo perenne alla
ricerca del vero, deve recuperare con forza la sua vocazione
originaria. E per questo che ho sentito non solo l'esigenza,
ma anche il dovere di intervenire su questo tema, perché
l'umanità, alla soglia del terzo millennio dell'era
cristiana, prenda più chiara coscienza delle grandi risorse
che le sono state concesse, e s'impegni con rinnovato coraggio
nell'attuazione del piano di salvezza nel quale è inserita la
sua storia.
CAPITOLO
I
LA
RIVELAZIONE
DELLA SAPIENZA DI DIO
Gesù rivelatore del
Padre
7. Alla base di ogni
riflessione che la Chiesa compie vi è la consapevolezza di
essere depositaria di un messaggio che ha la sua origine in
Dio stesso (cfr 2 Cor 4, 1-2). La conoscenza che essa
propone all'uomo non le proviene da una sua propria
speculazione, fosse anche la più alta, ma dall'aver accolto
nella fede la parola di Dio (cfr 1 Tess 2, 13).
All'origine del nostro essere credenti vi è un incontro,
unico nel suo genere, che segna il dischiudersi di un mistero
nascosto nei secoli (cfr 1 Cor 2, 7; Rm 16,
25-26), ma ora rivelato: « Piacque a Dio nella sua bontà e
sapienza rivelare se stesso e far conoscere il mistero della
sua volontà (cfr Ef 1, 9), mediante il quale gli
uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, nello Spirito
Santo hanno accesso al Padre e sono resi partecipi della
divina natura ».(5) E, questa, un'iniziativa pienamente
gratuita, che parte da Dio per raggiungere l'umanità e
salvarla. Dio, in quanto fonte di amore, desidera farsi
conoscere, e la conoscenza che l'uomo ha di lui porta a
compimento ogni altra vera conoscenza che la sua mente è in
grado di raggiungere circa il senso della propria esistenza.
8. Riprendendo quasi alla
lettera l'insegnamento offerto dalla Costituzione Dei
Filius del Concilio Vaticano I e tenendo conto dei
principi proposti dal Concilio Tridentino, la Costituzione Dei
Verbum del Vaticano II ha proseguito il secolare cammino
di intelligenza della fede, riflettendo sulla
Rivelazione alla luce dell'insegnamento biblico e dell'intera
tradizione patristica. Nel primo Concilio Vaticano, i Padri
avevano sottolineato il carattere soprannaturale della
rivelazione di Dio. La critica razionalista, che in quel
periodo veniva mossa contro la fede sulla base di tesi errate
e molto diffuse, verteva sulla negazione di ogni conoscenza
che non fosse frutto delle capacità naturali della ragione.
Questo fatto aveva obbligato il Concilio a ribadire con forza
che, oltre alla conoscenza propria della ragione umana, capace
per sua natura di giungere fino al Creatore, esiste una
conoscenza che è peculiare della fede. Questa conoscenza
esprime una verità che si fonda sul fatto stesso di Dio che
si rivela, ed è verità certissima perché Dio non inganna né
vuole ingannare.(6)
9. Il Concilio Vaticano I,
dunque, insegna che la verità raggiunta per via di
riflessione filosofica e la verità della Rivelazione non si
confondono, né l'una rende superflua l'altra: « Esistono due
ordini di conoscenza, distinti non solo per il loro principio,
ma anche per il loro oggetto: per il loro principio, perché
nell'uno conosciamo con la ragione naturale, nell'altro con la
fede divina; per l'oggetto, perché oltre le verità che la
ragione naturale può capire, ci è proposto di vedere i
misteri nascosti in Dio, che non possono essere conosciuti se
non sono rivelati dall'alto ».(7) La fede, che si fonda sulla
testimonianza di Dio e si avvale dell'aiuto soprannaturale
della grazia, è effettivamente di un ordine diverso da quello
della conoscenza filosofica. Questa, infatti, poggia sulla
percezione dei sensi, sull'esperienza e si muove alla luce del
solo intelletto. La filosofia e le scienze spaziano
nell'ordine della ragione naturale, mentre la fede, illuminata
e guidata dallo Spirito, riconosce nel messaggio della
salvezza la « pienezza di grazia e di verità » (cfr Gv 1,
14) che Dio ha voluto rivelare nella storia e in maniera
definitiva per mezzo di suo Figlio Gesù Cristo (cfr 1 Gv 5,
9; Gv 5, 31-32).
10. Al Concilio Vaticano
II i Padri, puntando lo sguardo su Gesù rivelatore, hanno
illustrato il carattere salvifico della rivelazione di Dio
nella storia e ne hanno espresso la natura nel modo seguente:
« Con questa rivelazione, Dio invisibile (cfr Col 1,
15; 1 Tm 1, 17) nel suo immenso amore parla agli uomini
come ad amici (cfr Es 33, 11; Gv 15, 14-15) e si
intrattiene con essi (cfr Bar 3, 38) per invitarli ed
ammetterli alla comunione con sé. Questa economia della
Rivelazione avviene con eventi e parole intimamente connessi
tra loro, in modo che le opere, compiute da Dio nella storia
della salvezza, manifestano e rafforzano la dottrina e le
realtà significate dalle parole, e le parole dichiarano le
opere e chiariscono il mistero in esse contenuto. La profonda
verità, poi, su Dio e sulla salvezza degli uomini, per mezzo
di questa Rivelazione risplende a noi in Cristo, il quale è
insieme il mediatore e la pienezza di tutta la rivelazione ».(8)
11. La rivelazione di Dio,
dunque, si inserisce nel tempo e nella storia. L'incarnazione
di Gesù Cristo, anzi, avviene nella « pienezza del tempo »
(Gal 4, 4). A duemila anni di distanza da quell'evento,
sento il dovere di riaffermare con forza che « nel
cristianesimo il tempo ha un'importanza fondamentale ».(9) In
esso, infatti, viene alla luce l'intera opera della creazione
e della salvezza e, soprattutto, emerge il fatto che con
l'incarnazione del Figlio di Dio noi viviamo e anticipiamo fin
da ora ciò che sarà il compimento del tempo (cfr Eb 1,
2).
La verità che Dio ha
consegnato all'uomo su se stesso e sulla sua vita si
inserisce, quindi, nel tempo e nella storia. Certo, essa è
stata pronunciata una volta per tutte nel mistero di Gesù di
Nazareth. Lo dice con parole eloquenti la Costituzione Dei
Verbum: « Dio, dopo avere a più riprese e in più modi
parlato per mezzo dei Profeti, “alla fine, nei nostri
giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio” (Eb 1,
1-2). Mandò infatti suo Figlio, cioè il Verbo eterno, che
illumina tutti gli uomini, affinché dimorasse tra gli uomini
e ad essi spiegasse i segreti di Dio (cfr Gv 1, 1-18).
Gesù Cristo, Verbo fatto carne, mandato come “uomo
agli uomini”, “parla le parole di Dio” (Gv 3, 34)
e porta a compimento l'opera di salvezza affidatagli dal Padre
(cfr Gv 5, 36; 17, 4). Perciò Egli, vedendo il quale
si vede anche il Padre (cfr Gv 14, 9), con tutta la sua
presenza e con la manifestazione di sé, con le parole e con
le opere, con i segni e con i miracoli, e specialmente con la
sua morte e la gloriosa risurrezione di tra i morti, e infine
con l'invio dello Spirito di verità, compie e completa la
Rivelazione ».(10)
La storia, pertanto,
costituisce per il Popolo di Dio un cammino da percorrere
interamente, così che la verità rivelata esprima in pienezza
i suoi contenuti grazie all'azione incessante dello Spirito
Santo (cfr Gv 16, 13). Lo insegna, ancora una volta, la
Costituzione Dei Verbum quando afferma che « la
Chiesa, nel corso dei secoli, tende incessantemente alla
pienezza della verità divina, finché in essa giungano a
compimento le parole di Dio ».(11)
12. La storia, quindi,
diventa il luogo in cui possiamo costatare l'agire di Dio a
favore dell'umanità. Egli ci raggiunge in ciò che per noi è
più familiare e facile da verificare, perché costituisce il
nostro contesto quotidiano, senza il quale non riusciremmo a
comprenderci.
L'incarnazione del Figlio
di Dio permette di vedere attuata la sintesi definitiva che la
mente umana, partendo da sé, non avrebbe neppure potuto
immaginare: l'Eterno entra nel tempo, il Tutto si nasconde nel
frammento, Dio assume il volto dell'uomo. La verità espressa
nella Rivelazione di Cristo, dunque, non è più rinchiusa in
un ristretto ambito territoriale e culturale, ma si apre a
ogni uomo e donna che voglia accoglierla come parola
definitivamente valida per dare senso all'esistenza. Ora,
tutti hanno in Cristo accesso al Padre; con la sua morte e
risurrezione, infatti, Egli ha donato la vita divina che il
primo Adamo aveva rifiutato (cfr Rm 5, 12-15). Con
questa Rivelazione viene offerta all'uomo la verità ultima
sulla propria vita e sul destino della storia: « In realtà
solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il
mistero dell'uomo », afferma la Costituzione Gaudium et
spes.(12) Al di fuori di questa prospettiva il mistero
dell'esistenza personale rimane un enigma insolubile. Dove
l'uomo potrebbe cercare la risposta ad interrogativi
drammatici come quelli del dolore, della sofferenza
dell'innocente e della morte, se non nella luce che promana
dal mistero della passione, morte e risurrezione di Cristo?
La ragione dinanzi
al mistero
13. Non sarà, comunque,
da dimenticare che la Rivelazione permane carica di mistero.
Certo, con tutta la sua vita Gesù rivela il volto del Padre,
essendo Egli venuto per spiegare i segreti di Dio; (13)
eppure, la conoscenza che noi abbiamo di tale volto è sempre
segnata dalla frammentarietà e dal limite del nostro
comprendere. Solo la fede permette di entrare all'interno del
mistero, favorendone la coerente intelligenza.
Insegna il Concilio che «
a Dio che si rivela è dovuta l'obbedienza della fede ».(14)
Con questa breve ma densa affermazione, viene indicata una
fondamentale verità del cristianesimo. Si dice, anzitutto,
che la fede è risposta di obbedienza a Dio. Ciò comporta che
Egli venga riconosciuto nella sua divinità, trascendenza e
libertà suprema. Il Dio che si fa conoscere, nell'autorità
della sua assoluta trascendenza, porta anche con sé la
credibilità dei contenuti che rivela. Con la fede, l'uomo
dona il suo assenso a tale testimonianza divina. Ciò
significa che riconosce pienamente e integralmente la verità
di quanto rivelato, perché è Dio stesso che se ne fa
garante. Questa verità, donata all'uomo e da lui non
esigibile, si inserisce nel contesto della comunicazione
interpersonale e spinge la ragione ad aprirsi ad essa e ad
accoglierne il senso profondo. E per questo che l'atto con il
quale ci si affida a Dio è sempre stato considerato dalla
Chiesa come un momento di scelta fondamentale, in cui tutta la
persona è coinvolta. Intelletto e volontà esercitano al
massimo la loro natura spirituale per consentire al soggetto
di compiere un atto in cui la libertà personale è vissuta in
maniera piena.(15) Nella fede, quindi, la libertà non è
semplicemente presente: è esigita. E la fede, anzi, che
permette a ciascuno di esprimere al meglio la propria libertà.
In altre parole, la libertà non si realizza nelle scelte
contro Dio. Come infatti potrebbe essere considerato un uso
autentico della libertà il rifiuto di aprirsi verso ciò che
permette la realizzazione di se stessi? E nel credere che la
persona compie l'atto più significativo della propria
esistenza; qui, infatti, la libertà raggiunge la certezza
della verità e decide di vivere in essa.
In aiuto alla ragione, che
cerca l'intelligenza del mistero, vengono anche i segni
presenti nella Rivelazione. Essi servono a condurre più a
fondo la ricerca della verità e a permettere che la mente
possa autonomamente indagare anche all'interno del mistero.
Questi segni, comunque, se da una parte danno maggior forza
alla ragione, perché le consentono di ricercare all'interno
del mistero con i suoi propri mezzi di cui è giustamente
gelosa, dall'altra la spingono a trascendere la loro realtà
di segni per raccoglierne il significato ulteriore di cui sono
portatori. In essi, pertanto, è già presente una verità
nascosta a cui la mente è rinviata e da cui non può
prescindere senza distruggere il segno stesso che le viene
proposto.
Si è rimandati, in
qualche modo, all'orizzonte sacramentale della
Rivelazione e, in particolare, al segno eucaristico dove
l'unità inscindibile tra la realtà e il suo significato
permette di cogliere la profondità del mistero. Cristo
nell'Eucaristia è veramente presente e vivo, opera con il suo
Spirito, ma, come aveva ben detto san Tommaso, « tu non vedi,
non comprendi, ma la fede ti conferma, oltre la natura. E un
segno ciò che appare: nasconde nel mistero realtà sublimi ».(16)
Gli fa eco il filosofo Pascal: « Come Gesù Cristo è rimasto
sconosciuto tra gli uomini, così la sua verità resta, tra le
opinioni comuni, senza differenza esteriore. Così resta
l'Eucaristia tra il pane comune ».(17)
La conoscenza di fede,
insomma, non annulla il mistero; solo lo rende più evidente e
lo manifesta come fatto essenziale per la vita dell'uomo:
Cristo Signore « rivelando il mistero del Padre e del suo
amore svela anche pienamente l'uomo all'uomo e gli fa nota la
sua altissima vocazione »,(18) che è quella di partecipare
al mistero della vita trinitaria di Dio.(19)
14. L'insegnamento dei due
Concili Vaticani apre un vero orizzonte di novità anche per
il sapere filosofico. La Rivelazione immette nella storia un
punto di riferimento da cui l'uomo non può prescindere, se
vuole arrivare a comprendere il mistero della sua esistenza;
dall'altra parte, però, questa conoscenza rinvia
costantemente al mistero di Dio che la mente non può
esaurire, ma solo ricevere e accogliere nella fede.
All'interno di questi due momenti, la ragione possiede un suo
spazio peculiare che le permette di indagare e comprendere,
senza essere limitata da null'altro che dalla sua finitezza di
fronte al mistero infinito di Dio.
La Rivelazione, pertanto,
immette nella nostra storia una verità universale e ultima
che provoca la mente dell'uomo a non fermarsi mai; la spinge,
anzi, ad allargare continuamente gli spazi del proprio sapere
fino a quando non avverte di avere compiuto quanto era in suo
potere, senza nulla tralasciare. Ci viene in aiuto per questa
riflessione una delle intelligenze più feconde e
significative della storia dell'umanità, a cui fanno doveroso
riferimento sia la filosofia che la teologia: sant'Anselmo.
Nel suo Proslogion, l'Arcivescovo di Canterbury così
si esprime: « Volgendo spesso e con impegno il mio pensiero a
questo problema, a volte mi sembrava di poter ormai afferrare
ciò che cercavo, altre volte invece sfuggiva completamente al
mio pensiero; finché finalmente, disperando di poterlo
trovare, volli smettere di ricercare qualcosa che era
impossibile trovare. Ma quando volli scacciare da me quel
pensiero perché, occupando la mia mente, non mi distogliesse
da altri problemi dai quali potevo ricavare qualche profitto,
allora cominciò a presentarsi con sempre maggior importunità
[...]. Ma povero me, uno dei poveri figli di Eva, lontani da
Dio, che cosa ho cominciato a fare e a che cosa sono riuscito?
A che cosa tendevo e a che cosa sono giunto? A che cosa
aspiravo e di che sospiro? [...]. O Signore, tu non solo sei
ciò di cui non si può pensare nulla di più grande (non
solum es quo maius cogitari nequit), ma sei più grande di
tutto ciò che si possa pensare (quiddam maius quam
cogitari possit) [...]. Se tu non fossi tale, si potrebbe
pensare qualcosa più grande di te, ma questo è impossibile
».(20)
15. La verità della
Rivelazione cristiana, che si incontra in Gesù di Nazareth,
permette a chiunque di accogliere il « mistero » della
propria vita. Come verità suprema, essa, mentre rispetta
l'autonomia della creatura e la sua libertà, la impegna ad
aprirsi alla trascendenza. Qui il rapporto libertà e verità
diventa sommo e si comprende in pienezza la parola del
Signore: « Conoscerete la verità e la verità vi farà
liberi » (Gv 8, 32).
La Rivelazione cristiana
è la vera stella di orientamento per l'uomo che avanza tra i
condizionamenti della mentalità immanentistica e le strettoie
di una logica tecnocratica; è l'ultima possibilità che viene
offerta da Dio per ritrovare in pienezza il progetto
originario di amore, iniziato con la creazione. All'uomo
desideroso di conoscere il vero, se ancora è capace di
guardare oltre se stesso e di innalzare lo sguardo al di là
dei propri progetti, è data la possibilità di recuperare il
genuino rapporto con la sua vita, seguendo la strada della
verità. Le parole del Deuteronomio bene si possono
applicare a questa situazione: « Questo comando che oggi ti
ordino non è troppo alto per te, né troppo lontano da te.
Non è nel cielo perché tu dica: Chi salirà per noi in cielo
per prendercelo e farcelo udire sì che lo possiamo eseguire?
Non è di là dal mare, perché tu dica: Chi attraverserà per
noi il mare per prendercelo e farcelo udire sì che lo
possiamo eseguire? Anzi, questa parola è molto vicina a te,
è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in
pratica » (30,11-14). A questo testo fa eco il famoso
pensiero del santo filosofo e teologo Agostino: « Noli
foras ire, in te ipsum redi. In interiore homine habitat
veritas ».(21)
Alla luce di queste
considerazioni, una prima conclusione si impone: la verità
che la Rivelazione ci fa conoscere non è il frutto maturo o
il punto culminante di un pensiero elaborato dalla ragione.
Essa, invece, si presenta con la caratteristica della gratuità,
produce pensiero e chiede di essere accolta come espressione
di amore. Questa verità rivelata è anticipo, posto nella
nostra storia, di quella visione ultima e definitiva di Dio
che è riservata a quanti credono in lui o lo ricercano con
cuore sincero. Il fine ultimo dell'esistenza personale,
dunque, è oggetto di studio sia della filosofia che della
teologia. Ambedue, anche se con mezzi e contenuti diversi,
prospettano questo « sentiero della vita » (Sal 16
[15], 11) che, come la fede ci dice, ha il suo sbocco ultimo
nella gioia piena e duratura della contemplazione del Dio Uno
e Trino.
CAPITOLO
II
CREDO
UT INTELLEGAM
« La sapienza tutto
conosce e tutto comprende » (Sap
9, 11)
16. Quanto profondo sia il
legame tra la conoscenza di fede e quella di ragione è
indicato già nella Sacra Scrittura con spunti di sorprendente
chiarezza. Lo documentano soprattutto i Libri sapienziali.
Ciò che colpisce nella lettura, fatta senza preconcetti, di
queste pagine della Scrittura è il fatto che in questi testi
venga racchiusa non soltanto la fede di Israele, ma anche il
tesoro di civiltà e di culture ormai scomparse. Quasi per un
disegno particolare, l'Egitto e la Mesopotamia fanno sentire
di nuovo la loro voce ed alcuni tratti comuni delle culture
dell'antico Oriente vengono riportati in vita in queste pagine
ricche di intuizioni singolarmente profonde.
Non è un caso che, nel
momento in cui l'autore sacro vuole descrivere l'uomo saggio,
lo dipinga come colui che ama e ricerca la verità: « Beato
l'uomo che medita sulla sapienza e ragiona con l'intelligenza,
considera nel cuore le sue vie, ne penetra con la mente i
segreti. La insegue come uno che segue una pista, si apposta
sui suoi sentieri. Egli spia alle sue finestre e sta ad
ascoltare alla sua porta. Fa sosta vicino alla sua casa e
fissa un chiodo nelle sue pareti; alza la propria tenda presso
di essa e si ripara in un rifugio di benessere; mette i propri
figli sotto la sua protezione e sotto i suoi rami soggiorna;
da essa sarà protetto contro il caldo, egli abiterà
all'ombra della sua gloria » (Sir 14, 20-27).
Per l'autore ispirato,
come si vede, il desiderio di conoscere è una caratteristica
che accomuna tutti gli uomini. Grazie all'intelligenza è data
a tutti, sia credenti che non credenti, la possibilità di «
attingere alle acque profonde » della conoscenza (cfr Pro 20,
5). Certo, nell'antico Israele la conoscenza del mondo e dei
suoi fenomeni non avveniva per via di astrazione, come per il
filosofo ionico o il saggio egiziano. Ancor meno il buon
israelita concepiva la conoscenza con i parametri propri
dell'epoca moderna, tesa maggiormente alla divisione del
sapere. Nonostante questo, il mondo biblico ha fatto confluire
nel grande mare della teoria della conoscenza il suo apporto
originale.
Quale? La peculiarità che
distingue il testo biblico consiste nella convinzione che
esista una profonda e inscindibile unità tra la conoscenza
della ragione e quella della fede. Il mondo e ciò che accade
in esso, come pure la storia e le diverse vicende del popolo,
sono realtà che vengono guardate, analizzate e giudicate con
i mezzi propri della ragione, ma senza che la fede resti
estranea a questo processo. Essa non interviene per umiliare
l'autonomia della ragione o per ridurne lo spazio di azione,
ma solo per far comprendere all'uomo che in questi eventi si
rende visibile e agisce il Dio di Israele. Conoscere a fondo
il mondo e gli avvenimenti della storia non è, pertanto,
possibile senza confessare al contempo la fede in Dio che in
essi opera. La fede affina lo sguardo interiore aprendo la
mente a scoprire, nel fluire degli eventi, la presenza
operante della Provvidenza. Un'espressione del libro dei
Proverbi è significativa in proposito: « La mente dell'uomo
pensa molto alla sua via, ma il Signore dirige i suoi passi »
(16, 9). Come dire, l'uomo con la luce della ragione sa
riconoscere la sua strada, ma la può percorrere in maniera
spedita, senza ostacoli e fino alla fine, se con animo retto
inserisce la sua ricerca nell'orizzonte della fede. La ragione
e la fede, pertanto, non possono essere separate senza che
venga meno per l'uomo la possibilità di conoscere in modo
adeguato se stesso, il mondo e Dio.
17. Non ha dunque motivo
di esistere competitività alcuna tra la ragione e la fede:
l'una è nell'altra, e ciascuna ha un suo spazio proprio di
realizzazione. E sempre il libro dei Proverbi che orienta in
questa direzione quando esclama: « E gloria di Dio nascondere
le cose, è gloria dei re investigarle » (Pro 25, 2).
Dio e l'uomo, nel loro rispettivo mondo, sono posti in un
rapporto unico. In Dio risiede l'origine di ogni cosa, in Lui
si raccoglie la pienezza del mistero, e questo costituisce la
sua gloria; all'uomo spetta il compito di investigare con la
sua ragione la verità, e in ciò consiste la sua nobiltà.
Un'ulteriore tessera a questo mosaico è aggiunta dal Salmista
quando prega dicendo: « Quanto profondi per me i tuoi
pensieri, quanto grande il loro numero, o Dio; se li conto
sono più della sabbia, se li credo finiti, con te sono ancora
» (139 [138], 17-18). Il desiderio di conoscere è così
grande e comporta un tale dinamismo, che il cuore dell'uomo,
pur nell'esperienza del limite invalicabile, sospira verso
l'infinita ricchezza che sta oltre, perché intuisce che in
essa è custodita la risposta appagante per ogni questione
ancora irrisolta.
18. Possiamo dire,
pertanto, che Israele con la sua riflessione ha saputo aprire
alla ragione la via verso il mistero. Nella rivelazione di Dio
ha potuto scandagliare in profondità quanto con la ragione
cercava di raggiungere senza riuscirvi. A partire da questa più
profonda forma di conoscenza, il popolo eletto ha capito che
la ragione deve rispettare alcune regole di fondo per poter
esprimere al meglio la propria natura. Una prima regola
consiste nel tener conto del fatto che la conoscenza dell'uomo
è un cammino che non ha sosta; la seconda nasce dalla
consapevolezza che su tale strada non ci si può porre con
l'orgoglio di chi pensa che tutto sia frutto di personale
conquista; una terza si fonda nel « timore di Dio », del
quale la ragione deve riconoscere la sovrana trascendenza ed
insieme il provvido amore nel governo del mondo.
Quando s'allontana da
queste regole, l'uomo s'espone al rischio del fallimento e
finisce per trovarsi nella condizione dello « stolto ». Per
la Bibbia, in questa stoltezza è insita una minaccia per la
vita. Lo stolto infatti si illude di conoscere molte cose, ma
in realtà non è capace di fissare lo sguardo su quelle
essenziali. Ciò gli impedisce di porre ordine nella sua mente
(cfr Pro 1, 7) e di assumere un atteggiamento adeguato
nei confronti di se stesso e dell'ambiente circostante. Quando
poi giunge ad affermare « Dio non esiste » (cfr Sal 14
[13], 1), rivela con definitiva chiarezza quanto la sua
conoscenza sia carente e quanto lontano egli sia dalla verità
piena sulle cose, sulla loro origine e sul loro destino.
19. Alcuni testi
importanti, che gettano ulteriore luce su questo argomento,
sono contenuti nel Libro della Sapienza. In essi l'Autore
sacro parla di Dio che si fa conoscere anche attraverso la
natura. Per gli antichi lo studio delle scienze naturali
coincideva in gran parte con il sapere filosofico. Dopo aver
affermato che con la sua intelligenza l'uomo è in grado di «
comprendere la struttura del mondo e la forza degli elementi
[...] il ciclo degli anni e la posizione degli astri, la
natura degli animali e l'istinto delle fiere » (Sap 7,
17.19-20), in una parola, che è capace di filosofare, il
testo sacro compie un passo in avanti di grande rilievo.
Ricuperando il pensiero della filosofia greca, a cui sembra
riferirsi in questo contesto, l'Autore afferma che, proprio
ragionando sulla natura, si può risalire al Creatore: «
Dalla grandezza e bellezza delle creature, per analogia si
conosce l'autore » (Sap 13, 5). Viene quindi
riconosciuto un primo stadio della Rivelazione divina,
costituito dal meraviglioso « libro della natura », leggendo
il quale, con gli strumenti propri della ragione umana, si può
giungere alla conoscenza del Creatore. Se l'uomo con la sua
intelligenza non arriva a riconoscere Dio creatore di tutto,
ciò non è dovuto tanto alla mancanza di un mezzo adeguato,
quanto piuttosto all'impedimento frapposto dalla sua libera
volontà e dal suo peccato.
20. La ragione, in questa
prospettiva, viene valorizzata, ma non sopravvalutata. Quanto
essa raggiunge, infatti, può essere vero, ma acquista pieno
significato solamente se il suo contenuto viene posto in un
orizzonte più ampio, quello della fede: « Dal Signore sono
diretti i passi dell'uomo e come può l'uomo comprendere la
propria via? » (Pro 20, 24). Per l'Antico Testamento,
pertanto, la fede libera la ragione in quanto le permette di
raggiungere coerentemente il suo oggetto di conoscenza e di
collocarlo in quell'ordine supremo in cui tutto acquista
senso. In una parola, l'uomo con la ragione raggiunge la verità,
perché illuminato dalla fede scopre il senso profondo di ogni
cosa e, in particolare, della propria esistenza. Giustamente,
dunque, l'autore sacro pone l'inizio della vera conoscenza
proprio nel timore di Dio: « Il timore del Signore è il
principio della scienza » (Pro 1, 7; cfr Sir 1,
14).
« Acquista la
sapienza, acquista l'intelligenza »
(Pro 4, 5)
21. La conoscenza, per
l'Antico Testamento, non si fonda soltanto su una attenta
osservazione dell'uomo, del mondo e della storia, ma suppone
anche un indispensabile rapporto con la fede e con i contenuti
della Rivelazione. Qui si trovano le sfide che il popolo
eletto ha dovuto affrontare e a cui ha dato risposta.
Riflettendo su questa sua condizione, l'uomo biblico ha
scoperto di non potersi comprendere se non come « essere in
relazione »: con se stesso, con il popolo, con il mondo e con
Dio. Questa apertura al mistero, che gli veniva dalla
Rivelazione, è stata alla fine per lui la fonte di una vera
conoscenza, che ha permesso alla sua ragione di immettersi in
spazi di infinito, ricevendone possibilità di comprensione
fino allora insperate.
Lo sforzo della ricerca
non era esente, per l'Autore sacro, dalla fatica derivante
dallo scontro con i limiti della ragione. Lo si avverte, ad
esempio, nelle parole con cui il Libro dei Proverbi denuncia
la stanchezza dovuta al tentativo di comprendere i misteriosi
disegni di Dio (cfr 30, 1-6). Tuttavia, malgrado la fatica, il
credente non si arrende. La forza per continuare il suo
cammino verso la verità gli viene dalla certezza che Dio lo
ha creato come un « esploratore » (cfr Qo 1, 13), la
cui missione è di non lasciare nulla di intentato nonostante
il continuo ricatto del dubbio. Poggiando su Dio, egli resta
proteso, sempre e dovunque, verso ciò che è bello, buono e
vero.
22. San Paolo, nel primo
capitolo della sua Lettera ai Romani, ci aiuta a meglio
apprezzare quanto penetrante sia la riflessione dei Libri
Sapienziali. Sviluppando un'argomentazione filosofica con
linguaggio popolare, l'Apostolo esprime una profonda verità:
attraverso il creato gli « occhi della mente » possono
arrivare a conoscere Dio. Egli, infatti, mediante le creature
fa intuire alla ragione la sua « potenza » e la sua «
divinità » (cfr Rm 1, 20). Alla ragione dell'uomo,
quindi, viene riconosciuta una capacità che sembra quasi
superare gli stessi suoi limiti naturali: non solo essa non è
confinata entro la conoscenza sensoriale, dal momento che può
riflettervi sopra criticamente, ma argomentando sui dati dei
sensi può anche raggiungere la causa che sta all'origine di
ogni realtà sensibile. Con terminologia filosofica potremmo
dire che, nell'importante testo paolino, viene affermata la
capacità metafisica dell'uomo.
Secondo l'Apostolo, nel
progetto originario della creazione era prevista la capacità
della ragione di oltrepassare agevolmente il dato sensibile
per raggiungere l'origine stessa di tutto: il Creatore. A
seguito della disobbedienza con la quale l'uomo scelse di
porre se stesso in piena e assoluta autonomia rispetto a Colui
che lo aveva creato, questa facilità di risalita a Dio
creatore è venuta meno.
Il Libro della Genesi
descrive in maniera plastica questa condizione dell'uomo,
quando narra che Dio lo pose nel giardino dell'Eden, al cui
centro era situato « l'albero della conoscenza del bene e del
male » (2, 17). Il simbolo è chiaro: l'uomo non era in grado
di discernere e decidere da sé ciò che era bene e ciò che
era male, ma doveva richiamarsi a un principio superiore. La
cecità dell'orgoglio illuse i nostri progenitori di essere
sovrani e autonomi, e di poter prescindere dalla conoscenza
derivante da Dio. Nella loro originaria disobbedienza essi
coinvolsero ogni uomo e ogni donna, procurando alla ragione
ferite che da allora in poi ne avrebbero ostacolato il cammino
verso la piena verità. Ormai la capacità umana di conoscere
la verità era offuscata dall'avversione verso Colui che della
verità è fonte e origine. E ancora l'Apostolo a rivelare
quanto i pensieri degli uomini, a causa del peccato, fossero
diventati « vani » e i ragionamenti distorti e orientati al
falso (cfr Rm 1, 21-22). Gli occhi della mente non
erano ormai più capaci di vedere con chiarezza:
progressivamente la ragione è rimasta prigioniera di se
stessa. La venuta di Cristo è stata l'evento di salvezza che
ha redento la ragione dalla sua debolezza, liberandola dai
ceppi in cui essa stessa s'era imprigionata.
23. Il rapporto del
cristiano con la filosofia, pertanto, richiede un
discernimento radicale. Nel Nuovo Testamento, soprattutto
nelle Lettere di san Paolo, un dato emerge con grande
chiarezza: la contrapposizione tra « la sapienza di questo
mondo » e quella di Dio rivelata in Gesù Cristo. La
profondità della sapienza rivelata spezza il cerchio dei
nostri abituali schemi di riflessione, che non sono affatto in
grado di esprimerla in maniera adeguata.
L'inizio della prima
Lettera ai Corinzi pone con radicalità questo dilemma. Il
Figlio di Dio crocifisso è l'evento storico contro cui
s'infrange ogni tentativo della mente di costruire su
argomentazioni soltanto umane una giustificazione sufficiente
del senso dell'esistenza. Il vero punto nodale, che sfida ogni
filosofia, è la morte in croce di Gesù Cristo. Qui, infatti,
ogni tentativo di ridurre il piano salvifico del Padre a pura
logica umana è destinato al fallimento. « Dov'è il
sapiente? Dov'è il dotto? Dove mai il sottile ragionatore di
questo mondo? Non ha forse Dio dimostrato stolta la sapienza
di questo mondo? » (1 Cor 1, 20), si domanda con
enfasi l'Apostolo. Per ciò che Dio vuole realizzare non è più
possibile la sola sapienza dell'uomo saggio, ma è richiesto
un passaggio decisivo verso l'accoglienza di una novità
radicale: « Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per
confondere i sapienti [...]; Dio ha scelto ciò che nel mondo
è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a
nulla le cose che sono » (1 Cor 1, 27-28). La sapienza
dell'uomo rifiuta di vedere nella propria debolezza il
presupposto della sua forza; ma san Paolo non esita ad
affermare: « Quando sono debole, è allora che sono forte »
(2 Cor 12, 10). L'uomo non riesce a comprendere come la
morte possa essere fonte di vita e di amore, ma Dio ha scelto
per rivelare il mistero del suo disegno di salvezza proprio ciò
che la ragione considera « follia » e « scandalo ».
Parlando il linguaggio dei filosofi suoi contemporanei, Paolo
raggiunge il culmine del suo insegnamento e del paradosso che
vuole esprimere: « Dio ha scelto ciò che nel mondo [...] è
nulla per ridurre a nulla le cose che sono » (1 Cor 1,
28). Per esprimere la natura della gratuità dell'amore
rivelato nella croce di Cristo, l'Apostolo non ha timore di
usare il linguaggio più radicale che i filosofi impiegavano
nelle loro riflessioni su Dio. La ragione non può svuotare il
mistero di amore che la Croce rappresenta, mentre la Croce può
dare alla ragione la risposta ultima che essa cerca. Non la
sapienza delle parole, ma la Parola della Sapienza è ciò che
san Paolo pone come criterio di verità e, insieme, di
salvezza.
La sapienza della Croce,
dunque, supera ogni limite culturale che le si voglia imporre
e obbliga ad aprirsi all'universalità della verità di cui è
portatrice. Quale sfida viene posta alla nostra ragione e
quale vantaggio essa ne ricava se vi si arrende! La filosofia,
che già da sé è in grado di riconoscere l'incessante
trascendersi dell'uomo verso la verità, aiutata dalla fede può
aprirsi ad accogliere nella « follia » della Croce la
genuina critica a quanti si illudono di possedere la verità,
imbrigliandola nelle secche di un loro sistema. Il rapporto
fede e filosofia trova nella predicazione di Cristo crocifisso
e risorto lo scoglio contro il quale può naufragare, ma oltre
il quale può sfociare nell'oceano sconfinato della verità.
Qui si mostra evidente il confine tra la ragione e la fede, ma
diventa anche chiaro lo spazio in cui ambedue si possono
incontrare.
CAPITOLO
III
INTELLEGO
UT CREDAM
In cammino alla
ricerca della verità
24. Racconta l'evangelista
Luca negli Atti degli Apostoli che, durante i suoi viaggi
missionari, Paolo arrivò ad Atene. La città dei filosofi era
ricolma di statue rappresentanti diversi idoli. Un altare colpì
la sua attenzione ed egli ne trasse prontamente lo spunto per
individuare una base comune su cui avviare l'annuncio del
kerigma: « Cittadini ateniesi, — disse — vedo che in
tutto siete molto timorati degli dei. Passando, infatti, e
osservando i monumenti del vostro culto, ho trovato anche
un'ara con l'iscrizione: Al Dio ignoto. Quello che voi adorate
senza conoscere, io ve lo annunzio » (At 17, 22-23). A
partire da qui, san Paolo parla di Dio come creatore, come di
Colui che trascende ogni cosa e che a tutto dà vita. Continua
poi il suo discorso così: « Egli creò da uno solo tutte le
nazioni degli uomini, perché abitassero su tutta la faccia
della terra. Per essi ha stabilito l'ordine dei tempi e i
confini del loro spazio, perché cercassero Dio, se mai
arrivino a trovarlo andando come a tentoni, benché non sia
lontano da ciascuno di noi » (At 17, 26-27).
L'Apostolo mette in luce
una verità di cui la Chiesa ha sempre fatto tesoro: nel più
profondo del cuore dell'uomo è seminato il desiderio e la
nostalgia di Dio. Lo ricorda con forza anche la liturgia del
Venerdì Santo quando, invitando a pregare per quanti non
credono, ci fa dire: « O Dio onnipotente ed eterno, tu hai
messo nel cuore degli uomini una così profonda nostalgia di
te, che solo quando ti trovano hanno pace ».(22) Esiste
quindi un cammino che l'uomo, se vuole, può percorrere; esso
prende il via dalla capacità della ragione di innalzarsi al
di sopra del contingente per spaziare verso l'infinito.
In differenti modi e in
diversi tempi l'uomo ha dimostrato di saper dare voce a questo
suo intimo desiderio. La letteratura, la musica, la pittura,
la scultura, l'architettura ed ogni altro prodotto della sua
intelligenza creatrice sono diventati canali attraverso cui
esprimere l'ansia della sua ricerca. La filosofia in modo
peculiare ha raccolto in sé questo movimento ed ha espresso,
con i suoi mezzi e secondo le modalità scientifiche sue
proprie, questo universale desiderio dell'uomo.
25. « Tutti gli uomini
desiderano sapere »,(23) e oggetto proprio di questo
desiderio è la verità. La stessa vita quotidiana mostra
quanto ciascuno sia interessato a scoprire, oltre il semplice
sentito dire, come stanno veramente le cose. L'uomo è l'unico
essere in tutto il creato visibile che non solo è capace di
sapere, ma sa anche di sapere, e per questo si interessa alla
verità reale di ciò che gli appare. Nessuno può essere
sinceramente indifferente alla verità del suo sapere. Se
scopre che è falso, lo rigetta; se può, invece, accertarne
la verità, si sente appagato. E la lezione di sant'Agostino
quando scrive: « Molti ho incontrato che volevano ingannare,
ma che volesse farsi ingannare, nessuno ».(24) Giustamente si
ritiene che una persona abbia raggiunto l'età adulta quando
può discernere, con i propri mezzi, tra ciò che è vero e ciò
che è falso, formandosi un suo giudizio sulla realtà
oggettiva delle cose. Sta qui il motivo di tante ricerche, in
particolare nel campo delle scienze, che hanno portato negli
ultimi secoli a così significativi risultati, favorendo un
autentico progresso dell'umanità intera.
Non meno importante della
ricerca in ambito teoretico è quella in ambito pratico:
intendo alludere alla ricerca della verità in rapporto al
bene da compiere. Con il proprio agire etico, infatti, la
persona, operando secondo il suo libero e retto volere, si
introduce nella strada della felicità e tende verso la
perfezione. Anche in questo caso si tratta di verità. Ho
ribadito questa convinzione nella Lettera enciclica Veritatis
splendor: « Non si dà morale senza libertà [...]. Se
esiste il diritto di essere rispettati nel proprio cammino di
ricerca della verità, esiste ancora prima l'obbligo morale
grave per ciascuno di cercare la verità e di aderirvi una
volta conosciuta ».(25)
E necessario, dunque, che
i valori scelti e perseguiti con la propria vita siano veri,
perché soltanto valori veri possono perfezionare la persona
realizzandone la natura. Questa verità dei valori, l'uomo la
trova non rinchiudendosi in se stesso ma aprendosi ad
accoglierla anche nelle dimensioni che lo trascendono. E
questa una condizione necessaria perché ognuno diventi se
stesso e cresca come persona adulta e matura.
26. La verità
inizialmente si presenta all'uomo in forma interrogativa: ha
un senso la vita? verso dove è diretta? A prima vista,
l'esistenza personale potrebbe presentarsi radicalmente priva
di senso. Non è necessario ricorrere ai filosofi dell'assurdo
né alle provocatorie domande che si ritrovano nel Libro di
Giobbe per dubitare del senso della vita. L'esperienza
quotidiana della sofferenza, propria ed altrui, la vista di
tanti fatti che alla luce della ragione appaiono inspiegabili,
bastano a rendere ineludibile una questione così drammatica
come quella sul senso.(26) A ciò si aggiunga che la prima
verità assolutamente certa della nostra esistenza, oltre al
fatto che esistiamo, è l'inevitabilità della nostra morte.
Di fronte a questo dato sconcertante s'impone la ricerca di
una risposta esaustiva. Ognuno vuole — e deve — conoscere
la verità sulla propria fine. Vuole sapere se la morte sarà
il termine definitivo della sua esistenza o se vi è qualcosa
che oltrepassa la morte; se gli è consentito sperare in una
vita ulteriore oppure no. Non è senza significato che il
pensiero filosofico abbia ricevuto un suo decisivo
orientamento dalla morte di Socrate e ne sia rimasto segnato
da oltre due millenni. Non è affatto casuale, quindi, che i
filosofi dinanzi al fatto della morte si siano riproposti
sempre di nuovo questo problema insieme con quello sul senso
della vita e dell'immortalità.
27. A questi interrogativi
nessuno può sfuggire, né il filosofo né l'uomo comune.
Dalla risposta ad essi data dipende una tappa decisiva della
ricerca: se sia possibile o meno raggiungere una verità
universale e assoluta. Di per sé, ogni verità anche
parziale, se è realmente verità, si presenta come
universale. Ciò che è vero, deve essere vero per tutti e per
sempre. Oltre a questa universalità, tuttavia, l'uomo cerca
un assoluto che sia capace di dare risposta e senso a tutta la
sua ricerca: qualcosa di ultimo, che si ponga come fondamento
di ogni cosa. In altre parole, egli cerca una spiegazione
definitiva, un valore supremo, oltre il quale non vi siano né
vi possano essere interrogativi o rimandi ulteriori. Le
ipotesi possono affascinare, ma non soddisfano. Viene per
tutti il momento in cui, lo si ammetta o no, si ha bisogno di
ancorare la propria esistenza ad una verità riconosciuta come
definitiva, che dia certezza non più sottoposta al dubbio.
I filosofi, nel corso dei
secoli, hanno cercato di scoprire e di esprimere una simile
verità, dando vita a un sistema o una scuola di pensiero. Al
di là dei sistemi filosofici, tuttavia, vi sono altre
espressioni in cui l'uomo cerca di dare forma a una sua «
filosofia »: si tratta di convinzioni o esperienze personali,
di tradizioni familiari e culturali o di itinerari
esistenziali in cui ci si affida all'autorità di un maestro.
In ognuna di queste manifestazioni ciò che permane sempre
vivo è il desiderio di raggiungere la certezza della verità
e del suo valore assoluto.
I differenti volti
della verità dell'uomo
28. Non sempre, è
doveroso riconoscerlo, la ricerca della verità si presenta
con una simile trasparenza e consequenzialità. La nativa
limitatezza della ragione e l'incostanza del cuore oscurano e
deviano spesso la ricerca personale. Altri interessi di vario
ordine possono sopraffare la verità. Succede anche che l'uomo
addirittura la sfugga non appena comincia ad intravederla,
perché ne teme le esigenze. Nonostante questo, anche quando
la evita, è sempre la verità ad influenzarne l'esistenza.
Mai, infatti, egli potrebbe fondare la propria vita sul
dubbio, sull'incertezza o sulla menzogna; una simile esistenza
sarebbe minacciata costantemente dalla paura e dall'angoscia.
Si può definire, dunque, l'uomo come colui che cerca la
verità.
29. Non è pensabile che
una ricerca così profondamente radicata nella natura umana
possa essere del tutto inutile e vana. La stessa capacità di
cercare la verità e di porre domande implica già una prima
risposta. L'uomo non inizierebbe a cercare ciò che ignorasse
del tutto o stimasse assolutamente irraggiungibile. Solo la
prospettiva di poter arrivare ad una risposta può indurlo a
muovere il primo passo. Di fatto, proprio questo è ciò che
normalmente accade nella ricerca scientifica. Quando uno
scienziato, a seguito di una sua intuizione, si pone alla
ricerca della spiegazione logica e verificabile di un
determinato fenomeno, egli ha fiducia fin dall'inizio di
trovare una risposta, e non s'arrende davanti agli insuccessi.
Egli non ritiene inutile l'intuizione originaria solo perché
non ha raggiunto l'obiettivo; con ragione dirà piuttosto che
non ha trovato ancora la risposta adeguata.
La stessa cosa deve valere
anche per la ricerca della verità nell'ambito delle questioni
ultime. La sete di verità è talmente radicata nel cuore
dell'uomo che il doverne prescindere comprometterebbe
l'esistenza. E sufficiente, insomma, osservare la vita di
tutti i giorni per costatare come ciascuno di noi porti in sé
l'assillo di alcune domande essenziali ed insieme custodisca
nel proprio animo almeno l'abbozzo delle relative risposte.
Sono risposte della cui verità si è convinti, anche perché
si sperimenta che, nella sostanza, non differiscono dalle
risposte a cui sono giunti tanti altri. Certo, non ogni verità
che viene acquisita possiede lo stesso valore. Dall'insieme
dei risultati raggiunti, tuttavia, viene confermata la capacità
che l'essere umano ha di pervenire, in linea di massima, alla
verità.
30. Può essere utile,
ora, fare un rapido cenno a queste diverse forme di verità.
Le più numerose sono quelle che poggiano su evidenze
immediate o trovano conferma per via di esperimento. E questo
l'ordine di verità proprio della vita quotidiana e della
ricerca scientifica. A un altro livello si trovano le verità
di carattere filosofico, a cui l'uomo giunge mediante la
capacità speculativa del suo intelletto. Infine, vi sono le
verità religiose, che in qualche misura affondano le loro
radici anche nella filosofia. Esse sono contenute nelle
risposte che le varie religioni nelle loro tradizioni offrono
alle domande ultime.(27)
Quanto alle verità
filosofiche, occorre precisare che esse non si limitano alle
sole dottrine, talvolta effimere, dei filosofi di professione.
Ogni uomo, come già ho detto, è in certo qual modo un
filosofo e possiede proprie concezioni filosofiche con le
quali orienta la sua vita. In un modo o in un altro, egli si
forma una visione globale e una risposta sul senso della
propria esistenza: in tale luce egli interpreta la propria
vicenda personale e regola il suo comportamento. E qui che
dovrebbe porsi la domanda sul rapporto tra le verità
filosofico-religiose e la verità rivelata in Gesù Cristo.
Prima di rispondere a questo interrogativo è opportuno
valutare un ulteriore dato della filosofia.
31. L'uomo non è fatto
per vivere solo. Egli nasce e cresce in una famiglia, per
inserirsi più tardi con il suo lavoro nella società. Fin
dalla nascita, quindi, si trova immerso in varie tradizioni,
dalle quali riceve non soltanto il linguaggio e la formazione
culturale, ma anche molteplici verità a cui, quasi
istintivamente, crede. La crescita e la maturazione personale,
comunque, implicano che queste stesse verità possano essere
messe in dubbio e vagliate attraverso la peculiare attività
critica del pensiero. Ciò non toglie che, dopo questo
passaggio, quelle stesse verità siano « ricuperate » sulla
base dell'esperienza che se ne è fatta, o in forza del
ragionamento successivo. Nonostante questo, nella vita di un
uomo le verità semplicemente credute rimangono molto più
numerose di quelle che egli acquisisce mediante la personale
verifica. Chi, infatti, sarebbe in grado di vagliare
criticamente gli innumerevoli risultati delle scienze su cui
la vita moderna si fonda? Chi potrebbe controllare per conto
proprio il flusso delle informazioni, che giorno per giorno si
ricevono da ogni parte del mondo e che pure si accettano, in
linea di massima, come vere? Chi, infine, potrebbe rifare i
cammini di esperienza e di pensiero per cui si sono accumulati
i tesori di saggezza e di religiosità dell'umanità? L'uomo,
essere che cerca la verità, è dunque anche colui che vive
di credenza.
32. Nel credere, ciascuno
si affida alle conoscenze acquisite da altre persone. E
ravvisabile in ciò una tensione significativa: da una parte,
la conoscenza per credenza appare come una forma imperfetta di
conoscenza, che deve perfezionarsi progressivamente mediante
l'evidenza raggiunta personalmente; dall'altra, la credenza
risulta spesso umanamente più ricca della semplice evidenza,
perché include un rapporto interpersonale e mette in gioco
non solo le personali capacità conoscitive, ma anche la
capacità più radicale di affidarsi ad altre persone,
entrando in un rapporto più stabile ed intimo con loro.
E bene sottolineare che le
verità ricercate in questa relazione interpersonale non sono
primariamente nell'ordine fattuale o in quello filosofico. Ciò
che viene richiesto, piuttosto, è la verità stessa della
persona: ciò che essa è e ciò che manifesta del proprio
intimo. La perfezione dell'uomo, infatti, non sta nella sola
acquisizione della conoscenza astratta della verità, ma
consiste anche in un rapporto vivo di donazione e di fedeltà
verso l'altro. In questa fedeltà che sa donarsi, l'uomo trova
piena certezza e sicurezza. Al tempo stesso, però, la
conoscenza per credenza, che si fonda sulla fiducia
interpersonale, non è senza riferimento alla verità: l'uomo,
credendo, si affida alla verità che l'altro gli manifesta.
Quanti esempi si
potrebbero portare per illustrare questo dato! Il mio
pensiero, però, corre direttamente alla testimonianza dei
martiri. Il martire, in effetti, è il più genuino testimone
della verità sull'esistenza. Egli sa di avere trovato
nell'incontro con Gesù Cristo la verità sulla sua vita e
niente e nessuno potrà mai strappargli questa certezza. Né
la sofferenza né la morte violenta lo potranno fare recedere
dall'adesione alla verità che ha scoperto nell'incontro con
Cristo. Ecco perché fino ad oggi la testimonianza dei martiri
affascina, genera consenso, trova ascolto e viene seguita.
Questa è la ragione per cui ci si fida della loro parola: si
scopre in essi l'evidenza di un amore che non ha bisogno di
lunghe argomentazioni per essere convincente, dal momento che
parla ad ognuno di ciò che egli nel profondo già percepisce
come vero e ricercato da tanto tempo. Il martire, insomma,
provoca in noi una profonda fiducia, perché dice ciò che noi
già sentiamo e rende evidente ciò che anche noi vorremmo
trovare la forza di esprimere.
33. Si può così vedere
che i termini del problema vanno progressivamente
completandosi. L'uomo, per natura, ricerca la verità. Questa
ricerca non è destinata solo alla conquista di verità
parziali, fattuali o scientifiche; egli non cerca soltanto il
vero bene per ognuna delle sue decisioni. La sua ricerca tende
verso una verità ulteriore che sia in grado di spiegare il
senso della vita; è perciò una ricerca che non può trovare
esito se non nell'assoluto.(28) Grazie alle capacità insite
nel pensiero, l'uomo è in grado di incontrare e riconoscere
una simile verità. In quanto vitale ed essenziale per la sua
esistenza, tale verità viene raggiunta non solo per via
razionale, ma anche mediante l'abbandono fiducioso ad altre
persone, che possono garantire la certezza e l'autenticità
della verità stessa. La capacità e la scelta di affidare se
stessi e la propria vita a un'altra persona costituiscono
certamente uno degli atti antropologicamente più
significativi ed espressivi.
Non si dimentichi che
anche la ragione ha bisogno di essere sostenuta nella sua
ricerca da un dialogo fiducioso e da un'amicizia sincera. Il
clima di sospetto e di diffidenza, che a volte circonda la
ricerca speculativa, dimentica l'insegnamento dei filosofi
antichi, i quali ponevano l'amicizia come uno dei contesti più
adeguati per il retto filosofare.
Da quanto ho fin qui
detto, risulta che l'uomo si trova in un cammino di ricerca,
umanamente interminabile: ricerca di verità e ricerca di una
persona a cui affidarsi. La fede cristiana gli viene incontro
offrendogli la possibilità concreta di vedere realizzato lo
scopo di questa ricerca. Superando lo stadio della semplice
credenza, infatti, essa immette l'uomo in quell'ordine di
grazia che gli consente di partecipare al mistero di Cristo,
nel quale gli è offerta la conoscenza vera e coerente del Dio
Uno e Trino. Così in Gesù Cristo, che è la Verità, la fede
riconosce l'ultimo appello che viene rivolto all'umanità,
perché possa dare compimento a ciò che sperimenta come
desiderio e nostalgia.
34. Questa verità, che
Dio ci rivela in Gesù Cristo, non è in contrasto con le
verità che si raggiungono filosofando. I due ordini di
conoscenza conducono anzi alla verità nella sua pienezza.
L'unità della verità è già un postulato fondamentale della
ragione umana, espresso nel principio di non-contraddizione.
La Rivelazione dà la certezza di questa unità, mostrando che
il Dio creatore è anche il Dio della storia della salvezza.
Lo stesso e identico Dio, che fonda e garantisce
l'intelligibilità e la ragionevolezza dell'ordine naturale
delle cose su cui gli scienziati si appoggiano fiduciosi,(29)
è il medesimo che si rivela Padre di nostro Signore Gesù
Cristo. Quest'unità della verità, naturale e rivelata, trova
la sua identificazione viva e personale in Cristo, così come
ricorda l'Apostolo: « La verità che è in Gesù » (Ef 4,
21; cfr Col 1, 15-20). Egli è la Parola eterna,
in cui tutto è stato creato, ed è insieme la Parola
incarnata, che in tutta la sua persona (30) rivela il
Padre (cfr Gv 1, 14.18). Ciò che la ragione umana
cerca « senza conoscerlo » (cfr At 17, 23), può
essere trovato soltanto per mezzo di Cristo: ciò che in Lui
si rivela, infatti, è la « piena verità » (cfr Gv 1,
14-16) di ogni essere che in Lui e per Lui è stato creato e
quindi in Lui trova compimento (cfr Col 1, 17).
35. Sullo sfondo di queste
considerazioni generali, è necessario ora esaminare in
maniera più diretta il rapporto tra la verità rivelata e la
filosofia. Questo rapporto impone una duplice considerazione,
in quanto la verità che ci proviene dalla Rivelazione è,
nello stesso tempo, una verità che va compresa alla luce
della ragione. Solo in questa duplice accezione, infatti, è
possibile precisare la giusta relazione della verità rivelata
con il sapere filosofico. Consideriamo, pertanto, in primo
luogo i rapporti tra la fede e la filosofia nel corso della
storia. Da qui sarà possibile individuare alcuni principi,
che costituiscono i punti di riferimento a cui rifarsi per
stabilire il corretto rapporto tra i due ordini di conoscenza.
CAPITOLO
IV
IL
RAPPORTO
TRA LA FEDE E LA RAGIONE
Tappe significative
dell'incontro tra fede e ragione
36. Secondo la
testimonianza degli Atti degli Apostoli, l'annuncio cristiano
venne a confronto sin dagli inizi con le correnti filosofiche
del tempo. Lo stesso libro riferisce della discussione che san
Paolo ebbe ad Atene con « certi filosofi epicurei e stoici »
(17, 18). L'analisi esegetica di quel discorso all'Areopago ha
posto in evidenza le ripetute allusioni a convincimenti
popolari di provenienza per lo più stoica. Certamente ciò
non era casuale. Per farsi comprendere dai pagani, i primi
cristiani non potevano nei loro discorsi rinviare soltanto «
a Mosè e ai profeti »; dovevano anche far leva sulla
conoscenza naturale di Dio e sulla voce della coscienza morale
di ogni uomo (cfr Rm 1, 19-21; 2, 14-15; At 14, 16-17).
Poiché però tale conoscenza naturale, nella religione
pagana, era scaduta in idolatria (cfr Rm 1, 21-32),
l'Apostolo ritenne più saggio collegare il suo discorso al
pensiero dei filosofi, i quali fin dagli inizi avevano opposto
ai miti e ai culti misterici concetti più rispettosi della
trascendenza divina.
Uno degli sforzi maggiori
che i filosofi del pensiero classico operarono, infatti, fu
quello di purificare la concezione che gli uomini avevano di
Dio da forme mitologiche. Come sappiamo, anche la religione
greca, non diversamente da gran parte delle religioni
cosmiche, era politeista, giungendo fino a divinizzare cose e
fenomeni della natura. I tentativi dell'uomo di comprendere
l'origine degli dei e, in loro, dell'universo trovarono la
loro prima espressione nella poesia. Le teogonie rimangono,
fino ad oggi, la prima testimonianza di questa ricerca
dell'uomo. Fu compito dei padri della filosofia far emergere
il legame tra la ragione e la religione. Allargando lo sguardo
verso i principi universali, essi non si accontentarono più
dei miti antichi, ma vollero giungere a dare fondamento
razionale alla loro credenza nella divinità. Si intraprese,
così, una strada che, uscendo dalle tradizioni antiche
particolari, si immetteva in uno sviluppo che corrispondeva
alle esigenze della ragione universale. Il fine verso cui tale
sviluppo tendeva era la consapevolezza critica di ciò in cui
si credeva. La prima a trarre vantaggio da simile cammino fu
la concezione della divinità. Le superstizioni vennero
riconosciute come tali e la religione fu, almeno in parte,
purificata mediante l'analisi razionale. Fu su questa base che
i Padri della Chiesa avviarono un dialogo fecondo con i
filosofi antichi, aprendo la strada all'annuncio e alla
comprensione del Dio di Gesù Cristo.
37. Nell'accennare a
questo movimento di avvicinamento dei cristiani alla
filosofia, è doveroso ricordare anche l'atteggiamento di
cautela che in essi suscitavano altri elementi del mondo
culturale pagano, quali ad esempio la gnosi. La filosofia,
come saggezza pratica e scuola di vita, poteva facilmente
essere confusa con una conoscenza di tipo superiore,
esoterico, riservato a pochi perfetti. E senza dubbio a questo
genere di speculazioni esoteriche che san Paolo pensa, quando
mette in guardia i Colossesi: « Badate che nessuno vi inganni
con la sua filosofia e con vuoti raggiri ispirati alla
tradizione umana, secondo gli elementi del mondo e non secondo
Cristo » (2, 8). Quanto mai attuali si presentano le parole
dell'Apostolo, se le riferiamo alle diverse forme di
esoterismo che dilagano oggi anche presso alcuni credenti,
privi del dovuto senso critico. Sulle orme di san Paolo, altri
scrittori dei primi secoli, in particolare sant'Ireneo e
Tertulliano, sollevano a loro volta riserve nei confronti di
un'impostazione culturale che pretendeva di subordinare la
verità della Rivelazione all'interpretazione dei filosofi.
38. L'incontro del
cristianesimo con la filosofia, dunque, non fu immediato né
facile. La pratica di essa e la frequentazione delle scuole
apparve ai primi cristiani più come un disturbo che come
un'opportunità. Per loro, primo e urgente dovere era
l'annuncio di Cristo risorto da proporre in un incontro
personale capace di condurre l'interlocutore alla conversione
del cuore e alla richiesta del Battesimo. Ciò non significa,
comunque, che essi ignorassero il compito di approfondire
l'intelligenza della fede e delle sue motivazioni. Tutt'altro.
Ingiusta e pretestuosa, pertanto, risulta la critica di Celso,
che accusa i cristiani di essere gente « illetterata e rozza
».(31) La spiegazione di questo loro iniziale disinteresse va
ricercata altrove. In realtà, l'incontro con il Vangelo
offriva una risposta così appagante alla questione, fino a
quel momento ancora non risolta, circa il senso della vita,
che la frequentazione dei filosofi appariva loro come una cosa
lontana e, per alcuni versi, superata.
Ciò appare oggi ancora più
chiaro, se si pensa a quell'apporto del cristianesimo che
consiste nell'affermazione dell'universale diritto d'accesso
alla verità. Abbattute le barriere razziali, sociali e
sessuali, il cristianesimo aveva annunciato fin dai suoi inizi
l'uguaglianza di tutti gli uomini dinanzi a Dio. La prima
conseguenza di questa concezione si applicava al tema della
verità. Veniva decisamente superato il carattere elitario che
la sua ricerca aveva presso gli antichi: poiché l'accesso
alla verità è un bene che permette di giungere a Dio, tutti
devono essere nella condizione di poter percorrere questa
strada. Le vie per raggiungere la verità rimangono
molteplici; tuttavia, poiché la verità cristiana ha un
valore salvifico, ciascuna di queste vie può essere percorsa,
purché conduca alla meta finale, ossia alla rivelazione di
Gesù Cristo.
Quale pioniere di un
incontro positivo col pensiero filosofico, anche se nel segno
di un cauto discernimento, va ricordato san Giustino: questi,
pur conservando anche dopo la conversione grande stima per la
filosofia greca, asseriva con forza e chiarezza di aver
trovato nel cristianesimo « l'unica sicura e proficua
filosofia ».(32) Similmente, Clemente Alessandrino chiamava
il Vangelo « la vera filosofia »,(33) e interpretava la
filosofia in analogia alla legge mosaica come una istruzione
propedeutica alla fede cristiana (34) e una preparazione al
Vangelo.(35) Poiché « la filosofia brama quella sapienza che
consiste nella rettitudine dell'anima e della parola e nella
purezza della vita, essa è ben disposta verso la sapienza e
fa tutto il possibile per raggiungerla. Presso di noi si
dicono filosofi coloro che amano la sapienza che è creatrice
e maestra di ogni cosa, cioè la conoscenza del Figlio di Dio
».(36) La filosofia greca, per l'Alessandrino, non ha come
primo scopo quello di completare o rafforzare la verità
cristiana; suo compito è, piuttosto, la difesa della fede: «
La dottrina del Salvatore è perfetta in se stessa e non ha
bisogno di appoggio, perché essa è la forza e la sapienza di
Dio. La filosofia greca, col suo apporto, non rende più forte
la verità, ma siccome rende impotente l'attacco della
sofistica e disarma gli attacchi proditori contro la verità,
la si è chiamata a ragione siepe e muro di cinta della vigna
».(37)
39. Nella storia di questo
sviluppo è possibile, comunque, verificare l'assunzione
critica del pensiero filosofico da parte dei pensatori
cristiani. Tra i primi esempi che si possono incontrare,
quello di Origene è certamente significativo. Contro gli
attacchi che venivano mossi dal filosofo Celso, Origene assume
la filosofia platonica per argomentare e rispondergli.
Riferendosi a non pochi elementi del pensiero platonico, egli
inizia a elaborare una prima forma di teologia cristiana. Il
nome stesso, infatti, insieme con l'idea di teologia come
discorso razionale su Dio, fino a quel momento era ancora
legato alla sua origine greca. Nella filosofia aristotelica,
ad esempio, il nome designava la parte più nobile e il vero
apogeo del discorso filosofico. Alla luce della Rivelazione
cristiana, invece, ciò che in precedenza indicava una
generica dottrina sulle divinità venne ad assumere un
significato del tutto nuovo, in quanto definiva la riflessione
che il credente compiva per esprimere la vera dottrina su
Dio. Questo nuovo pensiero cristiano che si andava sviluppando
si avvaleva della filosofia, ma nello stesso tempo tendeva a
distinguersi nettamente da essa. La storia mostra come lo
stesso pensiero platonico assunto in teologia abbia subito
profonde trasformazioni, in particolare per quanto riguarda
concetti quali l'immortalità dell'anima, la divinizzazione
dell'uomo e l'origine del male.
40. In quest'opera di
cristianizzazione del pensiero platonico e neoplatonico,
meritano particolare menzione i Padri Cappadoci, Dionigi detto
l'Areopagita e soprattutto sant'Agostino. Il grande Dottore
occidentale era venuto a contatto con diverse scuole
filosofiche, ma tutte lo avevano deluso. Quando davanti a lui
si affacciò la verità della fede cristiana, allora ebbe la
forza di compiere quella radicale conversione a cui i filosofi
precedentemente frequentati non erano riusciti ad indurlo. Il
motivo lo racconta lui stesso: « Dal quel momento però
cominciai a rendermi conto che una preferenza per
l'insegnamento cattolico mi avrebbe imposto di credere a cose
non dimostrate (sia che una dimostrazione ci fosse ma non
apparisse convincente, sia che non ci fosse del tutto) in
misura minore e con rischio d'errore trascurabile in confronto
all'insegnamento manicheo. Il quale prima si prendeva gioco
della credulità con temerarie promesse di conoscenza, e poi
imponeva di credere a tante fantasie favolose ed assurde, dato
che non poteva dimostrarle ».(38) Agli stessi platonici, a
cui si faceva riferimento in modo privilegiato, Agostino
rimproverava che, pur avendo conosciuto il fine verso cui
tendere, avevano ignorato però la via che vi conduce: il
Verbo incarnato.(39) Il Vescovo di Ippona riuscì a produrre
la prima grande sintesi del pensiero filosofico e teologico
nella quale confluivano correnti del pensiero greco e latino.
Anche in lui, la grande unità del sapere, che trovava il suo
fondamento nel pensiero biblico, venne ad essere confermata e
sostenuta dalla profondità del pensiero speculativo. La
sintesi compiuta da sant'Agostino rimarrà per secoli come la
forma più alta della speculazione filosofica e teologica che
l'Occidente abbia conosciuto. Forte della sua storia personale
e aiutato da una mirabile santità di vita, egli fu anche in
grado di introdurre nelle sue opere molteplici dati che,
facendo riferimento all'esperienza, preludevano a futuri
sviluppi di alcune correnti filosofiche.
41. Diverse, dunque, sono
state le forme con cui i Padri d'Oriente e d'Occidente sono
entrati in rapporto con le scuole filosofiche. Ciò non
significa che essi abbiano identificato il contenuto del loro
messaggio con i sistemi a cui facevano riferimento. La domanda
di Tertulliano: « Che cosa hanno in comune Atene e
Gerusalemme? Che cosa l'Accademia e la Chiesa? »,(40) è
chiaro sintomo della coscienza critica con cui i pensatori
cristiani, fin dalle origini, affrontarono il problema del
rapporto tra la fede e la filosofia, vedendolo globalmente nei
suoi aspetti positivi e nei suoi limiti. Non erano pensatori
ingenui. Proprio perché vivevano intensamente il contenuto
della fede, essi sapevano raggiungere le forme più profonde
della speculazione. E pertanto ingiusto e riduttivo limitare
la loro opera alla sola trasposizione delle verità di fede in
categorie filosofiche. Fecero molto di più. Riuscirono,
infatti, a far emergere in pienezza quanto risultava ancora
implicito e propedeutico nel pensiero dei grandi filosofi
antichi.(41) Costoro, come ho detto, avevano avuto il compito
di mostrare in quale modo la ragione, liberata dai vincoli
esterni, potesse uscire dal vicolo cieco dei miti, per aprirsi
in modo più adeguato alla trascendenza. Una ragione
purificata e retta, quindi, era in grado di elevarsi ai
livelli più alti della riflessione, dando fondamento solido
alla percezione dell'essere, del trascendente e dell'assoluto.
Proprio qui si inserisce
la novità operata dai Padri. Essi accolsero in pieno la
ragione aperta all'assoluto e in essa innestarono la ricchezza
proveniente dalla Rivelazione. L'incontro non fu solo a
livello di culture, delle quali l'una succube forse del
fascino dell'altra; esso avvenne nell'intimo degli animi e fu
incontro tra la creatura e il suo Creatore. Oltrepassando il
fine stesso verso cui inconsapevolmente tendeva in forza della
sua natura, la ragione poté raggiungere il sommo bene e la
somma verità nella persona del Verbo incarnato. Dinanzi alle
filosofie, i Padri non ebbero tuttavia timore di riconoscere
tanto gli elementi comuni quanto le diversità che esse
presentavano rispetto alla Rivelazione. La coscienza delle
convergenze non offuscava in loro il riconoscimento delle
differenze.
42. Nella teologia
scolastica il ruolo della ragione filosoficamente educata
diventa ancora più cospicuo sotto la spinta
dell'interpretazione anselmiana dell'intellectus fidei.
Per il santo Arcivescovo di Canterbury la priorità della fede
non è competitiva con la ricerca propria della ragione.
Questa, infatti, non è chiamata a esprimere un giudizio sui
contenuti della fede; ne sarebbe incapace, perché a ciò non
idonea. Suo compito, piuttosto, è quello di saper trovare un
senso, di scoprire delle ragioni che permettano a tutti di
raggiungere una qualche intelligenza dei contenuti di fede.
Sant'Anselmo sottolinea il fatto che l'intelletto deve porsi
in ricerca di ciò che ama: più ama, più desidera conoscere.
Chi vive per la verità è proteso verso una forma di
conoscenza che si infiamma sempre più di amore per ciò che
conosce, pur dovendo ammettere di non aver ancora fatto tutto
ciò che sarebbe nel suo desiderio: « Ad te videndum
factus sum; et nondum feci propter quod factus sum ».(42)
Il desiderio di verità spinge, dunque, la ragione ad andare
sempre oltre; essa, anzi, viene come sopraffatta dalla
costatazione della sua capacità sempre più grande di ciò
che raggiunge. A questo punto, però, la ragione è in grado
di scoprire ove stia il compimento del suo cammino: « Penso
infatti che chi investiga una cosa incomprensibile debba
accontentarsi di giungere con il ragionamento a riconoscerne
con somma certezza la realtà, anche se non è in grado di
penetrare con l'intelletto il suo modo di essere [...]. Che
cosa c'è peraltro di tanto incomprensibile ed inesprimibile
quanto ciò che è al di sopra di ogni cosa? Se dunque ciò di
cui finora si è disputato intorno alla somma essenza è stato
stabilito su ragioni necessarie, quantunque non possa essere
penetrato con l'intelletto in modo da potersi chiarire anche
verbalmente, non per questo vacilla minimamente il fondamento
della sua certezza. Se, infatti, una precedente riflessione ha
compreso in modo razionale che è incomprensibile (rationabiliter
comprehendit incomprehensibile esse) il modo in cui la
sapienza superna sa ciò che ha fatto [...], chi spiegherà
come essa stessa si conosce e si dice, essa di cui l'uomo
nulla o pressoché nulla può sapere? ».(43)
L'armonia fondamentale
della conoscenza filosofica e della conoscenza di fede è
ancora una volta confermata: la fede chiede che il suo oggetto
venga compreso con l'aiuto della ragione; la ragione, al
culmine della sua ricerca, ammette come necessario ciò che la
fede presenta.
La novità perenne
del pensiero di san Tommaso d'Aquino
43. Un posto tutto
particolare in questo lungo cammino spetta a san Tommaso, non
solo per il contenuto della sua dottrina, ma anche per il
rapporto dialogico che egli seppe instaurare con il pensiero
arabo ed ebreo del suo tempo. In un'epoca in cui i pensatori
cristiani riscoprivano i tesori della filosofia antica, e più
direttamente aristotelica, egli ebbe il grande merito di porre
in primo piano l'armonia che intercorre tra la ragione e la
fede. La luce della ragione e quella della fede provengono
entrambe da Dio, egli argomentava; perciò non possono
contraddirsi tra loro.(44)
Più radicalmente, Tommaso
riconosce che la natura, oggetto proprio della filosofia, può
contribuire alla comprensione della rivelazione divina. La
fede, dunque, non teme la ragione, ma la ricerca e in essa
confida. Come la grazia suppone la natura e la porta a
compimento,(45) così la fede suppone e perfeziona la ragione.
Quest'ultima, illuminata dalla fede, viene liberata dalle
fragilità e dai limiti derivanti dalla disobbedienza del
peccato e trova la forza necessaria per elevarsi alla
conoscenza del mistero di Dio Uno e Trino. Pur sottolineando
con forza il carattere soprannaturale della fede, il Dottore
Angelico non ha dimenticato il valore della sua
ragionevolezza; ha saputo, anzi, scendere in profondità e
precisare il senso di tale ragionevolezza. La fede, infatti,
è in qualche modo « esercizio del pensiero »; la ragione
dell'uomo non si annulla né si avvilisce dando l'assenso ai
contenuti di fede; questi sono in ogni caso raggiunti con
scelta libera e consapevole.(46)
E per questo motivo che,
giustamente, san Tommaso è sempre stato proposto dalla Chiesa
come maestro di pensiero e modello del retto modo di fare
teologia. Mi piace ricordare, in questo contesto, quanto ha
scritto il mio Predecessore, il Servo di Dio Paolo VI, in
occasione del settimo centenario della morte del Dottore
Angelico: « Senza dubbio, Tommaso possedette al massimo grado
il coraggio della verità, la libertà di spirito
nell'affrontare i nuovi problemi, l'onestà intellettuale di
chi non ammette la contaminazione del cristianesimo con la
filosofia profana, ma nemmeno il rifiuto aprioristico di
questa. Perciò, egli passò alla storia del pensiero
cristiano come un pioniere sul nuovo cammino della filosofia e
della cultura universale. Il punto centrale e quasi il
nocciolo della soluzione che egli diede al problema del nuovo
confronto tra la ragione e la fede con la genialità del suo
intuito profetico, è stato quello della conciliazione tra la
secolarità del mondo e la radicalità del Vangelo, sfuggendo
così alla innaturale tendenza negatrice del mondo e dei suoi
valori, senza peraltro venire meno alle supreme e inflessibili
esigenze dell'ordine soprannaturale ».(47)
44. Tra le grandi
intuizioni di san Tommaso vi è anche quella relativa al ruolo
che lo Spirito Santo svolge nel far maturare in sapienza la
scienza umana. Fin dalle prime pagine della sua Summa
Theologiae (48) l'Aquinate volle mostrare il primato di
quella sapienza che è dono dello Spirito Santo ed introduce
alla conoscenza delle realtà divine. La sua teologia permette
di comprendere la peculiarità della sapienza nel suo stretto
legame con la fede e la conoscenza divina. Essa conosce per
connaturalità, presuppone la fede e arriva a formulare il suo
retto giudizio a partire dalla verità della fede stessa: «
La sapienza elencata tra i doni dello Spirito Santo è
distinta da quella che è posta tra le virtù intellettuali.
Infatti quest'ultima si acquista con lo studio: quella invece
“viene dall'alto”, come si esprime san Giacomo. Così pure
è distinta dalla fede. Poiché la fede accetta la verità
divina così com'è, invece è proprio del dono di sapienza
giudicare secondo la verità divina ».(49)
La priorità riconosciuta
a questa sapienza, tuttavia, non fa dimenticare al Dottore
Angelico la presenza di altre due complementari forme di
sapienza: quella filosofica, che si fonda sulla capacità
che l'intelletto ha, entro i limiti che gli sono connaturali,
di indagare la realtà; e quella teologica, che si
fonda sulla Rivelazione ed esamina i contenuti della fede,
raggiungendo il mistero stesso di Dio.
Intimamente convinto che
« omne verum a quocumque dicatur a Spiritu Sancto est
»,(50) san Tommaso amò in maniera disinteressata la verità.
Egli la cercò dovunque essa si potesse manifestare,
evidenziando al massimo la sua universalità. In lui, il
Magistero della Chiesa ha visto ed apprezzato la passione per
la verità; il suo pensiero, proprio perché si mantenne
sempre nell'orizzonte della verità universale, oggettiva e
trascendente, raggiunse « vette che l'intelligenza umana non
avrebbe mai potuto pensare ».(51) Con ragione, quindi, egli
può essere definito « apostolo della verità ».(52) Proprio
perché alla verità mirava senza riserve, nel suo realismo
egli seppe riconoscerne l'oggettività. La sua è veramente la
filosofia dell'essere e non del semplice apparire.
Il dramma della
separazione tra fede e ragione
45. Con il sorgere delle
prime università, la teologia veniva a confrontarsi più
direttamente con altre forme della ricerca e del sapere
scientifico. Sant'Alberto Magno e san Tommaso, pur mantenendo
un legame organico tra la teologia e la filosofia, furono i
primi a riconoscere la necessaria autonomia di cui la
filosofia e le scienze avevano bisogno, per applicarsi
efficacemente ai rispettivi campi di ricerca. A partire dal
tardo Medio Evo, tuttavia, la legittima distinzione tra i due
saperi si trasformò progressivamente in una nefasta
separazione. A seguito di un eccessivo spirito razionalista,
presente in alcuni pensatori, si radicalizzarono le posizioni,
giungendo di fatto a una filosofia separata e assolutamente
autonoma nei confronti dei contenuti della fede. Tra le altre
conseguenze di tale separazione vi fu anche quella di una
diffidenza sempre più forte nei confronti della stessa
ragione. Alcuni iniziarono a professare una sfiducia generale,
scettica e agnostica, o per riservare più spazio alla fede o
per screditarne ogni possibile riferimento razionale.
Insomma, ciò che il
pensiero patristico e medievale aveva concepito e attuato come
unità profonda, generatrice di una conoscenza capace di
arrivare alle forme più alte della speculazione, venne di
fatto distrutto dai sistemi che sposarono la causa di una
conoscenza razionale separata dalla fede e alternativa ad
essa.
46. Le radicalizzazioni più
influenti sono note e ben visibili, soprattutto nella storia
dell'Occidente. Non è esagerato affermare che buona parte del
pensiero filosofico moderno si è sviluppato allontanandosi
progressivamente dalla Rivelazione cristiana, fino a
raggiungere contrapposizioni esplicite. Nel secolo scorso,
questo movimento ha toccato il suo apogeo. Alcuni
rappresentanti dell'idealismo hanno cercato in diversi modi di
trasformare la fede e i suoi contenuti, perfino il mistero
della morte e risurrezione di Gesù Cristo, in strutture
dialettiche razionalmente concepibili. A questo pensiero si
sono opposte diverse forme di umanesimo ateo, elaborate
filosoficamente, che hanno prospettato la fede come dannosa e
alienante per lo sviluppo della piena razionalità. Non hanno
avuto timore di presentarsi come nuove religioni formando la
base di progetti che, sul piano politico e sociale, sono
sfociati in sistemi totalitari traumatici per l'umanità.
Nell'ambito della ricerca
scientifica si è venuta imponendo una mentalità positivista
che non soltanto si è allontanata da ogni riferimento alla
visione cristiana del mondo, ma ha anche, e soprattutto,
lasciato cadere ogni richiamo alla visione metafisica e
morale. La conseguenza di ciò è che certi scienziati, privi
di ogni riferimento etico, rischiano di non avere più al
centro del loro interesse la persona e la globalità della sua
vita. Di più: alcuni di essi, consapevoli delle potenzialità
insite nel progresso tecnologico, sembrano cedere, oltre che
alla logica del mercato, alla tentazione di un potere
demiurgico sulla natura e sullo stesso essere umano.
Come conseguenza della
crisi del razionalismo ha preso corpo, infine, il nichilismo.
Quale filosofia del nulla, esso riesce ad esercitare un suo
fascino sui nostri contemporanei. I suoi seguaci teorizzano la
ricerca come fine a se stessa, senza speranza né possibilità
alcuna di raggiungere la meta della verità.
Nell'interpretazione nichilista, l'esistenza è solo
un'opportunità per sensazioni ed esperienze in cui l'effimero
ha il primato. Il nichilismo è all'origine di quella diffusa
mentalità secondo cui non si deve assumere più nessun
impegno definitivo, perché tutto è fugace e provvisorio.
47. Non è da dimenticare,
d'altra parte, che nella cultura moderna è venuto a cambiare
il ruolo stesso della filosofia. Da saggezza e sapere
universale, essa si è ridotta progressivamente a una delle
tante province del sapere umano; per alcuni aspetti, anzi, è
stata limitata a un ruolo del tutto marginale. Altre forme di
razionalità si sono nel frattempo affermate con sempre
maggior rilievo, ponendo in evidenza la marginalità del
sapere filosofico. Invece che verso la contemplazione della
verità e la ricerca del fine ultimo e del senso della vita,
queste forme di razionalità sono orientate — o almeno
orientabili — come « ragione strumentale » al servizio di
fini utilitaristici, di fruizione o di potere.
Quanto sia pericoloso
assolutizzare questa strada l'ho fatto osservare fin dalla mia
prima Lettera enciclica quando scrivevo: « L'uomo di oggi
sembra essere sempre minacciato da ciò che produce, cioè dal
risultato del lavoro delle sue mani e, ancor più, del lavoro
del suo intelletto, delle tendenze della sua volontà. I
frutti di questa multiforme attività dell'uomo, troppo presto
e in modo spesso imprevedibile, sono non soltanto e non tanto
oggetto di 'alienazione', nel senso che vengono semplicemente
tolti a colui che li ha prodotti; quanto, almeno parzialmente,
in una cerchia conseguente e indiretta dei loro effetti,
questi frutti si rivolgono contro l'uomo stesso. Essi sono,
infatti, diretti, o possono essere diretti contro di lui. In
questo sembra consistere l'atto principale del dramma
dell'esistenza umana contemporanea, nella sua più larga e
universale dimensione. L'uomo, pertanto, vive sempre più
nella paura. Egli teme che i suoi prodotti, naturalmente non
tutti e non nella maggior parte, ma alcuni e proprio quelli
che contengono una speciale porzione della sua genialità e
della sua iniziativa, possano essere rivolti in modo radicale
contro lui stesso ».(53)
Sulla scia di queste
trasformazioni culturali, alcuni filosofi, abbandonando la
ricerca della verità per se stessa, hanno assunto come loro
unico scopo il raggiungimento della certezza soggettiva o
dell'utilità pratica. Conseguenza di ciò è stato
l'offuscamento della vera dignità della ragione, non più
messa nella condizione di conoscere il vero e di ricercare
l'assoluto.
48. Ciò che emerge da
questo ultimo scorcio di storia della filosofia è, dunque, la
constatazione di una progressiva separazione tra la fede e la
ragione filosofica. E ben vero che, ad una attenta
osservazione, anche nella riflessione filosofica di coloro che
contribuirono ad allargare la distanza tra fede e ragione si
manifestano talvolta germi preziosi di pensiero, che, se
approfonditi e sviluppati con rettitudine di mente e di cuore,
possono far scoprire il cammino della verità. Questi germi di
pensiero si trovano, ad esempio, nelle approfondite analisi
sulla percezione e l'esperienza, sull'immaginario e
l'inconscio, sulla personalità e l'intersoggettività, sulla
libertà ed i valori, sul tempo e la storia. Anche il tema
della morte può diventare severo richiamo, per ogni
pensatore, a ricercare dentro di sé il senso autentico della
propria esistenza. Questo tuttavia non toglie che l'attuale
rapporto tra fede e ragione richieda un attento sforzo di
discernimento, perché sia la ragione che la fede si sono
impoverite e sono divenute deboli l'una di fronte all'altra.
La ragione, privata dell'apporto della Rivelazione, ha
percorso sentieri laterali che rischiano di farle perdere di
vista la sua meta finale. La fede, privata della ragione, ha
sottolineato il sentimento e l'esperienza, correndo il rischio
di non essere più una proposta universale. E illusorio
pensare che la fede, dinanzi a una ragione debole, abbia
maggior incisività; essa, al contrario, cade nel grave
pericolo di essere ridotta a mito o superstizione. Alla stessa
stregua, una ragione che non abbia dinanzi una fede adulta non
è provocata a puntare lo sguardo sulla novità e radicalità
dell'essere.
Non sembri fuori luogo,
pertanto, il mio richiamo forte e incisivo, perché la fede e
la filosofia recuperino l'unità profonda che le rende capaci
di essere coerenti con la loro natura nel rispetto della
reciproca autonomia. Alla parresia della fede deve
corrispondere l'audacia della ragione.
CAPITOLO
V
GLI
INTERVENTI DEL MAGISTERO
IN MATERIA FILOSOFICA
Il discernimento del
Magistero come diaconia alla verità
49. La Chiesa non propone
una propria filosofia né canonizza una qualsiasi filosofia
particolare a scapito di altre.(54) La ragione profonda di
questa riservatezza sta nel fatto che la filosofia, anche
quando entra in rapporto con la teologia, deve procedere
secondo i suoi metodi e le sue regole; non vi sarebbe
altrimenti garanzia che essa rimanga orientata verso la verità
e ad essa tenda con un processo razionalmente controllabile.
Di poco aiuto sarebbe una filosofia che non procedesse alla
luce della ragione secondo propri principi e specifiche
metodologie. In fondo, la radice della autonomia di cui gode
la filosofia è da individuare nel fatto che la ragione è per
sua natura orientata alla verità ed è inoltre in se stessa
fornita dei mezzi necessari per raggiungerla. Una filosofia
consapevole di questo suo « statuto costitutivo » non può
non rispettare anche le esigenze e le evidenze proprie della
verità rivelata.
La storia, tuttavia, ha
mostrato le deviazioni e gli errori in cui non di rado il
pensiero filosofico, soprattutto moderno, è incorso. Non è
compito né competenza del Magistero intervenire per colmare
le lacune di un discorso filosofico carente. E suo obbligo,
invece, reagire in maniera chiara e forte quando tesi
filosofiche discutibili minacciano la retta comprensione del
dato rivelato e quando si diffondono teorie false e di parte
che seminano gravi errori, confondendo la semplicità e la
purezza della fede del popolo di Dio.
50. Il Magistero
ecclesiastico, quindi, può e deve esercitare
autoritativamente, alla luce della fede, il proprio
discernimento critico nei confronti delle filosofie e delle
affermazioni che si scontrano con la dottrina cristiana.(55)
Al Magistero spetta di indicare, anzitutto, quali presupposti
e conclusioni filosofiche sarebbero incompatibili con la verità
rivelata, formulando con ciò stesso le esigenze che si
impongono alla filosofia dal punto di vista della fede. Nello
sviluppo del sapere filosofico, inoltre, sono sorte diverse
scuole di pensiero. Anche questo pluralismo pone il Magistero
di fronte alla responsabilità di esprimere il suo giudizio
circa la compatibilità o meno delle concezioni di fondo, a
cui queste scuole si attengono, con le esigenze proprie della
Parola di Dio e della riflessione teologica.
La Chiesa ha il dovere di
indicare ciò che in un sistema filosofico può risultare
incompatibile con la sua fede. Molti contenuti filosofici,
infatti, quali i temi di Dio, dell'uomo, della sua libertà e
del suo agire etico, la chiamano in causa direttamente, perché
toccano la verità rivelata che essa custodisce. Quando
esercitiamo questo discernimento, noi Vescovi abbiamo il
compito di essere « testimoni della verità »
nell'adempimento di una diaconia umile ma tenace, quale ogni
filosofo dovrebbe apprezzare, a vantaggio della recta ratio,
ossia della ragione che riflette correttamente sul vero.
51. Questo discernimento,
comunque, non deve essere inteso primariamente in forma
negativa, come se intenzione del Magistero fosse di eliminare
o ridurre ogni possibile mediazione. Al contrario, i suoi
interventi sono tesi in primo luogo a provocare, promuovere e
incoraggiare il pensiero filosofico. I filosofi per primi,
d'altronde, comprendono l'esigenza dell'autocritica, della
correzione di eventuali errori e la necessità di oltrepassare
i limiti troppo ristretti in cui la loro riflessione è
concepita. Si deve considerare, in modo particolare, che una
è la verità, benché le sue espressioni portino l'impronta
della storia e, per di più, siano opera di una ragione umana
ferita e indebolita dal peccato. Da ciò risulta che nessuna
forma storica della filosofia può legittimamente pretendere
di abbracciare la totalità della verità, né di essere la
spiegazione piena dell'essere umano, del mondo e del rapporto
dell'uomo con Dio.
Oggi poi, col
moltiplicarsi dei sistemi, dei metodi, dei concetti e
argomenti filosofici, spesso estremamente particolareggiati,
un discernimento critico alla luce della fede si impone con
maggiore urgenza. Discernimento non facile, perché se è già
laborioso riconoscere le capacità congenite e inalienabili
della ragione, con i suoi limiti costitutivi e storici, ancora
più problematico qualche volta può risultare il
discernimento, nelle singole proposte filosofiche, di ciò
che, dal punto di vista della fede, esse offrono di valido e
di fecondo rispetto a ciò che, invece, presentano di erroneo
o di pericoloso. La Chiesa, comunque, sa che i « tesori della
sapienza e della scienza » sono nascosti in Cristo (Col 2,
3); per questo interviene stimolando la riflessione
filosofica, perché non si precluda la strada che conduce al
riconoscimento del mistero.
52. Non è solo di recente
che il Magistero della Chiesa è intervenuto per manifestare
il suo pensiero nei confronti di determinate dottrine
filosofiche. A titolo esemplificativo basti ricordare, nel
corso dei secoli, i pronunciamenti circa le teorie che
sostenevano la preesistenza delle anime,(56) come pure circa
le diverse forme di idolatria e di esoterismo superstizioso,
contenute in tesi astrologiche; (57) per non dimenticare i
testi più sistematici contro alcune tesi dell'averroismo
latino, incompatibili con la fede cristiana.(58)
Se la parola del Magistero
si è fatta udire più spesso a partire dalla metà del secolo
scorso è perché in quel periodo non pochi cattolici
sentirono il dovere di opporre una loro filosofia alle varie
correnti del pensiero moderno. A questo punto, diventava
obbligatorio per il Magistero della Chiesa vegliare perché
queste filosofie non deviassero, a loro volta, in forme
erronee e negative. Furono così censurati simmetricamente: da
una parte, il fideismo (59) e il tradizionalismo
radicale,(60) per la loro sfiducia nelle capacità
naturali della ragione; dall'altra parte, il razionalismo
(61) e l'ontologismo,(62) perché attribuivano alla
ragione naturale ciò che è conoscibile solo alla luce della
fede. I contenuti positivi di questo dibattito furono
formalizzati nella Costituzione dogmatica Dei Filius,
con la quale per la prima volta un Concilio ecumenico, il
Vaticano I, interveniva in maniera solenne sui rapporti tra
ragione e fede. L'insegnamento contenuto in quel testo
caratterizzò fortemente e in maniera positiva la ricerca
filosofica di molti credenti e costituisce ancora oggi un
punto di riferimento normativo per una corretta e coerente
riflessione cristiana in questo particolare ambito.
53. Più che di singole
tesi filosofiche, i pronunciamenti del Magistero si sono
occupati della necessità della conoscenza razionale e,
dunque, ultimamente filosofica per l'intelligenza della fede.
Il Concilio Vaticano I, sintetizzando e riaffermando in modo
solenne gli insegnamenti che in maniera ordinaria e costante
il Magistero pontificio aveva proposto per i fedeli, mise in
evidenza quanto fossero inseparabili e insieme irriducibili la
conoscenza naturale di Dio e la Rivelazione, la ragione e la
fede. Il Concilio partiva dall'esigenza fondamentale,
presupposta dalla Rivelazione stessa, della conoscibilità
naturale dell'esistenza di Dio, principio e fine di ogni
cosa,(63) e concludeva con l'asserzione solenne già citata:
« esistono due ordini di conoscenza, distinti non solo per il
loro principio, ma anche per il loro oggetto ».(64) Bisognava
affermare, dunque, contro ogni forma di razionalismo, la
distinzione dei misteri della fede dai ritrovati filosofici e
la trascendenza e precedenza di quelli rispetto a questi;
d'altra parte, contro le tentazioni fideistiche, era
necessario che si ribadisse l'unità della verità e, quindi,
anche l'apporto positivo che la conoscenza razionale può e
deve dare alla conoscenza di fede: « Ma anche se la fede è
sopra la ragione, non vi potrà mai essere una vera divergenza
tra fede e ragione: poiché lo stesso Dio, che rivela i
misteri e comunica la fede, ha anche deposto nello spirito
umano il lume della ragione, questo Dio non potrebbe negare se
stesso, né il vero contraddire il vero ».(65)
54. Anche nel nostro
secolo, il Magistero è ritornato più volte sull'argomento
mettendo in guardia contro la tentazione razionalistica. E su
questo scenario che si devono collocare gli interventi del
Papa san Pio X, il quale rilevava come alla base del
modernismo vi fossero asserti filosofici di indirizzo
fenomenista, agnostico e immanentista.(66) Non si può neppure
dimenticare l'importanza che ebbe il rifiuto cattolico della
filosofia marxista e del comunismo ateo.(67)
Successivamente, il Papa
Pio XII fece sentire la sua voce quando, nella Lettera
enciclica Humani generis, mise in guardia contro
interpretazioni erronee, collegate con le tesi
dell'evoluzionismo, dell'esistenzialismo e dello storicismo.
Egli precisava che queste tesi erano state elaborate e
venivano proposte non da teologi, avendo la loro origine «
fuori dall'ovile di Cristo »; (68) aggiungeva, comunque, che
tali deviazioni non erano semplicemente da rigettare, ma da
esaminare criticamente: « Ora queste tendenze, che più o
meno deviano dalla retta strada, non possono essere ignorate o
trascurate dai filosofi o dai teologi cattolici, che hanno il
grave compito di difendere la verità divina ed umana e di
farla penetrare nelle menti degli uomini. Anzi, essi devono
conoscere bene queste opinioni, sia perché le malattie non si
possono curare se prima non sono ben conosciute, sia perché
qualche volta nelle stesse false affermazioni si nasconde un
po' di verità, sia, infine, perché gli stessi errori
spingono la mente nostra a investigare e a scrutare con più
diligenza alcune verità sia filosofiche sia teologiche ».(69)
Da ultimo, anche la
Congregazione per la Dottrina della Fede, in adempimento del
suo specifico compito a servizio del magistero universale del
Romano Pontefice,(70) ha dovuto intervenire per ribadire il
pericolo che comporta l'assunzione acritica, da parte di
alcuni teologi della liberazione, di tesi e metodologie
derivanti dal marxismo.(71)
Nel passato il Magistero
ha dunque esercitato ripetutamente e sotto diverse modalità
il discernimento in materia filosofica. Quanto i miei Venerati
Predecessori hanno apportato costituisce un prezioso
contributo che non può essere dimenticato.
55. Se guardiamo alla
nostra condizione odierna, vediamo che i problemi di un tempo
ritornano, ma con peculiarità nuove. Non si tratta più
solamente di questioni che interessano singole persone o
gruppi, ma di convinzioni diffuse nell'ambiente al punto da
divenire in qualche misura mentalità comune. Tale è, ad
esempio, la radicale sfiducia nella ragione che rivelano i più
recenti sviluppi di molti studi filosofici. Da più parti si
è sentito parlare, a questo riguardo, di « fine della
metafisica »: si vuole che la filosofia si accontenti di
compiti più modesti, quali la sola interpretazione del
fattuale o la sola indagine su campi determinati del sapere
umano o sulle sue strutture.
Nella stessa teologia
tornano ad affacciarsi le tentazioni di un tempo. In alcune
teologie contemporanee, ad esempio, si fa nuovamente strada un
certo razionalismo, soprattutto quando asserti ritenuti
filosoficamente fondati sono assunti come normativi per la
ricerca teologica. Ciò accade soprattutto quando il teologo,
per mancanza di competenza filosofica, si lascia condizionare
in modo acritico da affermazioni entrate ormai nel linguaggio
e nella cultura corrente, ma prive di sufficiente base
razionale.(72)
Non mancano neppure
pericolosi ripiegamenti sul fideismo, che non riconosce
l'importanza della conoscenza razionale e del discorso
filosofico per l'intelligenza della fede, anzi per la stessa
possibilità di credere in Dio. Un'espressione oggi diffusa di
tale tendenza fideistica è il « biblicismo », che tende a
fare della lettura della Sacra Scrittura o della sua esegesi
l'unico punto di riferimento veritativo. Accade così che si
identifichi la parola di Dio con la sola Sacra Scrittura,
vanificando in tal modo la dottrina della Chiesa che il
Concilio Ecumenico Vaticano II ha ribadito espressamente. La
Costituzione Dei Verbum, dopo aver ricordato che la
parola di Dio è presente sia nei testi sacri che nella
Tradizione,(73) afferma con forza: « La Sacra Tradizione e la
Sacra Scrittura costituiscono un solo sacro deposito della
parola di Dio affidato alla Chiesa. Aderendo ad esso tutto il
popolo santo, unito ai suoi Pastori, persevera costantemente
nell'insegnamento degli Apostoli ».(74) La Sacra Scrittura,
pertanto, non è il solo riferimento per la Chiesa. La «
regola suprema della propria fede »,(75) infatti, le proviene
dall'unità che lo Spirito ha posto tra la Sacra Tradizione,
la Sacra Scrittura e il Magistero della Chiesa in una
reciprocità tale per cui i tre non possono sussistere in
maniera indipendente.(76)
Non è da sottovalutare,
inoltre, il pericolo insito nel voler derivare la verità
della Sacra Scrittura dall'applicazione di una sola
metodologia, dimenticando la necessità di una esegesi più
ampia che consenta di accedere, insieme con tutta la Chiesa,
al senso pieno dei testi. Quanti si dedicano allo studio delle
Sacre Scritture devono sempre tener presente che le diverse
metodologie ermeneutiche hanno anch'esse alla base una
concezione filosofica: occorre vagliarla con discernimento
prima di applicarla ai testi sacri.
Altre forme di latente
fideismo sono riconoscibili nella poca considerazione che
viene riservata alla teologia speculativa, come pure nel
disprezzo per la filosofia classica, alle cui nozioni sia
l'intelligenza della fede sia le stesse formulazioni
dogmatiche hanno attinto i loro termini. Il Papa Pio XII, di
venerata memoria, ha messo in guardia contro tale oblio della
tradizione filosofica e contro l'abbandono delle terminologie
tradizionali.(77)
56. Si nota, insomma, una
diffusa diffidenza verso gli asserti globali e assoluti,
soprattutto da parte di chi ritiene che la verità sia il
risultato del consenso e non dell'adeguamento dell'intelletto
alla realtà oggettiva. E certo comprensibile che, in un mondo
suddiviso in molti campi specialistici, diventi difficile
riconoscere quel senso totale e ultimo della vita che la
filosofia tradizionalmente ha cercato. Nondimeno alla luce
della fede che riconosce in Gesù Cristo tale senso ultimo,
non posso non incoraggiare i filosofi, cristiani o meno, ad
avere fiducia nelle capacità della ragione umana e a non
prefiggersi mete troppo modeste nel loro filosofare. La
lezione della storia di questo millennio, che stiamo per
concludere, testimonia che questa è la strada da seguire:
bisogna non perdere la passione per la verità ultima e
l'ansia per la ricerca, unite all'audacia di scoprire nuovi
percorsi. E la fede che provoca la ragione a uscire da ogni
isolamento e a rischiare volentieri per tutto ciò che è
bello, buono e vero. La fede si fa così avvocato convinto e
convincente della ragione.
L'interesse della
Chiesa per la filosofia
57. Il Magistero,
comunque, non si è limitato solo a rilevare gli errori e le
deviazioni delle dottrine filosofiche. Con altrettanta
attenzione ha voluto ribadire i principi fondamentali per un
genuino rinnovamento del pensiero filosofico, indicando anche
concreti percorsi da seguire. In questo senso, il Papa Leone
XIII con la sua Lettera enciclica Æterni Patris compì
un passo di autentica portata storica per la vita della
Chiesa. Quel testo è stato, fino ad oggi, l'unico documento
pontificio di quel livello dedicato interamente alla
filosofia. Il grande Pontefice riprese e sviluppò
l'insegnamento del Concilio Vaticano I sul rapporto tra fede e
ragione, mostrando come il pensare filosofico sia un
contributo fondamentale per la fede e la scienza
teologica.(78) A più di un secolo di distanza, molte
indicazioni contenute in quel testo non hanno perduto nulla
del loro interesse dal punto di vista sia pratico che
pedagogico; primo fra tutti, quello relativo all'incomparabile
valore della filosofia di san Tommaso. La riproposizione del
pensiero del Dottore Angelico appariva a Papa Leone XIII come
la strada migliore per ricuperare un uso della filosofia
conforme alle esigenze della fede. San Tommaso, egli scriveva,
« nel momento stesso in cui, come conviene, distingue
perfettamente la fede dalla ragione, le unisce ambedue con
legami di amicizia reciproca: conserva ad ognuna i propri
diritti e ne salvaguarda la dignità ».(79)
58. Si sa quante felici
conseguenze abbia avuto quell'invito pontificio. Gli studi sul
pensiero di san Tommaso e di altri autori scolastici
ricevettero nuovo slancio. Fu dato vigoroso impulso agli studi
storici, con la conseguente riscoperta delle ricchezze del
pensiero medievale, fino a quel momento largamente
sconosciute, e si costituirono nuove scuole tomistiche. Con
l'applicazione della metodologia storica, la conoscenza
dell'opera di san Tommaso fece grandi progressi e numerosi
furono gli studiosi che con coraggio introdussero la
tradizione tomista nelle discussioni sui problemi filosofici e
teologici di quel momento. I teologi cattolici più influenti
di questo secolo, alla cui riflessione e ricerca molto deve il
Concilio Vaticano II, sono figli di tale rinnovamento della
filosofia tomista. La Chiesa ha potuto così disporre, nel
corso del XX secolo, di una vigorosa schiera di pensatori
formati alla scuola dell'Angelico Dottore.
59. Il rinnovamento
tomista e neotomista, comunque, non è stato l'unico segno di
ripresa del pensiero filosofico nella cultura di ispirazione
cristiana. Già prima, e in parallelo con l'invito leoniano,
erano emersi non pochi filosofi cattolici che, ricollegandosi
a correnti di pensiero più recenti, secondo una propria
metodologia, avevano prodotto opere filosofiche di grande
influsso e di valore durevole. Ci fu chi organizzò sintesi di
così alto profilo che nulla hanno da invidiare ai grandi
sistemi dell'idealismo; chi, inoltre, pose le basi
epistemologiche per una nuova trattazione della fede alla luce
di una rinnovata comprensione della coscienza morale; chi,
ancora, produsse una filosofia che, partendo dall'analisi
dell'immanenza, apriva il cammino verso il trascendente; e
chi, infine, tentò di coniugare le esigenze della fede
nell'orizzonte della metodologia fenomenologica. Da diverse
prospettive, insomma, si è continuato a produrre forme di
speculazione filosofica che hanno inteso mantenere viva la
grande tradizione del pensiero cristiano nell'unità di fede e
ragione.
60. Il Concilio Ecumenico
Vaticano II, per parte sua, presenta un insegnamento molto
ricco e fecondo nei confronti della filosofia. Non posso
dimenticare, soprattutto nel contesto di questa Lettera
enciclica, che un intero capitolo della Costituzione Gaudium
et spes costituisce quasi un compendio di antropologia
biblica, fonte di ispirazione anche per la filosofia. In
quelle pagine si tratta del valore della persona umana creata
a immagine di Dio, si motiva la sua dignità e superiorità
sul resto del creato e si mostra la capacità trascendente
della sua ragione.(80) Anche il problema dell'ateismo viene
considerato nella Gaudium et spes e ben si motivano gli
errori di quella visione filosofica, soprattutto nei confronti
dell'inalienabile dignità della persona e della sua libertà.(81)
Certamente possiede anche un profondo significato filosofico
l'espressione culminante di quelle pagine, che ho ripreso
nella mia prima Lettera enciclica Redemptor hominis e
che costituisce uno dei punti di riferimento costante del mio
insegnamento: « In realtà solamente nel mistero del Verbo
incarnato trova vera luce il mistero dell'uomo. Adamo,
infatti, il primo uomo, era figura di quello futuro e cioè di
Cristo Signore. Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio
rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche
pienamente l'uomo all'uomo e gli fa nota la sua altissima
vocazione ».(82)
Il Concilio si è occupato
anche dello studio della filosofia, a cui devono dedicarsi i
candidati al sacerdozio; sono raccomandazioni estensibili più
in generale all'insegnamento cristiano nel suo insieme.
Afferma il Concilio: « Le discipline filosofiche si insegnino
in maniera che gli alunni siano anzitutto guidati all'acquisto
di una solida e armonica conoscenza dell'uomo, del mondo e di
Dio, basandosi sul patrimonio filosofico perennemente valido,
tenuto conto anche delle correnti filosofiche moderne ».(83)
Queste direttive sono
state a più riprese ribadite e specificate in altri documenti
magisteriali con lo scopo di garantire una solida formazione
filosofica, soprattutto per coloro che si preparano agli studi
teologici. Da parte mia, più volte ho sottolineato
l'importanza di questa formazione filosofica per quanti
dovranno un giorno, nella vita pastorale, confrontarsi con le
istanze del mondo contemporaneo e cogliere le cause di alcuni
comportamenti per darvi pronta risposta.(84)
61. Se in diverse
circostanze è stato necessario intervenire su questo tema,
ribadendo anche il valore delle intuizioni del Dottore
Angelico e insistendo per l'acquisizione del suo pensiero, ciò
è dipeso dal fatto che le direttive del Magistero non sono
state sempre osservate con la desiderabile disponibilità. In
molte scuole cattoliche, negli anni che seguirono il Concilio
Vaticano II, si è potuto osservare, in materia, un certo
decadimento dovuto ad una minore stima, non solo della
filosofia scolastica, ma più in generale dello stesso studio
della filosofia. Con meraviglia e dispiacere devo costatare
che non pochi teologi condividono questo disinteresse per lo
studio della filosofia.
Diverse sono le ragioni
che stanno alla base di questa disaffezione. In primo luogo,
è da registrare la sfiducia nella ragione che gran parte
della filosofia contemporanea manifesta, abbandonando
largamente la ricerca metafisica sulle domande ultime
dell'uomo, per concentrare la propria attenzione su problemi
particolari e regionali, talvolta anche puramente formali. Si
deve aggiungere, inoltre, il fraintendimento che si è creato
soprattutto in rapporto alle « scienze umane ». Il Concilio
Vaticano II ha più volte ribadito il valore positivo della
ricerca scientifica in ordine a una conoscenza più profonda
del mistero dell'uomo.(85) L'invito fatto ai teologi perché
conoscano queste scienze e, all'occorrenza, le applichino
correttamente nella loro indagine non deve, tuttavia, essere
interpretato come un'implicita autorizzazione ad emarginare la
filosofia o a sostituirla nella formazione pastorale e nella praeparatio
fidei. Non si può dimenticare, infine, il ritrovato
interesse per l'inculturazione della fede. In modo particolare
la vita delle giovani Chiese ha permesso di scoprire, accanto
ad elevate forme di pensiero, la presenza di molteplici
espressioni di saggezza popolare. Ciò costituisce un reale
patrimonio di cultura e di tradizioni. Lo studio, tuttavia,
delle usanze tradizionali deve andare di pari passo con la
ricerca filosofica. Sarà questa a permettere di far emergere
i tratti positivi della saggezza popolare, creando il
necessario collegamento con l'annuncio del Vangelo.(86)
62. Desidero ribadire con
vigore che lo studio della filosofia riveste un carattere
fondamentale e ineliminabile nella struttura degli studi
teologici e nella formazione dei candidati al sacerdozio. Non
è un caso che il curriculum di studi teologici sia
preceduto da un periodo di tempo nel quale è previsto uno
speciale impegno nello studio della filosofia. Questa scelta,
confermata dal Concilio Lateranense V,(87) affonda le sue
radici nell'esperienza maturata durante il Medio Evo, quando
è stata posta in evidenza l'importanza di una costruttiva
armonia tra il sapere filosofico e quello teologico. Questo
ordinamento degli studi ha influenzato, facilitato e promosso,
anche se in maniera indiretta, una buona parte dello sviluppo
della filosofia moderna. Un esempio significativo è dato
dall'influsso esercitato dalle Disputationes metaphysicae di
Francesco Suárez, le quali trovavano spazio perfino nelle
università luterane tedesche. Il venire meno di questa
metodologia, invece, fu causa di gravi carenze sia nella
formazione sacerdotale che nella ricerca teologica. Si
consideri, ad esempio, la disattenzione nei confronti del
pensiero e della cultura moderna, che ha portato alla chiusura
ad ogni forma di dialogo o alla indiscriminata accoglienza di
ogni filosofia.
Confido vivamente che
queste difficoltà siano superate da un'intelligente
formazione filosofica e teologica, che non deve mai venire
meno nella Chiesa.
63. In forza delle ragioni
espresse, mi è sembrato urgente ribadire, con questa Lettera
enciclica, il forte interesse che la Chiesa dedica alla
filosofia; anzi, il legame intimo che unisce il lavoro
teologico alla ricerca filosofica della verità. Di qui deriva
il dovere che il Magistero ha di discernere e stimolare un
pensiero filosofico che non sia in dissonanza con la fede. Mio
compito è di proporre alcuni principi e punti di riferimento
che ritengo necessari per poter instaurare una relazione
armoniosa ed efficace tra la teologia e la filosofia. Alla
loro luce sarà possibile discernere con maggior chiarezza se
e quale rapporto la teologia debba intraprendere con i diversi
sistemi o asserti filosofici, che il mondo attuale presenta.
CAPITOLO
VI
INTERAZIONE
TRA TEOLOGIA E FILOSOFIA
La scienza della
fede e le esigenze della ragione filosofica
64. La parola di Dio si
indirizza a ogni uomo, in ogni tempo e in ogni parte della
terra; e l'uomo è naturalmente filosofo. La teologia, da
parte sua, in quanto elaborazione riflessa e scientifica
dell'intelligenza di questa parola alla luce della fede, sia
per alcuni suoi procedimenti come anche per adempiere a
specifici compiti, non può fare a meno di entrare in rapporto
con le filosofie di fatto elaborate nel corso della storia.
Senza voler indicare ai teologi particolari metodologie, cosa
che non compete al Magistero, desidero piuttosto richiamare
alla mente alcuni compiti propri della teologia, nei quali il
ricorso al pensiero filosofico si impone in forza della natura
stessa della Parola rivelata.
65. La teologia si
organizza come scienza della fede alla luce di un duplice
principio metodologico: l'auditus fidei e l'intellectus
fidei. Con il primo, essa entra in possesso dei contenuti
della Rivelazione così come sono stati esplicitati
progressivamente nella Sacra Tradizione, nella Sacra Scrittura
e nel Magistero vivo della Chiesa.(88) Con il secondo, la
teologia vuole rispondere alle esigenze proprie del pensiero
mediante la riflessione speculativa.
Per quanto concerne la
preparazione ad un corretto auditus fidei, la filosofia
reca alla teologia il suo peculiare contributo nel momento in
cui considera la struttura della conoscenza e della
comunicazione personale e, in particolare, le varie forme e
funzioni del linguaggio. Ugualmente importante è l'apporto
della filosofia per una più coerente comprensione della
Tradizione ecclesiale, dei pronunciamenti del Magistero e
delle sentenze dei grandi maestri della teologia: questi
infatti si esprimono spesso in concetti e forme di pensiero
mutuati da una determinata tradizione filosofica. In questo
caso, è richiesto al teologo non solo di esporre concetti e
termini con i quali la Chiesa riflette ed elabora il suo
insegnamento, ma anche di conoscere a fondo i sistemi
filosofici che hanno eventualmente influito sia sulle nozioni
che sulla terminologia, per giungere a interpretazioni
corrette e coerenti.
66. Per quanto riguarda l'intellectus
fidei, si deve considerare, anzitutto, che la Verità
divina, « a noi proposta nelle Sacre Scritture, interpretate
rettamente dalla dottrina della Chiesa »,(89) gode di una
propria intelligibilità così logicamente coerente da
proporsi come un autentico sapere. L'intellectus fidei esplicita
questa verità, non solo cogliendo le strutture logiche e
concettuali delle proposizioni nelle quali si articola
l'insegnamento della Chiesa, ma anche, e primariamente, nel
far emergere il significato di salvezza che tali proposizioni
contengono per il singolo e per l'umanità. E dall'insieme di
queste proposizioni che il credente arriva a conoscere la
storia della salvezza, la quale culmina nella persona di Gesù
Cristo e nel suo mistero pasquale. A questo mistero egli
partecipa con il suo assenso di fede.
La teologia dogmatica,
per parte sua, deve essere in grado di articolare il senso
universale del mistero del Dio Uno e Trino e dell'economia
della salvezza sia in maniera narrativa sia, soprattutto, in
forma argomentativa. Lo deve fare, cioè, mediante espressioni
concettuali, formulate in modo critico e universalmente
comunicabile. Senza l'apporto della filosofia, infatti, non si
potrebbero illustrare contenuti teologici quali, ad esempio,
il linguaggio su Dio, le relazioni personali all'interno della
Trinità, l'azione creatrice di Dio nel mondo, il rapporto tra
Dio e l'uomo, l'identità di Cristo che è vero Dio e vero
uomo. Le stesse considerazioni valgono per diversi temi della
teologia morale, dove è immediato il ricorso a concetti
quali: legge morale, coscienza, libertà, responsabilità
personale, colpa ecc., che ricevono una loro definizione a
livello di etica filosofica.
E necessario, dunque, che
la ragione del credente abbia una conoscenza naturale, vera e
coerente delle cose create, del mondo e dell'uomo, che sono
anche oggetto della rivelazione divina; ancora di più, essa
deve essere in grado di articolare tale conoscenza in modo
concettuale e argomentativo. La teologia dogmatica
speculativa, pertanto, presuppone ed implica una filosofia
dell'uomo, del mondo e, più radicalmente, dell'essere,
fondata sulla verità oggettiva.
67. La teologia
fondamentale, per il suo carattere proprio di disciplina
che ha il compito di rendere ragione della fede (cfr 1 Pt 3,
15), dovrà farsi carico di giustificare ed esplicitare la
relazione tra la fede e la riflessione filosofica. Già il
Concilio Vaticano I, recuperando l'insegnamento paolino (cfr Rm
1, 19-20), aveva richiamato l'attenzione sul fatto che
esistono verità conoscibili naturalmente, e quindi
filosoficamente. La loro conoscenza costituisce un presupposto
necessario per accogliere la rivelazione di Dio. Nello
studiare la Rivelazione e la sua credibilità insieme con il
corrispondente atto di fede, la teologia fondamentale dovrà
mostrare come, alla luce della conoscenza per fede, emergano
alcune verità che la ragione già coglie nel suo autonomo
cammino di ricerca. A queste la Rivelazione conferisce
pienezza di senso, orientandole verso la ricchezza del mistero
rivelato, nel quale trovano il loro ultimo fine. Si pensi, ad
esempio, alla conoscenza naturale di Dio, alla possibilità di
discernere la rivelazione divina da altri fenomeni o al
riconoscimento della sua credibilità, all'attitudine del
linguaggio umano a parlare in modo significativo e vero anche
di ciò che eccede ogni esperienza umana. Da tutte queste
verità, la mente è condotta a riconoscere l'esistenza di una
via realmente propedeutica alla fede, che può sfociare
nell'accoglienza della rivelazione, senza in nulla venire meno
ai propri principi e alla propria autonomia.(90)
Alla stessa stregua, la
teologia fondamentale dovrà mostrare l'intima compatibilità
tra la fede e la sua esigenza essenziale di esplicitarsi
mediante una ragione in grado di dare in piena libertà il
proprio assenso. La fede saprà così « mostrare in pienezza
il cammino ad una ragione in ricerca sincera della verità. In
tal modo la fede, dono di Dio, pur non fondandosi sulla
ragione, non può certamente fare a meno di essa; al tempo
stesso, appare la necessità per la ragione di farsi forte
della fede, per scoprire gli orizzonti ai quali da sola non
potrebbe giungere ».(91)
68. La teologia morale ha
forse un bisogno ancor maggiore dell'apporto filosofico. Nella
Nuova Alleanza, infatti, la vita umana è molto meno
regolamentata da prescrizioni che nell'Antica. La vita nello
Spirito conduce i credenti ad una libertà e responsabilità
che vanno oltre la Legge stessa. Il Vangelo e gli scritti
apostolici, comunque, propongono sia principi generali di
condotta cristiana sia insegnamenti e precetti puntuali. Per
applicarli alle circostanze particolari della vita individuale
e sociale, il cristiano deve essere in grado di impegnare a
fondo la sua coscienza e la forza del suo ragionamento. In
altre parole, ciò significa che la teologia morale deve
ricorrere ad una visione filosofica corretta sia della natura
umana e della società che dei principi generali di una
decisione etica.
69. Si può forse
obiettare che nella situazione attuale il teologo, piuttosto
che alla filosofia, dovrebbe ricorrere all'aiuto di altre
forme del sapere umano, quali la storia e soprattutto le
scienze, di cui tutti ammirano i recenti straordinari
sviluppi. Altri poi, a seguito di una cresciuta sensibilità
nei confronti della relazione tra fede e culture, sostengono
che la teologia dovrebbe rivolgersi, di preferenza, alle
saggezze tradizionali, piuttosto che a una filosofia di
origine greca ed eurocentrica. Altri ancora, a partire da una
concezione errata del pluralismo delle culture, negano
semplicemente il valore universale del patrimonio filosofico
accolto dalla Chiesa.
Queste sottolineature, tra
l'altro già presenti nell'insegnamento conciliare,(92)
contengono una parte di verità. Il riferimento alle scienze,
utile in molti casi perché permette una conoscenza più
completa dell'oggetto di studio, non deve tuttavia far
dimenticare la necessaria mediazione di una riflessione
tipicamente filosofica, critica e tesa all'universale,
richiesta peraltro da uno scambio fecondo tra le culture. Ciò
che mi preme sottolineare è il dovere di non fermarsi al solo
caso singolo e concreto, tralasciando il compito primario che
è quello di manifestare il carattere universale del contenuto
di fede. Non si deve, inoltre, dimenticare che l'apporto
peculiare del pensiero filosofico permette di discernere, sia
nelle diverse concezioni di vita che nelle culture, « non che
cosa gli uomini pensino, ma quale sia la verità oggettiva ».(93)
Non le varie opinioni umane, ma solamente la verità può
essere di aiuto alla teologia.
70. Il tema, poi, del
rapporto con le culture merita una riflessione specifica,
anche se necessariamente non esaustiva, per le implicanze che
ne derivano sia sul versante filosofico che su quello
teologico. Il processo di incontro e confronto con le culture
è un'esperienza che la Chiesa ha vissuto fin dagli inizi
della predicazione del Vangelo. Il comando di Cristo ai
discepoli di andare in ogni luogo, « fino agli estremi
confini della terra » (At 1, 8), per trasmettere la
verità da Lui rivelata, ha posto la comunità cristiana nella
condizione di verificare ben presto l'universalità
dell'annuncio e gli ostacoli derivanti dalla diversità delle
culture. Un brano della lettera di san Paolo ai cristiani di
Efeso offre un valido aiuto per comprendere come la comunità
primitiva abbia affrontato questo problema. Scrive l'Apostolo:
« Ora invece, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate i
lontani siete diventati i vicini grazie al sangue di Cristo.
Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un
popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era
frammezzo » (2, 13-14).
Alla luce di questo testo
la nostra riflessione s'allarga alla trasformazione che si è
venuta a creare nei Gentili una volta arrivati alla fede.
Davanti alla ricchezza della salvezza operata da Cristo,
cadono le barriere che separano le diverse culture. La
promessa di Dio in Cristo diventa, adesso, un'offerta
universale: non più limitata alla particolarità di un
popolo, della sua lingua e dei suoi costumi, ma estesa a tutti
come patrimonio a cui ciascuno può attingere liberamente. Da
diversi luoghi e tradizioni tutti sono chiamati in Cristo a
partecipare all'unità della famiglia dei figli di Dio. E
Cristo che permette ai due popoli di diventare « uno ».
Coloro che erano « i lontani » diventano « i vicini »
grazie alla novità operata dal mistero pasquale. Gesù
abbatte i muri di divisione e realizza l'unificazione in modo
originale e supremo mediante la partecipazione al suo mistero.
Questa unità è talmente profonda che la Chiesa può dire con
san Paolo: « Non siete più stranieri né ospiti, ma siete
concittadini dei santi e familiari di Dio » (Ef 2,
19).
In una così semplice
annotazione è descritta una grande verità: l'incontro della
fede con le diverse culture ha dato vita di fatto a una realtà
nuova. Le culture, quando sono profondamente radicate
nell'umano, portano in sé la testimonianza dell'apertura
tipica dell'uomo all'universale e alla trascendenza. Esse
presentano, pertanto, approcci diversi alla verità, che si
rivelano di indubbia utilità per l'uomo, a cui prospettano
valori capaci di rendere sempre più umana la sua
esistenza.(94) In quanto poi le culture si richiamano ai
valori delle tradizioni antiche, portano con sé — anche se
in maniera implicita, ma non per questo meno reale — il
riferimento al manifestarsi di Dio nella natura, come si è
visto precedentemente parlando dei testi sapienziali e
dell'insegnamento di san Paolo.
71. Essendo in stretto
rapporto con gli uomini e con la loro storia, le culture
condividono le stesse dinamiche secondo cui il tempo umano si
esprime. Si registrano di conseguenza trasformazioni e
progressi dovuti agli incontri che gli uomini sviluppano e
alle comunicazioni che reciprocamente si fanno dei loro
modelli di vita. Le culture traggono alimento dalla
comunicazione di valori, e la loro vitalità e sussistenza è
data dalla capacità di rimanere aperte all'accoglienza del
nuovo. Qual è la spiegazione di queste dinamiche? Ogni uomo
è inserito in una cultura, da essa dipende, su di essa
influisce. Egli è insieme figlio e padre della cultura in cui
è immerso. In ogni espressione della sua vita, egli porta con
sé qualcosa che lo contraddistingue in mezzo al creato: la
sua apertura costante al mistero ed il suo inesauribile
desiderio di conoscenza. Ogni cultura, di conseguenza, porta
impressa in sé e lascia trasparire la tensione verso un
compimento. Si può dire, quindi, che la cultura ha in sé la
possibilità di accogliere la rivelazione divina.
Il modo in cui i cristiani
vivono la fede è anch'esso permeato dalla cultura
dell'ambiente circostante e contribuisce, a sua volta, a
modellarne progressivamente le caratteristiche. Ad ogni
cultura i cristiani recano la verità immutabile di Dio, da
Lui rivelata nella storia e nella cultura di un popolo. Nel
corso dei secoli continua così a riprodursi l'evento di cui
furono testimoni i pellegrini presenti a Gerusalemme nel
giorno di Pentecoste. Ascoltando gli Apostoli, si domandavano:
« Costoro che parlano non sono forse tutti Galilei? E com'è
che li sentiamo ciascuno parlare la nostra lingua nativa?
Siamo Parti, Medi, Elamiti e abitanti della Mesopotamia, della
Giudea, della Cappadocia, del Ponto e dell'Asia, della Frigia
e della Panfilia, dell'Egitto e delle parti della Libia vicino
a Cirene, stranieri di Roma, Ebrei e proseliti, Cretesi e
Arabi e li udiamo annunziare nelle nostre lingue le grandi
opere di Dio » (At 2, 7-11). L'annuncio del Vangelo
nelle diverse culture, mentre esige dai singoli destinatari
l'adesione della fede, non impedisce loro di conservare una
propria identità culturale. Ciò non crea divisione alcuna,
perché il popolo dei battezzati si distingue per una
universalità che sa accogliere ogni cultura, favorendo il
progresso di ciò che in essa vi è di implicito verso la sua
piena esplicazione nella verità.
Conseguenza di ciò è che
una cultura non può mai diventare criterio di giudizio ed
ancor meno criterio ultimo di verità nei confronti della
rivelazione di Dio. Il Vangelo non è contrario a questa od a
quella cultura come se, incontrandosi con essa, volesse
privarla di ciò che le appartiene e la obbligasse ad assumere
forme estrinseche che non le sono conformi. Al contrario,
l'annuncio che il credente porta nel mondo e nelle culture è
forma reale di liberazione da ogni disordine introdotto dal
peccato e, nello stesso tempo, è chiamata alla verità piena.
In questo incontro, le culture non solo non vengono private di
nulla, ma sono anzi stimolate ad aprirsi al nuovo della verità
evangelica per trarne incentivo verso ulteriori sviluppi.
72. Il fatto che la
missione evangelizzatrice abbia incontrato sulla sua strada
per prima la filosofia greca, non costituisce indicazione in
alcun modo preclusiva per altri approcci. Oggi, via via che il
Vangelo entra in contatto con aree culturali rimaste finora al
di fuori dell'ambito di irradiazione del cristianesimo, nuovi
compiti si aprono all'inculturazione. Problemi analoghi a
quelli che la Chiesa dovette affrontare nei primi secoli si
pongono alla nostra generazione.
Il mio pensiero va
spontaneamente alle terre d'Oriente, così ricche di
tradizioni religiose e filosofiche molto antiche. Tra esse,
l'India occupa un posto particolare. Un grande slancio
spirituale porta il pensiero indiano alla ricerca di
un'esperienza che, liberando lo spirito dai condizionamenti
del tempo e dello spazio, abbia valore di assoluto. Nel
dinamismo di questa ricerca di liberazione si situano grandi
sistemi metafisici.
Spetta ai cristiani di
oggi, innanzitutto a quelli dell'India, il compito di estrarre
da questo ricco patrimonio gli elementi compatibili con la
loro fede così che ne derivi un arricchimento del pensiero
cristiano. Per questa opera di discernimento, che trova la sua
ispirazione nella Dichiarazione conciliare Nostra aetate,
essi terranno conto di un certo numero di criteri. Il primo è
quello dell'universalità dello spirito umano, le cui esigenze
fondamentali si ritrovano identiche nelle culture più
diverse. Il secondo, derivante dal primo, consiste in questo:
quando la Chiesa entra in contatto con grandi culture
precedentemente non ancora raggiunte, non può lasciarsi alle
spalle ciò che ha acquisito dall'inculturazione nel pensiero
greco-latino. Rifiutare una simile eredità sarebbe andare
contro il disegno provvidenziale di Dio, che conduce la sua
Chiesa lungo le strade del tempo e della storia. Questo
criterio, del resto, vale per la Chiesa di ogni epoca, anche
per quella di domani, che si sentirà arricchita dalle
acquisizioni realizzate nell'odierno approccio con le culture
orientali e troverà in questa eredità nuove indicazioni per
entrare fruttuosamente in dialogo con quelle culture che
l'umanità saprà far fiorire nel suo cammino incontro al
futuro. In terzo luogo, ci si guarderà dal confondere la
legittima rivendicazione della specificità e dell'originalità
del pensiero indiano con l'idea che una tradizione culturale
debba rinchiudersi nella sua differenza ed affermarsi nella
sua opposizione alle altre tradizioni, ciò che sarebbe
contrario alla natura stessa dello spirito umano.
Quanto è qui detto per
l'India vale anche per l'eredità delle grandi culture della
Cina, del Giappone e degli altri Paesi dell'Asia, come pure
delle ricchezze delle culture tradizionali dell'Africa,
trasmesse soprattutto per via orale.
73. Alla luce di queste
considerazioni, il rapporto che deve opportunamente
instaurarsi tra la teologia e la filosofia sarà all'insegna
della circolarità. Per la teologia, punto di partenza e fonte
originaria dovrà essere sempre la parola di Dio rivelata
nella storia, mentre obiettivo finale non potrà che essere
l'intelligenza di essa via via approfondita nel susseguirsi
delle generazioni. Poiché, d'altra parte, la parola di Dio è
Verità (cfr Gv 17, 17), alla sua migliore comprensione
non può non giovare la ricerca umana della verità, ossia il
filosofare, sviluppato nel rispetto delle leggi che gli sono
proprie. Non si tratta semplicemente di utilizzare, nel
discorso teologico, l'uno o l'altro concetto o frammento di un
impianto filosofico; decisivo è che la ragione del credente
eserciti le sue capacità di riflessione nella ricerca del
vero all'interno di un movimento che, partendo dalla parola di
Dio, si sforza di raggiungere una migliore comprensione di
essa. E chiaro, peraltro, che, muovendosi entro questi due
poli — parola di Dio e migliore sua conoscenza —, la
ragione è come avvertita, e in qualche modo guidata, ad
evitare sentieri che la porterebbero fuori della Verità
rivelata e, in definitiva, fuori della verità pura e
semplice; essa viene anzi stimolata ad esplorare vie che da
sola non avrebbe nemmeno sospettato di poter percorrere. Da
questo rapporto di circolarità con la parola di Dio la
filosofia esce arricchita, perché la ragione scopre nuovi e
insospettati orizzonti.
74. La conferma della
fecondità di un simile rapporto è offerta dalla vicenda
personale di grandi teologi cristiani che si segnalarono anche
come grandi filosofi, lasciando scritti di così alto valore
speculativo, da giustificarne l'affiancamento ai maestri della
filosofia antica. Ciò vale sia per i Padri della Chiesa, tra
i quali bisogna citare almeno i nomi di san Gregorio
Nazianzeno e sant'Agostino, sia per i Dottori medievali, tra i
quali emerge la grande triade di sant'Anselmo, san Bonaventura
e san Tommaso d'Aquino. Il fecondo rapporto tra filosofia e
parola di Dio si manifesta anche nella ricerca coraggiosa
condotta da pensatori più recenti, tra i quali mi piace
menzionare, per l'ambito occidentale, personalità come John
Henry Newman, Antonio Rosmini, Jacques Maritain, Étienne
Gilson, Edith Stein e, per quello orientale, studiosi della
statura di Vladimir S. Solov'ev, Pavel A. Florenskij, Petr J.
Caadaev, Vladimir N. Lossky. Ovviamente, nel fare riferimento
a questi autori, accanto ai quali altri nomi potrebbero essere
citati, non intendo avallare ogni aspetto del loro pensiero,
ma solo proporre esempi significativi di un cammino di ricerca
filosofica che ha tratto considerevoli vantaggi dal confronto
con i dati della fede. Una cosa è certa: l'attenzione
all'itinerario spirituale di questi maestri non potrà che
giovare al progresso nella ricerca della verità e
nell'utilizzo a servizio dell'uomo dei risultati conseguiti.
C'è da sperare che questa grande tradizione
filosofico-teologica trovi oggi e nel futuro i suoi
continuatori e i suoi cultori per il bene della Chiesa e
dell'umanità.
Differenti stati
della filosofia
75. Come risulta dalla
storia dei rapporti tra fede e filosofia, sopra brevemente
accennata, si possono distinguere diversi stati della
filosofia rispetto alla fede cristiana. Un primo è quello
della filosofia totalmente indipendente dalla Rivelazione
evangelica: è lo stato della filosofia quale si è
storicamente concretizzata nelle epoche che hanno preceduto la
nascita del Redentore e, dopo di essa, nelle regioni non
ancora raggiunte dal Vangelo. In questa situazione, la
filosofia manifesta la legittima aspirazione ad essere
un'impresa autonoma, che procede cioè secondo le leggi
sue proprie, avvalendosi delle sole forze della ragione. Pur
nella consapevolezza dei gravi limiti dovuti alla congenita
debolezza dell'umana ragione, questa aspirazione va sostenuta
e rafforzata. L'impegno filosofico, infatti, quale ricerca
della verità nell'ambito naturale, rimane almeno
implicitamente aperto al soprannaturale.
Di più: anche quando è
lo stesso discorso teologico ad avvalersi di concetti e
argomenti filosofici, l'esigenza di corretta autonomia del
pensiero va rispettata. L'argomentazione sviluppata secondo
rigorosi criteri razionali, infatti, è garanzia del
raggiungimento di risultati universalmente validi. Si verifica
anche qui il principio secondo cui la grazia non distrugge, ma
perfeziona la natura: l'assenso di fede, che impegna
l'intelletto e la volontà, non distrugge ma perfeziona il
libero arbitrio di ogni credente che accoglie in sé il dato
rivelato.
Da questa corretta istanza
si allontana in modo netto la teoria della cosiddetta
filosofia « separata », perseguita da parecchi filosofi
moderni. Più che l'affermazione della giusta autonomia del
filosofare, essa costituisce la rivendicazione di una
autosufficienza del pensiero che si rivela chiaramente
illegittima: rifiutare gli apporti di verità derivanti dalla
rivelazione divina significa infatti precludersi l'accesso a
una più profonda conoscenza della verità, a danno della
stessa filosofia.
76. Un secondo stato della
filosofia è quello che molti designano con l'espressione filosofia
cristiana. La denominazione è di per sé legittima, ma
non deve essere equivocata: non si intende con essa alludere
ad una filosofia ufficiale della Chiesa, giacché la fede non
è come tale una filosofia. Con questo appellativo si vuole
piuttosto indicare un filosofare cristiano, una speculazione
filosofica concepita in unione vitale con la fede. Non ci si
riferisce quindi semplicemente ad una filosofia elaborata da
filosofi cristiani, i quali nella loro ricerca non hanno
voluto contraddire la fede. Parlando di filosofia cristiana si
intendono abbracciare tutti quegli importanti sviluppi del
pensiero filosofico che non si sarebbero realizzati senza
l'apporto, diretto o indiretto, della fede cristiana.
Due sono, pertanto, gli
aspetti della filosofia cristiana: uno soggettivo, che
consiste nella purificazione della ragione da parte della
fede. Come virtù teologale, essa libera la ragione dalla
presunzione, tipica tentazione a cui i filosofi sono
facilmente soggetti. Già san Paolo e i Padri della Chiesa e,
più vicino a noi, filosofi come Pascal e Kierkegaard l'hanno
stigmatizzata. Con l'umiltà, il filosofo acquista anche il
coraggio di affrontare alcune questioni che difficilmente
potrebbe risolvere senza prendere in considerazione i dati
ricevuti dalla Rivelazione. Si pensi, ad esempio, ai problemi
del male e della sofferenza, all'identità personale di Dio e
alla domanda sul senso della vita o, più direttamente, alla
domanda metafisica radicale: « Perché vi è qualcosa? ».
Vi è poi l'aspetto
oggettivo, riguardante i contenuti: la Rivelazione propone
chiaramente alcune verità che, pur non essendo naturalmente
inaccessibili alla ragione, forse non sarebbero mai state da
essa scoperte, se fosse stata abbandonata a sé stessa. In
questo orizzonte si situano questioni come il concetto di un
Dio personale, libero e creatore, che tanto rilievo ha avuto
per lo sviluppo del pensiero filosofico e, in particolare, per
la filosofia dell'essere. A quest'ambito appartiene pure la
realtà del peccato, così com'essa appare alla luce della
fede, la quale aiuta a impostare filosoficamente in modo
adeguato il problema del male. Anche la concezione della
persona come essere spirituale è una peculiare originalità
della fede: l'annuncio cristiano della dignità,
dell'uguaglianza e della libertà degli uomini ha certamente
influito sulla riflessione filosofica che i moderni hanno
condotto. Più vicino a noi, si può menzionare la scoperta
dell'importanza che ha anche per la filosofia l'evento
storico, centro della Rivelazione cristiana. Non a caso, esso
è diventato perno di una filosofia della storia, che si
presenta come un nuovo capitolo della ricerca umana della
verità.
Tra gli elementi oggettivi
della filosofia cristiana rientra anche la necessità di
esplorare la razionalità di alcune verità espresse dalla
Sacra Scrittura, come la possibilità di una vocazione
soprannaturale dell'uomo ed anche lo stesso peccato originale.
Sono compiti che provocano la ragione a riconoscere che vi è
del vero e del razionale ben oltre gli stretti confini entro i
quali essa sarebbe portata a rinchiudersi. Queste tematiche
allargano di fatto l'ambito del razionale.
Speculando su questi
contenuti, i filosofi non sono diventati teologi, in quanto
non hanno cercato di comprendere e di illustrare le verità
della fede a partire dalla Rivelazione. Hanno continuato a
lavorare sul loro proprio terreno e con la propria metodologia
puramente razionale, ma allargando la loro indagine a nuovi
ambiti del vero. Si può dire che, senza questo influsso
stimolante della parola di Dio, buona parte della filosofia
moderna e contemporanea non esisterebbe. Il dato conserva
tutta la sua rilevanza, pur di fronte alla deludente
costatazione dell'abbandono dell'ortodossia cristiana da parte
di non pochi pensatori di questi ultimi secoli.
77. Un altro stato
significativo della filosofia si ha quando è la stessa
teologia a chiamare in causa la filosofia. In realtà, la
teologia ha sempre avuto e continua ad avere bisogno
dell'apporto filosofico. Essendo opera della ragione critica
alla luce della fede, il lavoro teologico presuppone ed esige
in tutto il suo indagare una ragione concettualmente e
argomentativamente educata e formata. La teologia, inoltre, ha
bisogno della filosofia come interlocutrice per verificare
l'intelligibilità e la verità universale dei suoi asserti.
Non a caso furono filosofie non cristiane ad essere assunte
dai Padri della Chiesa e dai teologi medievali a tale funzione
esplicativa. Questo fatto storico indica il valore dell'autonomia
che la filosofia conserva anche in questo suo terzo stato,
ma insieme mostra le trasformazioni necessarie e profonde che
essa deve subire.
E proprio nel senso di un
apporto indispensabile e nobile che la filosofia fu chiamata
fin dall'età patristica ancilla theologiae. Il titolo
non fu applicato per indicare una servile sottomissione o un
ruolo puramente funzionale della filosofia nei confronti della
teologia. Fu utilizzato piuttosto nel senso in cui Aristotele
parlava delle scienze esperienziali quali « ancelle » della
« filosofia prima ». L'espressione, oggi difficilmente
utilizzabile in forza dei principi di autonomia a cui si è
fatto cenno, è servita nel corso della storia per indicare la
necessità del rapporto tra le due scienze e l'impossibilità
di una loro separazione.
Se il teologo si
rifiutasse di avvalersi della filosofia, rischierebbe di far
filosofia a sua insaputa e di rinchiudersi in strutture di
pensiero poco adatte all'intelligenza della fede. Il filosofo,
da parte sua, se escludesse ogni contatto con la teologia, si
sentirebbe in dovere di impadronirsi per conto proprio dei
contenuti della fede cristiana, come è avvenuto con alcuni
filosofi moderni. In un caso come nell'altro, si profilerebbe
il pericolo della distruzione dei principi basilari di
autonomia che ogni scienza giustamente vuole garantiti.
Lo stato della filosofia
qui considerato, per le implicanze che comporta
nell'intelligenza della Rivelazione, si colloca insieme alla
teologia più direttamente sotto l'autorità del Magistero e
del suo discernimento, come ho precedentemente esposto. Dalle
verità di fede, infatti, derivano determinate esigenze che la
filosofia deve rispettare nel momento in cui entra in rapporto
con la teologia.
78. Alla luce di queste
riflessioni, ben si comprende perché il Magistero abbia
ripetutamente lodato i meriti del pensiero di san Tommaso e lo
abbia posto come guida e modello degli studi teologici. Ciò
che interessava non era prendere posizione su questioni
propriamente filosofiche, né imporre l'adesione a tesi
particolari. L'intento del Magistero era, e continua ad
essere, quello di mostrare come san Tommaso sia un autentico
modello per quanti ricercano la verità. Nella sua
riflessione, infatti, l'esigenza della ragione e la forza
della fede hanno trovato la sintesi più alta che il pensiero
abbia mai raggiunto, in quanto egli ha saputo difendere la
radicale novità portata dalla Rivelazione senza mai umiliare
il cammino proprio della ragione.
79. Esplicitando
ulteriormente i contenuti del Magistero precedente, intendo in
questa ultima parte indicare alcune esigenze che la teologia
— anzi, prima ancora la parola di Dio — pone oggi al
pensiero filosofico e alle filosofie odierne. Come già ho
rilevato, il filosofo deve procedere secondo le proprie regole
e fondarsi sui propri principi; la verità, tuttavia, non può
essere che una sola. La Rivelazione, con i suoi contenuti, non
potrà mai umiliare la ragione nelle sue scoperte e nella sua
legittima autonomia; per parte sua, però, la ragione non dovrà
mai perdere la sua capacità d'interrogarsi e di interrogare,
nella consapevolezza di non potersi ergere a valore assoluto
ed esclusivo. La verità rivelata, offrendo pienezza di luce
sull'essere a partire dallo splendore che proviene dallo
stesso Essere sussistente, illuminerà il cammino della
riflessione filosofica. La Rivelazione cristiana, insomma,
diventa il vero punto di aggancio e di confronto tra il
pensare filosofico e quello teologico nel loro reciproco
rapportarsi. E auspicabile, quindi, che teologi e filosofi si
lascino guidare dall'unica autorità della verità così che
venga elaborata una filosofia in consonanza con la parola di
Dio. Questa filosofia sarà il terreno d'incontro tra le
culture e la fede cristiana, il luogo d'intesa tra credenti e
non credenti. Sarà di aiuto perché i credenti si convincano
più da vicino che la profondità e genuinità della fede è
favorita quando è unita al pensiero e ad esso non rinuncia.
Ancora una volta, è la lezione dei Padri che ci guida in
questa convinzione: « Lo stesso credere null'altro è che
pensare assentendo [...]. Chiunque crede pensa, e credendo
pensa e pensando crede [...]. La fede se non è pensata è
nulla ».(95) Ed ancora: « Se si toglie l'assenso, si toglie
la fede, perché senza assenso non si crede affatto ».(96)
CAPITOLO
VII
ESIGENZE
E COMPITI ATTUALI
Le esigenze
irrinunciabili della parola di Dio
80. La Sacra Scrittura
contiene, in maniera sia esplicita che implicita, una serie di
elementi che consentono di raggiungere una visione dell'uomo e
del mondo di notevole spessore filosofico. I cristiani hanno
preso progressivamente coscienza della ricchezza racchiusa in
quelle pagine sacre. Da esse risulta che la realtà di cui
facciamo esperienza non è l'assoluto: non è increata, né si
è autogenerata. Dio soltanto è l'Assoluto. Dalle pagine
della Bibbia emerge inoltre una visione dell'uomo come imago
Dei, che contiene precise indicazioni circa il suo essere,
la sua libertà e l'immortalità del suo spirito. Non essendo
il mondo creato autosufficiente, ogni illusione di autonomia,
che ignori la essenziale dipendenza da Dio di ogni creatura
— uomo compreso — porta a drammi che distruggono la
ricerca razionale dell'armonia e del senso dell'esistenza
umana.
Anche il problema del male
morale — la forma di male più tragica — è affrontato
nella Bibbia, la quale ci dice che esso non è riconducibile
ad una qualche deficienza dovuta alla materia, ma è una
ferita che proviene dall'esprimersi disordinato della libertà
umana. La parola di Dio, infine, prospetta il problema del
senso dell'esistenza e rivela la sua risposta indirizzando
l'uomo a Gesù Cristo, il Verbo di Dio incarnato, che realizza
in pienezza l'esistenza umana. Altri aspetti si potrebbero
esplicitare dalla lettura del testo sacro; ciò che emerge,
comunque, è il rifiuto di ogni forma di relativismo, di
materialismo, di panteismo.
La convinzione
fondamentale di questa « filosofia » racchiusa nella Bibbia
è che la vita umana e il mondo hanno un senso e sono diretti
verso il loro compimento, che si attua in Gesù Cristo. Il
mistero dell'Incarnazione resterà sempre il centro a cui
riferirsi per poter comprendere l'enigma dell'esistenza umana,
del mondo creato e di Dio stesso. In questo mistero le sfide
per la filosofia si fanno estreme, perché la ragione è
chiamata a far sua una logica che abbatte le barriere in cui
essa stessa rischia di rinchiudersi. Solo qui, però, il senso
dell'esistenza raggiunge il suo culmine. Si rende
intelligibile, infatti, l'intima essenza di Dio e dell'uomo:
nel mistero del Verbo incarnato, natura divina e natura umana,
con la rispettiva autonomia, vengono salvaguardate e insieme
si manifesta il vincolo unico che le pone in reciproco
rapporto senza confusione.(97)
81. E da osservare che uno
dei dati più rilevanti della nostra condizione attuale
consiste nella « crisi del senso ». I punti di vista, spesso
di carattere scientifico, sulla vita e sul mondo si sono
talmente moltiplicati che, di fatto, assistiamo all'affermarsi
del fenomeno della frammentarietà del sapere. Proprio questo
rende difficile e spesso vana la ricerca di un senso. Anzi —
cosa anche più drammatica — in questo groviglio di dati e
di fatti tra cui si vive e che sembrano costituire la trama
stessa dell'esistenza, non pochi si chiedono se abbia ancora
senso porsi una domanda sul senso. La pluralità delle teorie
che si contendono la risposta, o i diversi modi di vedere e di
interpretare il mondo e la vita dell'uomo, non fanno che
acuire questo dubbio radicale, che facilmente sfocia in uno
stato di scetticismo e di indifferenza o nelle diverse
espressioni del nichilismo.
La conseguenza di ciò è
che spesso lo spirito umano è occupato da una forma di
pensiero ambiguo, che lo porta a rinchiudersi ancora di più
in se stesso, entro i limiti della propria immanenza, senza
alcun riferimento al trascendente. Una filosofia priva della
domanda sul senso dell'esistenza incorrerebbe nel grave
pericolo di degradare la ragione a funzioni soltanto
strumentali, senza alcuna autentica passione per la ricerca
della verità.
Per essere in consonanza
con la parola di Dio è necessario, anzitutto, che la
filosofia ritrovi la sua dimensione sapienziale di
ricerca del senso ultimo e globale della vita. Questa prima
esigenza, a ben guardare, costituisce per la filosofia uno
stimolo utilissimo ad adeguarsi alla sua stessa natura. Ciò
facendo, infatti, essa non sarà soltanto l'istanza critica
decisiva, che indica alle varie parti del sapere scientifico
la loro fondatezza e il loro limite, ma si porrà anche come
istanza ultima di unificazione del sapere e dell'agire umano,
inducendoli a convergere verso uno scopo ed un senso
definitivi. Questa dimensione sapienziale è oggi tanto più
indispensabile in quanto l'immensa crescita del potere tecnico
dell'umanità richiede una rinnovata e acuta coscienza dei
valori ultimi. Se questi mezzi tecnici dovessero mancare
dell'ordinamento ad un fine non meramente utilitaristico,
potrebbero presto rivelarsi disumani, ed anzi trasformarsi in
potenziali distruttori del genere umano.(98)
La parola di Dio rivela il
fine ultimo dell'uomo e dà un senso globale al suo agire nel
mondo. E per questo che essa invita la filosofia ad impegnarsi
nella ricerca del fondamento naturale di questo senso, che è
la religiosità costitutiva di ogni persona. Una filosofia che
volesse negare la possibilità di un senso ultimo e globale
sarebbe non soltanto inadeguata, ma erronea.
82. Questo ruolo
sapienziale non potrebbe, peraltro, essere svolto da una
filosofia che non fosse essa stessa un sapere autentico e
vero, cioè rivolto non soltanto ad aspetti particolari e
relativi — siano essi funzionali, formali o utili — del
reale, ma alla sua verità totale e definitiva, ossia
all'essere stesso dell'oggetto di conoscenza. Ecco, dunque,
una seconda esigenza: appurare la capacità dell'uomo di
giungere alla conoscenza della verità; una conoscenza,
peraltro, che attinga la verità oggettiva, mediante quella adaequatio
rei et intellectus a cui si riferiscono i Dottori della
Scolastica.(99) Questa esigenza, propria della fede, è stata
esplicitamente riaffermata dal Concilio Vaticano II: «
L'intelligenza, infatti, non si restringe all'ambito dei
fenomeni soltanto, ma può conquistare la realtà
intelligibile con vera certezza, anche se, per conseguenza del
peccato, si trova in parte oscurata e debilitata ». (100)
Una filosofia radicalmente
fenomenista o relativista risulterebbe inadeguata a recare
questo aiuto nell'approfondimento della ricchezza contenuta
nella parola di Dio. La Sacra Scrittura, infatti, presuppone
sempre che l'uomo, anche se colpevole di doppiezza e di
menzogna, sia capace di conoscere e di afferrare la verità
limpida e semplice. Nei Libri Sacri, e in particolare nel
Nuovo Testamento, si trovano testi e affermazioni di portata
propriamente ontologica. Gli autori ispirati, infatti, hanno
inteso formulare affermazioni vere, tali cioè da esprimere la
realtà oggettiva. Non si può dire che la tradizione
cattolica abbia commesso un errore quando ha compreso alcuni
testi di san Giovanni e di san Paolo come affermazioni
sull'essere stesso di Cristo. La teologia, quando si applica a
comprendere e spiegare queste affermazioni, ha bisogno
pertanto dell'apporto di una filosofia che non rinneghi la
possibilità di una conoscenza oggettivamente vera, per quanto
sempre perfezionabile. Quanto detto vale anche per i giudizi
della coscienza morale, che la Sacra Scrittura suppone poter
essere oggettivamente veri. (101)
83. Le due suddette
esigenze ne comportano una terza: è necessaria una filosofia
di portata autenticamente metafisica, capace cioè di
trascendere i dati empirici per giungere, nella sua ricerca
della verità, a qualcosa di assoluto, di ultimo, di fondante.
E un'esigenza, questa, implicita sia nella conoscenza a
carattere sapienziale che in quella a carattere analitico; in
particolare, è un'esigenza propria della conoscenza del bene
morale, il cui fondamento ultimo è il Bene sommo, Dio stesso.
Non intendo qui parlare della metafisica come di una scuola
specifica o di una particolare corrente storica. Desidero solo
affermare che la realtà e la verità trascendono il fattuale
e l'empirico, e voglio rivendicare la capacità che l'uomo
possiede di conoscere questa dimensione trascendente e
metafisica in modo vero e certo, benché imperfetto ed
analogico. In questo senso, la metafisica non va vista in
alternativa all'antropologia, giacché è proprio la
metafisica che consente di dare fondamento al concetto di
dignità della persona in forza della sua condizione
spirituale. La persona, in particolare, costituisce un ambito
privilegiato per l'incontro con l'essere e, dunque, con la
riflessione metafisica.
Ovunque l'uomo scopre la
presenza di un richiamo all'assoluto e al trascendente, lì
gli si apre uno spiraglio verso la dimensione metafisica del
reale: nella verità, nella bellezza, nei valori morali, nella
persona altrui, nell'essere stesso, in Dio. Una grande sfida
che ci aspetta al termine di questo millennio è quella di
saper compiere il passaggio, tanto necessario quanto urgente,
dal fenomeno al fondamento. Non è possibile
fermarsi alla sola esperienza; anche quando questa esprime e
rende manifesta l'interiorità dell'uomo e la sua spiritualità,
è necessario che la riflessione speculativa raggiunga la
sostanza spirituale e il fondamento che la sorregge. Un
pensiero filosofico che rifiutasse ogni apertura metafisica,
pertanto, sarebbe radicalmente inadeguato a svolgere una
funzione mediatrice nella comprensione della Rivelazione.
La parola di Dio fa
continui riferimenti a ciò che oltrepassa l'esperienza e
persino il pensiero dell'uomo; ma questo « mistero » non
potrebbe essere rivelato, né la teologia potrebbe renderlo in
qualche modo intelligibile, (102) se la conoscenza umana fosse
rigorosamente limitata al mondo dell'esperienza sensibile. La
metafisica, pertanto, si pone come mediazione privilegiata
nella ricerca teologica. Una teologia priva dell'orizzonte
metafisico non riuscirebbe ad approdare oltre l'analisi
dell'esperienza religiosa e non permetterebbe all'intellectus
fidei di esprimere con coerenza il valore universale e
trascendente della verità rivelata.
Se tanto insisto sulla
componente metafisica, è perché sono convinto che questa è
la strada obbligata per superare la situazione di crisi che
pervade oggi grandi settori della filosofia e per correggere
così alcuni comportamenti erronei diffusi nella nostra società.
84. L'importanza
dell'istanza metafisica diventa ancora più evidente se si
considera lo sviluppo che oggi hanno le scienze ermeneutiche e
le diverse analisi del linguaggio. I risultati a cui questi
studi giungono possono essere molto utili per l'intelligenza
della fede, in quanto rendono manifesti la struttura del
nostro pensare e parlare e il senso racchiuso nel linguaggio.
Vi sono cultori di tali scienze, però, che nelle loro
indagini tendono ad arrestarsi al come si comprende e come si
dice la realtà, prescindendo dal verificare le possibilità
della ragione di scoprirne l'essenza. Come non vedere in tale
atteggiamento una conferma della crisi di fiducia, che il
nostro tempo sta attraversando, circa le capacità della
ragione? Quando poi, in forza di assunti aprioristici, queste
tesi tendono ad offuscare i contenuti della fede o a negarne
la validità universale, allora non solo umiliano la ragione,
ma si pongono da se stesse fuori gioco. La fede, infatti,
presuppone con chiarezza che il linguaggio umano sia capace di
esprimere in modo universale — anche se in termini
analogici, ma non per questo meno significativi — la realtà
divina e trascendente. (103) Se non fosse così, la parola di
Dio, che è sempre parola divina in linguaggio umano, non
sarebbe capace di esprimere nulla su Dio. L'interpretazione di
questa Parola non può rimandarci soltanto da interpretazione
a interpretazione, senza mai portarci ad attingere
un'affermazione semplicemente vera; altrimenti non vi sarebbe
rivelazione di Dio, ma soltanto l'espressione di concezioni
umane su di Lui e su ciò che presumibilmente Egli pensa di
noi.
85. So bene che queste
esigenze, poste alla filosofia dalla parola di Dio, possono
sembrare ardue a molti che vivono l'odierna situazione della
ricerca filosofica. Proprio per questo, facendo mio ciò che i
Sommi Pontefici da qualche generazione non cessano di
insegnare e che lo stesso Concilio Vaticano II ha ribadito,
voglio esprimere con forza la convinzione che l'uomo è capace
di giungere a una visione unitaria e organica del sapere.
Questo è uno dei compiti di cui il pensiero cristiano dovrà
farsi carico nel corso del prossimo millennio dell'era
cristiana. La settorialità del sapere, in quanto comporta un
approccio parziale alla verità con la conseguente
frammentazione del senso, impedisce l'unità interiore
dell'uomo contemporaneo. Come potrebbe la Chiesa non
preoccuparsene? Questo compito sapienziale deriva ai suoi
Pastori direttamente dal Vangelo ed essi non possono sottrarsi
al dovere di perseguirlo.
Ritengo che quanti oggi
intendono rispondere come filosofi alle esigenze che la parola
di Dio pone al pensiero umano dovrebbero elaborare il loro
discorso sulla base di questi postulati e in coerente
continuità con quella grande tradizione che, iniziando con
gli antichi, passa per i Padri della Chiesa e i maestri della
scolastica, per giungere fino a comprendere le acquisizioni
fondamentali del pensiero moderno e contemporaneo. Se saprà
attingere a questa tradizione ed ispirarsi ad essa, il
filosofo non mancherà di mostrarsi fedele all'esigenza di
autonomia del pensare filosofico.
In questo senso, è quanto
mai significativo che, nel contesto attuale, alcuni filosofi
si facciano promotori della riscoperta del ruolo determinante
della tradizione per una corretta forma di conoscenza. Il
richiamo alla tradizione, infatti, non è un mero ricordo del
passato; esso costituisce piuttosto il riconoscimento di un
patrimonio culturale che appartiene a tutta l'umanità. Si
potrebbe, anzi, dire che siamo noi ad appartenere alla
tradizione e non possiamo disporre di essa come vogliamo.
Proprio questo affondare le radici nella tradizione è ciò
che permette a noi, oggi, di poter esprimere un pensiero
originale, nuovo e progettuale per il futuro. Questo stesso
richiamo vale anche maggiormente per la teologia. Non solo
perché essa possiede la Tradizione viva della Chiesa come
fonte originaria, (104) ma anche perché, in forza di questo,
deve essere capace di recuperare sia la profonda tradizione
teologica che ha segnato le epoche precedenti, sia la
tradizione perenne di quella filosofia che ha saputo superare
per la sua reale saggezza i confini dello spazio e del tempo.
86. L'insistenza sulla
necessità di uno stretto rapporto di continuità della
riflessione filosofica contemporanea con quella elaborata
nella tradizione cristiana intende prevenire il pericolo che
si nasconde in alcune linee di pensiero, oggi particolarmente
diffuse. Anche se brevemente, ritengo opportuno soffermarmi su
di esse per rilevarne gli errori ed i conseguenti rischi per
l'attività filosofica.
La prima è quella che va
sotto il nome di eclettismo, termine col quale si
designa l'atteggiamento di chi, nella ricerca,
nell'insegnamento e nell'argomentazione, anche teologica, è
solito assumere singole idee derivate da differenti filosofie,
senza badare né alla loro coerenza e connessione sistematica
né al loro inserimento storico. In questo modo, egli si pone
in condizione di non poter discernere la parte di verità di
un pensiero da quello che vi può essere di erroneo o di
inadeguato. Una forma estrema di eclettismo è ravvisabile
anche nell'abuso retorico dei termini filosofici a cui a volte
qualche teologo s'abbandona. Una simile strumentalizzazione
non serve alla ricerca della verità e non educa la ragione
— sia teologica che filosofica — ad argomentare in maniera
seria e scientifica. Lo studio rigoroso e approfondito delle
dottrine filosofiche, del linguaggio loro peculiare e del
contesto in cui sono sorte aiuta a superare i rischi
dell'eclettismo e permette una loro adeguata integrazione
nell'argomentazione teologica.
87. L'eclettismo è un
errore di metodo, ma potrebbe anche nascondere in sé le tesi
proprie dello storicismo. Per comprendere in maniera
corretta una dottrina del passato, è necessario che questa
sia inserita nel suo contesto storico e culturale. La tesi
fondamentale dello storicismo, invece, consiste nello
stabilire la verità di una filosofia sulla base della sua
adeguatezza ad un determinato periodo e ad un determinato
compito storico. In questo modo, almeno implicitamente, si
nega la validità perenne del vero. Ciò che era vero in
un'epoca, sostiene lo storicista, può non esserlo più in
un'altra. La storia del pensiero, insomma, diventa per lui
poco più di un reperto archeologico a cui attingere per
evidenziare posizioni del passato ormai in gran parte superate
e prive di significato per il presente. Si deve considerare,
al contrario, che anche se la formulazione è in certo modo
legata al tempo e alla cultura, la verità o l'errore in esse
espressi si possono in ogni caso, nonostante la distanza
spazio-temporale, riconoscere e come tali valutare.
Nella riflessione
teologica, lo storicismo tende a presentarsi per lo più sotto
una forma di « modernismo ». Con la giusta preoccupazione di
rendere il discorso teologico attuale e assimilabile per il
contemporaneo, ci si avvale soltanto degli asserti e del gergo
filosofico più recenti, trascurando le istanze critiche che,
alla luce della tradizione, si dovrebbero eventualmente
sollevare. Questa forma di modernismo, per il fatto di
scambiare l'attualità per la verità, si rivela incapace di
soddisfare le esigenze di verità a cui la teologia è
chiamata a dare risposta.
88. Un altro pericolo da
considerare è lo scientismo. Questa concezione
filosofica si rifiuta di ammettere come valide forme di
conoscenza diverse da quelle che sono proprie delle scienze
positive, relegando nei confini della mera immaginazione sia
la conoscenza religiosa e teologica, sia il sapere etico ed
estetico. Nel passato, la stessa idea si esprimeva nel
positivismo e nel neopositivismo, che ritenevano prive di
senso le affermazioni di carattere metafisico. La critica
epistemologica ha screditato questa posizione, ed ecco che
essa rinasce sotto le nuove vesti dello scientismo. In questa
prospettiva, i valori sono relegati a semplici prodotti
dell'emotività e la nozione di essere è accantonata per fare
spazio alla pura e semplice fattualità. La scienza, quindi,
si prepara a dominare tutti gli aspetti dell'esistenza umana
attraverso il progresso tecnologico. Gli innegabili successi
della ricerca scientifica e della tecnologia contemporanea
hanno contribuito a diffondere la mentalità scientista, che
sembra non avere più confini, visto come è penetrata nelle
diverse culture e quali cambiamenti radicali vi ha apportato.
Si deve costatare,
purtroppo, che quanto attiene alla domanda circa il senso
della vita viene dallo scientismo considerato come
appartenente al dominio dell'irrazionale o dell'immaginario.
Non meno deludente è l'approccio di questa corrente di
pensiero agli altri grandi problemi della filosofia, che,
quando non vengono ignorati, sono affrontati con analisi
poggianti su analogie superficiali, prive di fondamento
razionale. Ciò porta all'impoverimento della riflessione
umana, alla quale vengono sottratti quei problemi di fondo che
l'animal rationale, fin dagli inizi della sua esistenza
sulla terra, costantemente si è posto. Accantonata, in questa
prospettiva, la critica proveniente dalla valutazione etica,
la mentalità scientista è riuscita a fare accettare da molti
l'idea secondo cui ciò che è tecnicamente fattibile diventa
per ciò stesso anche moralmente ammissibile.
89. Foriero di non minori
pericoli è il pragmatismo, atteggiamento mentale che
è proprio di chi, nel fare le sue scelte, esclude il ricorso
a riflessioni teoretiche o a valutazioni fondate su principi
etici. Notevoli sono le conseguenze pratiche derivanti da
questa linea di pensiero. In particolare, vi si è venuta
affermando una concezione della democrazia che non contempla
il riferimento a fondamenti di ordine assiologico e perciò
immutabili: la ammissibilità o meno di un determinato
comportamento si decide sulla base del voto della maggioranza
parlamentare. (105) E chiara la conseguenza di una simile
impostazione: le grandi decisioni morali dell'uomo vengono di
fatto subordinate alle deliberazioni via via assunte dagli
organi istituzionali. Di più: è la stessa antropologia ad
essere fortemente condizionata, mediante la proposta di una
visione unidimensionale dell'essere umano, dalla quale esulano
i grandi dilemmi etici, le analisi esistenziali sul senso
della sofferenza e del sacrificio, della vita e della morte.
90. Le tesi fin qui
esaminate conducono, a loro volta, a una più generale
concezione, che sembra oggi costituire l'orizzonte comune a
molte filosofie che hanno preso congedo dal senso dell'essere.
Intendo riferirmi alla lettura nichilista, che è insieme il
rifiuto di ogni fondamento e la negazione di ogni verità
oggettiva. Il nichilismo, prima ancora di essere in
contrasto con le esigenze e i contenuti propri della parola di
Dio, è negazione dell'umanità dell'uomo e della sua stessa
identità. Non si può dimenticare, infatti, che l'oblio
dell'essere comporta inevitabilmente la perdita di contatto
con la verità oggettiva e, conseguentemente, col fondamento
su cui poggia la dignità dell'uomo. Si fa così spazio alla
possibilità di cancellare dal volto dell'uomo i tratti che ne
rivelano la somiglianza con Dio, per condurlo progressivamente
o a una distruttiva volontà di potenza o alla disperazione
della solitudine. Una volta che si è tolta la verità
all'uomo, è pura illusione pretendere di renderlo libero.
Verità e libertà, infatti, o si coniugano insieme o insieme
miseramente periscono. (106)
91. Nel commentare le
linee di pensiero appena ricordate non è stata mia intenzione
presentare un quadro completo della situazione attuale della
filosofia: essa, del resto, sarebbe difficilmente
riconducibile ad una visione unitaria. Mi preme sottolineare
che l'eredità del sapere e della sapienza si è, di fatto,
arricchita in diversi campi. Basti citare la logica, la
filosofia del linguaggio, l'epistemologia, la filosofia della
natura, l'antropologia, l'analisi approfondita delle vie
affettive della conoscenza, l'approccio esistenziale
all'analisi della libertà. D'altro canto, l'affermazione del
principio d'immanenza, che sta al centro della pretesa
razionalista, ha suscitato, a partire dal secolo scorso,
reazioni che hanno portato ad una radicale rimessa in
questione di postulati ritenuti indiscutibili. Sono nate così
correnti irrazionaliste, mentre la critica metteva in evidenza
l'inanità dell'esigenza di autofondazione assoluta della
ragione.
La nostra epoca è stata
qualificata da certi pensatori come l'epoca della «
post-modernità ». Questo termine, utilizzato non di rado in
contesti tra loro molto distanti, designa l'emergere di un
insieme di fattori nuovi, che quanto ad estensione ed
efficacia si sono rivelati capaci di determinare cambiamenti
significativi e durevoli. Così il termine è stato dapprima
impiegato a proposito di fenomeni d'ordine estetico, sociale,
tecnologico. Successivamente è stato trasferito in ambito
filosofico, restando però segnato da una certa ambiguità,
sia perché il giudizio su ciò che è qualificato come «
post-moderno » è a volte positivo ed a volte negativo, sia
perché non vi è consenso sul delicato problema della
delimitazione delle varie epoche storiche. Una cosa tuttavia
è fuori dubbio: le correnti di pensiero che si richiamano
alla post-modernità meritano un'adeguata attenzione. Secondo
alcune di esse, infatti, il tempo delle certezze sarebbe
irrimediabilmente passato, l'uomo dovrebbe ormai imparare a
vivere in un orizzonte di totale assenza di senso, all'insegna
del provvisorio e del fuggevole. Parecchi autori, nella loro
critica demolitrice di ogni certezza, ignorando le necessarie
distinzioni, contestano anche le certezze della fede.
Questo nichilismo trova in
qualche modo una conferma nella terribile esperienza del male
che ha segnato la nostra epoca. Dinanzi alla drammaticità di
questa esperienza, l'ottimismo razionalista che vedeva nella
storia l'avanzata vittoriosa della ragione, fonte di felicità
e di libertà, non ha resistito, al punto che una delle
maggiori minacce, in questa fine di secolo, è la tentazione
della disperazione.
Resta tuttavia vero che
una certa mentalità positivista continua ad accreditare
l'illusione che, grazie alle conquiste scientifiche e
tecniche, l'uomo, quale demiurgo, possa giungere da solo ad
assicurarsi il pieno dominio del suo destino.
Compiti attuali per
la teologia
92. In quanto intelligenza
della Rivelazione, la teologia nelle diverse epoche storiche
si è sempre trovata a dover recepire le istanze delle varie
culture per poi mediare in esse, con una concettualizzazione
coerente, il contenuto della fede. Anche oggi un duplice
compito le spetta. Da una parte, infatti, essa deve sviluppare
l'impegno che il Concilio Vaticano II, a suo tempo, le ha
affidato: rinnovare le proprie metodologie in vista di un
servizio più efficace all'evangelizzazione. Come non pensare,
in questa prospettiva, alle parole pronunciate dal Sommo
Pontefice Giovanni XXIII in apertura del Concilio? Egli disse
allora: « E necessario che, aderendo alla viva attesa di
quanti amano sinceramente la religione cristiana, cattolica,
apostolica, questa dottrina sia più largamente e più
profondamente conosciuta, e che gli spiriti ne siano più
pienamente istruiti e formati; è necessario che questa
dottrina certa ed immutabile, che deve essere fedelmente
rispettata, sia approfondita e presentata in modo che
corrisponda alle esigenze del nostro tempo ». (107)
Dall'altra parte, la
teologia deve puntare gli occhi sulla verità ultima che le
viene consegnata con la Rivelazione, senza accontentarsi di
fermarsi a stadi intermedi. E bene per il teologo ricordare
che il suo lavoro corrisponde « al dinamismo insito nella
fede stessa » e che oggetto proprio della sua ricerca è «
la Verità, il Dio vivo e il suo disegno di salvezza rivelato
in Gesù Cristo ». (108) Questo compito, che tocca in prima
istanza la teologia, provoca nello stesso tempo la filosofia.
La mole dei problemi che oggi si impongono, infatti, richiede
un lavoro comune, anche se condotto con metodologie
differenti, perché la verità sia di nuovo conosciuta ed
espressa. La Verità, che è Cristo, si impone come autorità
universale che regge, stimola e fa crescere (cfr Ef 4,
15) sia la teologia che la filosofia.
Credere nella possibilità
di conoscere una verità universalmente valida non è
minimamente fonte di intolleranza; al contrario, è condizione
necessaria per un sincero e autentico dialogo tra le persone.
Solamente a questa condizione è possibile superare le
divisioni e percorrere insieme il cammino verso la verità
tutta intera, seguendo quei sentieri che solo lo Spirito del
Signore risorto conosce. (109) Come l'esigenza di unità si
configuri concretamente oggi, in vista dei compiti attuali
della teologia, è quanto desidero ora indicare.
93. Lo scopo fondamentale
a cui mira la teologia consiste nel presentare
l'intelligenza della Rivelazione ed il contenuto della fede.
Il vero centro della sua riflessione sarà, pertanto, la
contemplazione del mistero stesso del Dio Uno e Trino. A
questi si accede riflettendo sul mistero dell'incarnazione del
Figlio di Dio: sul suo farsi uomo e sul conseguente suo andare
incontro alla passione e alla morte, mistero che sfocerà
nella sua gloriosa risurrezione e ascensione alla destra del
Padre, da dove invierà lo Spirito di verità a costituire e
ad animare la sua Chiesa. Impegno primario della teologia, in
questo orizzonte, diventa l'intelligenza della kenosi di
Dio, vero grande mistero per la mente umana, alla quale appare
insostenibile che la sofferenza e la morte possano esprimere
l'amore che si dona senza nulla chiedere in cambio. In questa
prospettiva si impone come esigenza di fondo ed urgente una
attenta analisi dei testi: in primo luogo, dei testi
scritturistici, poi di quelli in cui si esprime la viva
Tradizione della Chiesa. A questo riguardo si propongono oggi
alcuni problemi, solo parzialmente nuovi, la cui coerente
soluzione non potrà essere trovata prescindendo dall'apporto
della filosofia.
94. Un primo aspetto
problematico riguarda il rapporto tra il significato e la
verità. Come ogni altro testo, così anche le fonti che il
teologo interpreta trasmettono innanzitutto un significato,
che va rilevato ed esposto. Ora, questo significato si
presenta come la verità su Dio, che da Dio stesso viene
comunicata mediante il testo sacro. Nel linguaggio umano,
quindi, prende corpo il linguaggio di Dio, che comunica la
propria verità con la mirabile « condiscendenza » che
rispecchia la logica dell'Incarnazione. (110)
Nell'interpretare le fonti della Rivelazione, pertanto, è
necessario che il teologo si domandi quale sia la verità
profonda e genuina che i testi vogliono comunicare, pur nei
limiti del linguaggio.
Quanto ai testi biblici, e
in particolare ai Vangeli, la loro verità non si riduce certo
alla narrazione di semplici avvenimenti storici o alla
rilevazione di fatti neutrali, come vorrebbe il positivismo
storicista. (111) Questi testi, al contrario, espongono eventi
la cui verità sta oltre il semplice accadere storico: sta nel
loro significato nella e per la storia della
salvezza. Questa verità trova piena esplicitazione nella
lettura perenne che la Chiesa compie di tali testi nel corso
dei secoli, mantenendone immutato il significato originario. E
urgente, pertanto, che anche filosoficamente ci si interroghi
sul rapporto che intercorre tra il fatto e il suo significato;
rapporto che costituisce il senso specifico della storia.
95. La parola di Dio non
si indirizza ad un solo popolo o a una sola epoca. Ugualmente,
gli enunciati dogmatici, pur risentendo a volte della cultura
del periodo in cui vengono definiti, formulano una verità
stabile e definitiva. Sorge quindi la domanda di come si possa
conciliare l'assolutezza e l'universalità della verità con
l'inevitabile condizionamento storico e culturale delle
formule che la esprimono. Come ho detto precedentemente, le
tesi dello storicismo non sono difendibili. L'applicazione di
un'ermeneutica aperta all'istanza metafisica, invece, è in
grado di mostrare come, dalle circostanze storiche e
contingenti in cui i testi sono maturati, si compia il
passaggio alla verità da essi espressa, che va oltre questi
condizionamenti.
Con il suo linguaggio
storico e circoscritto l'uomo può esprimere verità che
trascendono l'evento linguistico. La verità, infatti, non può
mai essere limitata al tempo e alla cultura; si conosce nella
storia, ma supera la storia stessa.
96. Questa considerazione
permette di intravedere la soluzione di un altro problema:
quello della perenne validità del linguaggio concettuale
usato nelle definizioni conciliari. Già il mio venerato
Predecessore Pio XII nella sua Lettera enciclica Humani
generis affrontava la questione. (112)
Riflettere su questo
argomento non è facile, perché si deve tenere seriamente
conto del senso che le parole acquistano nelle diverse culture
e in epoche differenti. La storia del pensiero, comunque,
mostra che attraverso l'evoluzione e la varietà delle culture
certi concetti di base mantengono il loro valore conoscitivo
universale e perciò la verità delle proposizioni che li
esprimono. (113) Se così non fosse, la filosofia e le scienze
non potrebbero comunicare tra loro né potrebbero essere
recepite da culture diverse da quelle in cui sono state
pensate ed elaborate. Il problema ermeneutico, dunque, esiste,
ma è risolvibile. Il valore realistico di molti concetti,
d'altronde, non esclude che spesso il loro significato sia
imperfetto. La speculazione filosofica molto potrebbe aiutare
in questo campo. E auspicabile, pertanto, un suo particolare
impegno nell'approfondimento del rapporto tra linguaggio
concettuale e verità, e nella proposta di vie adeguate per
una sua corretta comprensione.
97. Se compito importante
della teologia è l'interpretazione delle fonti, impegno
ulteriore e anche più delicato ed esigente è la comprensione
della verità rivelata, o l'elaborazione dell'intellectus
fidei. Come già ho accennato, l'intellectus fidei richiede
l'apporto di una filosofia dell'essere, che consenta
innanzitutto alla teologia dogmatica di svolgere in
modo adeguato le sue funzioni. Il pragmatismo dogmatico degli
inizi di questo secolo, secondo cui le verità di fede non
sarebbero altro che regole di comportamento, è già stato
rifiutato e rigettato; (114) ciò nonostante, rimane sempre la
tentazione di comprendere queste verità in maniera puramente
funzionale. In questo caso, si cadrebbe in uno schema
inadeguato, riduttivo, e sprovvisto dell'incisività
speculativa necessaria. Una cristologia, ad esempio, che
procedesse unilateralmente « dal basso », come oggi si suole
dire, o una ecclesiologia, elaborata unicamente sul modello
delle società civili, difficilmente potrebbero evitare il
pericolo di tale riduzionismo.
Se l'intellectus fidei vuole
integrare tutta la ricchezza della tradizione teologica, deve
ricorrere alla filosofia dell'essere. Questa dovrà essere in
grado di riproporre il problema dell'essere secondo le
esigenze e gli apporti di tutta la tradizione filosofica,
anche quella più recente, evitando di cadere in sterili
ripetizioni di schemi antiquati. La filosofia dell'essere, nel
quadro della tradizione metafisica cristiana, è una filosofia
dinamica che vede la realtà nelle sue strutture ontologiche,
causali e comunicative. Essa trova la sua forza e perennità
nel fatto di fondarsi sull'atto stesso dell'essere, che
permette l'apertura piena e globale verso tutta la realtà,
oltrepassando ogni limite fino a raggiungere Colui che a tutto
dona compimento. (115) Nella teologia, che riceve i suoi
principi dalla Rivelazione quale nuova fonte di conoscenza,
questa prospettiva trova conferma secondo l'intimo rapporto
tra fede e razionalità metafisica.
98. Considerazioni
analoghe si possono fare anche in riferimento alla teologia
morale. Il recupero della filosofia è urgente anche
nell'ordine della comprensione della fede che riguarda l'agire
dei credenti. Di fronte alle sfide contemporanee nel campo
sociale, economico, politico e scientifico la coscienza etica
dell'uomo è disorientata. Nella Lettera enciclica Veritatis
splendor ho rilevato che molti problemi presenti nel mondo
contemporaneo derivano da una « crisi intorno alla verità.
Persa l'idea di una verità universale sul bene, conoscibile
dalla ragione umana, è inevitabilmente cambiata anche la
concezione della coscienza: questa non è più considerata
nella sua realtà originaria, ossia un atto dell'intelligenza
della persona, cui spetta di applicare la conoscenza
universale del bene in una determinata situazione e di
esprimere così un giudizio sulla condotta giusta da scegliere
qui e ora; ci si è orientati a concedere alla coscienza
dell'individuo il privilegio di fissare, in modo autonomo, i
criteri del bene e del male e agire di conseguenza. Tale
visione fa tutt'uno con un'etica individualistica, per la
quale ciascuno si trova confrontato con la sua verità,
differente dalla verità degli altri ». (116)
Nell'intera Enciclica ho
sottolineato chiaramente il fondamentale ruolo spettante alla
verità nel campo della morale. Questa verità, riguardo alla
maggior parte dei problemi etici più urgenti, richiede, da
parte della teologia morale, un'attenta riflessione che sappia
mettere in evidenza le sue radici nella parola di Dio. Per
poter adempiere a questa sua missione, la teologia morale deve
far ricorso a un'etica filosofica rivolta alla verità del
bene; a un'etica, dunque, né soggettivista né utilitarista.
L'etica richiesta implica e presuppone un'antropologia
filosofica e una metafisica del bene. Avvalendosi di questa
visione unitaria, che è necessariamente collegata alla santità
cristiana e all'esercizio delle virtù umane e soprannaturali,
la teologia morale sarà capace di affrontare i vari problemi
di sua competenza — quali la pace, la giustizia sociale, la
famiglia, la difesa della vita e dell'ambiente naturale — in
maniera più adeguata ed efficace.
99. Il lavoro teologico
nella Chiesa è in primo luogo al servizio dell'annuncio della
fede e della catechesi. (117) L'annuncio o il kerigma chiama
alla conversione, proponendo la verità di Cristo che culmina
nel suo Mistero pasquale: solo in Cristo, infatti, è
possibile conoscere la pienezza della verità che salva (cfr At
4, 12; 1 Tm 2, 4-6).
In questo contesto, si
capisce bene perché, oltre alla teologia, assuma notevole
rilievo anche il riferimento alla catechesi: questa
possiede, infatti, delle implicazioni filosofiche che vanno
approfondite alla luce della fede. L'insegnamento impartito
nella catechesi ha un effetto formativo per la persona. La
catechesi, che è anche comunicazione linguistica, deve
presentare la dottrina della Chiesa nella sua integrità,
(118) mostrandone l'aggancio con la vita dei credenti. (119)
Si realizza così una singolare unione tra insegnamento e vita
che è impossibile raggiungere altrimenti. Ciò che si
comunica nella catechesi, infatti, non è un corpo di verità
concettuali, ma il mistero del Dio vivente. (120)
La riflessione filosofica
molto può contribuire nel chiarificare il rapporto tra verità
e vita, tra evento e verità dottrinale e, soprattutto, la
relazione tra verità trascendente e linguaggio umanamente
intelligibile. (121) La reciprocità che si crea tra le
discipline teologiche e i risultati raggiunti dalle differenti
correnti filosofiche può esprimere, dunque, una reale
fecondità in vista della comunicazione della fede e di una
sua più profonda comprensione.
CONCLUSIONE
100. A più di cento anni
dalla pubblicazione dell'Enciclica Æterni Patris di
Leone XIII, a cui mi sono più volte richiamato in queste
pagine, mi è sembrato doveroso riprendere di nuovo e in
maniera più sistematica il discorso sul tema del rapporto tra
la fede e la filosofia. L'importanza che il pensiero
filosofico riveste nello sviluppo delle culture e
nell'orientamento dei comportamenti personali e sociali è
evidente. Esso esercita una forte influenza, non sempre
percepita in maniera esplicita, anche sulla teologia e le sue
diverse discipline. Per questi motivi, ho ritenuto giusto e
necessario sottolineare il valore che la filosofia possiede
nei confronti dell'intelligenza della fede e i limiti a cui
essa va incontro quando dimentica o rifiuta le verità della
Rivelazione. La Chiesa, infatti, permane nella più profonda
convinzione che fede e ragione « si recano un aiuto
scambievole », (122) esercitando l'una per l'altra una
funzione sia di vaglio critico e purificatore, sia di stimolo
a progredire nella ricerca e nell'approfondimento.
101. Se il nostro sguardo
si volge alla storia del pensiero, soprattutto nell'Occidente,
è facile vedere la ricchezza che è scaturita per il
progresso dell'umanità dall'incontro tra filosofia e teologia
e dallo scambio delle loro rispettive conquiste. La teologia,
che ha ricevuto in dono un'apertura e una originalità che le
permettono di esistere come scienza della fede, ha certamente
provocato la ragione a rimanere aperta davanti alla novità
radicale che la rivelazione di Dio porta con sé. E questo è
stato un indubbio vantaggio per la filosofia, che ha visto così
schiudersi nuovi orizzonti su ulteriori significati che la
ragione è chiamata ad approfondire.
E proprio alla luce di
questa costatazione che, come ho ribadito il dovere della
teologia di recuperare il suo genuino rapporto con la
filosofia, così mi sento in dovere di sottolineare
l'opportunità che anche la filosofia, per il bene e il
progresso del pensiero, recuperi la sua relazione con la
teologia. Troverà in essa non la riflessione del singolo
individuo che, anche se profonda e ricca, porta pur sempre con
sé i limiti prospettici propri del pensiero di uno solo, ma
la ricchezza di una riflessione comune. La teologia, infatti,
nell'indagine sulla verità è sostenuta, per sua stessa
natura, dalla nota dell'ecclesialità (123) e dalla
tradizione del Popolo di Dio con la sua multiformità di
saperi e culture nell'unità della fede.
102. Insistendo in tal
modo sull'importanza e sulle vere dimensioni del pensiero
filosofico, la Chiesa promuove insieme sia la difesa della
dignità dell'uomo sia l'annuncio del messaggio evangelico.
Per tali compiti non vi è oggi, infatti, preparazione più
urgente di questa: portare gli uomini alla scoperta della loro
capacità di conoscere il vero (124) e del loro anelito verso
un senso ultimo e definitivo dell'esistenza. Nella prospettiva
di queste esigenze profonde, iscritte da Dio nella natura
umana, appare anche più chiaro il significato umano e
umanizzante della parola di Dio. Grazie alla mediazione di una
filosofia divenuta anche vera saggezza, l'uomo contemporaneo
giungerà così a riconoscere che egli sarà tanto più uomo
quanto più, affidandosi al Vangelo, aprirà se stesso a
Cristo.
103. La filosofia,
inoltre, è come lo specchio in cui si riflette la cultura dei
popoli. Una filosofia, che, sotto la provocazione delle
esigenze teologiche, si sviluppa in consonanza con la fede, fa
parte di quella « evangelizzazione della cultura » che Paolo
VI ha proposto come uno degli scopi fondamentali
dell'evangelizzazione. (125) Mentre non mi stanco di
richiamare l'urgenza di una nuova evangelizzazione, mi
appello ai filosofi perché sappiano approfondire le
dimensioni del vero, del buono e del bello, a cui la parola di
Dio dà accesso. Ciò diventa tanto più urgente, se si
considerano le sfide che il nuovo millennio sembra portare con
sé: esse investono in modo particolare le regioni e le
culture di antica tradizione cristiana. Anche questa
attenzione deve considerarsi come un apporto fondamentale e
originale sulla strada della nuova evangelizzazione.
104. Il pensiero
filosofico è spesso l'unico terreno d'intesa e di dialogo con
chi non condivide la nostra fede. Il movimento filosofico
contemporaneo esige l'impegno attento e competente di filosofi
credenti capaci di recepire le aspettative, le aperture e le
problematiche di questo momento storico. Argomentando alla
luce della ragione e secondo le sue regole, il filosofo
cristiano, pur sempre guidato dall'intelligenza ulteriore che
gli dà la parola di Dio, può sviluppare una riflessione che
sarà comprensibile e sensata anche per chi non afferra ancora
la verità piena che la Rivelazione divina manifesta. Tale
terreno d'intesa e di dialogo è oggi tanto più importante in
quanto i problemi che si pongono con più urgenza all'umanità
— si pensi al problema ecologico, al problema della pace o
della convivenza delle razze e delle culture — trovano una
possibile soluzione alla luce di una chiara e onesta
collaborazione dei cristiani con i fedeli di altre religioni e
con quanti, pur non condividendo una credenza religiosa, hanno
a cuore il rinnovamento dell'umanità. Lo ha affermato il
Concilio Vaticano II: « Per quanto ci riguarda, il desiderio
di stabilire un dialogo che sia ispirato dal solo amore della
verità e condotto con la opportuna prudenza, non esclude
nessuno: né coloro che hanno il culto di alti valori umani,
benché non ne riconoscano ancora la Sorgente, né coloro che
si oppongono alla Chiesa e la perseguitano in diverse maniere
». (126) Una filosofia, nella quale risplenda anche qualcosa
della verità di Cristo, unica risposta definitiva ai problemi
dell'uomo, (127) sarà un sostegno efficace per quell'etica
vera e insieme planetaria di cui oggi l'umanità ha bisogno.
105. Mi preme concludere
questa Lettera enciclica rivolgendo un ultimo pensiero
anzitutto ai teologi, affinché prestino particolare
attenzione alle implicazioni filosofiche della parola di Dio e
compiano una riflessione da cui emerga lo spessore speculativo
e pratico della scienza teologica. Desidero ringraziarli per
il loro servizio ecclesiale. Il legame intimo tra la sapienza
teologica e il sapere filosofico è una delle ricchezze più
originali della tradizione cristiana nell'approfondimento
della verità rivelata. Per questo, li esorto a recuperare ed
evidenziare al meglio la dimensione metafisica della verità
per entrare così in un dialogo critico ed esigente tanto con
il pensiero filosofico contemporaneo quanto con tutta la
tradizione filosofica, sia questa in sintonia o invece in
contrapposizione con la parola di Dio. Tengano sempre presente
l'indicazione di un grande maestro del pensiero e della
spiritualità, san Bonaventura, il quale introducendo il
lettore al suo Itinerarium mentis in Deum lo invitava a
rendersi conto che « non è sufficiente la lettura senza la
compunzione, la conoscenza senza la devozione, la ricerca
senza lo slancio della meraviglia, la prudenza senza la
capacità di abbandonarsi alla gioia, l'attività disgiunta
dalla religiosità, il sapere separato dalla carità,
l'intelligenza senza l'umiltà, lo studio non sorretto dalla
grazia divina, la riflessione senza la sapienza ispirata da
Dio ». (128)
Il mio pensiero è rivolto
pure a quanti hanno la responsabilità della formazione
sacerdotale, sia accademica che pastorale, perché curino
con particolare attenzione la preparazione filosofica di chi
dovrà annunciare il Vangelo all'uomo di oggi e, più ancora,
di chi dovrà dedicarsi alla ricerca e all'insegnamento della
teologia. Si sforzino di condurre il loro lavoro alla luce
delle prescrizioni del Concilio Vaticano II (129) e delle
disposizioni successive, dalle quali emerge l'inderogabile e
urgente compito, a cui tutti siamo chiamati, di contribuire a
una genuina e profonda comunicazione delle verità di fede.
Non si dimentichi la grave responsabilità di una previa e
adeguata preparazione del corpo docente destinato
all'insegnamento della filosofia sia nei Seminari che nelle
Facoltà ecclesiastiche. (130) E necessario che questa docenza
comporti la conveniente preparazione scientifica, si presenti
in maniera sistematica proponendo il grande patrimonio della
tradizione cristiana e si compia con il dovuto discernimento
dinanzi alle esigenze attuali della Chiesa e del mondo.
106. Il mio appello,
inoltre, va ai filosofi e a quanti insegnano la
filosofia, perché abbiano il coraggio di ricuperare,
sulla scia di una tradizione filosofica perennemente valida,
le dimensioni di autentica saggezza e di verità, anche
metafisica, del pensiero filosofico. Si lascino interpellare
dalle esigenze che scaturiscono dalla parola di Dio ed abbiano
la forza di condurre il loro discorso razionale ed
argomentativo in risposta a tale interpellanza. Siano sempre
protesi verso la verità e attenti al bene che il vero
contiene. Potranno in questo modo formulare quell'etica
genuina di cui l'umanità ha urgente bisogno, particolarmente
in questi anni. La Chiesa segue con attenzione e simpatia le
loro ricerche; siano pertanto sicuri del rispetto che essa
conserva per la giusta autonomia della loro scienza. Vorrei
incoraggiare, in particolare, i credenti che operano nel campo
della filosofia, perché illuminino i diversi ambiti
dell'attività umana con l'esercizio di una ragione che si fa
più sicura e acuta per il sostegno che riceve dalla fede.
Non posso non rivolgere,
infine, una parola anche agli scienziati, che con le
loro ricerche ci forniscono una crescente conoscenza
dell'universo nel suo insieme e della varietà incredibilmente
ricca delle sue componenti, animate ed inanimate, con le loro
complesse strutture atomiche e molecolari. Il cammino da essi
compiuto ha raggiunto, specialmente in questo secolo,
traguardi che continuano a stupirci. Nell'esprimere la mia
ammirazione ed il mio incoraggiamento a questi valorosi
pionieri della ricerca scientifica, ai quali l'umanità tanto
deve del suo presente sviluppo, sento il dovere di esortarli a
proseguire nei loro sforzi restando sempre in quell'orizzonte sapienziale,
in cui alle acquisizioni scientifiche e tecnologiche
s'affiancano i valori filosofici ed etici, che sono
manifestazione caratteristica ed imprescindibile della persona
umana. Lo scienziato è ben consapevole che « la ricerca
della verità, anche quando riguarda una realtà limitata del
mondo o dell'uomo, non termina mai; rinvia sempre verso
qualcosa che è al di sopra dell'immediato oggetto degli
studi, verso gli interrogativi che aprono l'accesso al Mistero
». (131)
107. A tutti chiedo
di guardare in profondità all'uomo, che Cristo ha salvato nel
mistero del suo amore, e alla sua costante ricerca di verità
e di senso. Diversi sistemi filosofici, illudendolo, lo hanno
convinto che egli è assoluto padrone di sé, che può
decidere autonomamente del proprio destino e del proprio
futuro confidando solo in se stesso e sulle proprie forze. La
grandezza dell'uomo non potrà mai essere questa. Determinante
per la sua realizzazione sarà soltanto la scelta di inserirsi
nella verità, costruendo la propria abitazione all'ombra
della Sapienza e abitando in essa. Solo in questo orizzonte
veritativo comprenderà il pieno esplicitarsi della sua libertà
e la sua chiamata all'amore e alla conoscenza di Dio come
attuazione suprema di sé.
108. Il mio ultimo
pensiero è rivolto a Colei che la preghiera della Chiesa
invoca come Sede della Sapienza. La sua stessa vita è
una vera parabola capace di irradiare luce sulla riflessione
che ho svolto. Si può intravedere, infatti, una profonda
consonanza tra la vocazione della Beata Vergine e quella della
genuina filosofia. Come la Vergine fu chiamata ad offrire
tutta la sua umanità e femminilità affinché il Verbo di Dio
potesse prendere carne e farsi uno di noi, così la filosofia
è chiamata a prestare la sua opera, razionale e critica,
affinché la teologia come comprensione della fede sia feconda
ed efficace. E come Maria, nell'assenso dato all'annuncio di
Gabriele, nulla perse della sua vera umanità e libertà, così
il pensiero filosofico, nell'accogliere l'interpellanza che
gli viene dalla verità del Vangelo, nulla perde della sua
autonomia, ma vede sospinta ogni sua ricerca alla più alta
realizzazione. Questa verità l'avevano ben compresa i santi
monaci dell'antichità cristiana, quando chiamavano Maria «
la mensa intellettuale della fede ». (132) In lei vedevano
l'immagine coerente della vera filosofia ed erano convinti di
dover philosophari in Maria.
Possa, la Sede della
Sapienza, essere il porto sicuro per quanti fanno della loro
vita la ricerca della saggezza. Il cammino verso la sapienza,
ultimo e autentico fine di ogni vero sapere, possa essere
liberato da ogni ostacolo per l'intercessione di Colei che,
generando la Verità e conservandola nel suo cuore, l'ha
partecipata all'umanità intera per sempre.
Dato a Roma, presso San
Pietro, il 14 settembre, festa della Esaltazione della Santa
Croce, dell'anno 1998, ventesimo del mio Pontificato.
(1) Già lo scrivevo nella
mia prima lettera enciclica Redemptor hominis: « Siamo
diventati partecipi di questa missione di Cristo-profeta e, in
forza della stessa missione, insieme con lui serviamo la verità
divina nella Chiesa. La responsabilità per tale verità
significa anche amarla e cercarne la più esatta comprensione,
in modo da renderla più vicina a noi stessi e agli altri in
tutta la sua forza salvifica, nel suo splendore, nella sua
profondità e insieme semplicità ». N.
19: AAS 71 (1979), 306.
(2)
Cfr Conc. Ecum. Vat.
II, Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium
et spes, 16.
(3) Cost. dogm. sulla
Chiesa Lumen gentium, 25.
(4)
N. 4: AAS 85 (1993), 1136.
(5)
Conc. Ecum. Vat. II,
Cost. dogm. sulla divina Rivelazione Dei Verbum, 2.
(6) Cfr Cost. dogm. sulla
fede cattolica Dei Filius, III: DS
3008.
(7) Ibid., IV: DS
3015; citato anche in Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past.
sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes,
59.
(8) Cost. dogm. sulla
divina Rivelazione Dei Verbum, 2.
(9) Lett. ap. Tertio
millennio adveniente (10 novembre 1994), 10: AAS 87
(1995), 11.
(10) N. 4.
(11) N. 8.
(12) N. 22.
(13)
Cfr Conc. Ecum. Vat. II,
Cost. dogm. sulla divina Rivelazione Dei Verbum, 4.
(14) Ibid., 5.
(15) Il Concilio Vaticano
I, a cui fa riferimento la sentenza sopra richiamata, insegna
che l'obbedienza della fede esige l'impegno dell'intelletto e
della volontà: « Poiché l'uomo dipende totalmente da Dio
come suo creatore e signore e la ragione creata è sottomessa
completamente alla verità increata, noi siamo tenuti, quando
Dio si rivela, a prestargli, con la fede, la piena
sottomissione della nostra intelligenza e della nostra volontà
» (Cost. dogm. sulla fede cattolica Dei Filius, III;
DS 3008).
(16) Sequenza nella
solennità del Santissimo Corpo e Sangue di Cristo.
(17)
Pensées, 789 (ed. L. Brunschvicg).
(18) Conc. Ecum. Vat. II,
Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et
spes, 22.
(19)
Cfr Conc. Ecum. Vat. II,
Cost. dogm. sulla divina Rivelazione Dei Verbum, 2.
(20) Proemio e nn. 1. 15: PL
158, 223-224.226; 235.
(21) De vera religione,
XXXIX, 72: CCL 32, 234.
(22) « Ut te semper
desiderando quaererent et inveniendo quiescerent »: Missale
Romanum.
(23) Aristotele, Metafisica,
I, 1.
(24) Confessiones,
X, 23, 33: CCL 27, 173.
(25) N. 34: AAS 85
(1993), 1161.
(26) Cfr Giovanni Paolo II,
Lett. ap. Salvifici doloris (11 febbraio 1984), 9: AAS
76 (1984), 209-210.
(27)
Cfr Conc. Ecum. Vat. II,
Dich. sulle relazioni della Chiesa con le religioni non
cristiane Nostra aetate, 2.
(28) E questa
un'argomentazione che perseguo da molto tempo e che ho
espresso in diverse occasioni. « Che è l'uomo e a che può
servire? Qual è il suo bene e qual è il suo male? (Sir 18,
7) [...]. Queste domande sono nel cuore di ogni uomo, come ben
dimostra il genio poetico di ogni tempo e di ogni popolo, che,
quasi profezia dell'umanità, ripropone continuamente la domanda
seria che rende l'uomo veramente tale. Esse esprimono
l'urgenza di trovare un perché all'esistenza, ad ogni suo
istante, alle sue tappe salienti e decisive così come ai suoi
momenti più comuni. In tali questioni è testimoniata la
ragionevolezza profonda dell'esistere umano, poiché
l'intelligenza e la volontà dell'uomo vi sono sollecitate a
cercare liberamente la soluzione capace di offrire un senso
pieno alla vita. Questi interrogativi, pertanto, costituiscono
l'espressione più alta della natura dell'uomo: di conseguenza
la risposta ad esse misura la profondità del suo impegno con
la propria esistenza. In particolare, quando il perché
delle cose viene indagato con integralità alla ricerca
della risposta ultima e più esauriente, allora la ragione
umana tocca il suo vertice e si apre alla religiosità. In
effetti, la religiosità rappresenta l'espressione più
elevata della persona umana, perché è il culmine della sua
natura razionale. Essa sgorga dall'aspirazione profonda
dell'uomo alla verità ed è alla base della ricerca libera e
personale che egli compie del divino »: Udienza generale del
19 ottobre 1983, 1-2: Insegnamenti VI, 2 (1983),
814-815.
(29) « [Galileo] ha
dichiarato esplicitamente che le due verità, di fede e di
scienza, non possono mai contrariarsi « procedendo di pari
dal Verbo divino la Scrittura sacra e la natura, quella come
dettatura dello Spirito Santo, e questa come osservantissima
esecutrice degli ordini di Dio » come scrive nella lettera al
Padre Benedetto Castelli il 21 dicembre 1613. Non
diversamente, anzi con parole simili, insegna il Concilio
Vaticano II: « La ricerca metodica di ogni disciplina, se
procede [...] secondo le norme morali, non sarà mai in reale
contrasto con la fede, perché le realtà profane e le realtà
della fede hanno origine dal medesimo Dio » (Gaudium et
spes, 36). Galileo sente nella sua ricerca scientifica la
presenza del Creatore che lo stimola, che previene e aiuta le
sue intuizioni, operando nel profondo del suo spirito ».
Giovanni Paolo II, Discorso alla Pontificia Accademia delle
Scienze, 10 novembre 1979: Insegnamenti, II, 2 (1979),
1111-1112.
(30)
Cfr Conc. Ecum. Vat. II,
Cost. dogm. sulla divina Rivelazione Dei Verbum, 4.
(31) Origene, Contro
Celso, 3, 55: SC 136, 130.
(32) Dialogo con
Trifone, 8,1: PG 6, 492.
(33) Stromati I,
18, 90, 1: SC 30, 115.
(34) Cfr ibid., I,
16, 80, 5: SC 30, 108.
(35) Cfr ibid., I,
5, 28, 1: SC 30, 65.
(36) Ibid., VI, 7,
55, 1-2: PG 9, 277.
(37) Ibid., I, 20,
100, 1: SC 30, 124.
(38) S. Agostino, Confessiones
VI, 5, 7: CCL 27, 77-78.
(39)
Cfr ibid., VII, 9, 13-14: CCL 27, 101-102.
(40) De praescriptione
haereticorum, VII, 9: SC 46, 98. «
Quid ergo Athenis et Hierosolymis? Quid academiae et ecclesiae?
».
(41) Cfr Congregazione per
l'Educazione Cattolica, Istr. sullo studio dei Padri della
Chiesa nella formazione sacerdotale (10 novembre 1989), 25: AAS
82 (1990), 617-618.
(42) S. Anselmo, Proslogion,
1: PL 158, 226.
(43) Id., Monologion,
64: PL 158, 210.
(44) Cfr Summa contra
Gentiles, I, VII.
(45) Cfr Summa
Theologiae, I, 1, 8 ad 2: « cum enim gratia non tollat
naturam sed perficiat ».
(46) Cfr Giovanni Paolo II,
Discorso ai partecipanti al IX Congresso Tomistico
Internazionale (29 settembre 1990): Insegnamenti, XIII,
2 (1990), 770-771.
(47) Lett. ap. Lumen
Ecclesiae (20 novembre 1974), 8: AAS 66 (1974),
680.
(48) Cfr I, 1, 6: «
Praeterea, haec doctrina per studium acquiritur. Sapientia
autem per infusionem habetur, unde inter septem dona Spiritus
Sancti connumeratur ».
(49) Ibid., II, II,
45, 1 ad 2; cfr pure II, II, 45, 2.
(50) Ibid., I, II,
109, 1 ad 1 che riprende la nota frase dell'Ambrosiaster,
In prima Cor 12,3: PL 17, 258.
(51) Leone XIII, Lett. enc.
Æterni Patris (4 agosto 1879): ASS 11
(1878-1879), 109.
(52) Paolo VI, Lett. ap. Lumen
Ecclesiae (20 novembre 1974), 8: AAS 66 (1974),
683.
(53) Lett. enc. Redemptor
hominis (4 marzo 1979), 15: AAS 71 (1979), 286.
(54) Cfr Pio XII, Lett.
enc. Humani generis (12 agosto 1950): AAS 42
(1950), 566.
(55)
Cfr Conc. Ecum. Vat. I,
Cost. dogm. prima sulla Chiesa di Cristo Pastor Aeternus:
DS 3070; Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. sulla Chiesa Lumen
gentium, 25 c.
(56) Cfr Sinodo di
Costantinopoli, DS 403.
(57) Cfr Concilio di
Toledo I, DS 205; Concilio di Braga I, DS 459-460;
Sisto V, Bolla Coeli et terrae Creator (5 gennaio
1586): Bullarium Romanum 4/4, Romae 1747, 176-179;
Urbano VIII, Inscrutabilis iudiciorum (1o aprile 1631):
Bullarium Romanum 6/1, Romae 1758, 268-270.
(58)
Cfr Conc. Ecum. Viennense,
Decr. Fidei catholicae, DS 902; Conc. Ecum.
Lateranense V, Bolla Apostolici regiminis, DS 1440.
(59) Cfr Theses a
Ludovico Eugenio Bautain iussu sui Episcopi subscriptae (8
settembre 1840), DS 2751-2756; Theses a Ludovico Eugenio
Bautain ex mandato S. Cong. Episcoporum et Religiosorum
subscriptae (26 aprile 1844), DS 2765-2769.
(60) Cfr S. Congr. Indicis,
Decr. Theses contra traditionalismum Augustini Bonnetty (11
giugno 1855), DS 2811-2814.
(61) Cfr Pio IX, Breve Eximiam
tuam (15 giugno 1857), DS 2828-2831; Breve Gravissimas
inter (11 dicembre 1862), DS 2850-2861.
(62) Cfr S. Congr. del S.
Officio, Decr. Errores ontologistarum (18 settembre
1861), DS 2841-2847.
(63) Cfr Conc. Ecum. Vat.
I, Cost. dogm. sulla fede cattolica Dei Filius, II: DS
3004; e can. 2, 1: DS 3026.
(64) Ibid., IV: DS
3015, citato in Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. sulla
Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 59.
(65) Conc. Ecum. Vat. I,
Cost. dogm. sulla fede cattolica Dei Filius, IV: DS 3017.
(66)
Cfr Lett. enc. Pascendi
dominici gregis (8
settembre 1907): ASS 40 (1907), 596-597.
(67) Cfr Pio XI, Lett. enc.
Divini Redemptoris (19 marzo 1937): AAS 29
(1937), 65-106.
(68)
Lett. enc. Humani generis (12 agosto 1950): AAS 42
(1950), 562-563.
(69)
Ibid., l.c., 563-564.
(70) Cfr Giovanni Paolo II,
Cost. ap. Pastor Bonus (28 giugno 1988), artt. 48-49: AAS
80 (1988), 873; Congr. per la Dottrina della Fede, Istr.
sulla vocazione ecclesiale del teologo Donum veritatis (24
maggio 1990), 18: AAS 82 (1990), 1558.
(71) Cfr Istr. su alcuni
aspetti della « teologia della liberazione » Libertatis
nuntius (6 agosto 1984), VII-X: AAS 76 (1984),
890-903.
(72) Il Concilio Vaticano
I, con parole tanto chiare quanto autoritative, aveva già
condannato questo errore, affermando da una parte che «
quanto a questa fede [...], la Chiesa cattolica professa che
essa è una virtù soprannaturale, per la quale sotto
l'ispirazione divina e con l'aiuto della grazia, noi crediamo
vere le cose da lui rivelate, non a causa dell'intrinseca
verità delle cose percepite dalla luce naturale della
ragione, ma a causa dell'autorità di Dio stesso, che le
rivela, il quale non può ingannarsi né ingannare »: Cost.
dogm. Dei Filius III: DS 3008, e can.3. 2: DS
3032. Dall'altra parte, il Concilio dichiarava che la
ragione mai « è resa capace di penetrare [tali misteri] come
le verità che formano il suo oggetto proprio »: ibid.,
IV: DS 3016. Da qui traeva la conclusione pratica: « I
fedeli cristiani non solo non hanno il diritto di difendere
come legittime conclusioni della scienza le opinioni
riconosciute contrarie alla dottrina della fede, specie se
condannate dalla Chiesa, ma sono strettamente tenuti a
considerarle piuttosto come errori, che hanno solo una
ingannevole parvenza di verità »: ibid., IV: DS 3018.
(73)
Cfr nn. 9-10.
(74)
Ibid., 10.
(75)
Ibid., 21.
(76)
Cfr ibid., 10.
(77)
Cfr Lett. enc. Humani
generis (12 agosto
1950): AAS 42 (1950), 565-567; 571-573.
(78)
Cfr Lett. enc. Æterni
Patris (4 agosto
1879): ASS 11 (1878-1879), 97-115.
(79)
Ibid., l.c., 109.
(80)
Cfr nn. 14-15.
(81)
Cfr ibid., 20-21.
(82) Ibid., 22; cfr
Giovanni Paolo II, Lett. enc. Redemptor hominis (4
marzo 1979), 8: AAS 71 (1979), 271-272.
(83) Decr. sulla
formazione sacerdotale Optatam totius, 15.
(84) Cfr Giovanni Paolo II,
Cost. ap. Sapientia christiana (15 aprile 1979), art.
79-80: AAS 71 (1979), 495-496; Esort. ap. postsinodale Pastores
dabo vobis (25 marzo 1992), 52: AAS 84 (1992),
750-751. Cfr pure alcuni commenti sulla filosofia di S.
Tommaso: Discorso al Pontificio Ateneo Internazionale
Angelicum (17 novembre 1979): Insegnamenti II, 2
(1979), 1177-1189; Discorso ai partecipanti dell'VIII
Congresso Tomistico Internazionale (13 settembre 1980): Insegnamenti
III, 2 (1980), 604-615; Discorso ai partecipanti al
Congresso Internazionale della Società « San Tommaso »
sulla dottrina dell'anima in S. Tommaso (4 gennaio 1986): Insegnamenti
IX, 1 (1986), 18-24. Inoltre, S. Congr. per l'Educazione
Cattolica, Ratio fundamentalis institutionis sacerdotalis (6
gennaio 1970), 70-75: AAS 62 (1970), 366-368; Decr. Sacra
Theologia (20 gennaio 1972): AAS 64 (1972),
583-586.
(85) Cfr Cost. past. sulla
Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 57; 62.
(86)
Cfr ibid., 44.
(87)
Cfr Conc. Ecum.
Lateranense V, Bolla Apostolici regimini sollicitudo,
Sessione VIII: Conc. Oecum. Decreta, 1991, 605-606.
(88) Cfr Conc. Ecum. Vat.
II, Cost. dogm. sulla divina Rivelazione Dei Verbum,
10.
(89) S. Tommaso d'Aquino, Summa
Theologiae, II-II, 5, 3 ad 2.
(90) « La ricerca delle
condizioni nelle quali l'uomo pone da sé le prime domande
fondamentali sul senso della vita, sul fine che ad essa vuole
dare e su ciò che l'attende dopo la morte, costituisce per la
teologia fondamentale il necessario preambolo, affinché,
anche oggi, la fede abbia a mostrare in pienezza il cammino ad
una ragione in ricerca sincera della verità ». Giovanni
Paolo II, Lettera ai partecipanti al Congresso
internazionale di Teologia Fondamentale a 125 anni dalla «
Dei Filius » (30 settembre 1995), 4: L'Osservatore
Romano, 3 ottobre 1995, p. 8.
(91)
Ibid.
(92)
Cfr Conc. Ecum. Vat.
II, Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium
et spes, 15; Decr. sull'attività missionaria della Chiesa Ad
gentes, 22.
(93) S. Tommaso d'Aquino, De
Caelo, 1, 22.
(94)
Cfr Conc. Ecum. Vat. II,
Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et
spes, 53-59.
(95)
S. Agostino, De praedestinatione sanctorum, 2,5: PL 44,
963.
(96)
Id., De fide, spe et caritate, 7: CCL 64, 61.
(97)
Cfr Conc. Ecum. Calcedonense,
Symbolum, Definitio: DS 302.
(98) Cfr Giovanni Paolo II,
Lett. enc. Redemptor hominis (4 marzo 1979), 15: AAS
71 (1979), 286-289.
(99) Cfr, ad esempio, S.
Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae, I, 16,1; S.
Bonaventura, Coll. in Hex., 3, 8, 1.
(100) Cost. past. sulla
Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 15.
(101) Cfr Giovanni Paolo
II, Lett. enc. Veritatis
splendor (6
agosto 1993), 57-61: AAS 85 (1993), 1179-1182.
(102)
Cfr Conc. Ecum. Vat. I,
Cost. dogm. sulla fede cattolica Dei Filius, IV: DS 3016.
(103)
Cfr Conc. Ecum. Lateranense
IV, De errore abbatis Ioachim, II: DS 806.
(104) Cfr Conc. Ecum. Vat.
II, Cost. dogm. sulla divina Rivelazione Dei Verbum,
24; Decr. sulla formazione sacerdotale Optatam totius,
16.
(105) Cfr Giovanni Paolo
II, Lett. enc. Evangelium vitae (25 marzo 1995), 69: AAS
87 (1995), 481.
(106) Nello stesso senso
scrivevo nella mia prima Lettera enciclica a commento
dell'espressione del Vangelo di S. Giovanni: « Conoscerete la
verità e la verità vi farà liberi » (8, 32): «Queste
parole racchiudono una fondamentale esigenza ed insieme un
ammonimento: l'esigenza di un rapporto onesto nei riguardi
della verità, come condizione di un'autentica libertà; e
l'ammonimento, altresì, perché sia evitata qualsiasi libertà
apparente, ogni libertà superficiale e unilaterale, ogni
libertà che non penetri tutta la verità sull'uomo e sul
mondo. Anche oggi, dopo duemila anni, il Cristo appare a noi
come Colui che porta all'uomo la libertà basata sulla verità,
come Colui che libera l'uomo da ciò che limita, menoma e
quasi spezza alle radici stesse, nell'anima dell'uomo, nel suo
cuore, nella sua coscienza, questa libertà »: Lett. enc. Redemptor
hominis (4 marzo 1979), 12: AAS 71 (1979), 280-281.
(107) Discorso di apertura
del Concilio (11 ottobre 1962): AAS 54 (1962), 792.
(108) Congr. per la
Dottrina della Fede, Istr. sulla vocazione ecclesiale del
teologo Donum veritatis (24 maggio 1990), 7-8: AAS 82
(1990), 1552-1553.
(109) Ho scritto
nell'Enciclica Dominum et vivificantem, commentando Gv
16, 12-13: « Gesù presenta il Consolatore, lo Spirito di
verità, come colui che “insegnerà” e “ricorderà”,
come colui che gli “renderà testimonianza”; ora dice:
“Egli vi guiderà alla verità tutta intera”. Questo
“guidare alla verità tutta intera”, in riferimento a ciò
di cui gli Apostoli “per il momento non sono capaci di
portare il peso”, è in necessario collegamento con lo
spogliamento di Cristo per mezzo della passione e morte di
croce, che allora, quando pronunciava queste parole, era ormai
imminente. In seguito, tuttavia, diventa chiaro che quel
“guidare alla verità tutta intera” si ricollega, oltre
che allo scandalum Crucis, anche a tutto ciò che
Cristo “fece ed insegnò” (At 1, 1). Infatti, il mysterium
Christi nella sua globalità esige la fede, poiché è
questa che introduce opportunamente l'uomo nella realtà del
mistero rivelato. Il “guidare alla verità tutta intera”
si realizza, dunque, nella fede e mediante la fede: il che è
opera dello Spirito di verità ed è frutto della sua azione
nell'uomo. Lo Spirito Santo deve essere in questo la suprema
guida dell'uomo, la luce dello spirito umano »: n. 6: AAS 78
(1986), 815-816.
(110)
Cfr Conc. Ecum. Vat. II,
Cost. dogm. sulla divina Rivelazione Dei Verbum, 13.
(111) Cfr Pontificia
Commissione Biblica, Istr. sulla verità storica dei Vangeli
(21 aprile 1964): AAS 56 (1964), 713.
(112) « E chiaro che la
Chiesa non può essere legata ad un qualunque sistema
filosofico effimero; ma quelle nozioni e quei termini, che con
generale consenso furono composti attraverso parecchi secoli
dai dottori cattolici per arrivare a qualche conoscenza e
comprensione del dogma senza dubbio non poggiano su di un
fondamento così caduco. Si appoggiano invece a principi e
nozioni dettate da una vera conoscenza del creato; e nel
dedurre queste conoscenze, la verità rivelata, come una
stella, ha illuminato, per mezzo della Chiesa, la mente umana.
Perciò non c'è da meravigliarsi se qualcuna di queste
nozioni non solo sia stata adoperata in Concili Ecumenici, ma
vi abbia ricevuto tale sanzione per cui non ci è lecito
allontanarcene »: Lett. enc. Humani generis (12 agosto
1950): AAS 42 (1950), 566-567; cfr Commissione
Teologica Internazionale, Doc. Interpretationis problema (ottobre
1989): Ench. Vat. 11, nn. 2717-2811.
(113) « Quanto al
significato stesso delle formule dogmatiche, esso nella Chiesa
rimane sempre vero e coerente, anche quando è maggiormente
chiarito e meglio compreso. Devono, quindi, i fedeli rifuggire
dall'opinione la quale ritiene che le formule dogmatiche (o
qualche categoria di esse) non possono manifestare la verità
determinatamente, ma solo delle sue approssimazioni cangianti
che sono, in certa maniera, deformazioni e alterazioni della
medesima »: S. Congr. per la Dottrina della Fede, Dich. sulla
difesa della dottrina cattolica circa la Chiesa, Mysterium
Ecclesiae (24 giugno 1973), 5: AAS 65 (1973), 403.
(114) Cfr Congr. S.
Officii, Decr. Lamentabili (3 luglio 1907), 26: ASS 40
(1907), 473.
(115) Cfr Giovanni Paolo
II, Discorso al Pontificio Ateneo « Angelicum » (17 novembre
1979), 6: Insegnamenti, II, 2 (1979), 1183-1185.
(116) N. 32: AAS 85
(1993), 1159-1160.
(117) Cfr Giovanni Paolo
II, Esort. ap. Catechesi tradendae (16 ottobre 1979),
30: AAS 71 (1979), 1302-1303; Congr. per la Dottrina
della Fede, Istr. sulla vocazione ecclesiale del teologo Donum
veritatis (24 maggio 1990), 7: AAS 82 (1990),
1552-1553.
(118) Cfr Giovanni Paolo
II, Esort. ap. Catechesi tradendae (16 ottobre 1979),
30: AAS 71 (1979), 1302-1303.
(119)
Cfr ibid., 22, l. c., 1295-1296.
(120)
Cfr ibid., 7, l. c., 1282.
(121)
Cfr ibid., 59, l. c., 1325.
(122) Conc. Ecum. Vat. I,
Cost. dogm. sulla fede cattolica Dei Filius, IV: DS 3019.
(123) « Nessuno può fare
della teologia quasi che fosse una semplice raccolta dei
propri concetti personali; ma ognuno deve essere consapevole
di rimanere in stretta unione con quella missione di insegnare
la verità, di cui è responsabile la Chiesa »: Giovanni
Paolo II, Lett. enc. Redemptor hominis (4 marzo 1979),
19: AAS 71 (1979), 308.
(124) Cfr Conc. Ecum. Vat.
II, Dich. sulla libertà religiosa Dignitatis humanae,
1-3.
(125) Cfr Esort. ap. Evangelii
nuntiandi (8 dicembre 1975), 20: AAS 68 (1976),
18-19.
(126) Cost. past sulla
Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 92.
(127) Cfr ibid.,
10.
(128) Prologus, 4:
Opera omnia, Firenze 1891, t. V, 296.
(129)
Cfr Conc. Ecum. Vat. II,
Decr. sulla formazione sacerdotale Optatam totius, 15.
(130) Cfr Giovanni Paolo
II, Cost. ap. Sapientia christiana (15 aprile 1979),
artt. 67-68: AAS 71 (1979), 491-492.
(131) Giovanni Paolo II,
Discorso all'Università di Cracovia per il 600o anniversario
dell'Alma Mater Jagellonica (8 giugno 1997), 4: L'Osservatore
Romano, 9-10 giugno 1997, p. 12.
(132) « 'e noerà tes písteos
tràpeza »: Omelia in lode di Santa Maria Madre di Dio,
dello pseudo Epifanio: PG 43, 493.
|