LETTERA
ENCICLICA
VERITATIS
SPLENDOR
DEL SOMMO PONTEFICE
GIOVANNI PAOLO II
A TUTTI I VESCOVI DELLA CHIESA CATTOLICA
CIRCA ALCUNE QUESTIONI FONDAMENTALI
DELL'INSEGNAMENTO MORALE DELLA CHIESA
Venerati Fratelli nell'Episcopato,
salute e Apostolica Benedizione!
Lo splendore della verità rifulge
in tutte le opere del Creatore e, in modo particolare, nell'uomo
creato a immagine e somiglianza di Dio (cf Gn 1,26): la verità
illumina l'intelligenza e informa la libertà dell'uomo, che in tal
modo viene guidato a conoscere e ad amare il Signore. Per questo il
salmista prega: « Risplenda su di noi, Signore, la luce del tuo volto
» (Sal 4,7).
INTRODUZIONE
Gesù Cristo, luce vera che
illumina ogni uomo
1. Chiamati alla salvezza mediante
la fede in Gesù Cristo, « luce vera che illumina ogni uomo » (Gv
1,9), gli uomini diventano « luce nel Signore » e « figli della
luce » (Ef 5,8) e si santificano con « l'obbedienza alla
verità » (1 Pt 1,22).
Questa obbedienza non è sempre
facile. In seguito a quel misterioso peccato d'origine, commesso per
istigazione di Satana, che è « menzognero e padre della menzogna »
(Gv 8,44), l'uomo è permanentemente tentato di distogliere il
suo sguardo dal Dio vivo e vero per volgerlo agli idoli (cf 1 Ts 1,9),
cambiando « la verità di Dio con la menzogna » (Rm 1,25);
viene allora offuscata anche la sua capacità di conoscere la verità
e indebolita la sua volontà di sottomettersi ad essa. E così,
abbandonandosi al relativismo e allo scetticismo (cf. Gv 18,
38), egli va alla ricerca di una illusoria libertà al di fuori della
stessa verità.
Ma nessuna tenebra di errore e di
peccato può eliminare totalmente nell'uomo la luce di Dio Creatore.
Nella profondità del suo cuore permane sempre la nostalgia della
verità assoluta e la sete di giungere alla pienezza della sua
conoscenza. Ne è prova eloquente l'inesausta ricerca dell'uomo in
ogni campo e in ogni settore. Lo prova ancor più la sua ricerca sul senso
della vita. Lo sviluppo della scienza e della tecnica, splendida
testimonianza delle capacità dell'intelligenza e della tenacia degli
uomini, non dispensa dagli interrogativi religiosi ultimi l'umanità,
ma piuttosto la stimola ad affrontare le lotte più dolorose e
decisive, quelle del cuore e della coscienza morale.
2. Ogni uomo non può sfuggire
alle domande fondamentali: Che cosa devo fare? Come discernere il
bene dal male? La risposta è possibile solo grazie allo splendore
della verità che rifulge nell'intimo dello spirito umano, come
attesta il salmista: « Molti dicono: "Chi ci farà vedere il
bene?". Risplenda su di noi, Signore, la luce del tuo volto » (Sal
4,7).
La luce del volto di Dio splende
in tutta la sua bellezza sul volto di Gesù Cristo, « immagine del
Dio invisibile » (Col 1,15), « irradiazione della sua gloria
» (Eb 1,3), « pieno di grazia e di verità » (Gv
1,14): Egli è « la via, la verità e la vita » (Gv 14,6).
Per questo la risposta decisiva ad ogni interrogativo dell'uomo, in
particolare ai suoi interrogativi religiosi e morali, è data da Gesù
Cristo, anzi è Gesù Cristo stesso, come ricorda il Concilio Vaticano
II: « In realtà, solamente nel mistero del Verbo incarnato trova
vera luce il mistero dell'uomo. Adamo, infatti, il primo uomo, era
figura di quello futuro, e cioè di Cristo Signore. Cristo, che è il
nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore,
svela anche pienamente l'uomo all'uomo e gli fa nota la sua altissima
vocazione ».1
Gesù Cristo, « la luce delle
genti », illumina il volto della sua Chiesa, che Egli manda in tutto
il mondo ad annunciare il Vangelo ad ogni creatura (cf Mc 16,15).2
Così la Chiesa, Popolo di Dio in mezzo alle nazioni,3 mentre è
attenta alle nuove sfide della storia e agli sforzi che gli uomini
compiono nella ricerca del senso della vita, offre a tutti la risposta
che viene dalla verità di Gesù Cristo e del suo Vangelo. È sempre
viva nella Chiesa la coscienza del suo « dovere permanente di
scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo,
così che, in un modo adatto a ciascuna generazione, possa rispondere
ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e
futura e sul loro reciproco rapporto ».4
3. I Pastori della Chiesa, in
comunione col Successore di Pietro, sono vicini ai fedeli in questo
sforzo, li accompagnano e li guidano con il loro magistero, trovando
accenti sempre nuovi di amore e di misericordia per rivolgersi non
solo ai credenti, ma a tutti gli uomini di buona volontà. Il Concilio
Vaticano II rimane una testimonianza straordinaria di questo
atteggiamento della Chiesa che, « esperta in umanità »,5 si pone al
servizio di ogni uomo e di tutto il mondo.6
La Chiesa sa che l'istanza morale
raggiunge in profondità ogni uomo, coinvolge tutti, anche coloro che
non conoscono Cristo e il suo Vangelo e neppure Dio. Sa che proprio sulla
strada della vita morale è aperta a tutti la via della salvezza, come
ha chiaramente ricordato il Concilio Vaticano II, che così scrive: «
Quelli che senza colpa ignorano il Vangelo di Cristo e la sua Chiesa,
e tuttavia cercano sinceramente Dio, e sotto l'influsso della grazia
si sforzano di compiere con le opere la volontà di Dio, conosciuta
attraverso il dettame della coscienza, possono conseguire la salvezza
eterna ». Ed aggiunge: « Né la divina Provvidenza nega gli aiuti
necessari alla salvezza a coloro che senza colpa da parte loro non
sono ancora arrivati a una conoscenza esplicita di Dio, e si sforzano,
non senza la grazia divina, di condurre una vita retta. Poiché tutto
ciò che di buono e di vero si trova in loro, è ritenuto dalla Chiesa
come una preparazione al Vangelo, e come dato da Colui che illumina
ogni uomo, affinché abbia finalmente la vita ».7
L'oggetto della presente
Enciclica
4. Sempre, ma soprattutto nel
corso degli ultimi due secoli, i Sommi Pontefici sia personalmente che
insieme al Collegio episcopale hanno sviluppato e proposto un
insegnamento morale relativo ai molteplici e differenti ambiti della
vita umana. In nome e con l'autorità di Gesù Cristo, essi hanno
esortato, denunciato, spiegato; in fedeltà alla loro missione, nelle
lotte in favore dell'uomo, hanno confermato, sostenuto, consolato; con
la garanzia dell'assistenza dello Spirito di verità hanno contribuito
ad una migliore comprensione delle esigenze morali negli ambiti della
sessualità umana, della famiglia, della vita sociale, economica e
politica. Il loro insegnamento costituisce, all'interno della
tradizione della Chiesa e della storia dell'umanità, un continuo
approfondimento della conoscenza morale.8
Oggi, però, sembra necessario
riflettere sull'insieme dell'insegnamento morale della Chiesa, con
lo scopo preciso di richiamare alcune verità fondamentali della
dottrina cattolica che nell'attuale contesto rischiano di essere
deformate o negate. Si è determinata, infatti, una nuova
situazione entro la stessa comunità cristiana, che ha conosciuto
il diffondersi di molteplici dubbi ed obiezioni, di ordine umano e
psicologico, sociale e culturale, religioso ed anche propriamente
teologico, in merito agli insegnamenti morali della Chiesa. Non si
tratta più di contestazioni parziali e occasionali, ma di una messa
in discussione globale e sistematica del patrimonio morale, basata su
determinate concezioni antropologiche ed etiche. Alla loro radice sta
l'influsso più o meno nascosto di correnti di pensiero che finiscono
per sradicare la libertà umana dal suo essenziale e costitutivo
rapporto con la verità. Così si respinge la dottrina tradizionale
sulla legge naturale, sull'universalità e sulla permanente validità
dei suoi precetti; si considerano semplicemente inaccettabili alcuni
insegnamenti morali della Chiesa; si ritiene che lo stesso Magistero
possa intervenire in materia morale solo per « esortare le coscienze
» e per « proporre i valori », ai quali ciascuno ispirerà poi
autonomamente le decisioni e le scelte della vita.
È da rilevare, in special modo,
la dissonanza tra la risposta tradizionale della Chiesa e alcune
posizioni teologiche, diffuse anche in Seminari e Facoltà
teologiche, circa questioni della massima importanza per la
Chiesa e la vita di fede dei cristiani, nonché per la stessa
convivenza umana. In particolare ci si chiede: i comandamenti di Dio,
che sono scritti nel cuore dell'uomo e fanno parte dell'Alleanza,
hanno davvero la capacità di illuminare le scelte quotidiane delle
singole persone e delle società intere? È possibile obbedire a Dio e
quindi amare Dio e il prossimo, senza rispettare in tutte le
circostanze questi comandamenti? È anche diffusa l'opinione che mette
in dubbio il nesso intrinseco e inscindibile che unisce tra loro la
fede e la morale, quasi che solo in rapporto alla fede si debbano
decidere l'appartenenza alla Chiesa e la sua unità interna, mentre si
potrebbe tollerare nell'ambito morale un pluralismo di opinioni e di
comportamenti, lasciati al giudizio della coscienza soggettiva
individuale o alla diversità dei contesti sociali e culturali.
5. In un tale contesto, tuttora
attuale, è maturata in me la decisione di scrivere — come già
annunciai nella Lettera apostolica Spiritus Domini, pubblicata
il 1o agosto 1987 in occasione del secondo centenario della morte di
sant'Alfonso Maria de' Liguori — un'Enciclica destinata a trattare
« più ampiamente e più profondamente le questioni riguardanti i
fondamenti stessi della teologia morale »,9 fondamenti che vengono
intaccati da alcune tendenze odierne.
Mi rivolgo a voi, venerati
Fratelli nell'Episcopato, che condividete con me la responsabilità di
custodire la « sana dottrina » (2 Tm 4,3), con l'intenzione
di precisare taluni aspetti dottrinali che risultano decisivi per
far fronte a quella che è senza dubbio una vera crisi, tanto
gravi sono le difficoltà che ne conseguono per la vita morale dei
fedeli e per la comunione nella Chiesa, come pure per un'esistenza
sociale giusta e solidale.
Se questa Enciclica, da tanto
tempo attesa, viene pubblicata solo ora, lo è anche perché è
apparso conveniente farla precedere dal Catechismo della Chiesa
Cattolica, il quale contiene un'esposizione completa e sistematica
della dottrina morale cristiana. Il Catechismo presenta la vita morale
dei credenti nei suoi fondamenti e nei suoi molteplici contenuti come
vita dei « figli di Dio »: « Riconoscendo nella fede la loro nuova
dignità, i cristiani sono chiamati a comportarsi ormai "da
cittadini degni del Vangelo" (Fil 1,27). Mediante i
sacramenti e la preghiera, essi ricevono la grazia di Cristo e i doni
del suo Spirito, che li rendono capaci di questa vita nuova ».10 Nel
rimandare pertanto al Catechismo « come testo di riferimento sicuro
ed autorevole per l'insegnamento della dottrina cattolica »,11
l'Enciclica si limiterà ad affrontare alcune questioni
fondamentali dell'insegnamento morale della Chiesa, sotto forma di
un necessario discernimento su problemi controversi tra gli studiosi
dell'etica e della teologia morale. È questo l'oggetto specifico
della presente Enciclica, che intende esporre, sui problemi discussi,
le ragioni di un insegnamento morale fondato nella Sacra Scrittura e
nella viva Tradizione apostolica 12 mettendo in luce, nello stesso
tempo, i presupposti e le conseguenze delle contestazioni di cui tale
insegnamento è fatto segno.
CAPITOLO I
«
MAESTRO, CHE COSA DEVO FARE DI BUONO...? »
(MT 19,16)
Cristo
e la risposta alla domanda di morale
« Un tale gli si avvicinò...
» (Mt 19,16)
6. Il dialogo di Gesù con il
giovane ricco, riferito nel capitolo 19 del Vangelo di san Matteo,
può costituire un'utile traccia per riascoltare in modo vivo e
incisivo il suo insegnamento morale: « Ed ecco un tale gli si
avvicinò e gli disse: "Maestro, che cosa devo fare di buono per
ottenere la vita eterna?". Egli rispose: "Perché mi
interroghi su ciò che è buono? Uno solo è buono. Se vuoi entrare
nella vita, osserva i comandamenti". Ed egli chiese:
"Quali?". Gesù rispose: "Non uccidere, non commettere
adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, onora il padre e la
madre, ama il prossimo tuo come te stesso. Il giovane gli disse:
"Ho sempre osservato tutte queste cose; che mi manca
ancora?". Gli disse Gesù: "Se vuoi essere perfetto, va',
vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel
cielo; poi vieni e seguimi" » (Mt 19,16-21).13
7. « Ed ecco un tale... ».
Nel giovane, che il Vangelo di Matteo non nomina, possiamo riconoscere
ogni uomo che, coscientemente o no, si avvicina a Cristo,
Redentore dell'uomo, e gli pone la domanda morale. Per il giovane,
prima che una domanda sulle regole da osservare, è una domanda di
pienezza di significato per la vita. E, in effetti, è questa
l'aspirazione che sta al cuore di ogni decisione e di ogni azione
umana, la segreta ricerca e l'intimo impulso che muove la libertà.
Questa domanda è ultimamente un appello al Bene assoluto che ci
attrae e ci chiama a sé, è l'eco di una vocazione di Dio, origine e
fine della vita dell'uomo. Proprio in questa prospettiva il Concilio
Vaticano II ha invitato a perfezionare la teologia morale in modo che
la sua esposizione illustri l'altissima vocazione che i fedeli hanno
ricevuto in Cristo,14 unica risposta che appaga pienamente il
desiderio del cuore umano.
Perché gli uomini possano
realizzare questo « incontro » con Cristo, Dio ha voluto la sua
Chiesa. Essa, infatti, «
desidera servire quest'unico fine: che ogni uomo possa ritrovare
Cristo, perché Cristo possa, con ciascuno, percorrere la strada della
vita ».15
« Maestro, che cosa devo
fare di buono per ottenere la vita eterna? » (Mt
19,16)
8. Dalla profondità del cuore
sorge la domanda che il giovane ricco rivolge a Gesù di Nazaret, una
domanda essenziale e ineludibile per la vita di ogni uomo: essa
riguarda, infatti, il bene morale da praticare e la vita eterna.
L'interlocutore di Gesù intuisce che esiste una connessione tra il
bene morale e il pieno compimento del proprio destino. Egli è un pio
israelita, cresciuto per così dire all'ombra della Legge del Signore.
Se pone questa domanda a Gesù, possiamo immaginare che non lo faccia
perché ignora la risposta contenuta nella Legge. È più probabile
che il fascino della persona di Gesù abbia fatto sorgere in lui nuovi
interrogativi intorno al bene morale. Egli sente l'esigenza di
confrontarsi con Colui che aveva iniziato la sua predicazione con
questo nuovo e decisivo annuncio: « Il tempo è compiuto e il Regno
di Dio è vicino; convertitevi e credete al Vangelo » (Mc
1,15).
Occorre che l'uomo di oggi si
volga nuovamente verso Cristo per avere da Lui la risposta su ciò che
è bene e ciò che è male. Egli
è il Maestro, il Risorto che ha in sé la vita e che è sempre
presente nella sua Chiesa e nel mondo. È Lui che schiude ai fedeli il
libro delle Scritture e, rivelando pienamente la volontà del Padre,
insegna la verità sull'agire morale. Alla sorgente e al vertice
dell'economia della salvezza, Alfa e Omega della storia umana (cf Ap
1,8; 21,6; 22,13), Cristo rivela la condizione dell'uomo e la sua
vocazione integrale. Per questo, « l'uomo che vuol comprendere se
stesso fino in fondo non soltanto secondo immediati, parziali, spesso
superficiali, e perfino apparenti criteri e misure del proprio essere
deve, con la sua inquietudine e incertezza ed anche con la sua
debolezza e peccaminosità, con la sua vita e morte, avvicinarsi a
Cristo. Egli deve, per così dire, entrare in Lui con tutto se stesso,
deve "appropriarsi" ed assimilare tutta la realtà
dell'Incarnazione e della Redenzione per ritrovare se stesso. Se in
lui si attua questo profondo processo, allora egli produce frutti non
soltanto di adorazione di Dio, ma anche di profonda meraviglia di se
stesso ».16
Se vogliamo dunque penetrare nel
cuore della morale evangelica e coglierne il contenuto profondo e
immutabile, dobbiamo ricercare accuratamente il senso
dell'interrogativo posto dal giovane ricco del Vangelo e, più ancora,
il senso della risposta di Gesù, lasciandoci guidare da Lui. Gesù,
infatti, con delicata attenzione pedagogica, risponde conducendo il
giovane quasi per mano, passo dopo passo, verso la verità piena.
« Uno solo è buono » (Mt
19,17)
9. Gesù dice: « Perché mi
interroghi su ciò che è buono? Uno solo è buono. Se vuoi entrare
nella vita, osserva i comandamenti » (Mt 19, 17). Nella
versione degli evangelisti Marco e Luca la domanda viene così
formulata: « Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio
solo » (Mc 10,18; cf Lc 18,19).
Prima di rispondere alla domanda,
Gesù vuole che il giovane chiarisca a se stesso il motivo per cui lo
interroga. Il « Maestro buono » indica al suo interlocutore — e a
tutti noi — che la risposta all'interrogativo: « Che cosa devo fare
di buono per ottenere la vita eterna? », può essere trovata soltanto
rivolgendo la mente e il cuore a Colui che « solo è buono »: «
Nessuno è buono, se non Dio solo » (Mc 10,18; cf Lc 18,19).
Solo Dio può rispondere alla domanda sul bene, perché Egli è il
Bene.
Interrogarsi sul bene,
in effetti, significa rivolgersi in ultima analisi verso Dio,
pienezza della bontà. Gesù mostra che la domanda del giovane è in
realtà una domanda religiosa e che la bontà, che attrae e al
tempo stesso vincola l'uomo, ha la sua fonte in Dio, anzi è Dio
stesso, Colui che solo è degno di essere amato « con tutto il cuore,
con tutta l'anima e con tutta la mente » (Mt 22,37), Colui che
è la sorgente della felicità dell'uomo. Gesù riporta la questione
dell'azione moralmente buona alle sue radici religiose, al
riconoscimento di Dio, unica bontà, pienezza della vita, termine
ultimo dell'agire umano, felicità perfetta.
10. La Chiesa, istruita dalle
parole del Maestro, crede che l'uomo, fatto a immagine del Creatore,
redento con il sangue di Cristo e santificato dalla presenza dello
Spirito Santo, ha come fine ultimo della sua vita l'essere
« a lode della gloria » di Dio (cf Ef 1,12), facendo sì
che ognuna delle sue azioni ne rifletta lo splendore. « Conosci
dunque te stessa, o anima bella: tu sei l'immagine di Dio —
scrive sant'Ambrogio —. Conosci te stesso, o uomo: tu sei la
gloria di Dio (1 Cor 11,7). Ascolta in che modo ne sei la
gloria. Dice il profeta: La tua scienza è divenuta mirabile
provenendo da me (Sal 1381,6), cioè: nella mia opera la
tua maestà è più ammirabile, la tua sapienza viene esaltata nella
mente dell'uomo. Mentre considero me stesso, che tu scruti nei segreti
pensieri e negli intimi sentimenti, io riconosco i misteri della tua
scienza. Conosci dunque te stesso, o uomo, quanto grande tu sei e
vigila su di te... ».17
Ciò che l'uomo è e deve fare
si manifesta nel momento in cui Dio rivela se stesso. Il
Decalogo, infatti, si fonda su queste parole: « Io sono il Signore,
tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla condizione
di schiavitù: non avrai altri dèi di fronte a me » (Es 20,2-3).
Nelle « dieci parole » dell'Alleanza con Israele, e in tutta la
Legge, Dio si fa conoscere e riconoscere come Colui che « solo è
buono »; come Colui che, nonostante il peccato dell'uomo, continua a
rimanere il « modello » dell'agire morale, secondo la sua stessa
chiamata: « Siate santi, perché io, il Signore, Dio vostro, sono
santo » (Lv 19,2); come Colui che, fedele al suo amore per
l'uomo, gli dona la sua Legge (cf Es 19,9-24 e 20, 18-21), per
ristabilire l'originaria armonia col Creatore e con tutto il creato,
ed ancor più per introdurlo nel suo amore: « Camminerò in mezzo a
voi, sarò il vostro Dio e voi sarete il mio popolo » (Lv 26,12).
La vita morale si presenta come
risposta dovuta alle
iniziative gratuite che l'amore di Dio moltiplica nei confronti
dell'uomo. È una risposta d'amore, secondo l'enunciato che del
comandamento fondamentale fa il Deuteronomio: « Ascolta,
Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo: Tu
amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima e con
tutte le forze. Questi precetti, che oggi ti do, ti stiano fissi nel
cuore; li ripeterai ai tuoi figli » (Dt 6,47). Così, la vita
morale, coinvolta nella gratuità dell'amore di Dio, è chiamata a
rifletterne la gloria: « Per chi ama Dio è sufficiente piacere a
Colui che egli ama: poiché non deve ricercarsi nessun'altra
ricompensa maggiore dello stesso amore; la carità, infatti, proviene
da Dio in maniera tale che Dio stesso è carità ».18
11. L'affermazione che « uno solo
è buono » ci rimanda così alla « prima tavola » dei comandamenti,
che chiama a riconoscere Dio come Signore unico e assoluto e a rendere
culto a Lui solo a motivo della sua infinita santità (cf Es 20,2-11).
Il bene è appartenere a Dio, obbedire a Lui, camminare
umilmente con Lui praticando la giustizia e amando la pietà (cf Mic
6,8). Riconoscere il Signore come Dio è il nucleo
fondamentale, il cuore della Legge, da cui discendono e a cui sono
ordinati i precetti particolari. Mediante la morale dei comandamenti
si manifesta l'appartenenza del popolo di Israele al Signore, perché
Dio solo è Colui che è buono. Questa è la testimonianza della Sacra
Scrittura, in ogni sua pagina permeata dalla viva percezione
dell'assoluta santità di Dio: « Santo, santo, santo è il Signore
degli eserciti » (Is 6,3).
Ma se Dio solo è il Bene, nessuno
sforzo umano, neppure l'osservanza più rigorosa dei comandamenti,
riesce a « compiere » la Legge, cioè a riconoscere il Signore come
Dio e a rendergli l'adorazione che a Lui solo è dovuta (cf Mt 4,10).
Il « compimento » può venire solo da un dono di Dio: è
l'offerta di una partecipazione alla Bontà divina che si rivela e si
comunica in Gesù, colui che il giovane ricco chiama con le parole «
Maestro buono » (Mc 10,17; Lc 18,18). Ciò che ora il
giovane riesce forse solo a intuire, verrà alla fine pienamente
rivelato da Gesù stesso nell'invito: « Vieni e seguimi » (Mt 19,21).
« Se vuoi entrare nella
vita, osserva i comandamenti »
(Mt 19,17)
12. Solo Dio può rispondere alla
domanda sul bene, perché Egli è il Bene. Ma Dio ha già dato
risposta a questa domanda: lo ha fatto creando l'uomo e ordinandolo
con sapienza e con amore al suo fine, mediante la legge inscritta
nel suo cuore (cf Rm 2,15), la « legge naturale ». Questa «
altro non è che la luce dell'intelligenza infusa in noi da Dio.
Grazie ad essa conosciamo ciò che si deve compiere e ciò che si deve
evitare. Questa luce e questa legge Dio l'ha donata nella creazione ».19
Lo ha fatto poi nella storia di Israele, in particolare con le
« dieci parole », ossia con i comandamenti del Sinai, mediante
i quali Egli ha fondato l'esistenza del popolo dell'Alleanza (cf Es
24) e l'ha chiamato ad essere la sua « proprietà tra tutti i
popoli », « una nazione santa » (Es 19,56), che facesse
risplendere la sua santità tra tutte le genti (cf Sap 18,4; Ez
20,41). Il dono del Decalogo è promessa e segno dell'Alleanza
Nuova, quando la legge sarà nuovamente e definitivamente scritta
nel cuore dell'uomo (cf Ger 31, 31-34), sostituendosi alla
legge del peccato, che quel cuore aveva deturpato (cf Ger 17,1).
Allora verrà donato « un cuore nuovo » perché in esso abiterà «
uno spirito nuovo », lo Spirito di Dio (cf Ez 36,24-28).20
Per questo, dopo l'importante
precisazione: « Uno solo è buono », Gesù risponde al giovane: «
Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti » (Mt 19,17).
Viene in tal modo enunciato uno stretto legame tra la vita eterna e
l'obbedienza ai comandamenti di Dio: sono i comandamenti di Dio
che indicano all'uomo la via della vita e ad essa conducono. Dalla
bocca stessa di Gesù, nuovo Mosè, vengono ridonati agli uomini i
comandamenti del Decalogo; egli stesso li conferma definitivamente e
li propone a noi come via e condizione di salvezza. Il comandamento
si lega a una promessa: nella Alleanza Antica oggetto della
promessa era il possesso di una terra in cui il popolo avrebbe potuto
condurre un'esistenza nella libertà e secondo giustizia (cf Dt 6,20-25);
nella Alleanza Nuova oggetto della promessa è il « Regno dei cieli
», come Gesù afferma all'inizio del « Discorso della Montagna »
— discorso che contiene la formulazione più ampia e completa della
Legge Nuova (cf Mt 5-7) —, in evidente connessione con il
Decalogo affidato da Dio a Mosè sul monte Sinai. Alla medesima realtà
del Regno fa riferimento l'espressione « vita eterna », che è
partecipazione alla vita stessa di Dio: essa si realizza nella sua
perfezione solo dopo la morte, ma nella fede è già fin d'ora luce di
verità, sorgente di senso per la vita, incipiente partecipazione ad
una pienezza nella sequela di Cristo. Dice, infatti, Gesù ai
discepoli dopo l'incontro con il giovane ricco: « Chiunque avrà
lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o
campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità
la vita eterna » (Mt 19,29).
13. La risposta di Gesù non basta
al giovane, che insiste interrogando il Maestro circa i comandamenti
da osservare: « Ed egli chiese: "Quali?" » (Mt 19,18).
Chiede che cosa deve fare nella vita per rendere manifesto il
riconoscimento della santità di Dio. Dopo aver orientato lo sguardo
del giovane verso Dio, Gesù gli ricorda i comandamenti del Decalogo
che riguardano il prossimo: « Gesù rispose: "Non uccidere, non
commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, onora il
padre e la madre, ama il prossimo tuo come te stesso » (Mt 19,18-19).
Dal contesto del colloquio e,
specialmente, dal confronto del testo di Matteo con i passi paralleli
di Marco e di Luca, risulta che Gesù non intende elencare tutti e
singoli i comandamenti necessari per « entrare nella vita », ma,
piuttosto, rimandare il giovane alla centralità del Decalogo rispetto
ad ogni altro precetto, quale interpretazione di ciò che per l'uomo
significa « Io sono il Signore, Dio tuo ». Non può sfuggire,
comunque, alla nostra attenzione quali comandamenti della Legge il
Signore Gesù ricorda al giovane: sono alcuni comandamenti che
appartengono alla cosiddetta « seconda tavola » del Decalogo, di cui
compendio (cf Rm 13,8-10) e fondamento è il comandamento
dell'amore del prossimo: « Ama il prossimo tuo come te stesso »
(Mt 19,19; cf Mc 12,31). In questo comandamento si
esprime precisamente la singolare dignità della persona umana,
la quale è « la sola creatura che Dio abbia voluto per se stessa ».21
I diversi comandamenti del Decalogo non sono in effetti che la
rifrazione dell'unico comandamento riguardante il bene della persona,
a livello dei molteplici beni che connotano la sua identità di essere
spirituale e corporeo, in relazione con Dio, col prossimo e col mondo
delle cose. Come leggiamo nel Catechismo della Chiesa Cattolica, «
i dieci comandamenti appartengono alla rivelazione di Dio. Al tempo
stesso ci insegnano la vera umanità dell'uomo. Mettono in luce i
doveri essenziali e, quindi, indirettamente, i diritti fondamentali
inerenti alla natura della persona umana ».22
I comandamenti, ricordati da Gesù
al giovane interlocutore, sono destinati a tutelare il bene della
persona, immagine di Dio, mediante la protezione dei suoi beni. «
Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare
il falso » sono regole morali formulate in termini di divieto. I
precetti negativi esprimono con particolare forza l'esigenza
insopprimibile di proteggere la vita umana, la comunione delle persone
nel matrimonio, la proprietà privata, la veridicità e la buona fama.
I comandamenti rappresentano,
quindi, la condizione di base per l'amore del prossimo; essi ne sono
al contempo la verifica. Sono la prima tappa necessaria nel cammino
verso la libertà, il suo inizio: « La prima libertà — scrive
sant'Agostino — consiste nell'essere esenti da crimini... come
sarebbero l'omicidio, l'adulterio, la fornicazione, il furto, la
frode, il sacrilegio e così via. Quando uno comincia a non avere
questi crimini (e nessun cristiano deve averli), comincia a levare il
capo verso la libertà, ma questo non è che l'inizio della libertà,
non la libertà perfetta... ».23
14. Ciò non significa, certo, che
Gesù intenda dare la precedenza all'amore del prossimo o addirittura
separarlo dall'amore di Dio. Lo testimonia il suo dialogo col dottore
della Legge: questi, che pone una domanda molto simile a quella del
giovane, si sente rimandato da Gesù ai due comandamenti dell'amore
di Dio e dell'amore del prossimo (cf Lc 10, 25-27) e
invitato a ricordare che solo la loro osservanza conduce alla vita
eterna: « Fa' questo e vivrai » (Lc 10,28). È comunque
significativo che sia proprio il secondo di questi comandamenti a
suscitare la curiosità e l'interrogativo del dottore della Legge: «
Chi è il mio prossimo? » (Lc 10,29). Il Maestro risponde con
la parabola del buon Samaritano, la parabola-chiave per la piena
comprensione del comandamento dell'amore del prossimo (cf Lc 10,30-37).
I due comandamenti, dai quali «
dipende tutta la Legge e i Profeti » (Mt 22,40), sono
profondamente uniti tra loro e si compenetrano reciprocamente. La
loro unità inscindibile è testimoniata da Gesù con le parole e
con la vita: la sua missione culmina nella Croce che redime (cf Gv 3,14-15),
segno del suo indivisibile amore al Padre e all'umanità (cf Gv 13,1).
Sia l'Antico che il Nuovo
Testamento sono espliciti nell'affermare che senza l'amore per il
prossimo, che si concretizza nell'osservanza dei comandamenti, non
è possibile l'autentico amore per Dio. Lo scrive con vigore
straordinario san Giovanni: « Se uno dicesse: "Io amo Dio",
e odiasse il suo fratello, è un mentitore. Chi, infatti, non ama il
proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede » (1 Gv
4,20). L'evangelista fa eco alla predicazione morale di Cristo,
espressa in modo mirabile e inequivocabile nella parabola del buon
Samaritano (cf Lc 10, 19-37) e nel « discorso » sul giudizio
finale (cf Mt 25,31-46).
15. Nel « Discorso della Montagna
», che costituisce la magna charta della morale evangelica,24
Gesù dice: « Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i
Profeti; non sono venuto per abolire, ma per dare compimento » (Mt
5,17). Cristo è la chiave delle Scritture: « Voi scrutate le
Scritture: esse parlano di me » (cf Gv 5,39); è il centro
dell'economia della salvezza, la ricapitolazione dell'Antico e del
Nuovo Testamento, delle promesse della Legge e del loro compimento nel
Vangelo; è il legame vivente ed eterno tra l'Antica e la Nuova
Alleanza. Commentando l'affermazione di Paolo « Il termine della
legge è Cristo » (Rm 10,4), sant'Ambrogio scrive: « Fine non
in quanto mancanza, ma in quanto pienezza della legge: questa si
compie in Cristo (plenitudo legis in Christo est), dal momento
che Egli è venuto non a dissolvere la legge, ma a portarla a
compimento. Allo stesso modo in cui c'è un Testamento Antico, ma ogni
verità sta all'interno del Nuovo Testamento, così avviene per la
legge: quella che è stata data per mezzo di Mosè è figura della
vera legge. Dunque, quella legge mosaica è copia della verità ».25
Gesù porta a compimento i
comandamenti di Dio, in
particolare il comandamento dell'amore del prossimo, interiorizzando
e radicalizzando le sue esigenze: l'amore del prossimo scaturisce
da un cuore che ama, e che, proprio perché ama, è disposto a
vivere le esigenze più alte. Gesù mostra che i comandamenti
non devono essere intesi come un limite minimo da non oltrepassare, ma
piuttosto come una strada aperta per un cammino morale e spirituale di
perfezione, la cui anima è l'amore (cf Col 3,14). Così il
comandamento « Non uccidere » diventa l'appello ad un amore
sollecito che tutela e promuove la vita del prossimo; il precetto che
vieta l'adulterio diventa l'invito ad uno sguardo puro, capace di
rispettare il significato sponsale del corpo: « Avete inteso che fu
detto agli antichi: Non uccidere; chi avrà ucciso sarà
sottoposto a giudizio. Ma io vi dico: chiunque si adira con il
proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio... Avete inteso che fu
detto: Non commettere adulterio; ma io vi dico: chiunque
guarda ad una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con
lei nel suo cuore » (Mt 5,21-22.27-28). È Gesù stesso il
« compimento » vivo della Legge in quanto egli ne realizza il
significato autentico con il dono totale di sé: diventa Lui stesso
Legge vivente e personale, che invita alla sua sequela, dà
mediante lo Spirito la grazia di condividere la sua stessa vita e il
suo stesso amore e offre l'energia per testimoniarlo nelle scelte e
nelle opere (cf Gv 13,34-35).
« Se vuoi essere perfetto
» (Mt 19,21)
16. La risposta sui comandamenti
non soddisfa il giovane, che interroga Gesù: « Ho sempre osservato
tutte queste cose; che cosa mi manca ancora? » (Mt 19,20).
Non è facile dire con buona coscienza: « ho sempre osservato tutte
queste cose », se appena si comprende l'effettiva portata delle
esigenze racchiuse nella Legge di Dio. E tuttavia, se anche gli è
possibile dare una simile risposta, se anche ha seguito l'ideale
morale con serietà e generosità fin dalla fanciullezza, il giovane
ricco sa di essere ancora lontano dalla meta: davanti alla persona di
Gesù avverte che qualcosa ancora gli manca. È alla consapevolezza di
questa insufficienza che si rivolge Gesù nella sua ultima risposta:
cogliendo la nostalgia per una pienezza che superi
l'interpretazione legalistica dei comandamenti, il Maestro buono
invita il giovane ad entrare nella strada della perfezione: «
Se vuoi essere perfetto, va', vendi quello che possiedi, dallo ai
poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi » (Mt
19,21).
Come già il precedente passo
della risposta di Gesù, così anche questo deve essere letto e
interpretato nel contesto di tutto il messaggio morale del Vangelo e,
specialmente, nel contesto del Discorso della Montagna, delle
beatitudini (cf Mt 5,3-12), la prima delle quali è proprio la
beatitudine dei poveri, dei « poveri in spirito », come precisa san
Matteo (Mt 5,3), ossia degli umili. In tal senso si può dire
che anche le beatitudini rientrano nello spazio aperto dalla risposta
che Gesù dà all'interrogativo del giovane: « Che cosa devo fare di
buono per ottenere la vita eterna? ». Infatti, ogni beatitudine
promette, secondo una particolare prospettiva, proprio quel « bene »
che apre l'uomo alla vita eterna, anzi che è la stessa vita eterna.
Le beatitudini non
hanno propriamente come oggetto delle norme particolari di
comportamento, ma parlano di atteggiamenti e di disposizioni di fondo
dell'esistenza e quindi non coincidono esattamente con i
comandamenti. D'altra parte, non c'è separazione o estraneità
tra le beatitudini e i comandamenti: ambedue si riferiscono al
bene, alla vita eterna. Il Discorso della Montagna inizia con
l'annuncio delle beatitudini, ma contiene anche il riferimento ai
comandamenti (cf Mt 5,20-48). Nello stesso tempo, tale Discorso
mostra l'apertura e l'orientamento dei comandamenti alla prospettiva
della perfezione che è propria delle beatitudini. Queste sono,
anzitutto, promesse, da cui derivano in forma indiretta anche indicazioni
normative per la vita morale. Nella loro profondità originale
sono una specie di autoritratto di Cristo e, proprio per
questo, sono inviti alla sua sequela e alla comunione di vita con
Lui.26
17. Non sappiamo quanto il giovane
del Vangelo abbia compreso il profondo ed esigente contenuto della
prima risposta data da Gesù: « Se vuoi entrare nella vita, osserva i
comandamenti »; è certo, però, che l'impegno manifestato dal
giovane nel rispetto di tutte le esigenze morali dei comandamenti
costituisce l'indispensabile terreno sul quale può germogliare e
maturare il desiderio della perfezione, cioè della realizzazione del
loro significato compiuto nella sequela di Cristo. Il colloquio di Gesù
con il giovane ci aiuta a cogliere le condizioni per la crescita
morale dell'uomo chiamato alla perfezione: il giovane, che ha
osservato tutti i comandamenti, si dimostra incapace con le sole sue
forze di fare il passo successivo. Per farlo occorrono una libertà
umana matura: « Se vuoi », e il dono divino della grazia: « Vieni e
seguimi ».
La perfezione esige quella
maturità nel dono di sé, a cui è chiamata la libertà dell'uomo. Gesù
indica al giovane i comandamenti come la prima condizione
irrinunciabile per avere la vita eterna; l'abbandono di tutto ciò che
il giovane possiede e la sequela del Signore assumono invece il
carattere di una proposta: « Se vuoi... ». La parola di Gesù rivela
la particolare dinamica della crescita della libertà verso la sua
maturità e, nello stesso tempo, attesta il fondamentale rapporto
della libertà con la legge divina. La libertà dell'uomo e la
legge di Dio non si oppongono, ma, al contrario, si richiamano a
vicenda. Il discepolo di Cristo sa che la sua è una vocazione alla
libertà. « Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà »
(Gal 5,13), proclama con gioia e fierezza l'apostolo Paolo.
Subito però precisa: « Purché questa libertà non divenga pretesto
per vivere secondo la carne, ma mediante la carità siate a servizio
gli uni degli altri » (ibid.). La fermezza con la quale
l'Apostolo si oppone a chi affida la propria giustificazione alla
Legge, non ha nulla da spartire con la « liberazione » dell'uomo dai
precetti, i quali al contrario sono al servizio della pratica
dell'amore: « Perché chi ama il suo simile ha adempiuto la legge.
Infatti il precetto: Non commettere adulterio, non uccidere, non
rubare, non desiderare e qualsiasi altro comandamento, si riassume
in queste parole: Amerai il prossimo tuo come te stesso » (Rm
13,8-9). Lo stesso sant'Agostino, dopo aver parlato
dell'osservanza dei comandamenti come della prima imperfetta libertà,
così prosegue: « Perché, domanderà qualcuno, non ancora perfetta?
Perché "sento nelle mie membra un'altra legge in conflitto con
la legge della mia ragione"... Libertà parziale, parziale
schiavitù: non ancora completa, non ancora pura, non ancora piena è
la libertà, perché ancora non siamo nell'eternità. In parte
conserviamo la debolezza, e in parte abbiamo raggiunto la libertà.
Tutti i nostri peccati nel battesimo sono stati distrutti, ma è forse
scomparsa la debolezza, dopo che è stata distrutta l'iniquità? Se
essa fosse scomparsa, si vivrebbe in terra senza peccato. Chi oserà
affermare questo se non chi è superbo, se non chi è indegno della
misericordia del liberatore?... Ora siccome è rimasta in noi qualche
debolezza, oso dire che nella misura in cui serviamo Dio siamo liberi,
mentre nella misura in cui seguiamo la legge del peccato siamo schiavi
».27
18. Chi vive « secondo la carne
» sente la legge di Dio come un peso, anzi come una negazione o
comunque una restrizione della propria libertà. Chi, invece, è
animato dall'amore e « cammi- na secondo lo Spirito » (Gal 5,16)
e desidera servire gli altri trova nella legge di Dio la via
fondamentale e necessaria per praticare l'amore liberamente scelto e
vissuto. Anzi, egli avverte l'urgenza interiore — una vera e propria
« necessità », e non già una costrizione — di non fermarsi alle
esigenze minime della legge, ma di viverle nella loro « pienezza ».
È un cammino ancora incerto e fragile fin che siamo sulla terra, ma
reso possibile dalla grazia che ci dona di possedere la piena libertà
dei figli di Dio (cf Rm 8, 21) e quindi di rispondere nella
vita morale alla sublime vocazione di essere « figli nel Figlio ».
Questa vocazione all'amore
perfetto non è riservata solo ad una cerchia di persone. L'invito «
va', vendi quello che possiedi, dàllo ai poveri » con la promessa «
avrai un tesoro nel cielo »riguarda tutti, perché è una
radicalizzazione del comandamento dell'amore del prossimo, come il
successivo invito « vieni e seguimi » è la nuova forma concreta del
comandamento dell'amore di Dio. I comandamenti e l'invito di Gesù al
giovane ricco sono al servizio di un'unica e indivisibile carità, che
spontaneamente tende alla perfezione, la cui misura è Dio solo: «
Siate voi dunque perfetti, come è perfetto il Padre vostro celeste »
(Mt 5,48). Nel Vangelo di Luca Gesù precisa ulteriormente il
senso di questa perfezione: « Siate misericordiosi, come è
misericordioso il Padre vostro » (Lc 6,36).
« Vieni e seguimi »
(Mt 19,21)
19. La via e, nello stesso tempo,
il contenuto di questa perfezione consiste nella sequela Christi, nel
seguire Gesù, dopo aver rinunciato ai propri beni e a se stessi.
Proprio questa è la conclusione del colloquio di Gesù con il
giovane: « Poi vieni e seguimi » (Mt 19,21). È un invito la
cui meravigliosa profondità sarà pienamente percepita dai discepoli
dopo la risurrezione di Cristo, quando lo Spirito Santo li guiderà
alla verità tutta intera (cf Gv 16,13).
È Gesù stesso che prende
l'iniziativa e chiama a seguirlo. L'appello è rivolto innanzi tutto a
coloro ai quali egli affida una particolare missione, a cominciare dai
Dodici; ma appare anche chiaro che essere discepoli di Cristo è la
condizione di ogni credente (cf At 6,1). Per questo, seguire
Cristo è il fondamento essenziale e originale della morale cristiana:
come il popolo d'Israele seguiva Dio che lo conduceva nel deserto
verso la Terra promessa (cf Es 13,21), così il discepolo deve
seguire Gesù, verso il quale il Padre stesso lo attira (cf Gv
6,44).
Non si tratta qui soltanto di
mettersi in ascolto di un insegnamento e di accogliere nell'obbedienza
un comandamento. Si tratta, più radicalmente, di aderire alla
persona stessa di Gesù, di condividere la sua vita e il suo
destino, di partecipare alla sua obbedienza libera e amorosa alla
volontà del Padre. Seguendo, mediante la risposta della fede, colui
che è la Sapienza incarnata, il discepolo di Gesù diventa veramente discepolo
di Dio (cf Gv 6,45). Gesù, infatti, è la luce del mondo,
la luce della vita (cf Gv 8,12); è il pastore che guida e
nutre le pecore (cf Gv 10,11-16), è la via, la verità e la
vita (cf Gv 14,6), è colui che conduce al Padre, al punto che
vedere lui, il Figlio, è vedere il Padre (cf Gv 14,6-10).
Pertanto imitare il Figlio, « l'immagine del Dio invisibile » (Col
1,15), significa imitare il Padre.
20. Gesù chiede di seguirlo e
di imitarlo sulla strada dell'amore, di un amore che si dona
totalmente ai fratelli per amore di Dio: « Questo è il mio
comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho
amati » (Gv 15,12). Questo « come » esige l'imitazione di
Gesù, del suo amore di cui la lavanda dei piedi è segno: « Se
dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche
voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato infatti
l'esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi » (Gv
13,14-15). L'agire di Gesù e la sua parola, le sue azioni e i
suoi precetti costituiscono la regola morale della vita cristiana.
Infatti, queste sue azioni e, in modo particolare, la passione e la
morte in croce, sono la viva rivelazione del suo amore per il Padre e
per gli uomini. Proprio questo amore Gesù chiede che sia imitato da
quanti lo seguono. Esso è il comandamento « nuovo »: « Vi
do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io
vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo
tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per
gli altri » (Gv 13,34-35).
Questo « come » indica anche la misura
con la quale Gesù ha amato, e con la quale devono amarsi tra loro
i suoi discepoli. Dopo aver detto: « Questo è il mio comandamento:
che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati » (Gv 15,12),
Gesù prosegue con le parole che indicano il dono sacrificale della
sua vita sulla croce, quale testimonianza di un amore « sino alla
fine » (Gv 13,1): « Nessuno ha un amore più grande di
questo: dare la vita per i propri amici » (Gv 15,13).
Chiamando il giovane a seguirlo
sulla strada della perfezione, Gesù gli chiede di essere perfetto nel
comandamento dell'amore, nel « suo » comandamento: di inserirsi nel
movimento della sua donazione totale, di imitare e di rivivere l'amore
stesso del Maestro « buono », di colui che ha amato « sino alla
fine ». È quanto Gesù chiede ad ogni uomo che vuole mettersi alla
sua sequela: « Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se
stesso, prenda la sua croce e mi segua » (Mt 16,24).
21. Seguire Cristo non è
una imitazione esteriore, perché tocca l'uomo nella sua profonda
interiorità. Essere discepoli di Gesù significa essere resi
conformi a Lui, che si è fatto servo fino al dono di sé sulla
croce (cf Fil 2,5-8). Mediante la fede, Cristo abita nel cuore
del credente (cf Ef 3,17), e così il discepolo è assimilato
al suo Signore e a Lui configurato. Questo è frutto della grazia, della
presenza operante dello Spirito Santo in noi.
Inserito in Cristo, il cristiano
diventa membro del suo Corpo, che è la Chiesa (cf 1 Cor 12,13.27).
Sotto l'impulso dello Spirito, il Battesimo configura radicalmente il
fedele a Cristo nel mistero pasquale della morte e risurrezione, lo «
riveste » di Cristo (cf Gal 3,27): « Rallegriamoci e
ringraziamo — esclama sant'Agostino rivolgendosi ai battezzati —:
siamo diventati non solo cristiani, ma Cristo (...). Stupite e gioite:
Cristo siamo diventati! ».28 Morto al peccato, il battezzato riceve
la vita nuova (cf Rm 6,3-11): vivente per Dio in Cristo Gesù,
è chiamato a camminare secondo lo Spirito e a manifestarne nella vita
i frutti (cf Gal 5,16-25). La partecipazione poi
all'Eucaristia, sacramento della Nuova Alleanza (cf 1 Cor 11,23-29),
è vertice dell'assimilazione a Cristo, fonte di « vita eterna » (cf
Gv 6,51-58), principio e forza del dono totale di sé, di cui
Gesù secondo la testimonianza tramandata da Paolo comanda di far
memoria nella celebrazione e nella vita: « Ogni volta che mangiate di
questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la morte del
Signore finché egli venga » (1 Cor 11,26).
« A Dio tutto è possibile
» (Mt 19,26)
22. Amara è la conclusione del
colloquio di Gesù con il giovane ricco: « Udito questo, il giovane
se ne andò triste; poiché aveva molte ricchezze » (Mt 19,22).
Non solo l'uomo ricco, ma anche gli stessi discepoli sono spaventati
dall'appello di Gesù alla sequela, le cui esigenze superano le
aspirazioni e le forze umane: « A queste parole i discepoli rimasero
costernati e chiesero: "Chi si potrà dunque salvare?" » (Mt
19,25). Ma il Maestro rimanda alla potenza di Dio: «
Questo è impossibile agli uomini, ma a Dio tutto è possibile » (Mt
19,26).
Nel medesimo capitolo del Vangelo
di Matteo (19,3-10), Gesù, interpretando la Legge mosaica sul
matrimonio, rifiuta il diritto al ripudio, richiamando ad un «
principio » più originario e più autorevole rispetto alla Legge di
Mosè: il disegno nativo di Dio sull'uomo, un disegno al quale l'uomo
dopo il peccato è diventato inadeguato: « Per la durezza del vostro
cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli, ma da
principio non fu così » (Mt 19,8). Il richiamo al «
principio » sgomenta i discepoli, che commentano con queste parole:
« Se questa è la condizione dell'uomo rispetto alla donna, non
conviene sposarsi » (Mt 19,10). E Gesù, riferendosi in modo
specifico al carisma del celibato « per il Regno dei cieli » (Mt 19,12),
ma enunciando una regola generale, rimanda alla nuova e sorprendente
possibilità aperta all'uomo dalla grazia di Dio: « Egli rispose
loro: "Non tutti possono capirlo, ma solo coloro ai quali è
stato concesso" » (Mt 19,11).
Imitare e rivivere l'amore di
Cristo non è possibile all'uomo con le sole sue forze. Egli diventa capace
di questo amore soltanto in virtù di un dono ricevuto. Come il
Signore Gesù riceve l'amore del Padre suo, così egli a sua volta lo
comunica gratuitamente ai discepoli: « Come il Padre ha amato me, così
anch'io ho amato voi. Rimanete nel mio amore » (Gv 15,9). Il
dono di Cristo è il suo Spirito, il cui primo « frutto » (cf Gal
5,22) è la carità: « L'amore di Dio è stato riversato nei
nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo, che ci è stato dato » (Rm
5,5). Sant'Agostino si chiede: « È l'amore che ci fa osservare i
comandamenti, oppure è l'osservanza dei comandamenti che fa nascere
l'amore? ». E risponde: « Ma chi può mettere in dubbio che l'amore
precede l'osservanza? Chi infatti non ama è privo di motivazioni per
osservare i comandamenti ».29
23. « La legge dello Spirito che
dà vita in Cristo Gesù ti ha liberato dalla legge del peccato e
della morte » (Rm 8,2). Con queste parole l'apostolo Paolo ci
introduce a considerare nella prospettiva della storia della Salvezza
che si compie in Cristo il rapporto tra la Legge (antica) e
la grazia (Legge nuova). Egli riconosce il ruolo pedagogico della
Legge, la quale, permettendo all'uomo peccatore di misurare la sua
impotenza e togliendogli la presunzione dell'autosufficienza, lo apre
all'invocazione e all'accoglienza della « vita nello Spirito ». Solo
in questa vita nuova è possibile la pratica dei comandamenti di Dio.
Infatti, è per la fede in Cristo che noi siamo resi giusti (cf Rm 3,28):
la « giustizia » che la Legge esige, ma non può dare a nessuno,
ogni credente la trova manifestata e concessa dal Signore Gesù. Così
mirabilmente ancora sant'Agostino sintetizza la dialettica paolina di
legge e grazia: « La legge, perciò, è stata data perché si
invocasse la grazia; la grazia è stata data perché si osservasse la
legge ».30
L'amore e la vita secondo il
Vangelo non possono essere pensati prima di tutto nella forma del
precetto, perché ciò che essi domandano va al di là delle forze
dell'uomo: essi sono possibili solo come frutto di un dono di Dio, che
risana e guarisce e trasforma il cuore dell'uomo per mezzo della sua
grazia: « Perché la legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la
verità vennero per mezzo di Gesù Cristo » (Gv 1,17). Per
questo la promessa della vita eterna è legata al dono della grazia, e
il dono dello Spirito che abbiamo ricevuto è già « caparra della
nostra eredità » (Ef 1,14).
24. Si rivela così il volto
autentico e originale del comandamento dell'amore e della perfezione
alla quale esso è ordinato: si tratta di una possibilità aperta
all'uomo esclusivamente dalla grazia, dal dono di Dio, dal suo
amore. D'altra parte, proprio la coscienza di aver ricevuto il dono,
di possedere in Gesù Cristo l'amore di Dio, genera e sostiene la
risposta responsabile di un amore pieno verso Dio e tra i
fratelli, come con insistenza ricorda l'apostolo Giovanni nella sua
prima Lettera: « Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché
l'amore è da Dio: chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio. Chi
non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore... Carissimi, se
Dio ci ha amato, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri... Noi
amiamo, perché egli ci ha amati per primo » (1 Gv 4,7-8.11.19).
Questa connessione inscindibile
tra la grazia del Signore e la libertà dell'uomo, tra il dono e il
compito, è stata espressa in termini semplici e profondi da sant'Agostino,
che così prega: « Da quod iubes et iube quod vis » (dona ciò
che comandi e comanda ciò che vuoi).31
Il dono non diminuisce, ma
rafforza l'esigenza morale dell'amore: «
Questo è il suo comandamento: che crediamo nel nome del Figlio suo
Gesù Cristo e ci amiamo gli uni gli altri, secondo il precetto che ci
ha dato » (1 Gv 3,23). Si può « rimanere » nell'amore solo
a condizione di osservare i comandamenti, come afferma Gesù: « Se
osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho
osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore » (Gv
15,10).
Raccogliendo quanto è al cuore
del messaggio morale di Gesù e della predicazione degli Apostoli, e
riproponendo in una sintesi mirabile la grande tradizione dei Padri
d'Oriente e d'Occidente — in particolare di sant'Agostino — 32 san
Tommaso ha potuto scrivere che la Legge Nuova è la grazia
dello Spirito Santo donata mediante la fede in Cristo.33 I
precetti esterni, di cui pure il Vangelo parla, dispongono a questa
grazia o ne dispiegano gli effetti nella vita. Infatti, la Legge Nuova
non si contenta di dire ciò che si deve fare, ma dona anche la forza
di « fare la verità » (cf Gv 3,21). Nello stesso tempo san
Giovanni Crisostomo ha osservato che la Legge Nuova fu promulgata
proprio quando lo Spirito Santo discese dal cielo nel giorno di
Pentecoste e che gli Apostoli « non discesero dal monte portando,
come Mosè, delle tavole di pietra nelle loro mani; ma se ne venivano
portando lo Spirito Santo nei loro cuori..., divenuti mediante la sua
grazia una legge viva, un libro animato ».34
« Ecco, io sono con voi
tutti i giorni, sino alla fine del mondo »
(Mt 28,20)
25. Il colloquio di Gesù con il
giovane ricco continua, in un certo senso, in ogni epoca della
storia, anche oggi. La domanda: « Maestro, che cosa devo fare di
buono per ottenere la vita eterna? » sboccia nel cuore di ogni uomo,
ed è sempre e solo Cristo a offrire la risposta piena e risolutiva.
Il Maestro, che insegna i comandamenti di Dio, che invita alla sequela
e dà la grazia per una vita nuova, è sempre presente e operante in
mezzo a noi, secondo la promessa: « Ecco, io sono con voi tutti i
giorni, sino alla fine del mondo » (Mt 28,20). La
contemporaneità di Cristo all'uomo di ogni tempo si realizza nel suo
corpo, che è la Chiesa. Per questo il Signore promise ai suoi
discepoli lo Spirito Santo, che avrebbe loro « ricordato » e fatto
comprendere i suoi comandamenti (cf Gv 14,26) e sarebbe stato
il principio sorgivo di una vita nuova nel mondo (cf Gv 3,5-8; Rm
8,1-13).
Le prescrizioni morali, impartite
da Dio nell'Antica Alleanza e giunte alla loro perfezione in quella
Nuova ed Eterna nella persona stessa del Figlio di Dio fatto uomo,
devono essere fedelmente custodite e permanentemente attualizzate nelle
differenti culture lungo il corso della storia. Il compito della loro
interpretazione è stato affidato da Gesù agli Apostoli e ai loro
successori, con l'assistenza speciale dello Spirito di verità: « Chi
ascolta voi ascolta me » (Lc 10,16). Con la luce e la forza di
questo Spirito gli Apostoli hanno adempiuto la missione di predicare
il Vangelo e di indicare la « via » del Signore (cf At 18,25),
insegnando anzitutto la sequela e l'imitazione di Cristo: « Per me il
vivere è Cristo » (Fil 1,21).
26. Nella catechesi morale
degli Apostoli, accanto ad esortazioni e ad indicazioni legate al
contesto storico e culturale, c'è un insegnamento etico con precise
norme di comportamento. È quanto emerge nelle loro Lettere, che
contengono l'interpretazione, guidata dallo Spirito Santo, dei
precetti del Signore da vivere nelle diverse circostanze culturali (cf
Rm 12-15; 1 Cor 11-14; Gal 5-6; Ef 4-6; Col
3-4; 1 Pt e Gc). Incaricati di predicare il Vangelo,
gli Apostoli fin dalle origini della Chiesa, in virtù della loro
responsabilità pastorale, hanno vegliato sulla rettitudine della
condotta dei cristiani,35 allo stesso modo in cui hanno vegliato
sulla purezza della fede e sulla trasmissione dei doni divini mediante
i Sacramenti.36 I primi cristiani, provenienti sia dal popolo giudaico
sia dalle nazioni, differivano dai pagani non solo per la loro fede e
per la loro liturgia, ma anche per la testimonianza della loro
condotta morale, ispirata alla Legge Nuova.37 La Chiesa, infatti, è
insieme comunione di fede e di vita; la sua norma è « la fede che
opera per mezzo della carità » (Gal 5,6).
Nessuna lacerazione deve attentare
all'armonia tra la fede e la vita: l'unità della Chiesa è
ferita non solo dai cristiani che rifiutano o stravolgono le verità
della fede, ma anche da quelli che misconoscono gli obblighi morali a
cui li chiama il Vangelo (cf 1 Cor 5,9-13). Con decisione gli
Apostoli hanno rifiutato ogni dissociazione tra l'impegno del cuore e
i gesti che lo esprimono e verificano (cf 1 Gv 2,3-6). E fin
dai tempi apostolici i Pastori della Chiesa hanno denunciato con
chiarezza i modi di agire di coloro che erano fautori di divisione con
i loro insegnamenti o con i loro comportamenti.38
27. Promuovere e custodire,
nell'unità della Chiesa, la fede e la vita morale è il compito
affidato da Gesù agli Apostoli (cf Mt 28,19-20), che prosegue
nel ministero dei loro successori. È quanto si ritrova nella viva
Tradizione, mediante la quale — come insegna il Concilio
Vaticano II — « la Chiesa, nella sua dottrina, nella sua vita e nel
suo culto, perpetua e trasmette a tutte le generazioni tutto ciò che
essa è, tutto ciò che essa crede. Questa Tradizione, che trae
origine dagli Apostoli, progredisce nella Chiesa sotto l'assistenza
dello Spirito Santo ».39 Nello Spirito la Chiesa accoglie e trasmette
la Scrittura come testimonianza delle « grandi cose » che Dio opera
nella storia (cf Lc 1,49), confessa per bocca dei Padri e dei
Dottori la verità del Verbo fatto carne, ne mette in pratica i
precetti e la carità nella vita dei Santi e delle Sante e nel
sacrificio dei Martiri, ne celebra la speranza nella Liturgia:
mediante la stessa Tradizione i cristiani ricevono « la viva voce del
Vangelo »,40 come espressione fedele della sapienza e della volontà
divina.
All'interno della Tradizione si
sviluppa, con l'assistenza dello Spirito Santo, l'interpretazione
autentica della legge del Signore. Lo stesso Spirito, che è
all'origine della Rivelazione dei comandamenti e degli insegnamenti di
Gesù, garantisce che vengano santamente custoditi, fedelmente esposti
e correttamente applicati nel variare dei tempi e delle circostanze.
Questa « attualizzazione » dei comandamenti è segno e frutto di una
più profonda penetrazione della Rivelazione e di una comprensione
alla luce della fede delle nuove situazioni storiche e culturali.
Essa, tuttavia, non può che confermare la permanente validità della
Rivelazione e inserirsi nel solco dell'interpretazione che ne dà la
grande Tradizione di insegnamento e di vita della Chiesa, di cui sono
testimoni la dottrina dei Padri, la vita dei Santi, la liturgia della
Chiesa e l'insegnamento del Magistero.
In particolare, poi, come afferma
il Concilio, « l'ufficio d'interpretare autenticamente la parola
di Dio scritta o trasmessa è stato affidato al solo Magistero vivo
della Chiesa, la cui autorità è esercitata nel nome di Gesù Cristo ».41
In tal modo la Chiesa, nella sua vita e nel suo insegnamento, si
presenta come « colonna e sostegno della verità » (1 Tm 3,15),
anche della verità circa l'agire morale. Infatti, « è compito della
Chiesa annunziare sempre e dovunque i principi morali anche circa
l'ordine sociale, e così pure pronunciare il giudizio su qualsiasi
realtà umana, in quanto lo esigano i diritti fondamentali della
persona umana o la salvezza delle anime ».42
Proprio sulle domande che
caratterizzano oggi la discussione morale e intorno alle quali si sono
sviluppate nuove tendenze e teorie, il Magistero, in fedeltà a Gesù
Cristo e in continuità con la tradizione della Chiesa, sente più
urgente il dovere di offrire il proprio discernimento e insegnamento,
per aiutare l'uomo nel suo cammino verso la verità e la libertà.
CAPITOLO
II
«
NON CONFORMATEVI ALLA MENTALITÀ
DI QUESTO MONDO »
(Rm 12,2)
La
chiesa e il discernimento di alcune tendenze della teologia morale
odierna
Insegnare ciò che è
secondo la sana dottrina (cf
Tt 2,1)
28. La meditazione del dialogo tra
Gesù e il giovane ricco ci ha permesso di raccogliere i contenuti
essenziali della Rivelazione dell'Antico e del Nuovo Testamento circa
l'agire morale. Essi sono: la subordinazione dell'uomo e del suo
agire a Dio, Colui che « solo è buono »; il rapporto tra il
bene morale degli atti umani e la vita eterna; la sequela
di Cristo, che apre all'uomo la prospettiva dell'amore perfetto;
ed infine il dono dello Spirito Santo, fonte e risorsa della
vita morale della « creatura nuova » (cf 2 Cor 5,17).
Nella sua riflessione morale la
Chiesa ha sempre avuto presenti le parole che Gesù ha rivolto al
giovane ricco. La Sacra Scrittura, infatti, rimane la sorgente viva e
feconda della dottrina morale della Chiesa, come ha ricordato il
Concilio Vaticano II: « Il Vangelo 1... fonte di ogni verità
salutare e di ogni regola morale ».43 Essa ha custodito fedelmente ciò
che la parola di Dio insegna, non solo circa le verità da credere, ma
anche circa l'agire morale, cioè l'agire che piace a Dio (cf 1 Ts 4,1),
realizzando uno sviluppo dottrinale analogo a quello che si è
avuto nell'ambito delle verità della fede. Assistita dallo Spirito
Santo che la guida alla verità tutta intera (cf Gv 16,13), la
Chiesa non ha cessato, e non può mai cessare, di scrutare il «
mistero del Verbo incarnato », nel quale « trova vera luce il
mistero dell'uomo ».44
29. La riflessione morale della
Chiesa, operata sempre nella luce di Cristo, il « Maestro buono »,
si è sviluppata anche nella forma specifica della scienza teologica,
detta « teologia morale », una scienza che accoglie e
interroga la rivelazione divina e insieme risponde alle esigenze della
ragione umana. La teologia morale è una riflessione che riguarda la
« moralità », ossia il bene e il male degli atti umani e della
persona che li compie, e in tal senso è aperta a tutti gli uomini; ma
è anche « teologia », in quanto riconosce il principio e il fine
dell'agire morale in Colui che « solo è buono » e che, donandosi
all'uomo in Cristo, gli offre la beatitudine della vita divina.
Il Concilio Vaticano II ha
invitato gli studiosi a porre « speciale cura nel perfezionare la
teologia morale in modo che la sua esposizione scientifica,
maggiormente fondata sulla Sacra Scrittura, illustri l'altezza della
vocazione dei fedeli in Cristo e il loro obbligo di apportare frutto
nella carità per la vita del mondo ».45 Lo stesso Concilio ha
invitato i teologi, « nel rispetto dei metodi e delle esigenze
proprie della scienza teologica, a ricercare modi sempre più
adatti di comunicare la dottrina agli uomini della loro epoca,
perché altro è il deposito o le verità della fede, altro è il modo
con cui vengono enunciate, rimanendo pur sempre lo stesso il
significato e il senso profondo ».46 Di qui l'ulteriore invito,
esteso a tutti i fedeli, ma rivolto in particolare ai teologi: « I
fedeli dunque vivano in strettissima unione con gli uomini del loro
tempo, e si sforzino di penetrare perfettamente il loro modo di
pensare e di sentire, di cui la cultura è espressione ».47
Lo sforzo di molti teologi,
sostenuti dall'incoraggiamento del Concilio, ha già dato i suoi
frutti con interessanti e utili riflessioni intorno alle verità della
fede da credere e da applicare nella vita, presentate in forma più
corrispondente alla sensibilità e agli interrogativi degli uomini del
nostro tempo. La Chiesa e, in particolare, i Vescovi, ai quali Gesù
Cristo ha affidato innanzitutto il servizio dell'insegnamento,
accolgono con gratitudine tale sforzo ed incoraggiano i teologi a un
ulteriore lavoro, animato da un profondo e autentico timore del
Signore, che è il principio della sapienza (cf Prv 1,7).
Nello stesso tempo, nell'ambito
delle discussioni teologiche postconciliari si sono sviluppate però alcune
interpretazioni della morale cristiana che non sono compatibili con la
« sana dottrina » (2 Tm 4,3). Certamente il Magistero
della Chiesa non intende imporre ai fedeli nessun particolare sistema
teologico né tanto meno filosofico, ma, per « custodire santamente
ed esporre fedelmente » la Parola di Dio,48 esso ha il dovere di
dichiarare l'incompatibilità di certi orientamenti del pensiero
teologico o di talune affermazioni filosofiche con la verità
rivelata.49
30. Rivolgendomi con questa
Enciclica a voi, Confratelli nell'Episcopato, intendo enunciare i
principi necessari per il discernimento di ciò che è contrario alla
« sana dottrina », richiamando quegli elementi dell'insegnamento
morale della Chiesa che sembrano oggi particolarmente esposti
all'errore, all'ambiguità o alla dimenticanza. Sono, peraltro, gli
elementi dai quali dipende « la risposta agli oscuri enigmi della
condizione umana che ieri come oggi turbano profondamente il cuore
dell'uomo: la natura dell'uomo, il senso e il fine della nostra vita,
il bene e il peccato, l'origine e il fine del dolore, la via per
raggiungere la vera felicità, la morte, il giudizio e la sanzione
dopo la morte, infine l'ultimo e ineffabile mistero che circonda la
nostra esistenza, dal quale noi traiamo origine e verso il quale
tendiamo ».50
Questi e altri interrogativi,
come: cosa è la libertà e qual è la sua relazione con la verità
contenuta nella legge di Dio? qual è il ruolo della coscienza nella
formazione del profilo morale dell'uomo? come discernere, in conformità
con la verità sul bene, i diritti e i doveri concreti della persona
umana?, si possono riassumere nella fondamentale domanda che il
giovane del Vangelo pose a Gesù: « Maestro, che cosa devo fare di
buono per ottenere la vita eterna? ». Inviata da Gesù a predicare il
Vangelo e ad « ammae- strare tutte le nazioni..., insegnando loro ad
osservare tutto ciò » che egli ha comandato (cf Mt 28,19-20),la
Chiesa ripropone, ancora oggi, la risposta del Maestro: questa
possiede una luce e una forza capaci di risolvere anche le questioni
più discusse e complesse. Questa stessa luce e forza sollecitano la
Chiesa a sviluppare costantemente la riflessione non solo dogmatica,
ma anche morale in un ambito interdisciplinare, così com'è
necessario specialmente per i nuovi problemi.51
È sempre in questa medesima luce
e forza che il Magistero della Chiesa compie la sua opera di
discernimento, accogliendo e rivivendo il monito che l'apostolo
Paolo rivolgeva a Timoteo: « Ti scongiuro davanti a Dio e a Cristo
Gesù che verrà a giudicare i vivi e i morti, per la sua
manifestazione e il suo regno: annunzia la parola, insisti in ogni
occasione opportuna e non opportuna, ammonisci, rimprovera, esorta con
ogni magnanimità e dottrina. Verrà giorno, infatti, in cui non si
sopporterà più la sana dottrina, ma, per il prurito di udire
qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie
voglie, rifiutando di dare ascolto alla verità per volgersi alle
favole. Tu però vigila attentamente, sappi sopportare le sofferenze,
compi la tua opera di annunziatore del Vangelo, adempi il tuo
ministero » (2 Tm 4,1-5; cf Tt 1,10.13-14).
« Conoscerete la verità e
la verità vi farà liberi »
(Gv 8,32)
31. I problemi umani più
dibattuti e diversamente risolti nella riflessione morale
contemporanea si ricollegano, sia pure in vari modi, ad un problema
cruciale: quello della libertà dell'uomo.
Non c' è dubbio che il nostro
tempo ha acquisito una percezione particolarmente viva della libertà.
« In questa nostra età gli uomini diventano sempre più consapevoli
della dignità della persona umana », come costatava già la
dichiarazione conciliareDignitatis humanae sulla libertà
religiosa.52 Da qui l'esigenza che « gli uomini nell'agire seguano la
loro iniziativa e godano di una libertà responsabile, non mossi da
coercizione bensì guidati dalla coscienza del dovere ».53 In
particolare il diritto alla libertà religiosa e al rispetto della
coscienza nel suo cammino verso la verità è sentito sempre più come
fondamento dei diritti della persona, considerati nel loro insieme.54
Così, il senso più acuto della
dignità della persona umana e della sua unicità, come anche del
rispetto dovuto al cammino della coscienza, costituisce certamente
un'acquisizione positiva della cultura moderna. Questa percezione, in
se stessa autentica, ha trovato molteplici espressioni, più o meno
adeguate, di cui alcune però si discostano dalla verità sull'uomo
come creatura e immagine di Dio ed esigono pertanto di essere corrette
o purificate alla luce della fede.55
32. In alcune correnti del
pensiero moderno si è giunti adesaltare la libertà al punto da
farne un assoluto, che sarebbe la sorgente dei valori. In questa
direzione si muovono le dottrine che perdono il senso della
trascendenza o quelle che sono esplicitamente atee. Si sono attribuite
alla coscienza individuale le prerogative di un'istanza suprema del
giudizio morale, che decide categoricamente e infallibilmente del bene
e del male. All'affermazione del dovere di seguire la propria
coscienza si è indebitamente aggiunta l'affermazione che il giudizio
morale è vero per il fatto stesso che proviene dalla coscienza. Ma,
in tal modo, l'imprescindibile esigenza di verità è scomparsa, in
favore di un criterio di sincerità, di autenticità, di « accordo
con se stessi », tanto che si è giunti ad una concezione
radicalmente soggettivista del giudizio morale.
Come si può immediatamente
comprendere, non è estranea a questa evoluzione la crisi intorno
alla verità. Persa l'idea di una verità universale sul bene,
conoscibile dalla ragione umana, è inevitabilmente cambiata anche la
concezione della coscienza: questa non è più considerata nella sua
realtà originaria, ossia un atto dell'intelligenza della persona, cui
spetta di applicare la conoscenza universale del bene in una
determinata situazione e di esprimere così un giudizio sulla condotta
giusta da scegliere qui e ora; ci si è orientati a concedere alla
coscienza dell'individuo il privilegio di fissare, in modo autonomo, i
criteri del bene e del male e agire di conseguenza. Tale visione fa
tutt'uno con un'etica individualista, per la quale ciascuno si trova
confrontato con la sua verità, differente dalla verità degli
altri. Spinto alle estreme conseguenze, l'individualismo sfocia nella
negazione dell'idea stessa di natura umana.
Queste differenti concezioni sono
all'origine degli orientamenti di pensiero che sostengono l'antinomia
tra legge morale e coscienza, tra natura e libertà.
33. Parallelamente all'esaltazione
della libertà, e paradossalmente in contrasto con essa, la cultura
moderna mette radicalmente in questione questa medesima libertà. Un
insieme di discipline, raggruppate sotto il nome di « scienze umane
», hanno giustamente attirato l'attenzione sui condizionamenti di
ordine psicologico e sociale, che pesano sull'esercizio della libertà
umana. La conoscenza di tali condizionamenti e l'attenzione che viene
loro prestata sono acquisizioni importanti, che hanno trovato
applicazione in diversi ambiti dell'esistenza, come per esempio nella
pedagogia o nell'amministrazione della giustizia. Ma alcuni, superando
le conclusioni che si possono legittimamente trarre da queste
osservazioni, sono arrivati al punto di mettere in dubbio o di negare
la realtà stessa della libertà umana.
Si devono anche ricordare alcune
interpretazioni abusive dell'indagine scientifica a livello
antropologico. Traendo argomento dalla grande varietà dei costumi,
delle abitudini e delle istituzioni presenti nell'umanità, si
conclude, se non sempre con la negazione di valori umani universali,
almeno con una concezione relativistica della morale.
34. « Maestro, che cosa devo fare
di buono per ottenere la vita eterna? ». La domanda morale, alla
quale Cristo risponde, non può prescindere dalla questione della
libertà, anzi la colloca al suo centro, perché non si dà morale
senza libertà: « L'uomo può volgersi al bene soltanto nella libertà
».56 Ma quale libertà? Il Concilio, di fronte ai nostri
contemporanei che « tanto tengono » alla libertà e che la «
cercano ardentemente » ma che « spesso la coltivano in malo modo,
quasi sia lecito tutto purché piaccia, compreso il male », presenta la
« vera » libertà: « La vera libertà è nell'uomo segno
altissimo dell'immagine divina. Dio volle, infatti, lasciare
l'uomo "in mano al suo consiglio" (cf Sir 15,14), così
che esso cerchi spontaneamente il suo Creatore, e giunga liberamente,
con la adesione a lui, alla piena e beata perfezione ».57 Se esiste
il diritto di essere rispettati nel proprio cammino di ricerca della
verità, esiste ancor prima l'obbligo morale grave per ciascuno di
cercare la verità e di aderirvi una volta conosciuta.58 In tal senso
il Card. J. H. Newman, eminente assertore dei diritti della coscienza,
affermava con decisione: « La coscienza ha dei diritti perché ha dei
doveri ».59
Alcune tendenze della teologia
morale odierna, sotto l'influsso delle correnti soggettiviste ed
individualiste ora ricordate, interpretano in modo nuovo il rapporto
della libertà con la legge morale, con la natura umana e con la
coscienza, e propongono criteri innovativi di valutazione morale degli
atti: sono tendenze che, pur nella loro varietà, si ritrovano nel
fatto di indebolire o addirittura di negare la dipendenza della
libertà dalla verità.
Se vogliamo operare un
discernimento critico di queste tendenze, capace di riconoscere quanto
in esse vi è di legittimo, utile e prezioso e di indicarne, al tempo
stesso, le ambiguità, i pericoli e gli errori, dobbiamo esaminarle
alla luce della fondamentale dipendenza della libertà dalla verità,
dipendenza che è stata espressa nel modo più limpido e autorevole
dalle parole di Cristo: « Conoscerete la verità, e la verità vi farà
liberi » (Gv 8,32).
I. La libertà e la legge
« Dell'albero della
conoscenza del bene e del male non devi mangiare » (Gn
2,17)
35. Leggiamo nel libro della Genesi:
« Il Signore Dio diede questo comando all'uomo: "Tu potrai
mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell'albero della
conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu
ne mangiassi, certamente moriresti" » (Gn 2,16-17).
Con questa immagine, la
Rivelazione insegna che il potere di decidere del bene e del male
non appartiene all'uomo, ma a Dio solo. L'uomo è certamente
libero, dal momento che può comprendere ed accogliere i comandi di
Dio. Ed è in possesso d'una libertà quanto mai ampia, perché può
mangiare « di tutti gli alberi del giardino ». Ma questa libertà
non è illimitata: deve arrestarsi di fronte all'« albero della
conoscenza del bene e del male », essendo chiamata ad accettare la
legge morale che Dio dà all'uomo. In realtà, proprio in questa
accettazione la libertà dell'uomo trova la sua vera e piena
realizzazione. Dio, che solo è buono, conosce perfettamente ciò che
è buono per l'uomo, e in forza del suo stesso amore glielo propone
nei comandamenti.
La legge di Dio, dunque, non
attenua né tanto meno elimina la libertà dell'uomo, al contrario la
garantisce e la promuove. Ben diversamente però, alcune tendenze
culturali odierne sono all'origine di non pochi orientamenti etici che
pongono al centro del loro pensiero un presunto conflitto tra la
libertà e la legge. Tali sono le dottrine che attribuiscono ai
singoli individui o ai gruppi sociali la facoltà di decidere del
bene e del male: la libertà umana potrebbe « creare i valori »
e godrebbe di un primato sulla verità, al punto che la verità stessa
sarebbe considerata una creazione della libertà. Questa, dunque,
rivendicherebbe una tale autonomia morale che praticamente
significherebbe la sua sovranità assoluta.
36. L'istanza moderna di autonomia
non ha mancato di esercitare un suo influsso anche nell'ambito
della teologia morale cattolica. Se questa, certamente, non ha mai
inteso contrapporre la libertà umana alla legge divina, né mettere
in questione l'esistenza di un fondamento religioso ultimo delle norme
morali, è stata però provocata ad un profondo ripensamento del ruolo
della ragione e della fede nell'individuazione delle norme morali che
si riferiscono a specifici comportamenti « intramondani », ossia
verso se stessi, gli altri e il mondo delle cose.
Si deve riconoscere che
all'origine di questo sforzo di ripensamento si ritrovano alcune
istanze positive, che peraltro appartengono, in buona parte, alla
miglior tradizione del pensiero cattolico. Sollecitati dal Concilio
Vaticano II,60 si è voluto favorire il dialogo con la cultura
moderna, mettendo in luce il carattere razionale — quindi
universalmente comprensibile e comunicabile — delle norme morali
appartenenti all'ambito della legge morale naturale.61 Si è inteso,
inoltre, ribadire il carattere interiore delle esigenze etiche che da
essa derivano e che non si impongono alla volontà come un obbligo, se
non in forza del riconoscimento previo della ragione umana e, in
concreto, della coscienza personale.
Dimenticando però la dipendenza
della ragione umana dalla Sapienza divina e la necessità, nel
presente stato di natura decaduta, nonché l'effettiva realtà della
divina rivelazione per la conoscenza di verità morali anche di ordine
naturale,62 alcuni sono giunti a teorizzare una completa sovranità
della ragione nell'ambito delle norme morali relative al retto
ordinamento della vita in questo mondo: tali norme costituirebbero
l'ambito di una morale solamente « umana », sarebbero cioè
l'espressione di una legge che l'uomo autonomamente dà a se stesso e
che ha la sua sorgente esclusivamente nella ragione umana. Di questa
legge Dio non potrebbe essere considerato in nessun modo Autore, se
non nel senso che la ragione umana esercita la sua autonomia
legislativa in forza di un originario e totale mandato di Dio
all'uomo. Ora queste tendenze di pensiero hanno condotto a negare,
contro la Sacra Scrittura e la dottrina costante della Chiesa, che la
legge morale naturale abbia Dio come autore e che l'uomo, mediante la
sua ragione, partecipi alla legge eterna, che non è lui a stabilire.
37. Volendo però mantenere la
vita morale in un contesto cristiano, è stata introdotta da alcuni
teologi moralisti una netta distinzione, contraria alla dottrina
cattolica,63 tra un ordine etico, che avrebbe origine umana e
valore solo mondano, e un ordine della salvezza, per il
quale avrebbero rilevanza solo alcune intenzioni ed atteggiamenti
interiori circa Dio e il prossimo. Si è giunti conseguentemente al
punto di negare l'esistenza, nella rivelazione divina, di un contenuto
morale specifico e determinato, universalmente valido e permanente: la
Parola di Dio si limiterebbe a proporre un'esortazione, una generica
parenesi, che poi solo la ragione autonoma avrebbe il compito di
riempire di determinazioni normative veramente « oggettive », ossia
adeguate alla situazione storica concreta. Naturalmente un'autonomia
così concepita comporta anche la negazione di una competenza
dottrinale specifica da parte della Chiesa e del suo Magistero circa
norme morali determinate riguardanti il cosiddetto « bene umano »:
esse non apparterrebbero al contenuto proprio della Rivelazione e non
sarebbero in se stesse rilevanti in ordine alla salvezza.
Non vi è chi non veda che una
simile interpretazione dell'autonomia della ragione umana comporta
tesi incompatibili con la dottrina cattolica.
In un tale contesto è
assolutamente necessario chiarire, alla luce della Parola di Dio e
della viva tradizione della Chiesa, le fondamentali nozioni della
libertà umana e della legge morale, nonché i loro profondi e
interiori rapporti. Solo così sarà possibile corrispondere alle
giuste istanze della razionalità umana, integrando gli elementi
validi di alcune correnti dell'odierna teologia morale, senza
pregiudicare il patrimonio morale della Chiesa con tesi derivanti da
un erroneo concetto di autonomia.
Dio volle lasciare l'uomo «
in mano al suo consiglio » (Sir
15,14)
38. Riprendendo le parole del
Siracide, il Concilio Vaticano II così spiega la « vera libertà »
che nell'uomo è « segno altissimo dell'immagine divina »: « Dio
volle lasciare l'uomo "in mano al suo consiglio", così che
egli cerchi spontaneamente il suo Creatore, e giunga liberamente, con
l'adesione a Lui, alla piena e beata perfezione ».64 Queste parole
indicano la meravigliosa profondità della partecipazione alla
signoria divina, cui l'uomo è stato chiamato: indicano che il
dominio dell'uomo si estende, in un certo senso, sull'uomo stesso. È
questo un aspetto costantemente accentuato nella riflessione teologica
sulla libertà umana, interpretata nei termini di una forma di regalità.
Scrive, ad esempio, san Gregorio Nisseno: « L'animo manifesta la sua
regalità ed eccellenza... nel suo essere senza padrone e libero,
governandosi autocraticamente con il suo volere. Di chi altro questo
è proprio, se non del re?... Così la natura umana, creata per essere
padrona delle altre creature, per la somiglianza con il sovrano
dell'universo fu stabilita come una viva immagine, partecipe della
dignità e del nome dell'Archetipo ».65
Già il governare il mondo costituisce
per l'uomo un compito grande e colmo di responsabilità, che impegna
la sua libertà in obbedienza al Creatore: « Riempite la terra;
soggiogatela » (Gn 1,28). Sotto questo aspetto al singolo
uomo, come pure alla comunità umana, spetta una giusta autonomia,
alla quale la Costituzione conciliare Gaudium et spes dedica
una speciale attenzione. È l'autonomia delle realtà terrene, che
significa che « le cose create e le stesse società hanno leggi e
valori propri, che l'uomo gradatamente deve scoprire, usare e ordinare
».66
39. Non solo il mondo però, ma
anche l'uomo stesso è stato affidato alla sua propria cura e
responsabilità. Dio l'ha lasciato « in mano al suo consiglio »
(Sir 15,14), perché cercasse il suo Creatore e giungesse
liberamente alla perfezione. Giungere significa edificare
personalmente in sé tale perfezione. Infatti, come governando il
mondo l'uomo lo forma secondo la sua intelligenza e volontà, così
compiendo atti moralmente buoni l'uomo conferma, sviluppa e consolida
in se stesso la somiglianza di Dio.
Il Concilio, tuttavia, chiede
vigilanza di fronte a un falso concetto dell'autonomia delle realtà
terrene, quello di ritenere che « le cose create non dipendono da
Dio, e che l'uomo può adoperarle senza riferirle al Creatore ».67
Nei riguardi dell'uomo poi simile concetto di autonomia produce
effetti particolarmente dannosi, assumendo in ultima istanza un
carattere ateo: « La creatura, infatti, senza il Creatore svanisce...
Anzi, l'oblio di Dio priva di luce la creatura stessa ».68
40. L'insegnamento del Concilio
sottolinea, da un lato, l'attività della ragione umana nel
rinvenimento e nella applicazione della legge morale: la vita morale
esige la creatività e l'ingegnosità proprie della persona, sorgente
e causa dei suoi atti deliberati. D'altro lato, la ragione trae la sua
verità e la sua autorità dalla legge eterna, che non è altro che la
stessa sapienza divina.69 Alla base della vita morale sta dunque il
principio di una « giusta autonomia » 70 dell'uomo, soggetto
personale dei suoi atti. La legge morale proviene da Dio e trova
sempre in lui la sua sorgente: in forza della ragione naturale,
che deriva dalla sapienza divina, essa è, al tempo stesso, la
legge propria dell'uomo. La legge naturale infatti, come si è
visto, « altro non è che la luce dell'intelligenza infusa in noi da
Dio. Grazie ad essa conosciamo ciò che si deve compiere e ciò che si
deve evitare. Questa luce e questa legge Dio l'ha donata nella
creazione ».71 La giusta autonomia della ragione pratica significa
che l'uomo possiede in se stesso la propria legge, ricevuta dal
Creatore. Tuttavia, l'autonomia della ragione non può significare
la creazione, da parte della stessa ragione, dei valori e delle
norme morali.72 Se questa autonomia implicasse una negazione della
partecipazione della ragione pratica alla sapienza del Creatore e
Legislatore divino, oppure se suggerisse una libertà creatrice delle
norme morali, a seconda delle contingenze storiche o delle diverse
società e culture, una tale pretesa autonomia contraddirebbe
l'insegnamento della Chiesa sulla verità dell'uomo.73 Sarebbe la
morte della vera libertà: « Ma dell'albero della conoscenza del bene
e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi,
certamente moriresti » (Gn 2,17).
41. La vera autonomia morale dell'uomo
non significa affatto il rifiuto, bensì l'accoglienza della legge
morale, del comando di Dio: « Il Signore Dio diede questo comando
all'uomo... » (Gn 2,16). La libertà dell'uomo e la legge
di Dio s'incontrano e sono chiamate a compenetrarsi tra loro, nel
senso della libera obbedienza dell'uomo a Dio e della gratuita
benevolenza di Dio all'uomo. E pertanto l'obbedienza a Dio non è,
come taluni credono, un'eteronomia, come se la vita morale
fosse sottomessa alla volontà di un'onnipotenza assoluta, esterna
all'uomo e contraria all'affermazione della sua libertà. In realtà,
se eteronomia della morale significasse negazione
dell'autodeterminazione dell'uomo o imposizione di norme estranee al
suo bene, essa sarebbe in contraddizione con la rivelazione
dell'Alleanza e dell'Incarnazione redentrice. Una simile eteronomia
non sarebbe che una forma di alienazione, contraria alla sapienza
divina ed alla dignità della persona umana.
Alcuni parlano, a giusto titolo,
di teonomia, o di teonomia partecipata, perché la
libera obbedienza dell'uomo alla legge di Dio implica effettivamente
la partecipazione della ragione e della volontà umane alla sapienza e
alla provvidenza di Dio. Proibendo all'uomo di mangiare « dell'albero
della conoscenza del bene e del male », Dio afferma che l'uomo non
possiede originariamente in proprio questa « conoscenza », ma
solamente vi partecipa mediante la luce della ragione naturale e della
rivelazione divina, che gli manifestano le esigenze e gli appelli
della sapienza eterna. La legge quindi deve dirsi un'espressione della
sapienza divina: sottomettendosi ad essa, la libertà si sottomette
alla verità della creazione. Per questo occorre riconoscere nella
libertà della persona umana l'immagine e la vicinanza di Dio, che è
« presente in tutti » (cf Ef 4,6); allo stesso modo, bisogna
confessare la maestà del Dio dell'universo e venerare la santità
della legge di Dio infinitamente trascendente. Deus semper maior.74
Beato l'uomo che si compiace
della legge del Signore
(cf Sal 1,1-2)
42. Modellata su quella di Dio, la
libertà dell'uomo non solo non è negata dalla sua obbedienza alla
legge divina, ma soltanto mediante questa obbedienza essa permane
nella verità ed è conforme alla dignità dell'uomo, come scrive
apertamente il Concilio: « La dignità dell'uomo richiede che egli
agisca secondo scelte consapevoli e libere, mosso cioè e indotto da
convinzioni personali e non per un cieco impulso interno e per mera
coazione esterna. Ma tale dignità l'uomo la ottiene quando,
liberandosi da ogni schiavitù di passioni, tende al suo fine con
scelta libera del bene, e si procura da sé e con la sua diligente
iniziativa i mezzi convenienti ».75
Nel suo tendere a Dio, a Colui che
« solo è buono », l'uomo deve liberamente compiere il bene ed
evitare il male. Ma per questo l'uomo deve poter distinguere il
bene dal male. Ed è quanto avviene, anzitutto, grazie alla luce
della ragione naturale, riflesso nell'uomo dello splendore del volto
di Dio. In questo senso, commentando un versetto del Salmo 4, san
Tommaso scrive: « Dopo aver detto: Offrite sacrifici di giustizia (Sal
4,6), come se alcuni gli chiedessero quali sono le opere della
giustizia, il Salmista soggiunge: Molti dicono: Chi ci farà vedere
il bene? E, rispondendo alla domanda, dice: La luce del tuo
volto, Signore, è stata impressa su di noi. Come se volesse dire
che la luce della ragione naturale con la quale distinguiamo il bene
dal male — il che è di competenza della legge naturale — non è
altro che un'impronta in noi della luce divina ».76 Da ciò segue
anche per quale motivo questa legge è chiamata legge naturale: viene
detta così non in rapporto alla natura degli esseri irrazionali, ma
perché la ragione che la promulga è propria della natura umana.77
43. Il Concilio Vaticano II
ricorda che « norma suprema della vita umana è la legge divina,
eterna, oggettiva e universale, per mezzo della quale Dio con un
disegno di sapienza e di amore ordina, dirige e governa tutto il mondo
e le vie della comunità umana. E Dio rende partecipe l'uomo della sua
legge, cosicché l'uomo, per soave disposizione della provvidenza
divina, possa sempre più conoscere l'immutabile verità ».78
Il Concilio rimanda alla dottrina
classica sulla legge eterna di Dio. Sant'Agostino la definisce
come « la ragione o la volontà di Dio che comanda di conservare
l'ordine naturale e proibisce di turbarlo »; 79 san Tommaso la
identifica con « la ragione della divina sapienza che muove tutto al
fine dovuto ».80 E la sapienza di Dio è provvidenza, amore che si
prende cura. È Dio stesso, dunque, ad amare e a prendersi cura, nel
senso più letterale e fondamentale, di tutta la creazione (cf Sap 7,22;
8,11). Ma Dio provvede agli uomini in modo diverso rispetto agli
esseri che non sono persone: non « dall'esterno », attraverso le
leggi della natura fisica, ma « dal di dentro », mediante la ragione
che, conoscendo col lume naturale la legge eterna di Dio, è perciò
stesso in grado di indicare all'uomo la giusta direzione del suo
libero agire.81 In questo modo Dio chiama l'uomo a partecipare alla
sua provvidenza, volendo per mezzo dell'uomo stesso, ossia attraverso
la sua ragionevole e responsabile cura, guidare il mondo: non soltanto
il mondo della natura, ma anche quello delle persone umane. In questo
contesto, come espressione umana della legge eterna di Dio, si pone la
legge naturale: « Rispetto alle altre creature — scrive san
Tommaso — la creatura razionale è soggetta in un modo più
eccellente alla divina provvidenza, in quanto anche essa diventa
partecipe della provvidenza, provvedendo a se stessa e agli altri:
perciò si ha in essa una partecipazione della ragione eterna, grazie
alla quale ha una naturale inclinazione all'atto ed al fine dovuti:
tale partecipazione della legge eterna nella creatura razionale è
chiamata legge naturale ».82
44. La Chiesa ha fatto spesso
riferimento alla dottrina tomistica di legge naturale, assumendola nel
proprio insegnamento morale. Così il mio venerato predecessore Leone
XIII ha sottolineato l'essenziale subordinazione della ragione e
della legge umana alla Sapienza di Dio e alla sua legge. Dopo aver
detto che « la legge naturale è scritta e scolpita nell'animo di
tutti e di ciascun uomo, poiché essa non è altro che la stessa
ragione umana che ci comanda di fare il bene e ci intima di non
peccare », Leone XIII rimanda alla « ragione più alta » del
Legislatore divino: « Ma tale prescrizione della ragione umana non
potrebbe aver forza di legge, se non fosse la voce e l'interprete di
una ragione più alta, a cui il nostro spirito e la nostra libertà
devono essere sottomessi ». Infatti, la forza della legge risiede
nella sua autorità di imporre dei doveri, di conferire dei diritti e
di dare la sanzione a certi comportamenti: « Ora tutto ciò non
potrebbe esistere nell'uomo, se fosse egli stesso a darsi, quale
legislatore supremo, la norma delle sue azioni ». E conclude: « Ne
consegue che la legge naturale è la stessa legge eterna, insita
negli esseri dotati di ragione, che li inclina all'atto e al fine
che loro convengono; essa è la stessa ragione eterna del Creatore
e governatore dell'universo ».83
L'uomo può riconoscere il bene e
il male grazie a quel discernimento del bene dal male che egli stesso
opera mediante la sua ragione, in particolare mediante la sua ragione
illuminata dalla rivelazione divina e dalla fede, in forza della
legge che Dio ha donato al popolo eletto, a cominciare dai
comandamenti del Sinai. Israele è stato chiamato a ricevere e a
vivere la legge di Dio come particolare dono e segno
dell'elezione e dell'Alleanza divina, ed insieme come garanzia
della benedizione di Dio. Così Mosè poteva rivolgersi ai figli di
Israele e chiedere loro: « Quale grande nazione ha la divinità così
vicina a sé, come il Signore nostro Dio è vicino a noi ogni volta
che lo invochiamo? E quale grande nazione ha leggi e norme giuste,
come è tutta questa legislazione che io oggi vi espongo? » (Dt
4,7-8). È nei Salmi che incontriamo i sentimenti di lode,
gratitudine e venerazione che il popolo eletto è chiamato a nutrire
verso la legge di Dio, insieme all'esortazione a conoscerla, meditarla
e tradurla nella vita: « Beato l'uomo che non segue il consiglio
degli empi, non indugia nella via dei peccatori e non siede in
compagnia degli stolti; ma si compiace della legge del Signore, la sua
legge medita giorno e notte » (Sal 1,1-2); « La legge del
Signore è perfetta, rinfranca l'anima; la testimonianza del Signore
è verace, rende saggio il semplice. Gli ordini del Signore sono
giusti, fanno gioire il cuore; i comandi del Signore sono limpidi,
danno luce agli occhi » (Sal 181,8-9).
45. La Chiesa accoglie con
riconoscenza e custodisce con amore l'intero deposito della
Rivelazione, trattandolo con religioso rispetto e adempiendo alla sua
missione di interpretare la legge di Dio in modo autentico alla luce
del Vangelo. La Chiesa, inoltre, riceve in dono la Legge nuova, che
è il « compimento » della legge di Dio in Gesù Cristo e nel suo
Spirito: è una legge « interiore » (cf Ger 31,31-33), «
scritta non con inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente, non su
tavole di pietra, ma sulle tavole di carne dei vostri cuori » (2
Cor 3,3); una legge di perfezione e di libertà (cf 2 Cor 3,17);
è « la legge dello Spirito che dà vita in Cristo Gesù » (Rm 8,2).
Di questa legge scrive san Tommaso: « Questa può essere detta legge
in un duplice senso. In un primo senso, legge dello spirito è lo
Spirito Santo... che, inabitante nell'anima, non solo insegna che cosa
è necessario compiere illuminando l'intelletto sulle cose da farsi,
ma anche inclina ad agire con rettitudine... In un secondo senso,
legge dello spirito può dirsi l'effetto proprio dello Spirito Santo,
e cioè la fede che opera per mezzo della carità (Gal 5,6), la
quale pertanto ammaestra interiormente circa le cose da farsi... e
inclina l'affetto ad agire ».84
Anche se nella riflessione
teologico-morale si è soliti distinguere la legge di Dio positiva o
rivelata da quella naturale, e nell'economia della salvezza la legge
« antica » da quella « nuova », non si può dimenticare che queste
e altre utili distinzioni si riferiscono sempre alla legge il cui
autore è lo stesso unico Dio, e il cui destinatario è l'uomo. I
diversi modi secondo cui nella storia Dio ha cura del mondo e
dell'uomo, non solo non si escludono tra loro, ma al contrario si
sostengono e si compenetrano a vicenda. Tutti scaturiscono e
concludono all'eterno disegno sapiente e amoroso con il quale Dio
predestina gli uomini « ad essere conformi all'immagine del Figlio
suo » (Rm 8,29). In questo disegno non c'è nessuna minaccia
per la vera libertà dell'uomo; al contrario l'accoglienza di questo
disegno è l'unica via per l'affermazione della libertà.
« Quanto la legge esige è
scritto nei loro cuori »
(Rm 2,15)
46. Il presunto conflitto tra la
libertà e la legge si ripropone oggi con una singolare forza in
rapporto alla legge naturale, e in particolare in rapporto alla
natura. In realtà i dibattiti su natura e libertà hanno
sempre accompagnato la storia della riflessione morale, assumendo toni
accesi con il Rinascimento e la Riforma, come si può rilevare dagli
insegnamenti del Concilio di Trento.85 Di una tensione analoga resta
segnata, anche se in un senso differente, l'epoca contemporanea: il
gusto dell'osservazione empirica, i procedimenti dell'oggettivazione
scientifica, il progresso tecnico, alcune forme di liberalismo hanno
portato a contrapporre i due termini, come se la dialettica — se non
addirittura il conflitto — tra libertà e natura fosse
caratteristica strutturale della storia umana. In altre epoche, è
sembrato che la « natura » sottomettesse totalmente l'uomo ai suoi
dinamismi e persino ai suoi determinismi. Ancor oggi le coordinate
spazio-temporali del mondo sensibile, le costanti fisico-chimiche, i
dinamismi corporei, le pulsioni psichiche, i condizionamenti sociali
appaiono a molti come gli unici fattori realmente decisivi delle realtà
umane. In questo contesto, anche i fatti morali, a dispetto della loro
specificità, sono spesso trattati come se fossero dati
statisticamente accertabili, come comportamenti osservabili o
spiegabili solo con le categorie dei meccanismi psico-sociali. E così
alcuni studiosi di etica, tenuti per professione a esaminare i
fatti e i gesti dell'uomo, possono essere tentati di misurare il loro
sapere, se non le loro prescrizioni, sulla base di un riscontro
statistico circa i comportamenti umani concreti e le opinioni morali
della maggioranza.
Altri moralisti, invece,
preoccupati di educare ai valori, si mantengono sensibili al prestigio
della libertà, ma spesso la concepiscono in opposizione, o in
contrasto, con la natura materiale e biologica, sulla quale dovrebbe
progressivamente affermarsi. A questo proposito differenti concezioni
convergono nel dimenticare la dimensione creaturale della natura e nel
misconoscere la sua integralità. Per alcuni, la natura si
trova ridotta a materiale per l'agire umano e per il suo potere: essa
dovrebbe essere profondamente trasformata, anzi superata dalla libertà,
dal momento che ne costituirebbe un limite e una negazione. Per
altri, è nella promozione senza misura del potere dell'uomo, o
della sua libertà, che si costituiscono i valori economici, sociali,
culturali ed anche morali: la natura starebbe a significare tutto ciò
che nell'uomo e nel mondo si colloca al di fuori della libertà. Tale
natura comprenderebbe in primo luogo il corpo umano, la sua
costituzione e i suoi dinamismi: a questo dato fisico si opporrebbe
quanto è « costruito » cioè la « cultura », quale opera e
prodotto della libertà. La natura umana, così intesa, potrebbe
essere ridotta e trattata come materiale biologico o sociale sempre
disponibile. Ciò significa ultimamente definire la libertà mediante
se stessa e farne un'istanza creatrice di sé e dei suoi valori. È
così che al limite l'uomo non avrebbe neppure natura, e sarebbe per
se stesso il proprio progetto di esistenza. L'uomo non sarebbe
nient'altro che la sua libertà!
47. In questo contesto sono sorte
le obiezioni di fisicismo e naturalismo contro la concezione
tradizionale della legge naturale: questa presenterebbe come
leggi morali quelle che in se stesse sarebbero solo leggi biologiche.
Così, troppo superficialmente, si sarebbe attribuito ad alcuni
comportamenti umani un carattere permanente ed immutabile e, in base
ad esso, si sarebbe preteso di formulare norme morali universalmente
valide. Secondo alcuni teologi, una simile « argomen- tazione
biologista o naturalista » sarebbe presente anche in taluni documenti
del Magistero della Chiesa, specialmente in quelli riguardanti
l'ambito dell'etica sessuale e matrimoniale. In base ad una concezione
naturalistica dell'atto sessuale, sarebbero state condannate come
moralmente inammissibili la contraccezione, la sterilizzazione
diretta, l'autoerotismo, i rapporti prematrimoniali, le relazioni
omosessuali, nonché la fecondazione artificiale. Ora, secondo il
parere di questi teologi, la valutazione moralmente negativa di tali
atti non prenderebbe in adeguata considerazione il carattere razionale
e libero dell'uomo, né il condizionamento culturale di ogni norma
morale. Essi dicono che l'uomo, come essere razionale, non solo può,
ma addirittura deve decidere liberamente il senso dei suoi
comportamenti. Questo « decidere il senso » dovrà tener conto,
ovviamente, dei molteplici limiti dell'essere umano, che ha una
condizione corporea e storica. Dovrà, inoltre, prendere in
considerazione i modelli comportamentali ed i significati che questi
assumono in una determinata cultura. E, soprattutto, dovrà rispettare
il comandamento fondamentale dell'amore di Dio e del prossimo. Dio però
— asseriscono poi — ha fatto l'uomo come essere razionalmente
libero, lo ha lasciato « in mano al suo consiglio » e da lui attende
una propria, razionale formazione della sua vita. L'amore del prossimo
significherebbe soprattutto o esclusivamente rispetto per il suo
libero decidere di se stesso. I meccanismi dei comportamenti propri
dell'uomo, nonché le cosiddette « inclinazioni naturali »,
stabilirebbero al massimo — come dicono — un orientamento generale
del comportamento corretto, ma non potrebbero determinare la
valutazione morale dei singoli atti umani, tanto complessi dal punto
di vista delle situazioni.
48. Di fronte ad una tale
interpretazione occorre considerare con attenzione il retto rapporto
che esiste tra la libertà e la natura umana, e in particolare il
posto che ha il corpo umano nelle questioni della legge naturale.
Una libertà che pretende di
essere assoluta finisce per trattare il corpo umano come un dato
bruto, sprovvisto di significati e di valori morali finché essa non
l'abbia investito del suo progetto. Di conseguenza, la natura umana e
il corpo appaiono come dei presupposti o preliminari, materialmente
necessari alla scelta della libertà, ma estrinseci alla
persona, al soggetto e all'atto umano. I loro dinamismi non potrebbero
costituire punti di riferimento per la scelta morale, dal momento che
le finalità di queste inclinazioni sarebbero solo beni «
fisici », detti da taluni « pre-morali ». Farvi riferimento, per
cercarvi indicazioni razionali circa l'ordine della moralità,
dovrebbe essere tacciato di fisicismo o di biologismo. In un simile
contesto la tensione tra la libertà e una natura concepita in senso
riduttivo si risolve in una divisione nell'uomo stesso.
Questa teoria morale non è
conforme alla verità sull'uomo e sulla sua libertà. Essa contraddice
agli insegnamenti della Chiesa sull'unità dell'essere umano, la
cui anima razionale è per se et essentialiter la forma del
corpo.86 L'anima spirituale e immortale è il principio di unità
dell'essere umano, è ciò per cui esso esiste come un tutto — «
corpore et anima unus » 87 — in quanto persona. Queste
definizioni non indicano solo che anche il corpo, al quale è promessa
la risurrezione, sarà partecipe della gloria; esse ricordano altresì
il legame della ragione e della libera volontà con tutte le facoltà
corporee e sensibili. La persona, incluso il corpo, è affidata
interamente a se stessa, ed è nell'unità dell'anima e del corpo che
essa è il soggetto dei propri atti morali. La persona, mediante
la luce della ragione e il sostegno della virtù, scopre nel suo corpo
i segni anticipatori, l'espressione e la promessa del dono di sé, in
conformità con il sapiente disegno del Creatore. È alla luce della
dignità della persona umana — da affermarsi per se stessa — che
la ragione coglie il valore morale specifico di alcuni beni, cui la
persona è naturalmente inclinata. E dal momento che la persona umana
non è riducibile ad una libertà che si autoprogetta, ma comporta una
struttura spirituale e corporea determinata, l'esigenza morale
originaria di amare e rispettare la persona come un fine e mai come un
semplice mezzo, implica anche, intrinsecamente, il rispetto di alcuni
beni fondamentali, senza del quale si cade nel relativismo e
nell'arbitrio.
49. Una dottrina che dissoci
l'atto morale dalle dimensioni corporee del suo esercizio è contraria
agli insegnamenti della Sacra Scrittura e della Tradizione: tale
dottrina fa rivivere, sotto forme nuove, alcuni vecchi errori sempre
combattuti dalla Chiesa, in quanto riducono la persona umana a una
libertà « spirituale », puramente formale. Questa riduzione
misconosce il significato morale del corpo e dei comportamenti che ad
esso si riferiscono (cf 1 Cor 6,19). L'apostolo Paolo dichiara
esclusi dal Regno dei cieli « immorali, idolatri, adulteri,
effeminati, sodomiti, ladri, avari, ubriaconi, maldicenti e rapaci »
(cf 1 Cor 6,9-10). Tale condanna — fatta propria dal Concilio
di Trento 88 — enumera come « peccati mortali », o « pratiche
infami », alcuni comportamenti specifici la cui volontaria
accettazione impedisce ai credenti di avere parte all'eredità
promessa. Infatti, corpo e anima sono indissociabili: nella
persona, nell'agente volontario e nell'atto deliberato, essi stanno
o si perdono insieme.
50. Si può ora comprendere il
vero significato della legge naturale: essa si riferisce alla natura
propria e originale dell'uomo, alla « natura della persona umana »,89
che è la persona stessa nell'unità di anima e di corpo, nell'unità
delle sue inclinazioni di ordine sia spirituale che biologico e di
tutte le altre caratteristiche specifiche necessarie al perseguimento
del suo fine. « La legge morale naturale esprime e prescrive le
finalità, i diritti e i doveri che si fondano sulla natura corporale
e spirituale della persona umana. Pertanto essa non può essere
concepita come normatività semplicemente biologica, ma deve essere
definita come l'ordine razionale secondo il quale l'uomo è chiamato
dal Creatore a dirigere e a regolare la sua vita e i suoi atti e, in
particolare, a usare e disporre del proprio corpo ».90 Ad esempio,
l'origine e il fondamento del dovere di rispettare assolutamente la
vita umana sono da trovare nella dignità propria della persona e non
semplicemente nell'inclinazione naturale a conservare la propria vita
fisica. Così la vita umana, pur essendo un bene fondamentale
dell'uomo, acquista un significato morale in riferimento al bene della
persona che deve essere sempre affermata per se stessa: mentre è
sempre moralmente illecito uccidere un essere umano innocente, può
essere lecito, lodevole o persino doveroso dare la propria vita (cf Gv
15, 13) per amore del prossimo o per testimonianza verso la verità.
In realtà solo in riferimento alla persona umana nella sua « totalità
unificata », cioè « anima che si esprime nel corpo e corpo
informato da uno spirito immortale »,91 si può leggere il
significato specificamente umano del corpo. In effetti le inclinazioni
naturali acquistano rilevanza morale solo in quanto esse si
riferiscono alla persona umana e alla sua realizzazione autentica, la
quale d'altra parte può verificarsi sempre e solo nella natura umana.
Rifiutando le manipolazioni della corporeità che ne alterano il
significato umano, la Chiesa serve l'uomo e gli indica la via del vero
amore, sulla quale soltanto egli può trovare il vero Dio.
La legge naturale così intesa non
lascia spazio alla divisione tra libertà e natura. Queste, infatti,
sono armonicamente collegate tra loro e intimamente alleate l'una con
l'altra.
« Ma da principio non fu
così » (Mt 19,8)
51. Il presunto conflitto tra la
libertà e la natura si ripercuote anche sull'interpretazione di
alcuni aspetti specifici della legge naturale, soprattutto sulla sua universalità
e immutabilità. « Dove dunque sono iscritte queste regole — si
chiedeva sant'Agostino — se non nel libro di quella luce che si
chiama verità? Di qui, dunque, è dettata ogni legge giusta e si
trasferisce retta nel cuore dell'uomo che opera la giustizia, non
emigrando in lui, ma quasi imprimendosi in lui, come l'immagine passa
dall'anello nella cera, ma senza abbandonare l'anello ».92
Proprio grazie a questa « verità
» la legge naturale implica l'universalità. Essa, in quanto
iscritta nella natura razionale della persona, si impone ad ogni
essere dotato di ragione e vivente nella storia. Per perfezionarsi nel
suo ordine specifico, la persona deve compiere il bene ed evitare il
male, vegliare alla trasmissione e alla conservazione della vita,
affinare e sviluppare le ricchezze del mondo sensibile, coltivare la
vita sociale, cercare il vero, praticare il bene, contemplare la
bellezza.93
La scissione posta da alcuni tra
la libertà degli individui e la natura comune a tutti, come emerge da
alcune teorie filosofiche di grande risonanza nella cultura
contemporanea, oscura la percezione dell'universalità della legge
morale da parte della ragione. Ma, in quanto esprime la dignità della
persona umana e pone la base dei suoi diritti e doveri fondamentali,
la legge naturale è universale nei suoi precetti e la sua autorità
si estende a tutti gli uomini. Questa universalità non prescinde
dalla singolarità degli esseri umani, né si oppone all'unicità
e all'irripetibilità di ciascuna persona: al contrario, essa
abbraccia in radice ciascuno dei suoi atti liberi, che devono
attestare l'universalità del vero bene. Sottomettendosi alla legge
comune, i nostri atti edificano la vera comunione delle persone e, con
la grazia di Dio, esercitano la carità, « vincolo della perfezione
» (Col 3,14). Quando invece misconoscono o anche solo ignorano
la legge, in maniera imputabile o no, i nostri atti feriscono la
comunione delle persone, con pregiudizio di ciascuno.
52. È giusto e buono, sempre e
per tutti, servire Dio, rendergli il culto dovuto ed onorare secondo
verità i genitori. Simili precetti positivi, che prescrivono
di compiere talune azioni e di coltivare certi atteggiamenti,
obbligano universalmente; essi sono immutabili; 94 uniscono nel
medesimo bene comune tutti gli uomini di ogni epoca della storia,
creati per « la stessa vocazione e lo stesso destino divino ».95
Queste leggi universali e permanenti corrispondono a conoscenze della
ragione pratica e vengono applicate agli atti particolari mediante il
giudizio della coscienza. Il soggetto che agisce assimila
personalmente la verità contenuta nella legge: egli si appropria, fa
sua questa verità del suo essere mediante gli atti e le relative virtù.
I precetti negativi della legge naturale sono universalmente
validi: essi obbligano tutti e ciascuno, sempre e in ogni circostanza.
Si tratta infatti di proibizioni che vietano una determinata azione semper
et pro semper, senza eccezioni, perché la scelta di un tale
comportamento non è in nessun caso compatibile con la bontà della
volontà della persona che agisce, con la sua vocazione alla vita con
Dio e alla comunione col prossimo. È proibito ad ognuno e sempre di
infrangere precetti che vincolano, tutti e a qualunque costo, a non
offendere in alcuno e, prima di tutto, in se stessi la dignità
personale e comune a tutti.
D'altra parte, il fatto che solo i
comandamenti negativi obbligano sempre e in ogni circostanza, non
significa che nella vita morale le proibizioni siano più importanti
dell'impegno a fare il bene indicato dai comandamenti positivi. Il
motivo è piuttosto il seguente: il comandamento dell'amore di Dio e
del prossimo non ha nella sua dinamica positiva nessun limite
superiore, bensì ha un limite inferiore, scendendo sotto il quale si
viola il comandamento. Inoltre, ciò che si deve fare in una
determinata situazione dipende dalle circostanze, che non si possono
tutte quante prevedere in anticipo; al contrario ci sono comportamenti
che non possono mai essere, in nessuna situazione, una risposta
adeguata — ossia conforme alla dignità della persona. Infine, è
sempre possibile che l'uomo, in seguito a costrizione o ad altre
circostanze, sia impedito di portare a termine determinate buone
azioni; mai però può essere impedito di non fare determinate azioni,
soprattutto se egli è disposto a morire piuttosto che a fare il male.
La Chiesa ha sempre insegnato che
non si devono mai scegliere comportamenti proibiti dai comandamenti
morali, espressi in forma negativa nell'Antico e nel Nuovo Testamento.
Come si è visto, Gesù stesso ribadisce l'inderogabilità di queste
proibizioni: « Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti...:
non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare
il falso » (Mt 19,17-18).
53. La grande sensibilità che
l'uomo contemporaneo testimonia per la storicità e per la cultura
conduce taluni a dubitare dell'immutabilità della stessa legge
naturale, e quindi dell'esistenza di « norme oggettive di moralità
» 96 valide per tutti gli uomini del presente e del futuro, come già
per quelli del passato: è mai possibile affermare come valide
universalmente per tutti e sempre permanenti certe determinazioni
razionali stabilite nel passato, quando si ignorava il progresso che
l'umanità avrebbe fatto successivamente?
Non si può negare che l'uomo si dà
sempre in una cultura particolare, ma pure non si può negare che
l'uomo non si esaurisce in questa stessa cultura. Del resto, il
progresso stesso delle culture dimostra che nell'uomo esiste qualcosa
che trascende le culture. Questo « qualcosa » è precisamente la
natura dell'uomo: proprio questa natura è la misura della cultura
ed è la condizione perché l'uomo non sia prigioniero di nessuna
delle sue culture, ma affermi la sua dignità personale nel vivere
conformemente alla verità profonda del suo essere. Mettere in
discussione gli elementi strutturali permanenti dell'uomo, connessi
anche con la stessa dimensione corporea, non solo sarebbe in conflitto
con l'esperienza comune, ma renderebbe incomprensibile il
riferimento che Gesù ha fatto al « principio », proprio là
dove il contesto sociale e culturale del tempo aveva deformato il
senso originario e il ruolo di alcune norme morali (cf Mt 19,1-9).
In tal senso « la Chiesa afferma che al di sotto di tutti i mutamenti
ci sono molte cose che non cambiano; esse trovano il loro ultimo
fondamento in Cristo, che è sempre lo stesso: ieri, oggi e nei
secoli ».97 È lui il « Principio » che, avendo assunto la natura
umana, la illumina definitivamente nei suoi elementi costitutivi e nel
suo dinamismo di carità verso Dio e il prossimo.98
Certamente occorre cercare e
trovare delle norme morali universali e permanenti la formulazione
più adeguata ai diversi contesti culturali, più capace di
esprimerne incessantemente l'attualità storica, di farne comprendere
e interpretare autenticamente la verità. Questa verità della legge
morale — come quella del « deposito della fede » — si dispiega
attraverso i secoli: le norme che la esprimono restano valide nella
loro sostanza, ma devono essere precisate e determinate « eodem
sensu eademque sententia » 99 secondo le circostanze storiche dal
Magistero della Chiesa, la cui decisione è preceduta e accompagnata
dallo sforzo di lettura e di formulazione proprio della ragione dei
credenti e della riflessione teologica.100
II. La coscienza e la verità
Il sacrario dell'uomo
54. Il rapporto che esiste tra la
libertà dell'uomo e la legge di Dio ha la sua sede viva nel « cuore
» della persona, ossia nella sua coscienza morale: «
Nell'intimo della coscienza — scrive il Concilio Vaticano II —
l'uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale invece
deve obbedire e la cui voce che lo chiama sempre ad amare e a fare il
bene e a fuggire il male, quando occorre, chiaramente dice alle
orecchie del cuore: fa' questo, fuggi quest'altro. L'uomo ha in realtà
una legge scritta da Dio dentro il suo cuore: obbedire ad essa è la
dignità stessa dell'uomo, e secondo questa egli sarà giudicato (cf Rm
2, 14-16) ».101
Per questo il modo secondo cui si
concepisce il rapporto tra la libertà e la legge si collega
intimamente con l'interpretazione che viene riservata alla coscienza
morale. In tal senso le tendenze culturali sopra ricordate, che
contrappongono e separano tra loro la libertà e la legge ed esaltano
in modo idolatrico la libertà, conducono ad un'interpretazione «
creativa » della coscienza morale, che si allontana dalla
posizione della tradizione della Chiesa e del suo Magistero.
55. Secondo l'opinione di diversi
teologi la funzione della coscienza sarebbe stata ricondotta, almeno
in un certo passato, ad una semplice applicazione di norme morali
generali ai singoli casi di vita della persona. Ma simili norme —
dicono — non possono essere in grado di accogliere e di rispettare
l'intera irrepetibile specificità di tutti i singoli atti concreti
delle persone; possono anche, in qualche modo, aiutare a una giustavalutazione
della situazione, ma non possono sostituire le persone nel
prendere una decisione personale su come comportarsi nei
determinati casi particolari. Anzi, la predetta critica alla
tradizionale interpretazione della natura umana e della sua importanza
per la vita morale induce alcuni autori ad affermare che queste norme
non sono tanto un criterio oggettivo vincolante per i giudizi della
coscienza, quanto piuttosto una prospettiva generale che aiuta
in prima approssimazione l'uomo nel dare un'ordinata sistemazione alla
sua vita personale e sociale. Essi, inoltre, rilevano la complessità
tipica del fenomeno della coscienza: questa si rapporta
profondamente con tutta la sfera psicologica ed affettiva e con i
molteplici influssi dell'ambiente sociale e culturale della persona.
D'altra parte, viene esaltato al massimo il valore della coscienza,
che il Concilio stesso ha definito « il sacrario dell'uomo, dove egli
si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell'intimità propria ».102
Tale voce — si dice — induce l'uomo non tanto a una meticolosa
osservanza delle norme universali, quanto a una creativa e
responsabile assunzione dei compiti personali che Dio gli affida.
Volendo mettere in risalto il
carattere « creativo » della coscienza, alcuni autori chiamano i
suoi atti, non più con il nome di « giudizi », ma con quello di «
decisioni »: solo prendendo « auto- nomamente » queste decisioni
l'uomo potrebbe raggiungere la sua maturità morale. Né manca chi
ritiene che questo processo di maturazione sarebbe ostacolato dalla
posizione troppo categorica che, in molte questioni morali, assume il
Magistero della Chiesa, i cui interventi sarebbero causa, presso i
fedeli, dell'insorgere di inutili conflitti di coscienza.
56. Per giustificare simili
posizioni, alcuni hanno proposto una sorta di duplice statuto della
verità morale. Oltre al livello dottrinale e astratto, occorrerebbe
riconoscere l'originalità di una certa considerazione esistenziale più
concreta. Questa, tenendo conto delle circostanze e della situazione,
potrebbe legittimamente fondare delle eccezioni alla regola
generale e permettere così di compiere praticamente, con buona
coscienza, ciò che è qualificato come intrinsecamente cattivo dalla
legge morale. In tal modo si instaura in alcuni casi una separazione,
o anche un'opposizione, tra la dottrina del precetto valido in
generale e la norma della singola coscienza, che deciderebbe di fatto,
in ultima istanza, del bene e del male. Su questa base si pretende di
fondare la legittimità di soluzioni cosiddette « pastorali »
contrarie agli insegnamenti del Magistero e di giustificare
un'ermeneutica « creatrice », secondo la quale la coscienza morale
non sarebbe affatto obbligata, in tutti i casi, da un precetto
negativo particolare.
Non vi è chi non colga che con
queste impostazioni si trova messa in questione l'identità stessa
della coscienza morale di fronte alla libertà dell'uomo e alla
legge di Dio. Solo la chiarificazione precedentemente fatta sul
rapporto tra libertà e legge fondato sulla verità rende possibile il
discernimento circa questa interpretazione « creativa » della
coscienza.
Il giudizio della coscienza
57. Lo stesso testo della Lettera
ai Romani, che ci ha fatto cogliere l'essenza della legge
naturale, indica anche il senso biblico della coscienza, specialmente
nel suo specifico legame con la legge: « Quando i pagani, che
non hanno la legge, per natura agiscono secondo la legge, essi, pur
non avendo legge, sono legge a se stessi; essi dimostrano che quanto
la legge esige è scritto nei loro cuori come risulta dalla
testimonianza della loro coscienza e dai loro stessi ragionamenti, che
ora li accusano ora li difendono » (Rm 2,14-15).
Secondo le parole di san Paolo, la
coscienza, in un certo senso, pone l'uomo di fronte alla legge,
diventando essa stessa « testimo- ne » per l'uomo: testimone
della sua fedeltà o infedeltà nei riguardi della legge, ossia della
sua essenziale rettitudine o malvagità morale. La coscienza è l'unico
testimone: ciò che avviene nell'intimo della persona è coperto
agli occhi di chiunque dall'esterno. Essa rivolge la sua testimonianza
soltanto verso la persona stessa. E, a sua volta, soltanto la persona
conosce la propria risposta alla voce della coscienza.
58. Non si apprezzerà mai
adeguatamente l'importanza di questo intimo dialogo dell'uomo con
se stesso. Ma, in realtà, questo è il dialogo dell'uomo con
Dio, autore della legge, primo modello e fine ultimo dell'uomo. «
La coscienza — scrive san Bonaventura — è come l'araldo di Dio e
il messaggero, e ciò che dice non lo comanda da se stessa, ma lo
comanda come proveniente da Dio, alla maniera di un araldo quando
proclama l'editto del re. E da ciò deriva il fatto che la coscienza
ha la forza di obbligare ».103
Si può dire, dunque, che la
coscienza dà la testimonianza della rettitudine o della malvagità
dell'uomo all'uomo stesso, ma insieme, anzi prima ancora, essa è testimonianza
di Dio stesso, la cui voce e il cui giudizio penetrano l'intimo
dell'uomo fino alle radici della sua anima, chiamandolo fortiter et
suaviter all'obbedienza: « La coscienza morale non chiude l'uomo
dentro una invalicabile e impenetrabile solitudine, ma lo apre alla
chiamata, alla voce di Dio. In questo, non in altro, sta tutto il
mistero e la dignità della coscienza morale: nell'essere cioè il
luogo, lo spazio santo nel quale Dio parla all'uomo ».104
59. San Paolo non si limita a
riconoscere che la coscienza fa da « testimone », ma rivela anche il
modo con cui essa compie una simile funzione. Si tratta di «
ragionamenti », che accusano o difendono i pagani in rapporto ai loro
comportamenti (cf Rm 2,15). Il termine « ragionamenti » mette
in luce il carattere proprio della coscienza, quello di essere un giudizio
morale sull'uomo e sui suoi atti: è un giudizio di assoluzione o
di condanna secondo che gli atti umani sono conformi o difformi dalla
legge di Dio scritta nel cuore. E proprio del giudizio degli atti e,
allo stesso tempo, del loro autore e del momento del suo definitivo
compimento parla l'apostolo Paolo nello stesso testo: « Così avverrà
nel giorno in cui Dio giudicherà i segreti degli uomini per mezzo di
Gesù Cristo, secondo il mio Vangelo » (Rm 2,16).
Il giudizio della coscienza è un giudizio
pratico, ossia un giudizio che intima che cosa l'uomo deve fare o
non fare, oppure che valuta un atto da lui ormai compiuto. È un
giudizio che applica a una situazione concreta la convinzione
razionale che si deve amare e fare il bene ed evitare il male. Questo
primo principio della ragione pratica appartiene alla legge naturale,
anzi ne costituisce il fondamento stesso, in quanto esprime quella
luce originaria sul bene e sul male, riflesso della sapienza creatrice
di Dio, che, come una scintilla indistruttibile (scintilla animae),
brilla nel cuore di ogni uomo. Mentre però la legge naturale mette in
luce le esigenze oggettive e universali del bene morale, la coscienza
è l'applicazione della legge al caso particolare, la quale diventa
così per l'uomo un interiore dettame, una chiamata a compiere nella
concretezza della situazione il bene. La coscienza formula così l'obbligo
morale alla luce dalla legge naturale: è l'obbligo di fare ciò
che l'uomo, mediante l'atto della sua coscienza, conosce come un bene
che gli è assegnato qui e ora. Il carattere universale della
legge e dell'obbligazione non è cancellato, ma piuttosto
riconosciuto, quando la ragione ne determina le applicazioni
nell'attualità concreta. Il giudizio della coscienza afferma «
ultimamente » la conformità di un certo comportamento concreto
rispetto alla legge; esso formula la norma prossima della moralità di
un atto volontario, realizzando « l'appli- cazione della legge
oggettiva a un caso particolare ».105
60. Come la stessa legge naturale
e ogni conoscenza pratica, anche il giudizio della coscienza ha
carattere imperativo: l'uomo deve agire in conformità ad esso.
Se l'uomo agisce contro tale giudizio, oppure, anche in mancanza di
certezza circa la correttezza e la bontà di un determinato atto, lo
compie, egli è condannato dalla sua stessa coscienza, norma
prossima della moralità personale. La dignità di questa istanza
razionale e l'autorità della sua voce e dei suoi giudizi derivano
dalla verità sul bene e sul male morale, che essa è chiamata
ad ascoltare e ad esprimere. Questa verità è indicata dalla « legge
divina », norma universale e oggettiva della moralità. Il
giudizio della coscienza non stabilisce la legge, ma attesta l'autorità
della legge naturale e della ragione pratica in riferimento al bene
supremo, di cui la persona umana accetta l'attrattiva e accoglie i
comandamenti: « La coscienza non è una fonte autonoma ed esclusiva
per decidere ciò che è buono e ciò che è cattivo; invece, in essa
è inscritto profondamente un principio di obbedienza nei riguardi
della norma oggettiva, che fonda e condiziona la corrispondenza delle
sue decisioni con i comandi e i divieti che sono alla base del
comportamento umano ».106
61. La verità circa il bene
morale, dichiarata nella legge della ragione, è riconosciuta
praticamente e concretamente dal giudizio della coscienza, il quale
porta ad assumere la responsabilità del bene compiuto e del male
commesso: se l'uomo commette il male, il giusto giudizio della sua
coscienza rimane in lui testimone della verità universale del bene,
come della malizia della sua scelta particolare. Ma il verdetto della
coscienza permane in lui anche come un pegno di speranza e di
misericordia: mentre attesta il male commesso, ricorda anche il
perdono da chiedere, il bene da praticare e la virtù da coltivare
sempre, con la grazia di Dio.
Così nel giudizio pratico
della coscienza, che impone alla persona l'obbligo di compiere un
determinato atto, si rivela il vincolo della libertà con la verità.
Proprio per questo la coscienza si esprime con atti di « giudizio
» che riflettono la verità sul bene, e non come « decisioni »
arbitrarie. E la maturità e la responsabilità di questi giudizi —
e, in definitiva, dell'uomo, che ne è il soggetto — si misurano non
con la liberazione della coscienza dalla verità oggettiva, in favore
di una presunta autonomia delle proprie decisioni, ma, al contrario,
con una pressante ricerca della verità e con il farsi guidare da essa
nell'agire.
Cercare la verità e il bene
62. La coscienza, come giudizio di
un atto, non è esente dalla possibilità di errore. « Succede non di
rado — scrive il Concilio — che la coscienza sia erronea per
ignoranza invincibile, senza che per questo essa perda la sua dignità.
Ma ciò non si può dire quando l'uomo poco si cura di cercare la
verità e il bene, e quando la coscienza diventa quasi cieca in
seguito all'abitudine del peccato ».107 Con queste brevi parole il
Concilio offre una sintesi della dottrina che la Chiesa nel corso dei
secoli ha elaborato sulla coscienza erronea.
Certamente, per avere una « buona
coscienza » (1 Tm 1,5), l'uomo deve cercare la verità e deve
giudicare secondo questa stessa verità. Come dice l'apostolo Paolo,
la coscienza deve essere illuminata dallo Spirito Santo (cf Rm 9,1),
deve essere « pura » (2 Tm 1,3), non deve con astuzia falsare
la parola di Dio ma manifestare chiaramente la verità (cf 2 Cor 4,2).
D'altra parte, lo stesso Apostolo ammonisce i cristiani dicendo: «
Non conformatevi alla mentalità di questo mondo, ma trasformatevi
rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio,
ciò che è buono, a lui gradito e perfetto » (Rm 12,2).
Il monito di Paolo ci sollecita
alla vigilanza, avvertendoci che nei giudizi della nostra coscienza si
annida sempre la possibilità dell'errore. Essa non è un giudice
infallibile: può errare. Nondimeno l'errore della coscienza può
essere il frutto di una ignoranza invincibile, cioè di
un'ignoranza di cui il soggetto non è consapevole e da cui non può
uscire da solo.
Nel caso in cui tale ignoranza
invincibile non sia colpevole, ci ricorda il Concilio, la coscienza
non perde la sua dignità, perché essa, pur orientandoci di fatto in
modo difforme dall'ordine morale oggettivo, non cessa di parlare in
nome di quella verità sul bene che il soggetto è chiamato a
ricercare sinceramente.
63. È comunque sempre dalla verità
che deriva la dignità della coscienza: nel caso della coscienza retta
si tratta della veritàoggettiva accolta dall'uomo; in quello
della coscienza erronea si tratta di ciò che l'uomo sbagliando
ritiene soggettivamente vero. Non è mai accettabile confondere
un errore « soggettivo » sul bene morale con la verità «
oggettiva », razionalmente proposta all'uomo in virtù del suo fine,
né equiparare il valore morale dell'atto compiuto con coscienza vera
e retta con quello compiuto seguendo il giudizio di una coscienza
erronea.108 Il male commesso a causa di una ignoranza invincibile, o
di un errore di giudizio non colpevole, può non essere imputabile
alla persona che lo compie; ma anche in tal caso esso non cessa di
essere un male, un disordine in relazione alla verità sul bene.
Inoltre, il bene non riconosciuto non contribuisce alla crescita
morale della persona che lo compie: esso non la perfeziona e non giova
a disporla al bene supremo. Così, prima di sentirci facilmente
giustificati in nome della nostra coscienza, dovremmo meditare sulla
parola del Salmo: « Le inavvertenze chi le discerne? Assolvimi dalle
colpe che non vedo » (Sal 181,13). Ci sono colpe che non
riusciamo a vedere e che nondimeno rimangono colpe, perché ci siamo
rifiutati di andare verso la luce (cf Gv 9,39-41).
La coscienza, come giudizio ultimo
concreto, compromette la sua dignità quando è colpevolmente
erronea, ossia « quando l'uomo non si cura di cercare la verità
e il bene, e quando la coscienza diventa quasi cieca in seguito
all'abitudine al peccato ».109 Ai pericoli della deformazione della
coscienza allude Gesù, quando ammonisce: « La lucerna del corpo è
l'occhio; se dunque il tuo occhio è chiaro, tutto il tuo corpo sarà
nella luce; ma se il tuo occhio è malato, tutto il tuo corpo sarà
tenebroso. Se dunque la luce che è in te è tenebra, quanto grande
sarà la tua tenebra! » (Mt 6,22-23).
64. Nelle parole di Gesù sopra
riferite troviamo anche l'appello a formare la coscienza, a
renderla oggetto di continua conversione alla verità e al bene.
Analoga è l'esortazione dell'Apostolo a non conformarsi alla mentalità
di questo mondo, ma a trasformarsi rinnovando la propria mente (cf Rm
12,2). È, in realtà, il « cuore » convertito al Signore e
all'amore del bene la sorgente dei giudizi veri della
coscienza. Infatti, « per poter discernere la volontà di Dio, ciò
che è buono, a lui gradito e perfetto » (Rm 12,2) è sì
necessaria la conoscenza della legge di Dio in generale, ma questa non
è sufficiente: è indispensabile una sorta di « connaturalità »
tra l'uomo e il vero bene.110 Una simile connaturalità si radica
e si sviluppa negli atteggiamenti virtuosi dell'uomo stesso: la
prudenza e le altre virtù cardinali, e prima ancora le virtù
teologali della fede, della speranza e della carità. In tal senso Gesù
ha detto: « Chi opera la verità viene alla luce » (Gv 3,21).
Un grande aiuto per
la formazione della coscienza i cristiani l'hanno nella Chiesa e
nel suo Magistero, come afferma il Concilio: « I cristiani...
nella formazione della loro coscienza devono considerare
diligentemente la dottrina sacra e certa della Chiesa. Infatti per
volontà di Cristo la Chiesa cattolica è maestra di verità, e il suo
compito è di annunziare e di insegnare in modo autentico la verità
che è Cristo, e nello stesso tempo di dichiarare e di confermare con
la sua autorità i principi dell'ordine morale che scaturiscono dalla
stessa natura umana ».111 Pertanto l'autorità della Chiesa, che si
pronuncia sulle questioni morali, non intacca in nessun modo la libertà
di coscienza dei cristiani: non solo perché la libertà della
coscienza non è mai libertà « dalla » verità, ma sempre e solo «
nella » verità; ma anche perché il Magistero non porta alla
coscienza cristiana verità ad essa estranee, bensì manifesta le
verità che dovrebbe già possedere sviluppandole a partire dall'atto
originario della fede. La Chiesa si pone solo e sempre al servizio
della coscienza, aiutandola a non essere portata qua e là da
qualsiasi vento di dottrina secondo l'inganno degli uomini (cf Ef 4,14),
a non sviarsi dalla verità circa il bene dell'uomo, ma, specialmente
nelle questioni più difficili, a raggiungere con sicurezza la verità
e a rimanere in essa.
III. La scelta fondamentale e i
componenti concreti
« Purché questa libertà
non divenga pretestoper vivere secondo la carne »
(Gal 5,13)
65. L'interesse, oggi
particolarmente acuto, per la libertà induce molti cultori di scienze
sia umane che teologiche a sviluppare un'analisi più penetrante della
sua natura e dei suoi dinamismi. Giustamente si rileva che la libertà
non è solo la scelta per questa o per quest'altra azione particolare;
ma è anche, dentro una simile scelta, decisione su di sé e
disposizione della propria vita pro o contro il Bene, pro o contro la
Verità, in ultima istanza pro o contro Dio. Giustamente si sottolinea
l'importanza eminente di alcune scelte, che danno « forma » a tutta
la vita morale di un uomo, configurandosi come l'alveo entro cui
potranno trovare spazio e sviluppo anche altre scelte quotidiane
particolari.
Alcuni autori, tuttavia,
propongono una revisione ben più radicale del rapporto tra persona
e atti. Essi parlano di una « libertà fondamentale », più
profonda e diversa dalla libertà di scelta, senza la cui
considerazione non si potrebbero né comprendere né valutare
correttamente gli atti umani. Secondo tali autori, il ruolo chiave
nella vita morale sarebbe da attribuire ad una « opzione
fondamentale », attuata da quella libertà fondamentale mediante la
quale la persona decide globalmente di se stessa, non attraverso una
scelta determinata e consapevole a livello riflesso, ma in forma «
trascen- dentale » e « atematica ». Gli atti particolari derivanti
da questa opzione costituirebbero soltanto dei tentativi parziali e
mai risolutivi per esprimerla, sarebbero solamente « segni » o
sintomi di essa. Oggetto immediato di questi atti — si dice — non
è il Bene assoluto (di fronte al quale si esprimerebbe a livello
trascendentale la libertà della persona), ma sono i beni particolari
(detti anche « cate- goriali »). Ora, secondo l'opinione di alcuni
teologi, nessuno di questi beni, per loro natura parziali, potrebbe
determinare la libertà dell'uomo come persona nella sua totalità,
anche se solamente mediante la loro realizzazione o il loro rifiuto
l'uomo potrebbe esprimere la propria opzione fondamentale.
Si giunge così ad introdurre una distinzione
tra l'opzione fondamentale e le scelte deliberate di un comportamento
concreto, una distinzione che in alcuni autori assume la forma di
una dissociazione, allorché essi riservano espressamente il «
bene » e il « male » morale alla dimensione trascendentale propria
dell'opzione fondamentale, qualificando come « giuste » o «
sbagliate » le scelte di particolari comportamenti « intramondani »,
riguardanti cioè le relazioni dell'uomo con se stesso, con gli altri
e con il mondo delle cose. Sembra così delinearsi all'interno
dell'agire umano una scissione tra due livelli di moralità: l'ordine
del bene e del male, dipendente dalla volontà, da una parte, e i
comportamenti determinati, dall'altra, i quali vengono giudicati come
moralmente giusti o sbagliati solo in dipendenza da un calcolo tecnico
della proporzione tra beni e mali « premorali » o « fisici », che
effettivamente seguono all'azione. E ciò fino al punto che un
comportamento concreto, anche liberamente scelto, viene considerato
come un processo semplicemente fisico, e non secondo i criteri propri
di un atto umano. L'esito al quale si giunge è di riservare la
qualifica propriamente morale della persona all'opzione fondamentale,
sottraendola in tutto o in parte alla scelta degli atti particolari,
dei comportamenti concreti.
66. Non c'è dubbio che la
dottrina morale cristiana, nelle sue stesse radici bibliche, riconosce
la specifica importanza di una scelta fondamentale che qualifica la
vita morale e che impegna la libertà a livello radicale di fronte a
Dio. Si tratta della scelta della fede, dell'obbedienza
della fede (cf Rm 16,26), « con la quale l'uomo si
abbandona tutto a Dio liberamente, prestando "il pieno ossequio
dell'intelletto e della volontà" ».112 Questa fede, che «
opera mediante la carità » (Gal 5,6), proviene dal centro
dell'uomo, dal suo « cuore » (cf Rm 10,10), e da qui è
chiamata a fruttificare nelle opere (cf Mt 12,33-35; Lc 6,43-45;
Rm 8,5-8; Gal 5, 22). Nel Decalogo si trova, in capo ai
diversi comandamenti, la clausola fondamentale: « Io sono il Signore,
tuo Dio... » (Es 20,2) che, imprimendo il senso originale alle
molteplici e varie prescrizioni particolari, assicura alla morale
dell'Alleanza una fisionomia di globalità, di unità e di profondità.
La scelta fondamentale di Israele riguarda allora il comandamento
fondamentale (cf Gs 24,14-25; Es 19,3-8; Mic 6,8).
Anche la morale della Nuova Alleanza è dominata dall'appello
fondamentale di Gesù alla sua « sequela » — così anche al
giovane egli dice: « Se vuoi essere perfetto... vieni e seguimi » (Mt
19,21) —: a tale appello il discepolo risponde con una decisione
e scelta radicale. Le parabole evangeliche del tesoro e della perla
preziosa, per la quale si vende tutto ciò che si possiede, sono
immagini eloquenti ed efficaci del carattere radicale e incondizionato
della scelta che il Regno di Dio esige. La radicalità della scelta di
seguire Gesù è meravigliosamente espressa nelle sue parole: « Chi
vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la
propria vita per causa mia e del vangelo, la salverà » (Mc 8,35).
L'appello di Gesù « vieni e
seguimi » segna la massima esaltazione possibile della libertà
dell'uomo e, nello stesso tempo, attesta la verità e l'obbligazione
di atti di fede e di decisioni che si possono dire di opzione
fondamentale. Analoga esaltazione della libertà umana troviamo nelle
parole di san Paolo: « Voi, fratelli, siete stati chiamati a libertà
» (Gal 5, 13). Ma l'Apostolo immediatamente aggiunge un grave
monito: « Purché questa libertà non divenga un pretesto per vivere
secondo la carne ». In questo monito riecheggiano le sue precedenti
parole: « Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi; state
dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù
» (Gal 5,1). L'apostolo Paolo ci invita alla vigilanza: la
libertà è sempre insidiata dalla schiavitù. Ed è proprio questo il
caso di un atto di fede — nel senso di un'opzione fondamentale —
che viene dissociato dalla scelta degli atti particolari, secondo le
tendenze sopra ricordate.
67. Queste tendenze sono dunque
contrarie allo stesso insegnamento biblico che concepisce l'opzione
fondamentale come una vera e propria scelta della libertà e collega
profondamente tale scelta con gli atti particolari. Mediante la scelta
fondamentale l'uomo è capace di orientare la sua vita e di tendere,
con l'aiuto della grazia, verso il suo fine, seguendo l'appello
divino. Ma questa capacità si esercita di fatto nelle scelte
particolari di atti determinati, mediante i quali l'uomo si conforma
deliberatamente alla volontà, alla sapienza e alla legge di Dio. Va
pertanto affermato che la cosiddetta opzione fondamentale, nella
misura in cui si differenzia da un'intenzione generica e quindi
non ancora determinatasi in una forma impegnativa della libertà, si
attua sempre mediante scelte consapevoli e libere. Proprio per
questo, essa viene revocata quando l'uomo impegna la sua libertà
in scelte consapevoli di senso contrario, relative a materia morale
grave.
Separare l'opzione fondamentale
dai comportamenti concreti significa contraddire l'integrità
sostanziale o l'unità personale dell'agente morale nel suo corpo e
nella sua anima. Un'opzione fondamentale, intesa senza considerare
esplicitamente le potenzialità che mette in atto e le determinazioni
che la esprimono, non rende giustizia alla finalità razionale
immanente all'agire dell'uomo e a ciascuna delle sue scelte
deliberate. In realtà, la moralità degli atti umani non si evince
solo dall'intenzione, dall'orientazione o opzione fondamentale,
interpretata nel senso di un'intenzione vuota di contenuti impegnativi
ben determinati o di un'intenzione alla quale non corrisponde uno
sforzo fattivo nei diversi obblighi della vita morale. La moralità
non può essere giudicata se si prescinde dalla conformità o dalla
contrarietà della scelta deliberata di un comportamento concreto
rispetto alla dignità e alla vocazione integrale della persona umana.
Ogni scelta implica sempre un riferimento della volontà deliberata ai
beni e ai mali, indicati dalla legge naturale come beni da perseguire
e mali da evitare.
Nel caso dei precetti morali
positivi, la prudenza ha sempre il compito di verificarne la
pertinenza in una determinata situazione, per esempio tenendo conto di
altri doveri forse più importanti o urgenti. Ma i precetti morali
negativi, cioè quelli che proibiscono alcuni atti o comportamenti
concreti come intrinsecamente cattivi, non ammettono alcuna legittima
eccezione; essi non lasciano alcuno spazio moralmente accettabile per
la « creatività » di una qualche determinazione contraria. Una
volta riconosciuta in concreto la specie morale di un'azione proibita
da una regola universale, il solo atto moralmente buono è quello di
obbedire alla legge morale e di astenersi dall'azione che essa
proibisce.
68. Occorre aggiungere una
importante considerazione pastorale. Nella logica delle posizioni
sopra accennate, l'uomo potrebbe, in virtù di un'opzione
fondamentale, restare fedele a Dio, indipendentemente dalla conformità
o meno di alcune sue scelte e dei suoi atti determinati alle norme o
regole morali specifiche. In ragione di un'opzione originaria per la
carità, l'uomo potrebbe mantenersi moralmente buono, perseverare
nella grazia di Dio, raggiungere la propria salvezza, anche se alcuni
dei suoi comportamenti concreti fossero deliberatamente e gravemente
contrari ai comandamenti di Dio, riproposti dalla Chiesa.
In realtà, l'uomo non si perde
solo per l'infedeltà a quella opzione fondamentale, mediante la quale
si è consegnato « tutto a Dio liberamente ».113 Egli, con ogni
peccato mortale commesso deliberatamente, offende Dio che ha donato la
legge e pertanto si rende colpevole verso tutta la legge (cf Gc 2,8-11);
pur conservandosi nella fede, egli perde la « grazia santificante »,
la « carità » e la « beatitudine eterna ».114 « La grazia della
giustificazione — insegna il Concilio di Trento —, una volta
ricevuta, può essere perduta non solo per l'infedeltà, che fa
perdere la stessa fede, ma anche per qualsiasi altro peccato mortale
».115
Peccato mortale e veniale
69. Le considerazioni intorno
all'opzione fondamentale hanno indotto, come abbiamo ora notato,
alcuni teologi a sottoporre a profonda revisione anche la distinzione
tradizionale tra i peccati mortali e i peccati veniali. Essi
sottolineano che l'opposizione alla legge di Dio, che causa la perdita
della grazia santificante — e, nel caso di morte in un simile stato
di peccato, l'eterna condanna —, può essere soltanto il frutto di
un atto che coinvolge la persona nella sua totalità, cioè un atto di
opzione fondamentale. Secondo questi teologi il peccato mortale, che
separa l'uomo da Dio, si verificherebbe soltanto nel rifiuto di Dio,
compiuto ad un livello della libertà non identificabile con un atto
di scelta né attingibile con consapevolezza riflessa. In questo senso
— aggiungono — è difficile, almeno psicologicamente, accettare il
fatto che un cristiano, che vuole rimanere unito a Gesù Cristo e alla
sua Chiesa, possa così facilmente e ripetutamente commettere peccati
mortali, come indicherebbe, a volte, la « materia » stessa dei suoi
atti. Parimenti sarebbe difficile accettare che l'uomo sia capace, in
un breve lasso di tempo, di spezzare radicalmente il legame di
comunione con Dio e, successivamente, di convertirsi a lui mediante la
sincera penitenza. Occorre dunque — si dice — misurare la gravità
del peccato piuttosto dal grado di impegno della libertà della
persona che compie un atto che non dalla materia di tale atto.
70. L'Esortazione apostolica
post-sinodale Reconciliatio et paenitentia ha ribadito
l'importanza e la permanente attualità della distinzione tra peccati
mortali e veniali, secondo la tradizione della Chiesa. E il Sinodo dei
Vescovi del 1983, da cui è scaturita tale Esortazione, « non
soltanto ha riaffermato quanto è stato proclamato dal Concilio
Tridentino sull'esistenza e la natura dei peccati mortali e veniali,
ma ha voluto ricordare che è peccato mortale quello che ha per
oggetto una materia grave e che, inoltre, viene commesso con piena
consapevolezza e deliberato consenso ».116
Il pronunciamento del Concilio di
Trento non considera soltanto la « materia grave » del peccato
mortale, ma ricorda anche, come sua necessaria condizione, « la piena
avvertenza e il deliberato consenso ». Del resto, sia nella teologia
morale che nella pratica pastorale, sono ben conosciuti i casi nei
quali un atto grave, a motivo della sua materia, non costituisce
peccato mortale a motivo della non piena avvertenza o del non
deliberato consenso di colui che lo compie. D'altra parte, « si dovrà
evitare di ridurre il peccato mortale ad un atto di "opzione
fondamentale" — come oggi si suol dire — contro Dio »,
concepito sia come esplicito e formale disprezzo di Dio e del prossimo
sia come implicito e non riflesso rifiuto dell'amore. « Si ha,
infatti, peccato mortale anche quando l'uomo, sapendo e volendo, per
qualsiasi ragione sceglie qualcosa di gravemente disordinato. In
effetti, in una tale scelta è già contenuto un disprezzo del
precetto divino, un rifiuto dell'amore di Dio verso l'umanità e tutta
la creazione: l'uomo allontana se stesso da Dio e perde la carità. L'orientamento
fondamentale, quindi, può essere radicalmente modificato da
atti particolari. Senza dubbio si possono dare situazioni molto
complesse e oscure sotto l'aspetto psicologico, che influiscono sulla
imputabilità soggettiva del peccatore. Ma dalla considerazione della
sfera psicologica non si può passare alla costituzione di una
categoria teologica, quale appunto l' "opzione
fondamentale", intendendola in modo tale che, sul piano
oggettivo, cambi o metta in dubbio la concezione tradizionale di
peccato mortale ».117
In tal modo la dissociazione tra
opzione fondamentale e scelte deliberate di comportamenti determinati
— disordinati in se stessi o nelle circostanze — che non la
metterebbero in causa, comporta il misconoscimento della dottrina
cattolica sul peccato mortale: « Con tutta la tradizione della Chiesa
noi chiamiamo peccato mortale questo atto, per il quale un
uomo, con libertà e consapevolezza, rifiuta Dio, la sua legge,
l'alleanza di amore che Dio gli propone, preferendo volgersi a se
stesso, a qualche realtà creata e finita, a qualcosa di contrario al
volere divino (conversio ad creaturam). Il che può avvenire in
modo diretto e formale, come nei peccati di idolatria, di apostasia,
di ateismo; o in modo equivalente, come in tutte le disubbidienze ai
comandamenti di Dio in materia grave ».118
IV. L'atto morale
Teleologia e teleologismo
71. Il rapporto tra la libertà
dell'uomo e la legge di Dio, che trova la sua sede intima e viva nella
coscienza morale, si manifesta e si realizza negli atti umani. È
proprio mediante i suoi atti che l'uomo si perfeziona come uomo, come
uomo chiamato a cercare spontaneamente il suo Creatore e a giungere
liberamente, con l'adesione a lui, alla piena e beata perfezione.119
Gli atti umani sono atti
morali, perché esprimono e decidono della bontà o malizia
dell'uomo stesso che compie quegli atti.120 Essi non producono solo un
mutamento dello stato di cose esterne all'uomo, ma, in quanto scelte
deliberate, qualificano moralmente la persona stessa che li compie e
ne determinano la fisionomia spirituale profonda, come rileva
suggestivamente san Gregorio Nisseno: « Tutti gli esseri soggetti al
divenire non restano mai identici a se stessi, ma passano
continuamente da uno stato ad un altro mediante un cambiamento che
opera sempre, in bene o in male... Ora, essere soggetto a cambiamento
è nascere continuamente... Ma qui la nascita non avviene per un
intervento estraneo, com'è il caso degli esseri corporei... Essa è
il risultato di una scelta libera e noi siamo così, in certo
modo, i nostri stessi genitori, creandoci come vogliamo, e con
la nostra scelta dandoci la forma che vogliamo ».121
72. La moralità degli atti è
definita dal rapporto della libertà dell'uomo col bene autentico.
Tale bene è stabilito, come legge eterna, dalla Sapienza di Dio che
ordina ogni essere al suo fine: questa legge eterna è conosciuta
tanto attraverso la ragione naturale dell'uomo (e così è « legge
naturale »), quanto — in modo integrale e perfetto — attraverso
la rivelazione soprannaturale di Dio (e così è chiamata « legge
divina »). L'agire è moralmente buono quando le scelte della libertà
sono conformi al vero bene dell'uomo ed esprimono così
l'ordinazione volontaria della persona verso il suo fine ultimo, cioè
Dio stesso: il bene supremo nel quale l'uomo trova la sua piena e
perfetta felicità. La domanda iniziale del colloquio del giovane con
Gesù: « Che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna? »
(Mt 19,16) mette immediatamente in luce l'essenziale legame
tra il valore morale di un atto e il fine ultimo dell'uomo. Gesù,
nella sua risposta, conferma la convinzione del suo interlocutore: il
compimento di atti buoni, comandati da Colui che « solo è buono »,
costituisce la condizione indispensabile e la via per la beatitudine
eterna: « Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti » (Mt
19,17). La risposta di Gesù e il rimando ai comandamenti
manifestano anche che la via al fine è segnata dal rispetto delle
leggi divine che tutelano il bene umano. Solo l'atto conforme al
bene può essere via che conduce alla vita.
L'ordinazione razionale dell'atto
umano al bene nella sua verità e il perseguimento volontario di
questo bene, conosciuto dalla ragione, costituiscono la moralità.
Pertanto, l'agire umano non può essere valutato moralmente buono solo
perché funzionale a raggiungere questo o quello scopo, che persegue,
o semplicemente perché l'intenzione del soggetto è buona.122 L'agire
è moralmente buono quando attesta ed esprime l'ordinazione volontaria
della persona al fine ultimo e la conformità dell'azione concreta con
il bene umano come viene riconosciuto nella sua verità dalla ragione.
Se l'oggetto dell'azione concreta non è in sintonia con il bene vero
della persona, la scelta di tale azione rende la nostra volontà e noi
stessi moralmente cattivi e, quindi, ci mette in contrasto con il
nostro fine ultimo, il bene supremo, cioè Dio stesso.
73. Il cristiano, grazie alla
rivelazione di Dio e alla fede, conosce la « novità » da cui è
segnata la moralità dei suoi atti; questi sono chiamati ad esprimere
la coerenza o meno con quella dignità e vocazione che gli sono state
donate dalla grazia: in Gesù Cristo e nel suo Spirito, il cristiano
è « creatura nuova », figlio di Dio, e mediante i suoi atti
manifesta la sua conformità o difformità con l'immagine del Figlio
che è il primogenito tra molti fratelli (cf Rm 8,29), vive la
sua fedeltà o infedeltà al dono dello Spirito e si apre o si chiude
alla vita eterna, alla comunione di visione, di amore e di beatitudine
con Dio Padre, Figlio e Spirito Santo.123 Cristo « ci forma secondo
la sua immagine — scrive san Cirillo Alessandrino —, in modo che i
lineamenti della sua divina natura risplendano in noi attraverso la
santificazione e la giustizia e la vita buona e conforme a virtù...
La bellezza di questa immagine risplende in noi che siamo in Cristo,
quando ci mostriamo uomini buoni nelle opere ».124
In questo senso la vita morale
possiede un essenziale carattere « teleologico », perché
consiste nella deliberata ordinazione degli atti umani a Dio, sommo
bene e fine (telos) ultimo dell'uomo. Lo attesta, ancora una
volta, la domanda del giovane a Gesù: « Che cosa devo fare di buono
per ottenere la vita eterna? ». Ma questa ordinazione al fine ultimo
non è una dimensione soggettivistica che dipende solo
dall'intenzione. Essa presuppone che tali atti siano in se stessi
ordinabili a questo fine, in quanto conformi all'autentico bene morale
dell'uomo, tutelato dai comandamenti. È ciò che ricorda Gesù stesso
nella risposta al giovane: « Se vuoi entrare nella vita, osserva i
comandamenti » (Mt 19,17).
Evidentemente dev'essere
un'ordinazione razionale e libera, cosciente e deliberata, in forza
della quale l'uomo è « responsabile » dei suoi atti ed è soggetto
al giudizio di Dio, giudice giusto e buono che premia il bene e
castiga il male, come ci ricorda l'apostolo Paolo: « Tutti infatti
dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, ciascuno per
ricevere la ricompensa delle opere compiute finché era nel corpo, sia
in bene che in male » (2 Cor 5,10).
74. Ma da che cosa dipende la
qualificazione morale dell'agire libero dell'uomo? Da che cosa è
assicurata questa ordinazione a Dio degli atti umani? Dall'intenzione
del soggetto che agisce, dalle circostanze — e in
particolare dalle conseguenze — del suo agire, dall'oggetto stesso
del suo atto?
È questo il problema
tradizionalmente chiamato delle « fonti della moralità ». Proprio a
riguardo di tale problema, in questi decenni si sono manifestate nuove
— o ripristinate — tendenze culturali e teologiche che esigono un
accurato discernimento da parte del Magistero della Chiesa.
Alcune teorie etiche, denominate
« teleologiche », si presentano attente alla conformità
degli atti umani con i fini perseguiti dall'agente e con i valori da
lui intesi. I criteri per valutare la giustezza morale di un'azione
sono ricavati dalla ponderazione dei beni non-morali o pre-morali da
conseguire e dei rispettivi valori non-morali o pre-morali da
rispettare. Per taluni il comportamento concreto sarebbe giusto, o
sbagliato, a seconda che possa, o non possa, produrre uno stato di
cose migliore per tutte le persone interessate: sarebbe giusto il
comportamento in grado di « massimizzare » i beni e di «
minimizzare » i mali.
Molti dei moralisti cattolici, che
seguono questo orientamento, intendono prendere le distanze
dall'utilitarismo e dal pragmatismo, per cui la moralità degli atti
umani sarebbe giudicata senza far riferimento al vero fine ultimo
dell'uomo. Essi giustamente si rendono conto della necessità di
trovare argomentazioni razionali, sempre più consistenti, per
giustificare le esigenze e fondare le norme della vita morale. E tale
ricerca è legittima e necessaria, dal momento che l'ordine morale,
stabilito dalla legge naturale, è in linea di principio accessibile
alla ragione umana. È ricerca, del resto, che corrisponde alle
esigenze del dialogo e della collaborazione con i non-cattolici e i
non-credenti, particolarmente nelle società pluralistiche.
75. Ma all'interno dello sforzo di
elaborare una simile morale razionale — talvolta chiamata a questo
titolo « morale autonoma » —, esistono false soluzioni, legate
in particolare ad una inadeguata comprensione dell'oggetto dell'agire
morale. Alcuni non tengono in sufficiente considerazione il fatto
che la volontà è coinvolta nelle scelte concrete che essa opera:
queste sono condizione della sua bontà morale e della sua ordinazione
al fine ultimo della persona. Altri poi si ispirano ad una
concezione della libertà che prescinde dalle condizioni effettive del
suo esercizio, dal suo riferimento oggettivo alla verità sul bene,
dalla sua determinazione mediante scelte di comportamenti concreti.
Così, secondo queste teorie, la volontà libera non sarebbe né
moralmente sottomessa a obbligazioni determinate, né informata dalle
sue scelte, pur rimanendo responsabile dei propri atti e delle loro
conseguenze. Questo « teleologismo », come metodo di
rinvenimento della norma morale, può allora — secondo terminologie
e approcci mutuati da differenti correnti di pensiero — chiamarsi «
consequenzialismo » o « proporzionalismo ». Il primo
pretende di ricavare i criteri della giustezza di un determinato agire
solo dal calcolo delle conseguenze che si prevedono derivare
dall'esecuzione di una scelta. Il secondo, ponderando tra loro valori
e beni perseguiti, si focalizza piuttosto sulla proporzione
riconosciuta tra gli effetti buoni e cattivi, in vista del « più
grande bene » o del « minor male » effettivamente possibili in una
situazione particolare.
Le teorie etiche teleologiche
(proporzionalismo, consequenzialismo), pur
riconoscendo che i valori morali sono indicati dalla ragione e dalla
Rivelazione, ritengono che non si possa mai formulare una proibizione
assoluta di determinati comportamenti, che sarebbero contrastanti, in
ogni circostanza e in ogni cultura, con quei valori. Il soggetto che
agisce sarebbe sì responsabile del raggiungimento dei valori
perseguiti, ma secondo un duplice aspetto: infatti, i valori o beni
coinvolti in un atto umano sarebbero, per un aspetto, di ordine
morale (in rapporto a valori propriamente morali, come l'amore di
Dio, la benevolenza verso il prossimo, la giustizia, ecc.) e, per un
altro aspetto, di ordine pre-morale, detto anche non-morale o
fisico o ontico (in rapporto ai vantaggi e svantaggi recati sia a
colui che agisce che ad altre persone, prima o poi coinvolte, come, ad
esempio, la salute o la sua lesione, l'integrità fisica, la vita, la
morte, la perdita di beni materiali, ecc.). In un mondo in cui il bene
sarebbe sempre mescolato al male ed ogni effetto buono legato ad altri
effetti cattivi, la moralità dell'atto si giudicherebbe in modo
differenziato: la sua « bontà » morale sulla base dell'intenzione
del soggetto riferita ai beni morali e la sua « giustezza » sulla
base della considerazione degli effetti o conseguenze prevedibili e
della loro proporzione. Di conseguenza, i comportamenti concreti
sarebbero da qualificarsi come « giusti » o « sbagliati », senza
che per questo sia possibile valutare come moralmente « buona » o «
cattiva » la volontà della persona che li sceglie. In questo modo,
un atto, che ponendosi in contraddizione con una norma universale
negativa viola direttamente beni considerati come pre-morali, potrebbe
essere qualificato come moralmente ammissibile, se l'intenzione del
soggetto si concentra, secondo una « responsabile » ponderazione dei
beni coinvolti nell'azione concreta, sul valore morale giudicato
decisivo nella circostanza.
La valutazione delle conseguenze
dell'azione, in base alla proporzione dell'atto con i suoi effetti e
degli effetti tra di loro, riguarderebbe l'ordine solo pre-morale.
Sulla specificità morale degli atti, ossia sulla loro bontà o
malizia, deciderebbe esclusivamente la fedeltà della persona ai
valori più alti della carità e della prudenza, senza che questa
fedeltà sia necessariamente incompatibile con scelte contrarie a
certi precetti morali particolari. Anche in materia grave, questi
ultimi dovrebbero essere considerati come norme operative sempre
relative e suscettibili di eccezioni.
In questa prospettiva il consenso
deliberato a certi comportamenti dichiarati illeciti dalla morale
tradizionale non implicherebbe una malizia morale oggettiva.
L'oggetto dell'atto
deliberato
76. Queste teorie possono
acquistare una certa forza persuasiva dalla loro affinità con la
mentalità scientifica, giustamente preoccupata di ordinare le attività
tecniche ed economiche in base al calcolo delle risorse e dei
profitti, dei procedimenti e degli effetti. Esse vogliono liberare
dalle costrizioni di una morale dell'obbligazione, volontarista e
arbitraria, che si rivelerebbe disumana.
Siffatte teorie non sono però
fedeli alla dottrina della Chiesa, allorché credono di poter
giustificare, come moralmente buone, scelte deliberate di
comportamenti contrari ai comandamenti della legge divina e naturale.
Queste teorie non possono richiamarsi alla tradizione morale
cattolica: se è vero che in quest'ultima si è sviluppata una
casistica attenta a ponderare in alcune situazioni concrete le
possibilità maggiori di bene, è altrettanto vero che ciò riguardava
solo i casi in cui la legge era incerta e, pertanto, non metteva in
discussione la validità assoluta dei precetti morali negativi che
obbliga senza eccezione. I fedeli sono tenuti a riconoscere e a
rispettare i precetti morali specifici, dichiarati e insegnati dalla
Chiesa in nome di Dio, Creatore e Signore.125 Quando l'apostolo Paolo
ricapitola nel precetto di amare il prossimo come se stessi il
compimento della legge (cf Rm 13,8-10), non attenua i
comandamenti, ma piuttosto li conferma, dal momento che ne rivela le
esigenze e la gravità. L'amore di Dio e l'amore del prossimo sono
inseparabili dall'osservanza dei comandamenti dell'Alleanza,
rinnovata nel sangue di Gesù Cristo e nel dono dello Spirito. È
onore proprio dei cristiani obbedire a Dio piuttosto che agli uomini
(cf At 4,19; 5,29) ed accettare per questo anche il martirio,
come hanno fatto i santi e le sante dell'Antico e del Nuovo
Testamento, riconosciuti tali per aver dato la loro vita piuttosto che
compiere questo o quel gesto particolare contrario alla fede o alla
virtù.
77. Per offrire i criteri
razionali di una giusta decisione morale, le accennate teorie tengono
conto dell'intenzione e delle conseguenze dell'azione
umana. Sono certamente da prendere in grande considerazione sia
l'intenzione — come insiste con una forza particolare Gesù in
aperta contrapposizione agli scribi e farisei, che minuziosamente
prescrivevano certe opere esteriori senza badare al cuore (cf Mc 7,20-21;
Mt 15,19) —, sia i beni ottenuti e i mali evitati, a seguito
di un atto particolare. Si tratta di un'esigenza di responsabilità.
Ma la considerazione di queste conseguenze — nonché delle
intenzioni — non è sufficiente a valutare la qualità morale di una
scelta concreta. La ponderazione dei beni e dei mali, prevedibili in
conseguenza di un'azione, non è un metodo adeguato per determinare se
la scelta di quel comportamento concreto è « secondo la sua specie
», o « in se stessa », moralmente buona o cattiva, lecita o
illecita. Le conseguenze prevedibili appartengono a quelle circostanze
dell'atto, che, se possono modificare la gravità di un atto cattivo,
non possono però cambiarne la specie morale.
Ciascuno, del resto, conosce le
difficoltà — o meglio l'impossibilità — di valutare tutte le
conseguenze e tutti gli effetti buoni o cattivi — definiti
pre-morali — dei propri atti: un calcolo razionale esaustivo non è
possibile. Come fare allora per stabilire delle proporzioni che
dipendono da una valutazione, i cui criteri restano oscuri? In che
modo potrebbe giustificarsi un obbligo assoluto su calcoli tanto
discutibili?
78. La moralità dell'atto
umano dipende anzitutto e fondamentalmente dall'oggetto
ragionevolmente scelto dalla volontà deliberata, come prova anche
la penetrante analisi, tuttora valida, di san Tommaso.126 Per poter
cogliere l'oggetto di un atto che lo specifica moralmente occorre
quindi collocarsi nella prospettiva della persona che agisce. Infatti,
l'oggetto dell'atto del volere è un comportamento liberamente scelto.
In quanto conforme all'ordine della ragione, esso è causa della bontà
della volontà, ci perfeziona moralmente e ci dispone a riconoscere il
nostro fine ultimo nel bene perfetto, l'amore originario. Per oggetto
di un determinato atto morale non si può, dunque, intendere un
processo o un evento di ordine solamente fisico, da valutare in quanto
provoca un determinato stato di cose nel mondo esteriore. Esso è il
fine prossimo di una scelta deliberata, che determina l'atto del
volere della persona che agisce. In tal senso, come insegna il Catechismo
della Chiesa Cattolica, « vi sono comportamenti concreti che è
sempre sbagliato scegliere, perché la loro scelta comporta un
disordine della volontà, cioè un male morale ».127 « Spesso
infatti — scrive l'Aquinate — qualcuno agisce con buona
intenzione, ma inutilmente, in quanto manca la buona volontà: come
nel caso di uno che rubi per nutrire un povero, c'è sì la retta
intenzione, manca tuttavia la rettitudine della debita volontà. Di
conseguenza, nessun male compiuto con buona intenzione può essere
scusato: "Come coloro che dicono: Facciamo il male perché venga
il bene; la condanna dei quali è giusta" (Rm 3,8) ».128
La ragione per cui non basta la
buona intenzione ma occorre anche la retta scelta delle opere, sta nel
fatto che l'atto umano dipende dal suo oggetto, ossia se questo è ordinabile
o meno a Dio, a Colui che « solo è buono », e così realizza la
perfezione della persona. L'atto è buono, quindi, se il suo oggetto
è conforme al bene della persona nel rispetto dei beni per essa
moralmente rilevanti. L'etica cristiana, che privilegia l'attenzione
all'oggetto morale, non rifiuta di considerare l'interiore «
teleologia » dell'agire, in quanto volto a promuovere il vero bene
della persona, ma riconosce che esso viene realmente perseguito solo
quando si rispettano gli elementi essenziali della natura umana.
L'atto umano, buono secondo il suo oggetto, è anche ordinabile al
fine ultimo. Lo stesso atto raggiunge poi la sua perfezione ultima e
decisiva quando la volontà lo ordina effettivamente a Dio
mediante la carità. In tal senso, il Patrono dei moralisti e dei
confessori insegna: « Non basta fare opere buone, ma bisogna farle
bene. Acciocché le opere nostre siano buone e perfette, è necessario
farle col puro fine di piacere a Dio ».129
Il « male intrinseco »:
non è lecito fare il male a scopo di bene
(cf Rm 3,8)
79. È da respingere quindi la
tesi, propria delle teorie teleologiche e proporzionaliste, secondo
cui sarebbe impossibile qualificare come moralmente cattiva secondo la
sua specie — il suo « oggetto » — la scelta deliberata di
alcuni comportamenti o atti determinati prescindendo dall'intenzione
per cui la scelta viene fatta o dalla totalità delle conseguenze
prevedibili di quell'atto per tutte le persone interessate.
L'elemento primario e decisivo per
il giudizio morale è l'oggetto dell'atto umano, il quale decide sulla
sua ordinabilità al bene e al fine ultimo, che è Dio. Tale
ordinabilità viene colta dalla ragione nell'essere stesso dell'uomo,
considerato nella sua verità integrale, dunque nelle sue inclinazioni
naturali, nei suoi dinamismi e nelle sue finalità che hanno sempre
anche una dimensione spirituale: sono esattamente questi i contenuti
della legge naturale, e quindi il complesso ordinato dei « beni per
la persona » che si pongono al servizio del « bene della persona »,
di quel bene che è essa stessa e la sua perfezione. Sono questi i
beni tutelati dai comandamenti, i quali, secondo san Tommaso,
contengono tutta la legge naturale.130
80. Ora la ragione attesta che si
danno degli oggetti dell'atto umano che si configurano come «
non-ordinabili » a Dio, perché contraddicono radicalmente il bene
della persona, fatta a sua immagine. Sono gli atti che, nella
tradizione morale della Chiesa, sono stati denominati «
intrinsecamente cattivi » (intrinsece malum): lo sono sempre e
per sé, ossia per il loro stesso oggetto, indipendentemente dalle
ulteriori intenzioni di chi agisce e dalle circostanze. Per questo,
senza minimamente negare l'influsso che sulla moralità hanno le
circostanze e soprattutto le intenzioni, la Chiesa insegna che «
esistono atti che, per se stessi e in se stessi, indipendentemente
dalle circostanze, sono sempre gravemente illeciti, in ragione del
loro oggetto ».131 Lo stesso Concilio Vaticano II, nel contesto del
dovuto rispetto della persona umana, offre un'ampia esemplificazione
di tali atti: « Tutto ciò che è contro la vita stessa, come ogni
specie di omicidio, il genocidio, l'aborto, l'eutanasia e lo stesso
suicidio volontario; tutto ciò che viola l'integrità della persona
umana, come le mutilazioni, le torture inflitte al corpo e alla mente,
gli sforzi per violentare l'intimo dello spirito; tutto ciò che
offende la dignità umana, come le condizioni infraumane di vita, le
incarcerazioni arbitrarie, le deportazioni, la schiavitù, la
prostituzione, il mercato delle donne e dei giovani, o ancora le
ignominiose condizioni del lavoro con le quali i lavoratori sono
trattati come semplici strumenti di guadagno, e non come persone
libere e responsabili; tutte queste cose, e altre simili, sono
certamente vergognose e, mentre guastano la civiltà umana, ancor più
inquinano coloro che così si comportano, che non quelli che le
subiscono, e ledono grandemente l'onore del Creatore ».132
Sugli atti intrinsecamente
cattivi, e in riferimento alle pratiche contraccettive mediante le
quali l'atto coniugale è reso intenzionalmente infecondo, Paolo VI
insegna: « In verità, se è lecito, talvolta, tollerare un minor
male morale al fine di evitare un male maggiore o di promuovere un
bene più grande, non è lecito, neppure per ragioni gravissime, fare
il male, affinché ne venga il bene (cf Rm 3,8), cioè fare
oggetto di un atto positivo di volontà ciò che è intrinsecamente
disordine e quindi indegno della persona umana, anche se nell'intento
di salvaguardare o promuovere beni individuali, familiari o sociali ».133
81. Insegnando l'esistenza di atti
intrinsecamente cattivi, la Chiesa accoglie la dottrina della Sacra
Scrittura. L'apostolo Paolo afferma in modo categorico: « Non
illudetevi: né immorali, né idolatri, né adulteri, né effeminati,
né sodomiti, né ladri, né ubriaconi, né maldicenti, né rapaci
erediteranno il Regno di Dio » (1 Cor 6,9-10).
Se gli atti sono intrinsecamente
cattivi, un'intenzione buona o circostanze particolari possono
attenuarne la malizia, ma non possono sopprimerla: sono atti «
irrimediabilmente » cattivi, per se stessi e in se stessi non sono
ordinabili a Dio e al bene della persona: « Quanto agli atti che sono
per se stessi dei peccati (cum iam opera ipsa peccata sunt) —
scrive sant'Agostino —, come il furto, la fornicazione, la
bestemmia, o altri atti simili, chi oserebbe affermare che,
compiendoli per buoni motivi (causis bonis), non sarebbero più
peccati o, conclusione ancora più assurda, che sarebbero peccati
giustificati? ».134
Per questo, le circostanze o le
intenzioni non potranno mai trasformare un atto intrinsecamente
disonesto per il suo oggetto in un atto « soggettivamente » onesto o
difendibile come scelta.
82. Del resto, l'intenzione è
buona quando mira al vero bene della persona in vista del suo fine
ultimo. Ma gli atti, il cui oggetto è « non-ordinabile » a Dio e «
indegno della persona umana », si oppongono sempre e in ogni caso a
questo bene. In tal senso il rispetto delle norme che proibiscono tali
atti e che obbligano semper et pro semper, ossia senza alcuna
eccezione, non solo non limita la buona intenzione, ma costituisce
addirittura la sua espressione fondamentale.
La dottrina dell'oggetto, quale
fonte della moralità, costituisce un'esplicitazione autentica della
morale biblica dell'Alleanza e dei comandamenti, della carità e delle
virtù. La qualità morale dell'agire umano dipende da questa fedeltà
ai comandamenti, espressione di obbedienza e di amore. È per questo
— lo ripetiamo — che è da respingere come erronea l'opinione che
ritiene impossibile qualificare moralmente come cattiva secondo la sua
specie la scelta deliberata di alcuni comportamenti o atti
determinati, prescindendo dall'intenzione per cui la scelta viene
fatta o dalla totalità delle conseguenze prevedibili di quell'atto
per tutte le persone interessate. Senza questa determinazione
razionale della moralità dell'agire umano, sarebbe impossibile
affermare un « ordine morale oggettivo » 135 e stabilire una
qualsiasi norma determinata dal punto di vista del contenuto, che
obblighi senza eccezioni; e ciò a scapito della fraternità umana e
della verità sul bene, e a detrimento altresì della comunione
ecclesiale.
83. Come si vede, nella questione
della moralità degli atti umani, e in particolare in quella
dell'esistenza degli atti intrinsecamente cattivi, si concentra in un
certo senso la questione stessa dell'uomo, della sua verità
e delle conseguenze morali che ne derivano. Riconoscendo e
insegnando l'esistenza del male intrinseco in determinati atti umani,
la Chiesa rimane fedele alla verità integrale dell'uomo, e quindi lo
rispetta e lo promuove nella sua dignità e vocazione. Essa, di
conseguenza, deve respingere le teorie sopra esposte che si pongono in
contrasto con questa verità.
Bisogna però che noi, Fratelli
nell'Episcopato, non ci fermiamo solo ad ammonire i fedeli circa gli
errori e i pericoli di alcune teorie etiche. Dobbiamo, prima di tutto,
mostrare l'affascinante splendore di quella verità che è Gesù
Cristo stesso. In Lui, che è la Verità (cf Gv 14,6), l'uomo
può comprendere pienamente e vivere perfettamente, mediante gli atti
buoni, la sua vocazione alla libertà nell'obbedienza alla legge
divina, che si compendia nel comandamento dell'amore di Dio e del
prossimo. Ed è quanto avviene con il dono dello Spirito Santo,
Spirito di verità, di libertà e di amore: in Lui ci è dato di
interiorizzare la legge e di percepirla e viverla come il dinamismo
della vera libertà personale: « la legge perfetta, la legge della
libertà » (Gc 1,25).
CAPITOLO III
«
PERCHÉ NON VENGA RESA VANA
LA CROCE DI CRISTO »
(1 Cor 1,17)
Il
bene morale per la vita della chiesa e del mondo
« Cristo ci ha liberati
perché restassimo liberi »
(Gal 5,1)
84. La questione fondamentale che
le teorie morali sopra ricordate pongono con particolare forza è
quella del rapporto tra la libertà dell'uomo e la legge di Dio,
ultimamente è la questione del rapporto tra la libertà e la verità.
Secondo la fede cristiana e la
dottrina della Chiesa, « solamente la libertà che si sottomette alla
Verità conduce la persona umana al suo vero bene. Il bene della
persona è di essere nella Verità e di fare la Verità ».136
Il confronto tra la posizione
della Chiesa e la situazione sociale e culturale d'oggi mette
immediatamente in luce l'urgenza che proprio su tale questione
fondamentale si sviluppi un'intensa opera pastorale da parte
della Chiesa stessa: « Questo essenziale legame di Verità-Bene-Libertà
è stato smarrito in larga parte dalla cultura contemporanea e,
pertanto, ricondurre l'uomo a riscoprirlo è oggi una delle esigenze
proprie della missione della Chiesa, per la salvezza del mondo. La
domanda di Pilato: "Che cosa è la verità?" emerge anche
dalla sconsolata perplessità di un uomo che spesso non sa più chi
è, donde viene e dove va. E così assistiamo non di rado
al pauroso precipitare della persona umana in situazioni di
autodistruzione progressiva. A voler ascoltare certe voci, sembra di
non doversi più riconoscere l'indistruttibile assolutezza di alcun
valore morale. Sono sotto gli occhi di tutti il disprezzo della vita
umana già concepita e non ancora nata; la violazione permanente di
fondamentali diritti della persona; l'iniqua distruzione dei beni
necessari per una vita semplicemente umana. Anzi, qualcosa di più
grave è accaduto: l'uomo non è più convinto che solo nella verità
può trovare la salvezza. La forza salvifica del vero è contestata,
affidando alla sola libertà, sradicata da ogni obiettività, il
compito di decidere autonomamente ciò che è bene e ciò che è male.
Questo relativismo diviene, nel campo teologico, sfiducia nella
sapienza di Dio, che guida l'uomo con la legge morale. A ciò che la
legge morale prescrive si contrappongono le cosiddette situazioni
concrete, non ritenendo più, in fondo, che la legge di Dio sia sempre
l'unico vero bene dell'uomo ».137
85. L'opera di discernimento di
queste teorie etiche da parte della Chiesa non si restringe alla loro
denuncia e al loro rifiuto, ma mira positivamente a sostenere con
grande amore tutti i fedeli nella formazione d'una coscienza morale
che giudichi e conduca a decisioni secondo verità, come esorta
l'apostolo Paolo: « Non conformatevi alla mentalità di questo
secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter
discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e
perfetto » (Rm 12, 2). Quest'opera della Chiesa trova il suo
punto di forza — il suo « segreto » formativo — non tanto negli
enunciati dottrinali e negli appelli pastorali alla vigilanza, quanto
nel tenere lo sguardo fisso sul Signore Gesù. La Chiesa ogni
giorno guarda con instancabile amore a Cristo, pienamente consapevole
che solo in lui sta la risposta vera e definitiva al problema morale.
In particolare, in Gesù
crocifisso essa trova la risposta alla questione che
tormenta oggi tanti uomini: come può l'obbedienza alle norme morali
universali e immutabili rispettare l'unicità e l'irripetibilità
della persona e non attentare alla sua libertà e dignità? La Chiesa
fa sua la coscienza che l'apostolo Paolo aveva della missione
ricevuta: « Cristo... mi ha mandato... a predicare il vangelo; non
però con un discorso sapiente, perché non venga resa vana la croce
di Cristo... Noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei,
stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei
che Greci, predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio » (1
Cor 1,17.23-24).Cristo crocifisso rivela il senso autentico
della libertà, lo vive in pienezza nel dono totale di sé e
chiama i discepoli a prendere parte alla sua stessa libertà.
86. La riflessione razionale e
l'esperienza quotidiana dimostrano la debolezza, da cui è segnata la
libertà dell'uomo. È libertà reale, ma finita: non ha il suo punto
di partenza assoluto e incondizionato in se stessa, ma nell'esistenza
dentro cui si trova e che rappresenta per essa, nello stesso tempo, un
limite e una possibilità. È la libertà di una creatura, ossia una
libertà donata, da accogliere come un germe e da far maturare con
responsabilità. È parte costitutiva di quell'immagine creaturale,
che fonda la dignità della persona: in essa risuona la vocazione
originaria con cui il Creatore chiama l'uomo al vero Bene, e ancora di
più, con la rivelazione di Cristo, a entrare in amicizia con lui,
partecipando alla stessa vita divina. È insieme inalienabile
autopossesso e apertura universale ad ogni esistente, nell'uscita da sé
verso la conoscenza e l'amore dell'altro.138 La libertà si radica
dunque nella verità dell'uomo ed è finalizzata alla comunione.
Ragione ed esperienza dicono non
solo la debolezza della libertà umana, ma anche il suo dramma. L'uomo
scopre che la sua libertà è misteriosamente inclinata a tradire
questa apertura al Vero e al Bene e che troppo spesso, di fatto, egli
preferisce scegliere beni finiti, limitati ed effimeri. Ancor più,
dentro gli errori e le scelte negative, l'uomo avverte l'origine di
una ribellione radicale, che lo porta a rifiutare la Verità e il Bene
per erigersi a principio assoluto di se stesso: « Voi diventerete
come Dio » (Gn 3,5). La libertà, quindi, ha bisogno
di essere liberata. Cristo ne è il liberatore: egli « ci ha
liberati perché restassimo liberi » (Gal 5,1).
87. Cristo rivela, anzitutto, che
il riconoscimento onesto e aperto della verità è condizione
di autentica libertà: « Conoscerete la verità e la verità vi farà
liberi » (Gv 8,32).139 È la verità che rende liberi davanti
al potere e dà la forza del martirio. Così è di Gesù davanti a
Pilato: « Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo:
per rendere testimonianza alla verità » (Gv 18,37). Così i
veri adoratori di Dio devono adorarlo « in spirito e verità » (Gv
4,23): in questa adorazione diventano liberi. Il legame con la
verità e l'adorazione di Dio si manifestano in Gesù Cristo come la
più intima radice della libertà.
Gesù rivela, inoltre, con la sua
stessa esistenza e non solo con le parole, che la libertà si realizza
nell'amore, cioè neldono di sé. Lui che dice: «
Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri
amici » (Gv 15,13), va incontro liberamente alla Passione (cf Mt
26,46) e nella sua obbedienza al Padre sulla Croce dà la vita per
tutti gli uomini (cf Fil 2, 6-11). In tal modo la
contemplazione di Gesù crocifisso è la via maestra sulla quale la
Chiesa deve camminare ogni giorno se vuole comprendere l'intero senso
della libertà: il dono di sé nel servizio a Dio e ai fratelli. La
comunione poi con il Signore crocifisso e risorto è la sorgente
inesauribile alla quale la Chiesa attinge senza sosta per vivere nella
libertà, donarsi e servire. Commentando il versetto del Salmo 99
(100) « Servite il Signore nella gioia », sant'Agostino dice: «
Nella casa del Signore libera è la schiavitù. Libera, poiché il
servizio non l'impone la necessità, ma la carità... La carità ti
renda servo, come la verità ti ha fatto libero... Allo stesso tempo
tu sei servo e libero: servo, perché ci diventasti; libero, perché
sei amato da Dio, tuo creatore; anzi, libero anche perché ti è dato
di amare il tuo creatore... Sei servo del Signore e sei libero del
Signore. Non cercare una liberazione che ti porti lontano dalla casa
del tuo liberatore! ».140
In tal modo la Chiesa, e ciascun
cristiano in essa, è chiamata a partecipare al munus regale di
Cristo in croce (cf Gv 12,32), alla grazia e alla responsabilità
del Figlio dell'uomo, che « non è venuto per essere servito, ma per
servire e dare la sua vita in riscatto per molti » (Mt 20,28).141
Gesù, dunque, è la sintesi viva
e personale della perfetta libertà nell'obbedienza totale alla volontà
di Dio. La sua carne crocifissa è la piena Rivelazione del vincolo
indissolubile tra libertà e verità, così come la sua risurrezione
da morte è l'esaltazione suprema della fecondità e della forza
salvifica di una libertà vissuta nella verità.
Camminare nella luce
(cf 1 Gv 1,7)
88. La contrapposizione, anzi la
radicale dissociazione tra libertà e verità è conseguenza,
manifestazione e compimento di un'altra più grave e deleteria
dicotomia, quella che separa la fede dalla morale.
Questa separazione costituisce una
delle più acute preoccupazioni pastorali della Chiesa nell'attuale
processo di secolarismo, nel quale tanti, troppi uomini pensano e
vivono « come se Dio non esistesse ». Siamo di fronte ad una
mentalità che coinvolge, spesso in modo profondo, vasto e capillare,
gli atteggiamenti e i comportamenti degli stessi cristiani, la cui
fede viene svigorita e perde la propria originalità di nuovo criterio
interpretativo e operativo per l'esistenza personale, familiare e
sociale. In realtà, i criteri di giudizio e di scelta assunti dagli
stessi credenti si presentano spesso, nel contesto di una cultura
ampiamente scristianizzata, estranei o persino contrapposti a quelli
del Vangelo.
Urge allora che i cristiani
riscoprano la novità della loro fede e la sua forza di giudizio di
fronte alla cultura dominante e invadente: « Se un tempo eravate
tenebra — ci ammonisce l'apostolo Paolo —, ora siete luce nel
Signore. Comportatevi perciò come i figli della luce; il frutto della
luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità. Cercate ciò che è
gradito al Signore, e non partecipate alle opere infruttuose delle
tenebre, ma piuttosto condannatele apertamente... Vigilate dunque
attentamente sulla vostra condotta, comportandovi non da stolti, ma da
uomini saggi; profittando del tempo presente, perché i giorni sono
cattivi » (Ef 5, 8-11.15-16; cf 1 Ts 5,4-8).
Urge ricuperare e riproporre il
vero volto della fede cristiana, che non è semplicemente un insieme
di proposizioni da accogliere e ratificare con la mente. È invece una
conoscenza vissuta di Cristo, una memoria vivente dei suoi
comandamenti, una verità da vivere. Del resto, una parola non
è veramente accolta se non quando passa negli atti, se non quando
viene messa in pratica. La fede è una decisione che impegna tutta
l'esistenza. È incontro, dialogo, comunione di amore e di vita del
credente con Gesù Cristo, Via, Verità e Vita (cf Gv 14,6).
Comporta un atto di confidenza e di abbandono a Cristo, e ci dona di
vivere come lui ha vissuto (cf Gal 2,20), ossia nel più grande
amore a Dio e ai fratelli.
89. La fede possiede anche un
contenuto morale: origina ed esige un impegno coerente di vita,
comporta e perfeziona l'accoglienza e l'osservanza dei comandamenti
divini. Come scrive l'evangelista Giovanni, « Dio è luce e in lui
non ci sono tenebre. Se diciamo che siamo in comunione con lui e
camminiamo nelle tenebre, mentiamo e non mettiamo in pratica la verità...
Da questo sappiamo d'averlo conosciuto: se osserviamo i suoi
comandamenti. Chi dice: "Lo conosco" e non osserva i suoi
comandamenti, è bugiardo e la verità non è in lui; ma chi osserva
la sua parola, in lui l'amore di Dio è veramente perfetto. Da questo
conosciamo di essere in lui. Chi dice di dimorare in Cristo, deve
comportarsi come lui si è comportato » (1 Gv 1,5-6; 2,3-6).
Mediante la vita morale la fede
diventa « confessione », non solo davanti a Dio, ma anche davanti
agli uomini: si fa testimonianza. « Voi siete la luce del
mondo — ha detto Gesù —; non può restare nascosta una città
collocata sopra un monte, né si accende una lucerna per metterla
sotto il moggio, ma sopra il lucerniere perché faccia luce a tutti
quelli che sono nella casa. Così risplenda la vostra luce davanti
agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al
Padre vostro che è nei cieli » (Mt 5,14-16). Queste opere
sono soprattutto quelle della carità (cf Mt 25,31-46) e
dell'autentica libertà che si manifesta e vive nel dono di sé. Sino
al dono totale di sé, come ha fatto Gesù che sulla croce « ha
amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei » (Ef 5,25). La
testimonianza di Cristo è fonte, paradigma e risorsa per la
testimonianza del discepolo, chiamato a porsi sulla stessa strada: «
Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la
sua croce ogni giorno e mi segua » (Lc 9,23). La carità,
secondo le esigenze del radicalismo evangelico, può portare il
credente alla testimonianza suprema del martirio. Sempre
sull'esempio di Gesù che muore in croce: « Fatevi dunque imitatori
di Dio, quali figli carissimi, — scrive Paolo ai cristiani di Efeso
— e camminate nella carità, nel modo che anche Cristo ci ha amato e
ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave
odore » (Ef 5,1-2).
Il martirio, esaltazione
della santità inviolabile della legge di Dio
90. Il rapporto tra fede e morale
splende in tutto il suo fulgore nel rispetto incondizionato che si
deve alle esigenze insopprimibili della dignità personale di ogni
uomo, a quelle esigenze difese dalle norme morali che proibiscono
senza eccezioni gli atti intrinsecamente cattivi. L'universalità e
l'immutabilità della norma morale manifestano e, nello stesso tempo,
si pongono a tutela della dignità personale, ossia dell'inviolabilità
dell'uomo, sul cui volto brilla lo splendore di Dio (cf Gn 9,5-6).
L'inaccettabilità delle teorie
etiche « teleologiche », « consequenzia- liste » e «
proporzionaliste », che negano l'esistenza di norme morali negative
riguardanti comportamenti determinati e valide senza eccezioni, trova
una conferma particolarmente eloquente nel fatto del martirio
cristiano, che ha sempre accompagnato e accompagna tuttora la vita
della Chiesa.
91. Già nell'Antica Alleanza
incontriamo ammirevoli testimonianze di una fedeltà alla legge santa
di Dio spinta fino alla volontaria accettazione della morte.
Emblematica è la storia di Susanna: ai due giudici ingiusti,
che minacciavano di farla morire se si fosse rifiutata di cedere alla
loro passione impura, così rispose: « Sono alle strette da ogni
parte. Se cedo, è la morte per me, se rifiuto, non potrò scampare
dalle vostre mani. Meglio però per me cadere innocente nelle vostre
mani che peccare davanti al Signore! » (Dn 13,22-23). Susanna,
preferendo « cadere innocente » nelle mani dei giudici, testimonia
non solo la sua fede e fiducia in Dio, ma anche la sua obbedienza alla
verità e all'assolutezza dell'ordine morale: con la sua disponibilità
al martirio, proclama che non è giusto fare ciò che la legge di Dio
qualifica come male per trarre da esso un qualche bene. Essa sceglie
per sé la « parte migliore »: una limpidissima testimonianza, senza
nessun compromesso, alla verità circa il bene e al Dio di Israele;
manifesta così, nei suoi atti, la santità di Dio.
Alle soglie del Nuovo Testamento Giovanni
Battista, rifiutandosi di tacere la legge del Signore e di venire
a compromesso col male, « immolò la sua vita per la verità e la
giustizia » 142 e fu così precursore del Messia anche nel martirio
(cf Mc 6,17-29). Per questo, « fu rinchiuso nell'oscurità del
carcere colui che venne a rendere testimonianza alla luce e che dalla
stessa luce, che è Cristo, meritò di essere chiamato lampada che
arde e illumina... E fu battezzato nel proprio sangue colui al quale
era stato concesso di battezzare il Redentore del mondo ».143
Nella Nuova Alleanza si incontrano
numerose testimonianze di seguaci di Cristo — a cominciare
dal diacono Stefano (cf At 6,8–7,60) e dall'apostolo Giacomo
(cf At 12,1-2) — che sono morti martiri per confessare la
loro fede e il loro amore al Maestro e per non rinnegarlo. In ciò
essi hanno seguito il Signore Gesù, che davanti a Caifa e a Pilato «
ha dato la sua bella testimonianza » (1 Tm 6,13), confermando
la verità del suo messaggio con il dono della vita. Innumerevoli
altri martiri accettarono le persecuzioni e la morte piuttosto che
porre il gesto idolatrico di bruciare l'incenso davanti alla statua
dell'Imperatore (cf Ap 13, 7-10). Rifiutarono persino di
simulare un simile culto, dando così l'esempio del dovere di
astenersi anche da un solo comportamento concreto contrario all'amore
di Dio e alla testimonianza della fede. Nell'obbedienza, essi
affidarono e consegnarono, come Cristo stesso, la loro vita al Padre,
a colui che poteva liberarli dalla morte (cf Eb 5,7).
La Chiesa propone l'esempio di
numerosi santi e sante, che hanno testimoniato e difeso la
verità morale fino al martirio o hanno preferito la morte ad un solo
peccato mortale. Elevandoli all'onore degli altari, la Chiesa ha
canonizzato la loro testimonianza e dichiarato vero il loro giudizio,
secondo cui l'amore di Dio implica obbligatoriamente il rispetto dei
suoi comandamenti, anche nelle circostanze più gravi, e il rifiuto di
tradirli, anche con l'intenzione di salvare la propria vita.
92. Nel martirio come affermazione
dell'inviolabilità dell'ordine morale risplendono la santità della
legge di Dio e insieme l'intangibilità della dignità personale
dell'uomo, creato a immagine e somiglianza di Dio: è una dignità che
non è mai permesso di svilire o di contrastare, sia pure con buone
intenzioni, qualunque siano le difficoltà. Gesù ci ammonisce con la
massima severità: « Che giova all'uomo guadagnare il mondo intero,
se poi perde la propria anima? » (Mc 8,36).
Il martirio sconfessa come
illusorio e falso ogni « significato umano » che si pretendesse di
attribuire, pur in condizioni « eccezionali », all'atto in se stesso
moralmente cattivo; ancor più ne rivela apertamente il vero volto:
quello di una violazione dell'« umanità » dell'uomo, prima
ancora in chi lo compie che non in chi lo subisce.144 Il martirio è
quindi anche esaltazione della perfetta « umanità » e della vera «
vita » della persona, come testimonia sant'Ignazio di Antiochia
rivolgendosi ai cristiani di Roma, luogo del suo martirio: « Abbiate
compassione di me, fratelli: non impeditemi di vivere, non vogliate
che io muoia... Lasciate che io raggiunga la pura luce; giunto là, sarò
veramente uomo. Lasciate che io imiti la passione del mio Dio ».145
93. Il martirio è infine un
segno preclaro della santità della Chiesa: la fedeltà alla legge
santa di Dio, testimoniata con la morte, è annuncio solenne e impegno
missionario usque ad sanguinem perché lo splendore della verità
morale non sia offuscato nel costume e nella mentalità delle persone
e della società. Una simile testimonianza offre un contributo di
straordinario valore perché, non solo nella società civile ma anche
all'interno delle stesse comunità ecclesiali, non si precipiti nella
crisi più pericolosa che può affliggere l'uomo: la confusione del
bene e del male, che rende impossibile costruire e conservare
l'ordine morale dei singoli e delle comunità. I martiri, e più
ampiamente tutti i santi nella Chiesa, con l'esempio eloquente e
affascinante di una vita totalmente trasfigurata dallo splendore della
verità morale, illuminano ogni epoca della storia risvegliandone il
senso morale. Dando piena testimonianza al bene, essi sono un vivente
rimprovero a quanti trasgrediscono la legge (cf Sap 2, 12) e
fanno risuonare con permanente attualità le parole del profeta: «
Guai a coloro che chiamano bene il male e male il bene, che cambiano
le tenebre in luce e la luce in tenebre, che cambiano l'amaro in dolce
e il dolce in amaro » (Is 5,20).
Se il martirio rappresenta il
vertice della testimonianza alla verità morale, a cui relativamente
pochi possono essere chiamati, vi è nondimento una coerente
testimonianza che tutti i cristiani devono esser pronti a dare ogni
giorno anche a costo di sofferenze e di gravi sacrifici. Infatti di
fronte alle molteplici difficoltà che anche nelle circostanze più
ordinarie la fedeltà all'ordine morale può esigere, il cristiano è
chiamato, con la grazia di Dio invocata nella preghiera, ad un impegno
talvolta eroico, sostenuto dalla virtù della fortezza, mediante la
quale — come insegna san Gregorio Magno — egli può perfino «
amare le difficoltà di questo mondo in vista del premio eterno ».146
94. In questa testimonianza
all'assolutezza del bene morale i cristiani non sono soli: essi
trovano conferme nel senso morale dei popoli e nelle grandi tradizioni
religiose e sapienziali dell'Occidente e dell'Oriente, non senza
un'interiore e misteriosa azione dello Spirito di Dio. Valga per tutti
l'espressione del poeta latino Giovenale: « Considera il più grande
dei crimini preferire la sopravvivenza all'onore e, per amore della
vita fisica, perdere le ragioni del vivere ».147 La voce della
coscienza ha sempre richiamato senza ambiguità che ci sono verità e
valori morali per i quali si deve essere disposti anche a dare la
vita. Nella parola e soprattutto nel sacrificio della vita per il
valore morale la Chiesa riconosce la medesima testimonianza a quella
verità che, già presente nella creazione, risplende pienamente sul
volto di Cristo: « Sappiamo — scrive san Giustino — che i seguaci
delle dottrine degli stoici sono stati odiati ed uccisi quando hanno
dato prova di saggezza nel loro discorso morale ... a motivo del seme
del Verbo insito in tutto il genere umano ».148
Le norme morali universali e
immutabili al servizio della persona e della società
95. La dottrina della Chiesa e in
particolare la sua fermezza nel difendere la validità universale e
permanente dei precetti che proibiscono gli atti intrinsecamente
cattivi è giudicata non poche volte come il segno di un'intransigenza
intollerabile, soprattutto nelle situazioni enormemente complesse e
conflittuali della vita morale dell'uomo e della società d'oggi:
un'intransigenza che contrasterebbe col senso materno della Chiesa.
Questa, si dice, manca di comprensione e di compassione. Ma, in realtà,
la maternità della Chiesa non può mai essere separata dalla sua
missione di insegnamento, che essa deve compiere sempre come Sposa
fedele di Cristo, la Verità in persona: « Come Maestra, essa non si
stanca di proclamare la norma morale... Di tale norma la Chiesa non è
affatto né l'autrice né l'arbitra. In obbedienza alla verità, che
è Cristo, la cui immagine si riflette nella natura e nella dignità
della persona umana, la Chiesa interpreta la norma morale e la propone
a tutti gli uomini di buona volontà, senza nasconderne le esigenze di
radicalità e di perfezione ».149
In realtà, la vera comprensione e
la genuina compassione devono significare amore alla persona, al suo
vero bene, alla sua libertà autentica. E questo non avviene, certo,
nascondendo o indebolendo la verità morale, bensì proponendola nel
suo intimo significato di irradiazione della Sapienza eterna di Dio,
giunta a noi in Cristo, e di servizio all'uomo, alla crescita della
sua libertà e al perseguimento della sua felicità.150
Nello stesso tempo la
presentazione limpida e vigorosa della verità morale non può mai
prescindere da un profondo e sincero rispetto, animato da amore
paziente e fiducioso, di cui ha sempre bisogno l'uomo nel suo cammino
morale, spesso reso faticoso da difficoltà, debolezze e situazioni
dolorose. La Chiesa che non può mai rinunciare al « principio della
verità e della coerenza, per cui non accetta di chiamare bene il male
e male il bene »,151 deve essere sempre attenta a non spezzare la
canna incrinata e a non spegnere il lucignolo che fumiga ancora (cf Is
42,3). Paolo VI ha scritto: « Non sminuire in nulla la salutare
dottrina di Cristo è eminente forma di carità verso le anime. Ma ciò
deve sempre accompagnarsi con la pazienza e la bontà di cui il
Signore stesso ha dato l'esempio nel trattare con gli uomini. Venuto
non per giudicare ma per salvare (cf Gv 3,17), Egli fu certo
intransigente con il male, ma misericordioso verso le persone ».152
96. La fermezza della Chiesa, nel
difendere le norme morali universali e immutabili, non ha nulla di
mortificante. È solo al servizio della vera libertà dell'uomo: dal
momento che non c'è libertà al di fuori o contro la verità, la
difesa categorica, ossia senza cedimenti e compromessi, delle esigenze
assolutamente irrinunciabili della dignità personale dell'uomo, deve
dirsi via e condizione per l'esistere stesso della libertà.
Questo servizio è rivolto a ogni
uomo, considerato nell'unicità e nell'irripetibilità del suo
essere ed esistere: solo nell'obbedienza alle norme morali universali
l'uomo trova piena conferma della sua unicità di persona e possibilità
di vera crescita morale. E, proprio per questo, tale servizio è
rivolto a tutti gli uomini: non solo ai singoli, ma anche alla
comunità, alla società come tale. Queste norme costituiscono,
infatti, il fondamento incrollabile e la solida garanzia di una giusta
e pacifica convivenza umana, e quindi di una vera democrazia, che può
nascere e crescere solo sull'uguaglianza di tutti i suoi membri,
accomunati nei diritti e doveri. Di fronte alle norme morali che
proibiscono il male intrinseco non ci sono privilegi né eccezioni per
nessuno. Essere il padrone del mondo o l'ultimo « miserabile »
sulla faccia della terra non fa alcuna differenza: davanti alle
esigenze morali siamo tutti assolutamente uguali.
97. Così le norme morali, e in
primo luogo quelle negative che proibiscono il male, manifestano il
loro significato e la loro forza insieme personale e
sociale: proteggendo l'inviolabile dignità personale di ogni
uomo, esse servono alla conservazione stessa del tessuto sociale umano
e al suo retto e fecondo sviluppo. In particolare, i comandamenti
della seconda tavola del Decalogo, ricordati anche da Gesù al giovane
del Vangelo (cf Mt 19,18), costituiscono le regole primordiali
di ogni vita sociale.
Questi comandamenti sono formulati
in termini generali. Ma, il fatto che « principio, soggetto e fine di
tutte le istituzioni sociali è e deve essere la persona umana »,153
permette di precisarli e di esplicitarli in un codice di comportamento
più dettagliato. In tal senso le regole morali fondamentali della
vita sociale comportano delle esigenze determinate alle quali
devono attenersi sia i poteri pubblici sia i cittadini. Al di là
delle intenzioni, talvolta buone, e delle circostanze, spesso
difficili, le autorità civili e i soggetti particolari non sono mai
autorizzati a trasgredire i diritti fondamentali e inalienabili della
persona umana. Così, solo una morale che riconosce delle norme valide
sempre e per tutti, senza alcuna eccezione, può garantire il
fondamento etico della convivenza sociale, sia nazionale che
internazionale.
La morale e il rinnovamento
della vita sociale e politica
98. Di fronte alle gravi forme di
ingiustizia sociale ed economica e di corruzione politica di cui sono
investiti interi popoli e nazioni, cresce l'indignata reazione di
moltissime persone calpestate e umiliate nei loro fondamentali diritti
umani e si fa sempre più diffuso e acuto il bisogno di un radicale
rinnovamento personale e sociale capace di assicurare giustizia,
solidarietà, onestà, trasparenza.
Certamente lunga e faticosa è la
strada da percorrere; numerosi e ingenti sono gli sforzi da compiere
perché si possa attuare un simile rinnovamento, anche per la
molteplicità e la gravità delle cause che generano e alimentano le
situazioni di ingiustizia oggi presenti nel mondo. Ma, come la storia
e l'esperienza di ciascuno insegnano, non è difficile ritrovare alla
base di queste situazioni cause propriamente « culturali »,
collegate cioè con determinate visioni dell'uomo, della società e
del mondo. In realtà, al cuore della questione culturale sta
il senso morale, che a sua volta si fonda e si compie nel senso
religioso.154
99. Solo Dio, il Bene supremo,
costituisce la base irremovibile e la condizione insostituibile della
moralità, dunque dei comandamenti, in particolare di quelli negativi
che proibiscono sempre e in ogni caso il comportamento e gli atti
incompatibili con la dignità personale di ogni uomo. Così il Bene
supremo e il bene morale si incontrano nella verità: la verità
di Dio Creatore e Redentore e la verità dell'uomo da Lui creato e
redento. Solo su questa verità è possibile costruire una società
rinnovata e risolvere i complessi e pesanti problemi che la scuotono,
primo fra tutti quello di vincere le più diverse forme di totalitarismo
per aprire la via all'autentica libertà della persona. « Il
totalitarismo nasce dalla negazione della verità in senso oggettivo:
se non esiste una verità trascendente, obbedendo alla quale l'uomo
acquista la sua piena identità, allora non esiste nessun principio
sicuro che garantisca giusti rapporti tra gli uomini. Il loro
interesse di classe, di gruppo, di Nazione li oppone inevitabilmente
gli uni agli altri. Se non si riconosce la verità trascendente,
allora trionfa la forza del potere, e ciascuno tende a realizzare fino
in fondo i mezzi di cui dispone per imporre il proprio interesse o la
propria opinione, senza riguardo ai diritti dell'altro... La radice
del moderno totalitarismo, dunque, è da individuare nella negazione
della trascendente dignità della persona umana, immagine visibile del
Dio invisibile e, proprio per questo, per sua natura stessa, soggetto
di diritti che nessuno può violare: né l'individuo, né il gruppo, né
la classe, né la Nazione o lo Stato. Non può farlo nemmeno la
maggioranza di un corpo sociale, ponendosi contro la minoranza,
emarginandola, opprimendola, sfruttandola o tentando di annientarla ».155
Per questo la connessione
inscindibile tra verità e libertà — che esprime il vincolo
essenziale tra la sapienza e la volontà di Dio — possiede un
significato d'estrema importanza per la vita delle persone nell'ambito
socio-economico e socio-politico, come emerge dalla dottrina sociale
della Chiesa — la quale « appartiene... al campo della teologia e,
specialmente, della teologia morale »,156 — e dalla sua
presentazione di comandamenti che regolano, in riferimento non solo ad
atteggiamenti generali ma anche a precisi e determinati comportamenti
e atti concreti, la vita sociale, economica e politica.
100. Così il Catechismo della
Chiesa Cattolica, dopo aver affermato che « in materia economica,
il rispetto della dignità umana esige la pratica della virtù della temperanza,
per moderare l'attaccamento ai beni di questo mondo; della virtù
della giustizia, per rispettare i diritti del prossimo e dargli
ciò che gli è dovuto; e della solidarietà, seguendo la
regola aurea e secondo la liberalità del Signore, il quale "da
ricco che era, si è fatto povero" per noi, perché noi
diventassimo "ricchi per mezzo della sua povertà" (2 Cor
8,9) »,157 presenta una serie di comportamenti e di atti che
contrastano la dignità umana: il furto, il tenere deliberatamente
cose avute in prestito o oggetti smarriti, la frode nel commercio (cf Dt
25, 13-16), i salari ingiusti (cf Dt 24,14-15; Gc 5,4),
il rialzo dei prezzi speculando sull'ignoranza e sul bisogno altrui
(cf Am 8,4-6), l'appropriazione e l'uso privato dei beni
sociali di un'impresa, i lavori eseguiti male, la frode fiscale, la
contraffazione di assegni e di fatture, le spese eccessive, lo
sperpero, ecc.158 Ed ancora: « Il settimo comandamento proibisce gli
atti o le iniziative che, per qualsiasi ragione, egoistica o
ideologica, mercantile o totalitaria, portano all'asservimento di
esseri umani, a misconoscere la loro dignità personale, ad
acquistarli, a venderli e a scambiarli come fossero merci. Ridurre le
persone, con la violenza, ad un valore d'uso oppure ad una fonte di
guadagno, è un peccato contro la loro dignità e i loro diritti
fondamentali. San Paolo ordinava ad un padrone cristiano di trattare
il suo schiavo cristiano "non più come uno schiavo, ma... come
un fratello... come uomo..., nel Signore" (Fm 16) ».159
101. Nell'ambito politico si deve
rilevare che la veridicità nei rapporti tra governanti e governati,
la trasparenza nella pubblica amministrazione, l'imparzialità nel
servizio della cosa pubblica, il rispetto dei diritti degli avversari
politici, la tutela dei diritti degli accusati contro processi e
condanne sommarie, l'uso giusto e onesto del pubblico denaro, il
rifiuto di mezzi equivoci o illeciti per conquistare, mantenere e
aumentare ad ogni costo il potere, sono principi che trovano la loro
radice prima — come pure la loro singolare urgenza — nel valore
trascendente della persona e nelle esigenze morali oggettive di
funzionamento degli Stati.160 Quando essi non vengono osservati, viene
meno il fondamento stesso della convivenza politica e tutta la vita
sociale ne risulta progressivamente compromessa, minacciata e votata
alla sua dissoluzione (cf Sal 131, 3-4; Ap 18,2-3.9-24).
Dopo la caduta, in molti Paesi, delle ideologie che legavano la
politica ad una concezione totalitaria del mondo — e prima fra esse
il marxismo —, si profila oggi un rischio non meno grave per la
negazione dei fondamentali diritti della persona umana e per il
riassorbimento nella politica della stessa domanda religiosa che abita
nel cuore di ogni essere umano: è il rischio dell'alleanza fra
democrazia e relativismo etico, che toglie alla convivenza civile
ogni sicuro punto di riferimento morale e la priva, più radicalmente,
del riconoscimento della verità. Infatti, « se non esiste nessuna
verità ultima la quale guida e orienta l'azione politica, allora le
idee e le convinzioni possono esser facilmente strumentalizzate per
fini di potere. Una democrazia senza valori si converte facilmente in
un totalitarismo aperto oppure subdolo, come dimostra la storia ».161
Così in ogni campo della vita
personale, familiare, sociale e politica, la morale — che si fonda
sulla verità e che nella verità si apre all'autentica libertà —
rende un servizio originale, insostituibile e di enorme valore non
solo per la singola persona e per la sua crescita nel bene, ma anche
per la società e per il suo vero sviluppo. Grazia e obbedienza
alla legge di Dio
102. Anche nelle situazioni più
difficili l'uomo deve osservare la norma morale per essere obbediente
al santo comandamento di Dio e coerente con la propria dignità
personale. Certamente l'armonia tra libertà e verità domanda, alcune
volte, sacrifici non comuni e va conquistata ad alto prezzo: può
comportare anche il martirio. Ma, come l'esperienza universale e
quotidiana mostra, l'uomo è tentato di rompere tale armonia: « Non
quello che voglio io faccio, ma quello che detesto... Io non compio il
bene che voglio, ma il male che non voglio » (Rm 7, 15.19).
Donde deriva, ultimamente, questa
scissione interiore dell'uomo? Egli incomincia la sua storia di
peccato quando non riconosce più il Signore come suo Creatore, e
vuole essere lui stesso a decidere, in totale indipendenza, ciò che
è bene e ciò che è male. « Voi diventerete come Dio, conoscendo il
bene e il male » (Gn 3,5): questa è la prima tentazione, a
cui fanno eco tutte le altre tentazioni, alle quali l'uomo è più
facilmente inclinato a cedere per le ferite della caduta originale.
Ma le tentazioni si possono
vincere, i peccati si possono evitare, perché con i comandamenti il
Signore ci dona la possibilità di osservarli: « I suoi occhi su
coloro che lo temono, egli conosce ogni azione degli uomini. Egli non
ha comandato a nessuno di essere empio e non ha dato a nessuno il
permesso di peccare » (Sir 15,19-20). L'osservanza della legge
di Dio, in determinate situazioni, può essere difficile,
difficilissima: non è mai però impossibile. È questo un
insegnamento costante della tradizione della Chiesa, così espresso
dal Concilio di Trento: « Nessuno poi, benché giustificato, deve
ritenersi libero dall'osservanza dei comandamenti; nessuno deve far
propria quell'espressione temeraria e condannata con la scomunica dei
Padri, secondo la quale è impossibile all'uomo giustificato osservare
i comandamenti di Dio. Dio infatti non comanda ciò che è
impossibile, ma nel comandare ti esorta a fare tutto quello che puoi,
a chiedere ciò che non puoi e ti aiuta perché tu possa; infatti
"i comandamenti di Dio non sono gravosi" (cf 1 Gv 5,3)
e "il suo giogo è soave e il suo peso è leggero" (cf Mt
11,30) ».162
103. All'uomo è sempre aperto lo
spazio spirituale della speranza, con l'aiuto della grazia divina e
con la collaborazione della libertà umana.
È nella Croce salvifica di Gesù,
nel dono dello Spirito Santo, nei Sacramenti che scaturiscono dal
costato trafitto del Redentore (cf Gv 19, 34), che il credente
trova la grazia e la forza per osservare sempre la legge santa di Dio,
anche in mezzo alle difficoltà più gravi. Come dice sant'Andrea di
Creta, la legge stessa « fu vivificata dalla grazia e fu posta al suo
servizio in una composizione armonica e feconda. Ognuna delle due
conservò le sue caratteristiche senza alterazioni e confusioni.
Tuttavia la legge, che prima costituiva un onere gravoso e una
tirannia, diventò per opera di Dio peso leggero e fonte di libertà
».163
Solo nel mistero della
Redenzione di Cristo stanno le « concrete » possibilità dell'uomo. «
Sarebbe un errore gravissimo concludere... che la norma insegnata
dalla Chiesa è in se stessa solo un "ideale" che deve poi
essere adattato, proporzionato, graduato alle, si dice, concrete
possibilità dell'uomo: secondo un "bilanciamento dei vari beni
in questione". Ma quali sono le "concrete possibilità
dell'uomo"? E di quale uomo si parla? Dell'uomo dominato
dalla concupiscenza o dell'uomo redento da Cristo? Poiché
è di questo che si tratta: della realtà della redenzione di
Cristo. Cristo ci ha redenti! Ciò significa: Egli ci ha donato
la possibilità di realizzare l'intera verità del
nostro essere; Egli ha liberato la nostra libertà dal dominio
della concupiscenza. E se l'uomo redento ancora pecca, ciò non è
dovuto all'imperfezione dell'atto redentore di Cristo, ma alla volontà
dell'uomo di sottrarsi alla grazia che sgorga da quell'atto. Il
comandamento di Dio è certamente proporzionato alle capacità
dell'uomo: ma alle capacità dell'uomo a cui è donato lo Spirito
Santo; dell'uomo che, se caduto nel peccato, può sempre ottenere il
perdono e godere della presenza dello Spirito ».164
104. In questo contesto si apre il
giusto spazio alla misericordia di Dio per il peccato dell'uomo
che si converte e alla comprensione per l'umana debolezza. Questa
comprensione non significa mai compromettere e falsificare la misura
del bene e del male per adattarla alle circostanze. Mentre è umano
che l'uomo, avendo peccato, riconosca la sua debolezza e chieda
misericordia per la propria colpa, è invece inaccettabile
l'atteggiamento di chi fa della propria debolezza il criterio della
verità sul bene, in modo da potersi sentire giustificato da solo,
anche senza bisogno di ricorrere a Dio e alla sua misericordia. Un
simile atteggiamento corrompe la moralità dell'intera società, perché
insegna a dubitare dell'oggettività della legge morale in generale e
a rifiutare l'assolutezza dei divieti morali circa determinati atti
umani, e finisce con il confondere tutti i giudizi di valore.
Dobbiamo, invece, raccogliere il messaggio
che ci viene dalla parabola evangelica del fariseo e del pubblicano (cf
Lc 18,9-14). Il pubblicano poteva forse avere qualche
giustificazione per i peccati commessi, tale da diminuire la sua
responsabilità. Non è però su queste giustificazioni che si
sofferma la sua preghiera, ma sulla propria indegnità davanti
all'infinita santità di Dio: « O Dio, abbi pietà di me peccatore »
(Lc 18,13). Il fariseo, invece, si è giustificato da solo,
trovando forse per ognuna delle sue mancanze una scusa. Siamo così
messi a confronto con due diversi atteggiamenti della coscienza morale
dell'uomo di tutti i tempi. Il pubblicano ci presenta una coscienza «
penitente », che è pienamente consapevole della fragilità della
propria natura e che vede nelle proprie mancanze, quali che ne siano
le giustificazioni soggettive, una conferma del proprio essere
bisognoso di redenzione. Il fariseo ci presenta una coscienza «
soddisfatta di se stessa », che si illude di poter osservare la legge
senza l'aiuto della grazia ed è convinta di non aver bisogno della
misericordia.
105. A tutti è chiesta grande
vigilanza per non lasciarsi contagiare dall'atteggiamento farisaico,
che pretende di eliminare la coscienza del proprio limite e del
proprio peccato, e che oggi si esprime in particolare nel tentativo di
adattare la norma morale alle proprie capacità e ai propri interessi
e persino nel rifiuto del concetto stesso di norma. Al contrario,
accettare la « sproporzione » tra la legge e la capacità umana,
ossia la capacità delle sole forze morali dell'uomo lasciato a se
stesso, accende il desiderio della grazia e predispone a riceverla. «
Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte? », si domanda
l'apostolo Paolo. E con una confessione gioiosa e riconoscente
risponde: « Siano rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro
Signore! » (Rm 7,24-25).
La stessa coscienza troviamo in
questa preghiera di sant'Ambrogio di Milano: « Che cos'è, infatti,
l'uomo se tu non lo visiti? Non dimenticare pertanto il debole.
Ricordati, o Signore, che mi hai fatto debole, che mi hai plasmato di
polvere. Come potrò stare ritto, se tu non ti volgi continuamente per
rendere salda questa argilla, di modo che la mia solidità promani dal
tuo volto? "Appena nascondi il viso, tutte le cose vengono
meno" (Sal 1032,29): se ti volgi, guai a me! Non hai da
guardare in me nient'altro che contagi di delitti: non è utile né
essere abbandonati, né esser visti perché, mentre siam visti,
provochiamo disgusto. Possiamo tuttavia pensare che non respinge
quelli che vede, perché purifica quelli che guarda. Lo divora un
fuoco, capace di bruciare la colpa (cf Gl 2,3) ».165
Morale e nuova
evangelizzazione
106. L'evangelizzazione è la
sfida più forte ed esaltante che la Chiesa è chiamata ad affrontare
sin dalla sua origine. In realtà, a porre questa sfida non sono tanto
le situazioni sociali e culturali che essa incontra lungo la storia,
quanto il mandato di Gesù Cristo risorto, che definisce la ragione
stessa dell'esistenza della Chiesa: « Andate in tutto il mondo e
predicate il Vangelo ad ogni creatura » (Mc 16,15).
Il momento però che stiamo
vivendo, almeno presso numerose popolazioni, è piuttosto quello di
una formidabile provocazione alla « nuova evangelizzazione », ossia
all'annuncio del Vangelo sempre nuovo e sempre portatore di novità,
una evangelizzazione che dev'essere « nuova nel suo ardore, nei suoi
metodi e nella sua espressione ».166 La scristianizzazione, che pesa
su interi popoli e comunità un tempo già ricchi di fede e di vita
cristiana, comporta non solo la perdita della fede o comunque la sua
insignificanza per la vita, ma anche, e necessariamente, un declino
o un oscuramento del senso morale: e questo sia per il dissolversi
della consapevolezza dell'originalità della morale evangelica, sia
per l'eclissi degli stessi principi e valori etici fondamentali. Le
tendenze soggettiviste, relativiste e utilitariste, oggi ampiamente
diffuse, si presentano non semplicemente come posizioni pragmatiche,
come dati di costume, ma come concezioni consolidate dal punto di
vista teoretico che rivendicano una loro piena legittimità culturale
e sociale.
107. L'evangelizzazione —
e pertanto la « nuova evangelizzazione » — comporta anche
l'annuncio e la proposta morale. Gesù stesso, proprio predicando
il Regno di Dio e il suo amore salvifico, ha rivolto l'appello alla
fede e alla conversione (cf Mc 1,15). E Pietro, con gli altri
Apostoli, annunciando la risurrezione di Gesù di Nazaret dai morti,
propone una vita nuova da vivere, una « via » da seguire per essere
discepoli del Risorto (cf At 2,37- 41; 3,17-20).
Come e ancor più che per le verità
di fede, la nuova evangelizzazione che propone i fondamenti e i
contenuti della morale cristiana manifesta la sua autenticità, e
nello stesso tempo sprigiona tutta la sua forza missionaria, quando si
compie attraverso il dono non solo della parola annunciata, ma
anche di quella vissuta. In particolare è la vita di santità,
che risplende in tanti membri del Popolo di Dio, umili e spesso
nascosti agli occhi degli uomini, a costituire la via più semplice e
affascinante sulla quale è dato di percepire immediatamente la
bellezza della verità, la forza liberante dell'amore di Dio, il
valore della fedeltà incondizionata a tutte le esigenze della legge
del Signore, anche nelle circostanze più difficili. Per questo la
Chiesa, nella sua sapiente pedagogia morale, ha sempre invitato i
credenti a cercare e a trovare nei santi e nelle sante, e in primo
luogo nella Vergine Madre di Dio « piena di grazia » e « tutta
santa », il modello, la forza e la gioia per vivere una vita secondo
i comandamenti di Dio e le Beatitudini del Vangelo.
La vita dei santi, riflesso della
bontà di Dio — di Colui che « solo è buono » —, costituisce
non solo una vera confessione di fede e un impulso alla sua
comunicazione agli altri, ma anche una glorificazione di Dio e della
sua infinita santità. La vita santa porta così a pienezza di
espressione e di attuazione il triplice e unitario munus
propheticum, sacerdotale et regale che ogni cristiano riceve in
dono nella rinascita battesimale « da acqua e da Spirito » (Gv 3,5).
La sua vita morale possiede il valore di un « culto spirituale » (Rm
12,1; cf Fil 3,3), attinto e alimentato da quella
inesauribile sorgente di santità e di glorificazione di Dio che sono
i Sacramenti, in specie l'Eucaristia: infatti, partecipando al
sacrificio della Croce, il cristiano comunica con l'amore di donazione
di Cristo ed è abilitato e impegnato a vivere questa stessa carità
in tutti i suoi atteggiamenti e comportamenti di vita. Nell'esistenza
morale si rivela e si attua anche il servizio regale del cristiano:
quanto più, con l'aiuto della grazia, egli obbedisce alla legge nuova
dello Spirito Santo, tanto più cresce nella libertà alla quale è
chiamato mediante il servizio della verità, della carità e della
giustizia.
108. Alla radice della nuova
evangelizzazione e della vita morale nuova, che essa propone e suscita
nei suoi frutti di santità e di missionarietà, sta lo Spirito di
Cristo, principio e forza della fecondità della santa Madre
Chiesa, come ci ricorda Paolo VI: « L'evangelizzazione non sarà mai
possibile senza l'azione dello Spirito Santo ».167 Allo Spirito di
Gesù, accolto dal cuore umile e docile del credente, si devono dunque
il fiorire della vita morale cristiana e la testimonianza della santità
nella grande varietà delle vocazioni, dei doni, delle responsabilità
e delle condizioni e situazioni di vita: è lo Spirito Santo —
rilevava già Novaziano, in questo esprimendo l'autentica fede della
Chiesa — « Colui che ha dato fermezza agli animi ed alle menti dei
discepoli, che ha dischiuso i misteri evangelici, che ha illuminato in
loro le cose divine; da Lui rinvigoriti, essi non ebbero timore né
delle carceri né delle catene per il nome del Signore; anzi
calpestarono gli stessi poteri e i tormenti del mondo, armati ormai e
rafforzati per mezzo suo, avendo in sé i doni che questo stesso
Spirito elargisce ed invia come gioielli alla Chiesa sposa di Cristo.
È Lui, infatti, che nella Chiesa suscita i profeti, istruisce i
maestri, guida le lingue, compie prodigi e guarigioni, produce opere
mirabili, concede il discernimento degli spiriti, assegna i compiti di
governo, suggerisce i consigli, ripartisce ed armonizza ogni altro
dono carismatico, e perciò rende dappertutto ed in tutto
compiutamente perfetta la Chiesa del Signore ».168
Nel contesto vivo di questa nuova
evangelizzazione, destinata a generare e a nutrire « la fede che
opera per mezzo della carità » (Gal 5,6) e in rapporto
all'opera dello Spirito Santo possiamo ora comprendere il posto che
nella Chiesa, comunità dei credenti, spetta alla riflessione che
la teologia deve sviluppare sulla vita morale, così come possiamo
presentare la missione e la responsabilità propria dei teologi
moralisti.
Il servizio dei teologi
moralisti
109. Chiamata
all'evangelizzazione e alla testimonianza di una vita di fede è tutta
la Chiesa, resa partecipe del munus propheticum del Signore Gesù
mediante il dono del suo Spirito. Grazie alla presenza permanente in
essa dello Spirito di verità (cf Gv 14,16-17) « la totalità
dei fedeli che hanno ricevuto l'unzione dello Spirito Santo (cf 1
Gv 2,20. 27) non può sbagliarsi nel credere, e manifesta questa
sua proprietà peculiare mediante il senso soprannaturale della fede
di tutto il popolo, quando "dai Vescovi fino agli ultimi fedeli
laici" esprime l'universale suo consenso in materia di fede e di
costumi ».169
Per compiere la sua missione
profetica, la Chiesa deve continuamente risvegliare o « ravvivare »
la propria vita di fede (cf 2 Tm 1,6), in particolare mediante
una riflessione sempre più approfondita, sotto la guida dello Spirito
Santo, sul contenuto della fede stessa. È al servizio di questa «
ricerca credente dell'intelligenza della fede » che si pone, in modo
specifico, la « vocazione » del teologo nella Chiesa: « Fra
le vocazioni suscitate dallo Spirito nella Chiesa — leggiamo
nell'Istruzione Donum veritatis — si distingue quella del
teologo, che in modo particolare ha la funzione di acquisire, in
comunione con il Magistero, un'intelligenza sempre più profonda della
Parola di Dio contenuta nella Scrittura ispirata e trasmessa dalla
Tradizione viva della Chiesa. Di sua natura la fede fa appello
all'intelligenza, perché svela all'uomo la verità sul suo destino e
la via per raggiungerlo. Anche se la verità rivelata è superiore ad
ogni nostro dire ed i nostri concetti sono imperfetti di fronte alla
sua grandezza ultimamente insondabile (cf Ef 3,19), essa invita
tuttavia la ragione — dono di Dio fatto per cogliere la verità —
ad entrare nella sua luce, diventando così capace di comprendere in
una certa misura quanto ha creduto. La scienza teologica, che,
rispondendo all'invito della voce della verità, cerca l'intelligenza
della fede, aiuta il Popolo di Dio, secondo il comandamento
dell'Apostolo (cf 1 Pt 3,15), a rendere conto della sua
speranza a coloro che lo richiedono ».170
È fondamentale per definire
l'identità stessa e, di conseguenza, per attuare la missione propria
della teologia riconoscerne l'intimo e vivo nesso con la Chiesa, il
suo mistero, la sua vita e missione: « La teologia è scienza
ecclesiale, perché cresce nella Chiesa e agisce sulla Chiesa... Essa
è a servizio della Chiesa e deve quindi sentirsi dinamicamente
inserita nella missione della Chiesa, particolarmente nella sua
missione profetica ».171 Per sua natura e dinamismo la teologia
autentica può fiorire e svilupparsi solo mediante una convinta e
responsabile partecipazione e « appartenenza » alla Chiesa quale «
comunità di fede », così come a questa stessa Chiesa e alla sua
vita di fede torna il frutto della ricerca e dell'approfondimento
teologico.
110. Quanto si è detto circa la
teologia in genere può e dev'essere riproposto per la teologia
morale, colta nella sua specificità di riflessione scientifica
sul Vangelo come dono e comandamento di vita nuova, sulla vita
« secondo la verità nella carità » (Ef 4,15), sulla vita di
santità della Chiesa, nella quale risplende la verità del bene
portato sino alla sua perfezione. Non solo nell'ambito della fede, ma
anche e in modo indivisibile nell'ambito della morale, interviene il Magistero
della Chiesa, il cui compito è « di discernere, mediante giudizi
normativi per la coscienza dei fedeli, gli atti che sono in se stessi
conformi alle esigenze della fede e ne promuovono l'espressione nella
vita, e quelli che al contrario, per la loro malizia intrinseca, sono
incompatibili con queste esigenze ».172 Predicando i comandamenti di
Dio e la carità di Cristo, il Magistero della Chiesa insegna ai
fedeli anche i precetti particolari e determinati e chiede loro di
considerarli in coscienza come moralmente obbligatori. Svolge,
inoltre, un importante compito di vigilanza, avvertendo i fedeli della
presenza di eventuali errori, anche solo impliciti, quando la loro
coscienza non giunge a riconoscere la giustezza e la verità delle
regole morali che il Magistero insegna.
S'inserisce qui il compito
specifico di quanti per mandato dei legittimi Pastori insegnano
teologia morale nei Seminari e nelle Facoltà Teologiche. Essi hanno
il grave dovere di istruire i fedeli — specialmente i futuri Pastori
— su tutti i comandamenti e le norme pratiche che la Chiesa dichiara
con autorità.173 Nonostante gli eventuali limiti delle argomentazioni
umane presentate dal Magistero, i teologi moralisti sono chiamati ad
approfondire le ragioni dei suoi insegnamenti, ad illustrare la
fondatezza dei suoi precetti e la loro obbligatorietà, mostrandone la
mutua connessione e il rapporto con il fine ultimo dell'uomo.174
Spetta ai teologi moralisti esporre la dottrina della Chiesa e dare,
nell'esercizio del loro ministero, l'esempio di un assenso leale,
interno ed esterno, all'insegnamento del Magistero sia nel campo del
dogma che in quello della morale.175 Unendo le loro forze per
collaborare col Magistero gerarchico, i teologi avranno a cuore di
mettere sempre meglio in luce i fondamenti biblici, le significazioni
etiche e le motivazioni antropologiche che sostengono la dottrina
morale e la visione dell'uomo proposte dalla Chiesa.
111. Il servizio che nell'ora
attuale i teologi moralisti sono chiamati a dare è di primaria
importanza, non solo per la vita e la missione della Chiesa, ma anche
per la società e la cultura umana. Tocca a loro, in intima e vitale
connessione con la teologia biblica e dogmatica, sottolineare nella
riflessione scientifica « l'aspetto dinamico che fa risaltare la
risposta, che l'uomo deve dare all'appello divino nel processo della
sua crescita nell'amore, nell'ambito di una comunità salvifica. In
tal modo la teologia morale acquisterà una dimensione spirituale
interna, rispondendo alle esigenze di sviluppo pieno della imago
Dei, che è nell'uomo, e alle leggi del processo spirituale
descritto nell'ascetica e mistica cristiane ».176
Certamente oggi la teologia morale
e il suo insegnamento si trovano di fronte a una particolare difficoltà.
Poiché la morale della Chiesa implica necessariamente una dimensione
normativa, la teologia morale non può ridursi a un sapere
elaborato solo nel contesto delle cosiddette scienze umane. Mentre
queste si occupano del fenomeno della moralità come fatto storico e
sociale, la teologia morale, che pur deve servirsi delle scienze
dell'uomo e della natura, non è però subordinata ai risultati
dell'osservazione empirico-formale o della comprensione
fenomenologica. In realtà, la pertinenza delle scienze umane in
teologia morale è sempre da commisurare alla domanda originaria:
Che cosa è il bene o il male? Che cosa fare per ottenere la vita
eterna?
112. Il teologo moralista deve
pertanto esercitare un accurato discernimento nel contesto
dell'odierna cultura prevalentemente scientifica e tecnica, esposta ai
pericoli del relativismo, del pragmatismo e del positivismo. Dal punto
di vista teologico, i principi morali non sono dipendenti dal momento
storico nel quale sono scoperti. Il fatto poi che taluni credenti
agiscano senza seguire gli insegnamenti del Magistero o considerino a
torto come moralmente giusta una condotta dichiarata dai loro Pastori
come contraria alla legge di Dio, non può costituire argomento valido
per rifiutare la verità delle norme morali insegnate dalla Chiesa.
L'affermazione dei principi morali non è di competenza dei metodi
empirico-formali. Senza negare la validità di tali metodi, ma anche
senza restringere ad essi la sua prospettiva, la teologia morale,
fedele al senso soprannaturale della fede, prende in considerazione
soprattutto la dimensione spirituale del cuore umano e la sua
vocazione all'amore divino.
Infatti, mentre le scienze umane,
come tutte le scienze sperimentali, sviluppano un concetto empirico e
statistico di « normalità », la fede insegna che una simile
normalità porta in sé le tracce di una caduta dell'uomo dalla sua
situazione originaria, ossia è intaccata dal peccato. Solo la fede
cristiana indica all'uomo la via del ritorno al « principio » (cf Mt
19,8), una via che spesso è ben diversa da quella della normalità
empirica. In tal senso le scienze umane, nonostante il grande valore
delle conoscenze che offrono, non possono essere assunte come
indicatori decisivi delle norme morali. È il Vangelo che svela la
verità integrale sull'uomo e sul suo cammino morale, e così illumina
e ammonisce i peccatori annunciando loro la misericordia di Dio, il
quale incessantemente opera per preservarli tanto dalla disperazione
di non poter conoscere ed osservare la legge divina quanto dalla
presunzione di potersi salvare senza merito. Egli inoltre ricorda loro
la gioia del perdono, che solo concede la forza di riconoscere nella
legge morale una verità liberatrice, una grazia di speranza, un
cammino di vita.
113. L'insegnamento della dottrina
morale implica l'assunzione consapevole di queste responsabilità
intellettuali, spirituali e pastorali. Perciò, i teologi moralisti,
che accettano l'incarico di insegnare la dottrina della Chiesa, hanno
il grave dovere di educare i fedeli a questo discernimento morale,
all'impegno per il vero bene e al ricorso fiducioso alla grazia
divina.
Se gli incontri e i conflitti di
opinione possono costituire espressioni normali della vita pubblica
nel contesto di una democrazia rappresentativa, la dottrina morale non
può certo dipendere dal semplice rispetto di una procedura; essa
infatti non viene minimamente stabilita seguendo le regole e le forme
di una deliberazione di tipo democratico. Il dissenso, fatto di
calcolate contestazioni e di polemiche attraverso i mezzi della
comunicazione sociale, è contrario alla comunione ecclesiale e
alla retta comprensione della costituzione gerarchica del Popolo di
Dio. Nell'opposizione all'insegnamento dei Pastori non si può
riconoscere una legittima espressione né della libertà cristiana né
delle diversità dei doni dello Spirito. In questo caso, i Pastori
hanno il dovere di agire in conformità con la loro missione
apostolica, esigendo che sia sempre rispettato il diritto dei
fedeli a ricevere la dottrina cattolica nella sua purezza e
integrità: « Il teologo, non dimenticando mai di essere anch'egli
membro del Popolo di Dio, deve nutrire rispetto nei suoi confronti e
impegnarsi nel dispensargli un insegnamento che non leda in alcun modo
la dottrina della fede ».177
Le nostre responsabilità di
Pastori
114. La responsabilità verso la
fede e la vita di fede del Popolo di Dio grava in una forma peculiare
e propria sui Pastori, come ci ricorda il Concilio Vaticano II: « Tra
le funzioni principali dei Vescovi eccelle la predicazione del
Vangelo. I Vescovi, infatti, sono gli araldi della fede, che portano a
Cristo nuovi discepoli, sono i Dottori autentici, cioè rivestiti
dell'autorità di Cristo, che predicano al popolo loro affidato la
fede da credere e da applicare nella pratica della vita, che
illustrano questa fede alla luce dello Spirito Santo, traendo fuori
dal tesoro della Rivelazione cose nuove e vecchie (cf Mt
13,52), la fanno fruttificare e vegliano per tener lontano dal loro
gregge gli errori che lo minacciano (cf 2 Tm 4,1-4) ».178
È nostro comune dovere, e prima
ancora nostra comune grazia, insegnare ai fedeli come Pastori e
Vescovi della Chiesa, ciò che li conduce sulla via di Dio, così come
fece un giorno il Signore Gesù con il giovane del Vangelo.
Rispondendo alla sua domanda: « Che cosa devo fare di buono per
ottenere la vita eterna? », Gesù ha rimandato a Dio, Signore della
creazione e dell'Alleanza; ha ricordato i comandamenti morali, già
rivelati nell'Antico Testamento; ne ha indicato lo spirito e la
radicalità invitando alla sua sequela nella povertà, nell'umiltà e
nell'amore: « Vieni e seguimi! ». La verità di questa dottrina ha
avuto il suo sigillo sulla Croce nel sangue di Cristo: essa è
divenuta, nello Spirito Santo, la legge nuova della Chiesa e di ogni
cristiano.
Questa « risposta » alla domanda
morale è affidata da Gesù Cristo in un modo particolare a noi
Pastori della Chiesa, chiamati a renderla oggetto del nostro
insegnamento, nell'adempimento dunque del nostro munus propheticum.
Nello stesso tempo la nostra responsabilità di Pastori, nei
riguardi della dottrina morale cristiana, deve attuarsi anche nella
forma del munus sacerdotale: ciò avviene quando dispensiamo ai
fedeli i doni di grazia e di santificazione come risorsa per obbedire
alla legge santa di Dio, e quando con la nostra costante e fiduciosa
preghiera sosteniamo i credenti perché siano fedeli alle esigenze
della fede e vivano secondo il Vangelo (cf Col 1,9-12). La
dottrina morale cristiana deve costituire, oggi soprattutto, uno degli
ambiti privilegiati della nostra vigilanza pastorale, dell'esercizio
del nostro munus regale.
115. È la prima volta, infatti,
che il Magistero della Chiesa espone con una certa ampiezza gli
elementi fondamentali di tale dottrina, e presenta le ragioni del
discernimento pastorale necessario in situazioni pratiche e culturali
complesse e talvolta critiche.
Alla luce della Rivelazione e
dell'insegnamento costante della Chiesa e specialmente del Concilio
Vaticano II, ho brevemente richiamato i tratti essenziali della libertà,
i valori fondamentali connessi con la dignità della persona e con la
verità dei suoi atti, così da poter riconoscere, nell'obbedienza
alla legge morale, una grazia e un segno della nostra adozione nel
Figlio unico (cf Ef 1,4-6). In particolare, con questa
Enciclica, vengono proposte valutazioni su alcune tendenze attuali
nella teologia morale. Le comunico ora, in obbedienza alla parola del
Signore che a Pietro ha affidato l'incarico di confermare i suoi
fratelli (cf Lc 22,32), per illuminare e aiutare il nostro
comune discernimento.
Ciascuno di noi conosce
l'importanza della dottrina che rappresenta il nucleo
dell'insegnamento di questa Enciclica e che oggi viene richiamata con
l'autorità del successore di Pietro. Ciascuno di noi può avvertire
la gravità di quanto è in causa, non solo per le singole persone ma
anche per l'intera società, con la riaffermazione dell'universalità
e della immutabilità dei comandamenti morali, e in particolare di
quelli che proibiscono sempre e senza eccezioni gli atti
intrinsecamente cattivi.
Nel riconoscere tali comandamenti
il cuore cristiano e la nostra carità pastorale ascoltano l'appello
di Colui che « ci ha amati per primo » (1 Gv 4,19). Dio ci
chiede di essere santi come egli è santo (cf Lv 19,2), di
essere — in Cristo — perfetti come egli è perfetto (cf Mt 5,48):
l'esigente fermezza del comandamento si fonda sull'inesauribile amore
misericordioso di Dio (cf Lc 6, 36), e il fine del comandamento
è di condurci, con la grazia di Cristo, sulla via della pienezza
della vita propria dei figli di Dio.
116. Abbiamo il dovere, come
Vescovi, di vigilare perché la Parola di Dio sia fedelmente
insegnata. Miei Confratelli nell'Episcopato, fa parte del nostro
ministero pastorale vegliare sulla trasmissione fedele di questo
insegnamento morale e ricorrere alle misure opportune perché i fedeli
siano custoditi da ogni dottrina e teoria ad esso contraria. In questo
compito siamo tutti aiutati dai teologi; tuttavia, le opinioni
teologiche non costituiscono né la regola né la norma del nostro
insegnamento. La sua autorità deriva, con l'assistenza dello Spirito
Santo e nella comunione cum Petro et sub Petro, dalla nostra
fedeltà alla fede cattolica ricevuta dagli Apostoli. Come Vescovi,
abbiamo l'obbligo grave di vigilare personalmente perché la «
sana dottrina » (1 Tm 1,10) della fede e della morale sia
insegnata nelle nostre diocesi.
Una particolare responsabilità si
impone ai Vescovi per quanto riguarda le istituzioni cattoliche. Si
tratti di organismi per la pastorale familiare o sociale, oppure di
istituzioni dedicate all'insegnamento o alle cure sanitarie, i Vescovi
possono erigere e riconoscere queste strutture e delegare loro alcune
responsabilità; tuttavia non sono mai esonerati dai loro propri
obblighi. Spetta a loro, in comunione con la Santa Sede, il compito di
riconoscere, o di ritirare in casi di grave incoerenza, l'appellativo
di « cattolico » a scuole,179 università,180 cliniche e servizi
socio-sanitari, che si richiamano alla Chiesa.
117. Nel cuore del cristiano, nel
nucleo più segreto del- l'uomo, risuona sempre la domanda che un
giorno il giovane del Vangelo rivolse a Gesù: « Maestro, che cosa
devo fare di buono per ottenere la vita eterna? » (Mt 19,16).
Occorre però che ciascuno la rivolga al Maestro « buono », perché
è l'unico che possa rispondere nella pienezza della verità, in ogni
situazione, nelle più diverse circostanze. E quando i cristiani gli
rivolgono la domanda che sale dalla loro coscienza, il Signore
risponde con le parole dell'Alleanza Nuova affidate alla sua Chiesa.
Ora, come dice di sé l'Apostolo, noi siamo mandati « a predicare il
vangelo; non però con un discorso sapiente, perché non sia resa vana
la croce di Cristo » (1 Cor 1,17). Per questo la risposta
della Chiesa alla domanda dell'uomo ha la saggezza e la potenza di
Cristo crocifisso, la Verità che si dona.
Quando gli uomini pongono alla
Chiesa le domande della loro coscienza, quando
nella Chiesa i fedeli si rivolgono ai Vescovi e ai Pastori, nella
risposta della Chiesa c'è la voce di Gesù Cristo, la voce della
verità circa il bene e il male. Nella parola pronunciata dalla
Chiesa risuona, nell'intimo delle persone, la voce di Dio, che « solo
è buono » (Mt 19,17), che solo « è amore » (1 Gv 4,8.16).
Nell'unzione dello Spirito questa
parola dolce ed esigente si fa luce e vita per l'uomo. È ancora
l'apostolo Paolo ad invitarci alla fiducia, perché « la nostra
capacità viene da Dio, che ci ha resi ministri adatti di una Nuova
Alleanza, non della lettera ma dello Spirito... Il Signore è lo
Spirito e dove c'è lo Spirito del Signore c'è libertà. E noi tutti,
a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del
Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in
gloria, secondo l'azione dello Spirito del Signore » (2 Cor 3,5-6.17-18).
CONCLUSIONE
Maria Madre di misericordia
118. Affidiamo, al termine di
queste considerazioni, noi stessi, le sofferenze e le gioie della
nostra esistenza, la vita morale dei credenti e degli uomini di buona
volontà, le ricerche degli studiosi di morale a Maria, Madre di Dio e
Madre di misericordia.
Maria è Madre di misericordia
perché Gesù Cristo, suo Figlio, è mandato dal Padre come
Rivelazione della misericordia di Dio (cf Gv 3, 16-18). Egli è
venuto non per condannare ma per perdonare, per usare misericordia (cf
Mt 9,13). E la misericordia più grande sta nel suo essere in
mezzo a noi e nella chiamata che ci è rivolta ad incontrare Lui e a
confessarlo, insieme con Pietro, come « il Figlio del Dio vivente »
(Mt 16,16). Nessun peccato dell'uomo può cancellare la
misericordia di Dio, può impedirle di sprigionare tutta la sua forza
vittoriosa, se appena la invochiamo. Anzi, lo stesso peccato fa
risplendere ancora di più l'amore del Padre che, per riscattare lo
schiavo, ha sacrificato il suo Figlio: 181 la sua misericordia per noi
è redenzione. Questa misericordia giunge a pienezza con il dono dello
Spirito, che genera ed esige la vita nuova. Per quanto numerosi e
grandi siano gli ostacoli opposti dalla fragilità e dal peccato
dell'uomo, lo Spirito, che rinnova la faccia della terra (cf Sal 1031,30),
rende possibile il miracolo del compimento perfetto del bene. Questo
rinnovamento, che dà la capacità di fare ciò che è buono, nobile,
bello, gradito a Dio e conforme alla sua volontà, è in un certo
senso la fioritura del dono della misericordia, che libera dalla
schiavitù del male e dà la forza di non peccare più. Attraverso il
dono della vita nuova Gesù ci rende partecipi del suo amore e ci
conduce al Padre nello Spirito.
119. È questa la consolante
certezza della fede cristiana, alla quale essa deve la sua profonda
umanità e la sua straordinaria semplicità. Talvolta, nelle
discussioni sui nuovi complessi problemi morali, può sembrare che la
morale cristiana sia in se stessa troppo difficile, ardua da
comprendere e quasi impossibile da praticare. Ciò è falso, perché
essa consiste, in termini di semplicità evangelica, nel seguire
Gesù Cristo, nell'abbandonarsi a Lui, nel lasciarsi trasformare
dalla sua grazia e rinnovare dalla sua misericordia, che ci
raggiungono nella vita di comunione della sua Chiesa. « Chi vuole
vivere — ci ricorda sant'Agostino —, ha dove vivere, ha donde
vivere. Si avvicini, creda, si lasci incorporare per essere
vivificato. Non rifugga dalla compagine delle membra ».182 Può
capire dunque l'essenza vitale della morale cristiana, con la luce
dello Spirito, ogni uomo, anche il meno dotto, anzi soprattutto chi sa
conservare un « cuore semplice » (Sal 852,11). D'altra parte,
questa semplicità evangelica non esime dall'affrontare la complessità
del reale, ma può introdurre alla sua più vera comprensione, perché
la sequela di Cristo metterà progressivamente in luce i caratteri
dell'autentica moralità cristiana e darà, al tempo stesso, l'energia
di vita per la sua realizzazione. È compito del Magistero della
Chiesa vegliare perché il dinamismo della sequela di Cristo si
sviluppi in modo organico, senza che ne vengano falsate o occultate le
esigenze morali, con tutte le loro conseguenze. Chi ama Cristo osserva
i suoi comandamenti (cf Gv 14,15).
120. Maria è Madre di
misericordia anche perché a lei Gesù affida la sua Chiesa e l'intera
umanità. Ai piedi della Croce, quando accetta Giovanni come figlio,
quando chiede, insieme con Cristo, il perdono al Padre per coloro che
non sanno quello che fanno (cf Lc 23,34), Maria in perfetta
docilità allo Spirito sperimenta la ricchezza e l'universalità
dell'amore di Dio, che le dilata il cuore e la fa capace di
abbracciare l'intero genere umano. È resa, in tal modo, Madre di
tutti noi, e di ciascuno di noi, Madre che ci ottiene la misericordia
divina.
Maria è segno luminoso ed esempio
affascinante di vita morale: « la vita di lei sola è insegnamento
per tutti », scrive sant'Ambrogio,183 che rivolgendosi in particolare
alle vergini ma in un orizzonte aperto a tutti così afferma: « Il
primo ardente desiderio di imparare lo dà la nobiltà del maestro. E
chi è più nobile della Madre di Dio? o più splendida di Colei che
fu eletta dallo stesso Splendore? ».184 Maria vive e realizza la
propria libertà donando se stessa a Dio ed accogliendo in sé il dono
di Dio. Custodisce nel suo grembo verginale il Figlio di Dio fatto
uomo fino al tempo della nascita, lo alleva, lo fa crescere e lo
accompagna in quel gesto supremo di libertà, che è il sacrificio
totale della propria vita. Con il dono di se stessa, Maria entra
pienamente nel disegno di Dio, che si dona al mondo. Accogliendo e
meditando nel suo cuore avvenimenti che non sempre comprende (cf Lc
2,19), diventa il modello di tutti coloro che ascoltano la parola
di Dio e la osservano (cf Lc 11, 28) e merita il titolo di «
Sede della Sapienza ». Questa Sapienza è Gesù Cristo stesso, il
Verbo eterno di Dio, che rivela e compie perfettamente la volontà del
Padre (cf Eb 10,5-10). Maria invita ogni uomo ad accogliere
questa Sapienza. Anche a noi rivolge l'ordine dato ai servi, a Cana in
Galilea durante il banchetto di nozze: « Fate quello che egli vi dirà
» (Gv 2,5).
Maria condivide la nostra
condizione umana, ma in una totale trasparenza alla grazia di Dio. Non
avendo conosciuto il peccato, ella è in grado di compatire ogni
debolezza. Comprende l'uomo peccatore e lo ama con amore di Madre.
Proprio per questo sta dalla parte della verità e condivide il peso
della Chiesa nel richiamare a tutti e sempre le esigenze morali. Per
lo stesso motivo non accetta che l'uomo peccatore venga ingannato da
chi pretenderebbe di amarlo giustificandone il peccato, perché sa che
in tal modo sarebbe reso vano il sacrificio di Cristo, suo Figlio.
Nessuna assoluzione, offerta da compiacenti dottrine anche filosofiche
o teologiche, può rendere l'uomo veramente felice: solo la Croce e la
gloria di Cristo risorto possono donare pace alla sua coscienza e
salvezza alla sua vita.
O Maria,
Madre di misericordia,
veglia su tutti
perché non venga resa vana la croce di Cristo,
perché l'uomo non smarrisca la via del bene,perché l'uomo non
smarrisca la via del bene,
non perda la coscienza del peccato,non perda la coscienza del peccato,
cresca nella speranza in Dio
« ricco di misericordia » (Ef 2,4),
compia liberamente le opere buone
da Lui predisposte (cf Ef 2,10)
e sia così con tutta la vita
« a lode della sua gloria » (Ef 1,12).
Dato a Roma, presso San Pietro,
il 6 agosto, festa della Trasfigurazione del Signore, dell'anno 1993,
decimoquinto del mio Pontificato.