ESORTAZIONE
APOSTOLICA
POST-SINODALE
RECONCILIATIO
ET PAENITENTIA
DI
GIOVANNI PAOLO II
ALL'EPISCOPATO
AL CLERO E AI FEDELI
CIRCA LA RICONCILIAZIONE E LA PENITENZA
NELLA MISSIONE DELLA CHIESA OGGI
PROEMIO
ORIGINE
E SIGNIFICATO DEL DOCUMENTO
1. Parlare di riconciliazione e
penitenza è, per gli uomini e le donne del nostro tempo, un invito a
ritrovare, tradotte nel loro linguaggio, le parole stesse con cui il
nostro salvatore e maestro Gesù Cristo volle inaugurare la sua
predicazione: «Convertitevi e credete al Vangelo» (Mc 1,15),
accogliete, cioè, la lieta novella dell'amore, dell'adozione a figli
di Dio e, quindi, della fratellanza.
Perché la Chiesa ripropone questo
tema e questo invito? L'ansia di conoscere meglio e di comprendere
l'uomo d'oggi e il mondo contemporaneo, di decifrarne l'enigma e di
svelarne il mistero, di discernere i fermenti di bene o di male che vi
si agitano, da non poco tempo ormai porta molti a rivolgere a questo
uomo e a questo mondo uno sguardo interrogativo. E' lo sguardo dello
storico e del sociologo, del filosofo e del teologo, dello psicologo e
dell'umanista, del poeta e del mistico: è, soprattutto, lo sguardo
preoccupato, eppur carico di speranza, del pastore.
Un tale sguardo si rivela in
maniera esemplare in ciascuna pagina dell'importante costituzione
pastorale del Concilio Vaticano II «Gaudium et Spes» sulla Chiesa
nel mondo contemporaneo, particolarmente nella sua ampia e penetrante
introduzione. Esso si rivela, altresì, in taluni documenti emanati
dalla sapienza e dalla carità pastorale dei miei venerati
predecessori, i cui luminosi pontificati furono segnati dall'evento
storico e profetico di quel Concilio ecumenico.
Come gli altri sguardi, anche
quello del pastore scorge, purtroppo, fra diverse caratteristiche del
mondo e dell'umanità del nostro tempo, l'esistenza di numerose,
profonde e dolorose divisioni.
Un mondo frantumato
2. Queste divisioni si manifestano
nei rapporti fra le persone e fra i gruppi, ma anche a livello delle
più vaste collettività: nazioni contro nazioni, e blocchi di paesi
contrapposti, in un'affannosa ricerca di egemonia. Alla radice delle
rotture non è difficile individuare conflitti che, anziché
risolversi mediante il dialogo, si acuiscono nel confronto e nel
contrasto.
Indagando sugli elementi
generatori di divisione, attenti osservatori ne riscontrano i più
svariati: dalla crescente sperequazione tra gruppi, classi sociali e
paesi agli antagonismi ideologici tutt'altro che spenti; dalla
contrapposizione degli interessi economici alle polarizzazioni
politiche; dalle divergenze tribali alle discriminazioni per motivi
socio-religiosi. Del resto, alcune realtà che sono sotto gli occhi di
tutti costituiscono come il volto pietoso della divisione, di cui sono
frutto, e ne fanno rilevare la gravità con inconfutabile concretezza.
Si possono ricordare, fra tanti altri dolorosi fenomeni sociali del
nostro tempo: 1) il calpestamento dei diritti fondamentali della
persona umana, primo fra essi il diritto alla vita e a una degna
qualità di vita; 2) il che è tanto più scandaloso, in quanto
coesiste con una retorica non mai prima conosciuta circa gli stessi
diritti; 3) le insidie e pressioni contro la libertà dei singoli e
delle collettività, non esclusa, anzi più offesa e minacciata, la
libertà di avere, di professare e di praticare la propria fede; 4) le
varie forme di discriminazione: razziale, culturale, religiosa ecc.;
5) la violenza e il terrorismo; 6) l'uso della tortura e le forme
ingiuste e illegittime di repressione; 7) l'accumulo delle armi
convenzionali o atomiche, la corsa agli armamenti, con spese belliche
che potrebbero servire a sollevare l'immeritata miseria di popoli
socialmente ed economicamente depressi; 8) l'iniqua distribuzione
delle risorse del mondo e dei beni della civiltà, che tocca il suo
vertice in un tipo di organizzazione sociale, per cui la distanza fra
le condizioni umane dei ricchi e dei poveri si accresce sempre di più.
La potenza travolgente di questa divisione fa del mondo, in cui
viviamo, un mondo frantumato fin nelle sue fondamenta.
D'altra parte, poiché la Chiesa,
senza identificarsi col mondo né essere del mondo, è inserita nel
mondo ed è in dialogo col mondo, non è da meravigliarsi se si
avvertono nella sua stessa compagine ripercussioni e segni della
divisione che ferisce l'umana società. Oltre alle scissioni tra le
comunioni cristiane che la affliggono da secoli, la Chiesa sperimenta
oggi qua e là nel suo seno divisioni fra le sue stesse componenti,
causate dalla diversità di vedute e di scelte nel campo dottrinale e
pastorale. Anche queste divisioni possono a volte sembrare
inguaribili.
Per quanto tali lacerazioni già
ad un primo sguardo appaiano impressionanti, soltanto osservando in
profondità si riesce a individuare la loro radice: questa si trova in
una ferita nell'intimo dell'uomo. Alla luce della fede noi la
chiamiamo il peccato: cominciando dal peccato originale, che ciascuno
porta dalla nascita come un'eredità ricevuta dai progenitori, fino al
peccato che ciascuno commette, abusando della propria libertà.
Nostalgia di riconciliazione
3. Eppure, lo stesso sguardo
indagatore, se è sufficientemente acuto, coglie nel vivo della
divisione un inconfondibile desiderio da parte degli uomini di buona
volontà e dei veri cristiani di ricomporre le fratture, di
rimarginare le lacerazioni, di instaurare, a tutti i livelli,
un'essenziale unità. Tale desiderio comporta in molti una vera
nostalgia di riconciliazione, pur se questa parola non è usata.
Per taluni si tratta quasi di
un'utopia, che potrebbe diventare la leva ideale per un vero mutamento
della società; per altri, invece, è oggetto di un'ardua conquista e,
quindi, un traguardo da raggiungere con un serio impegno di
riflessione e di azione. In ogni caso, l'aspirazione a una
riconciliazione sincera e consistente è, senza ombra di dubbio, un
motivo fondamentale della nostra società, quasi riflesso di
un'incoercibile volontà di pace; lo è - anche se ciò è paradossale
- tanto vigorosamente, quanto pericolosi sono gli stessi fattori di
divisione.
Tuttavia, la riconciliazione non
può essere meno profonda di quanto non sia la divisione. La nostalgia
della riconciliazione e la riconciliazione stessa saranno piene ed
efficaci nella misura in cui giungeranno - per guarirla - a quella
lacerazione primigenia, che è radice di tutte le altre ed è il
peccato.
Lo sguardo del Sinodo
4. Pertanto, ogni istituzione o
organizzazione, volta a servire l'uomo e interessata a salvarlo nelle
sue dimensioni fondamentali, deve rivolgere uno sguardo penetrante
alla riconciliazione, per approfondirne il significato e la piena
portata e trarne le necessarie conseguenze operative.
A questo sguardo non poteva
rinunciare la Chiesa di Gesù Cristo. Con dedizione di madre e
intelligenza di maestra, essa si applica, premurosa e attenta, a
raccogliere dalla società, con i segni della divisione, anche quelli
non meno eloquenti e significativi della ricerca di una
riconciliazione. Essa, infatti, sa che specialmente a lei è stata
data la possibilità e assegnata la missione di far conoscere il senso
vero, profondamente religioso, e le dimensioni integrali della
riconciliazione, contribuendo, già solo per questo, a chiarire i
termini essenziali della questione dell'unità e della pace.
I miei predecessori non hanno
cessato di predicare la riconciliazione, di invitare ad essa l'intera
umanità, nonché ogni ceto e ogni porzione della comunità umana che
vedevano lacerata e divisa. E io stesso, per un impulso interiore che
obbediva a un tempo - ne son certo - all'ispirazione dall'alto e agli
appelli dell'umanità, in due modi diversi, ambedue solenni e
impegnativi, ho voluto mettere a fuoco il tema della riconciliazione:
in primo luogo, convocando la VI Assemblea generale del Sinodo dei
vescovi; in secondo luogo, facendo della riconciliazione il centro
dell'anno giubilare, indetto per celebrare il 1950· anniversario
della redenzione. Dovendo assegnare un tema al Sinodo, mi sono trovato
pienamente consenziente con quello suggerito da numerosi miei fratelli
nell'episcopato, cioè quello, tanto fecondo, della riconciliazione in
stretto collegamento con quello della penitenza.
Il termine e il concetto stesso di
penitenza sono assai complessi. Se la colleghiamo alla metanoia, a cui
si riferiscono i sinottici, allora la penitenza significa l'intimo
cambiamento del cuore sotto l'influsso della parola di Dio e nella
prospettiva del Regno. Ma penitenza vuol dire anche cambiare la vita
in coerenza col cambiamento del cuore, e in questo senso il fare
penitenza si completa col fare degni frutti di penitenza: è tutta
l'esistenza che diventa penitenziale, tesa cioè a un continuo cammino
verso il meglio. Fare penitenza, però, è qualcosa di autentico ed
efficace soltanto se si traduce in atti e gesti di penitenza. In
questo senso, penitenza significa, nel vocabolario cristiano teologico
e spirituale, l'ascesi, vale a dire lo sforzo concreto e quotidiano
dell'uomo, sorretto dalla grazia di Dio, per perdere la propria vita
per Cristo, quale unico modo di guadagnarla; per spogliarsi del
vecchio uomo e rivestirsi del nuovo; per superare in se stesso ciò
che è carnale, affinché prevalga ciò che è spirituale; per
innalzarsi continuamente dalle cose di quaggiù a quelle di lassù,
dove è Cristo. La penitenza, pertanto, è la conversione che passa
dal cuore alle opere e, quindi, all'intera vita del cristiano.
In ciascuno di questi significati
la penitenza è strettamente congiunta alla riconciliazione, poiché
il riconciliarsi con Dio, con se stessi e con gli altri suppone che si
sconfigga la rottura radicale, che è il peccato; il che si realizza
soltanto attraverso la trasformazione interiore o conversione, che
fruttifica nella vita mediante gli atti di penitenza.
Il documento-base del Sinodo
(chiamato anche «Lineamenta»), preparato all'unico scopo di
presentare il tema accentuandone alcuni aspetti fondamentali, ha
consentito alle comunità ecclesiali, ovunque esistenti nel mondo, di
riflettere per quasi due anni su questi aspetti di una questione -
quella della conversione e della riconciliazione - che interessa
tutti, e di trarne, altresì, un rinnovato slancio per la vita e
l'apostolato cristiano. La riflessione si è ulteriormente
approfondita, in preparazione più immediata ai lavori sinodali,
grazie all'«Instrumentum laboris», inviato tempestivamente ai
vescovi e ai loro collaboratori. Infine, per un mese intero, i padri
sinodali, assistiti da quanti furono chiamati all'assise propriamente
detta, hanno trattato con grande senso di responsabilità il tema
stesso e le questioni, numerose e svariate, ad esso connesse. Dal
dibattito, dallo studio comune, dall'assidua e accurata ricerca è
scaturito un ampio e prezioso tesoro, che le «Propositiones» finali
riassumono nella sua sostanza.
Lo sguardo del Sinodo non ignora
gli atti di riconciliazione (alcuni dei quali passano quasi
inosservati nella loro quotidianità), che pur in varia misura servono
a risolvere le tante tensioni, a superare i tanti conflitti e a
vincere le piccole e grandi divisioni, rifacendo l'unità. Ma la
preoccupazione principale del Sinodo era quella di trovare, nel
profondo di questi atti sparsi, la radice nascosta, una
riconciliazione, per così dire, «fontale», operante nel cuore e
nella coscienza dell'uomo.
Il carisma e, nel contempo,
l'originalità della Chiesa, per quanto riguarda la riconciliazione, a
qualunque livello sia da effettuare, risiedono nel fatto che essa
risale sempre a quella riconciliazione fontale. In forza, infatti,
della sua missione essenziale, la Chiesa sente il dovere di giungere
fino alle radici della lacerazione primigenia del peccato, per
operarvi il risanamento e ristabilirvi, per così dire, una
riconciliazione anch'essa primigenia, che sia principio efficace di
ogni vera riconciliazione. Questo la Chiesa ha avuto in vista e ha
proposto mediante il Sinodo.
Di questa riconciliazione parla la
Sacra Scrittura, invitandoci a fare per essa tutti gli sforzi (2Cor
5,20); ma dice, altresì, che essa è, anzitutto, un dono
misericordioso di Dio all'uomo (Rm 5,11). La storia della salvezza -
quella dell'intera umanità, come quella di ciascun uomo, in qualsiasi
tempo - è la storia mirabile di una riconciliazione: quella per cui
Dio, che è Padre, nel sangue e nella croce del suo Figlio fatto uomo
ha riconciliato con sé il mondo, facendo nascere così una nuova
famiglia di riconciliati.
La riconciliazione si fa
necessaria, perché c'è stata la rottura del peccato, dalla quale
sono derivate tutte le altre forme di rottura nell'intimo dell'uomo e
intorno a lui. La riconciliazione, dunque, per essere piena, esige
necessariamente la liberazione dal peccato, rifiutato nelle sue più
profonde radici. Perciò, uno stretto legame interno unisce
conversione e riconciliazione: è impossibile disgiungere le due realtà,
o parlare dell'una tacendo dell'altra.
Al tempo stesso, il Sinodo ha
parlato della riconciliazione di tutta la famiglia umana e della
conversione del cuore di ogni persona, del suo ritorno a Dio, volendo
riconoscere e proclamare che l'unione degli uomini non può darsi
senza un cambiamento interno di ciascuno. La conversione personale è
la via necessaria alla concordia fra le persone («Gaudium et Spes»,10).
Quando la Chiesa proclama la lieta novella della riconciliazione, o
propone di realizzarla attraverso i sacramenti, esercita un vero ruolo
profetico, denunciando i mali dell'uomo nella loro sorgente
contaminata, indicando la radice delle divisioni e infondendo la
speranza di poter superare le tensioni e i conflitti per giungere alla
fratellanza, alla concordia e alla pace a tutti i livelli e in tutti i
ceti dell'umana società. Essa cambia una condizione storica di odio e
di violenza in una civiltà di amore. Essa offre a tutti il principio
evangelico e sacramentale di quella riconciliazione «fontale», dalla
quale scaturisce ogni altro gesto o atto di riconciliazione, anche a
livello sociale.
Di tale riconciliazione, frutto
della conversione, tratta la presente esortazione. Infatti, come era
accaduto al termine delle tre precedenti assemblee del Sinodo, gli
stessi padri hanno voluto anche questa volta consegnare al vescovo di
Roma, pastore universale della Chiesa e capo del collegio episcopale,
nella sua qualità di presidente del Sinodo, le conclusioni del loro
lavoro. Ho accettato, come un grave e grato dovere del mio ministero,
il compito di attingere all'ingente dovizia del Sinodo per offrire al
popolo di Dio, quale frutto del Sinodo stesso, un messaggio dottrinale
e pastorale sul tema della penitenza e riconciliazione. Tratterò,
pertanto, nella prima parte, della Chiesa nel compimento della sua
missione riconciliatrice, nell'opera di conversione dei cuori per il
rinnovato abbraccio fra l'uomo e Dio, fra l'uomo e il suo fratello,
fra l'uomo e tutto il creato. Nella seconda parte sarà indicata la
causa radicale di ogni lacerazione o divisione fra gli uomini e, prima
di tutto, nei confronti di Dio: il peccato. Infine, segnalerò quei
mezzi che consentono alla Chiesa di promuovere e di suscitare la piena
riconciliazione degli uomini con Dio e, di conseguenza, degli uomini
fra di loro.
Il documento, che ora consegno ai
figli della Chiesa, ma anche a tutti coloro che, credenti o no, ad
essa guardano con interesse e animo sincero, vuol essere una doverosa
risposta a quanto il Sinodo mi ha chiesto. Ma è anche - tengo a
dichiararlo per soddisfare un debito di verità e di giustizia - opera
del medesimo Sinodo. Il contenuto di queste pagine, infatti, proviene
da esso: dalla sua lontana o prossima preparazione, dall'«Instrumentum
laboris», dagli interventi nell'aula sinodale e nei «circuli minores»
e, soprattutto, dalle sessantatré «Propositiones». Si trova qui il
frutto del lavoro congiunto dei padri, tra i quali non mancavano i
rappresentanti delle Chiese orientali, il cui patrimonio teologico,
spirituale e liturgico è così ricco e venerando anche in ordine alla
materia che qui ci interessa. Inoltre, il consiglio della segreteria
del Sinodo ha valutato in due importanti sedute i risultati e gli
orientamenti dell'assise sinodale appena conclusa, ha messo in
evidenza la dinamica delle suddette «Propositiones» e ha tracciato,
poi, le linee ritenute più idonee per la stesura del presente
documento. Sono grato a tutti coloro che hanno compiuto questo lavoro,
mentre, fedele alla mia missione, voglio qui trasmettere ciò che, nel
tesoro dottrinale e pastorale del Sinodo, mi appare provvidenziale per
la vita di tanti uomini in quest'ora magnifica e difficile della
storia.
Giova farlo - e risulta quanto mai
significativo - mentre è ancor vivo il ricordo dell'anno santo,
interamente vissuto nel segno della penitenza, conversione e
riconciliazione. Che questa mia esortazione, affidata ai fratelli
nell'episcopato e ai loro collaboratori presbiteri e diaconi, ai
religiosi e religiose, a tutti i fedeli, agli uomini e alle donne di
retta coscienza, possa essere non soltanto uno strumento di
purificazione, di arricchimento e approfondimento della propria fede
personale, ma anche un lievito capace di far crescere nel cuore del
mondo la pace e la fratellanza, la speranza e la gioia, valori che
scaturiscono dal Vangelo accolto, meditato e vissuto giorno per giorno
sull'esempio di Maria, madre del Signore nostro Gesù Cristo, per
mezzo del quale piacque a Dio riconciliare a sé tutte le cose.
PRIMA PARTE
CONVERSIONE E RICONCILIAZIONE COMPITO E IMPEGNO DELLA CHIESA
I.
UNA
PARABOLA DELLA RICONCILIAZIONE
5. All'inizio di questa
esortazione apostolica si presenta al mio spirito la straordinaria
pagina di san Luca, che ho già cercato di illustrare in un precedente
mio documento. Mi riferisco alla parabola del figlio prodigo.
Dal fratello che era
perduto...
«Un uomo aveva due figli. Il più
giovane disse al padre: "Padre, dammi la parte del patrimonio che
mi spetta"», racconta Gesù nel mettere a fuoco la drammatica
vicenda di quel giovane: l'avventurosa partenza dalla casa paterna, lo
sperpero di tutti i suoi beni in una vita dissoluta e vuota, i giorni
tenebrosi della lontananza e della fame, ma, più ancora, della dignità
perduta, dell'umiliazione e della vergogna, e infine, la nostalgia
della propria casa, il coraggio di ritornarvi, l'accoglienza del
padre. Questi non aveva certo dimenticato il figlio, anzi gli aveva
conservato intatti l'affetto e la stima. Così l'aveva sempre atteso e
ora lo abbraccia, mentre dà il via alla grande festa del ritorno di
«colui che era morto ed è risuscitato, era perduto ed è stato
ritrovato».
L'uomo - ogni uomo - è questo
figlio prodigo: ammaliato dalla tentazione di separarsi dal Padre per
vivere indipendentemente la propria esistenza; caduto nella
tentazione; deluso dal nulla che, come miraggio, lo aveva affascinato;
solo, disonorato, sfruttato allorché cerca di costruirsi un mondo
tutto per sé; travagliato, anche nel fondo della propria miseria, dal
desiderio di tornare alla comunione col Padre. Come il padre della
parabola, Dio spia il ritorno del figlio, lo abbraccia al suo arrivo e
imbandisce la tavola per il banchetto del nuovo incontro, col quale si
festeggia la riconciliazione.
Ciò che più spicca nella
parabola è l'accoglienza festosa e amorosa del padre al figlio che
ritorna: segno della misericordia di Dio, sempre pronto al perdono.
Diciamolo subito: la riconciliazione è principalmente un dono del
Padre celeste.
...al fratello rimasto a
casa
6. Ma la parabola mette in scena
anche il fratello maggiore, che rifiuta il suo posto nel banchetto.
Egli rinfaccia al fratello più giovane i suoi sbandamenti e al padre
l'accoglienza che gli ha riservato, mentre a lui, temperante e
laborioso, fedele al padre e alla casa, non è stato mai concesso -
dice - di far festa con gli amici. Segno che egli non capisce la bontà
del padre. Fintantoché questo fratello, troppo sicuro di se stesso e
dei propri meriti, geloso e sprezzante, colmo di amarezza e di rabbia,
non si converte e non si riconcilia col padre e col fratello, il
banchetto non è ancora pienamente la festa dell'incontro e del
ritrovamento.
L'uomo - ogni uomo - è anche
questo fratello maggiore. L'egoismo lo rende geloso, gli indurisce il
cuore, lo acceca e lo chiude agli altri e a Dio. La benignità e
misericordia del padre lo irritano e indispettiscono; la felicità del
fratello ritrovato ha per lui un sapore amaro. Anche sotto questo
aspetto egli ha bisogno di convertirsi per riconciliarsi.
La parabola del figlio prodigo è,
anzitutto, l'ineffabile storia del grande amore di un Padre - Dio -
che offre al figlio, tornato a lui, il dono della piena
riconciliazione. Ma essa, nell'evocare, con la figura del fratello
maggiore, l'egoismo che divide fra di loro i fratelli, diventa anche
la storia della famiglia umana: segna la nostra situazione e indica la
via da percorrere. Il figlio prodigo, nella sua ansia di conversione,
di ritorno fra le braccia del padre e di perdono, raffigura coloro che
avvertono nel fondo della propria coscienza la nostalgia di una
riconciliazione a tutti i livelli e senza riserva, e intuiscono con
intima certezza che questa è possibile soltanto se deriva da una
prima e fondamentale riconciliazione: quella che porta l'uomo dalla
lontananza all'amicizia filiale con Dio, del quale riconosce
l'infinita misericordia. Letta però nella prospettiva dell'altro
figlio, la parabola dipinge la situazione della famiglia umana divisa
dagli egoismi, mette in luce la difficoltà di assecondare il
desiderio e la nostalgia di una medesima famiglia riconciliata e
unita; richiama, pertanto, la necessità di una profonda
trasformazione dei cuori nella riscoperta della misericordia del Padre
e nella vittoria sull'incomprensione e l'ostilità tra fratelli.
Alla luce di questa inesauribile
parabola della misericordia che cancella il peccato, la Chiesa,
accogliendo l'appello in essa contenuto, comprende la sua missione di
operare, sulle orme del Signore, per la conversione dei cuori e per la
riconciliazione degli uomini con Dio e fra di loro, due realtà,
queste, intimamente connesse.
II.
ALLE
FONTI DELLA RICONCILIAZIONE
Nella luce di Cristo
riconciliatore
7. Come si deduce dalla parabola
del figlio prodigo, la riconciliazione è un dono di Dio e una sua
iniziativa. Ma la nostra fede ci insegna che questa iniziativa si
concretizza nel mistero di Cristo redentore, riconciliatore,
liberatore dell'uomo dal peccato sotto tutte le sue forme. Lo stesso
san Paolo non esita a riassumere in tale compito e funzione
l'incomparabile missione di Gesù di Nazaret, Verbo e Figlio di Dio
fatto uomo.
Anche noi possiamo partire da
questo mistero centrale dell'economia della salvezza, punto-chiave
della cristologia dell'Apostolo. «Se mentre eravamo nemici, siamo
stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, -
egli scrive ai Romani - molto più, ora che siamo riconciliati, saremo
salvati mediante la sua vita. Non solo, ma ci gloriamo pure in Dio per
mezzo del Signore nostro Gesù Cristo, dal quale ora abbiamo ottenuto
la riconciliazione» (Rm 5,10s). Poiché dunque «Dio ci ha
riconciliati con sé per mezzo di Cristo», Paolo si sente ispirato ad
esortare i cristiani di Corinto: «Lasciatevi riconciliare con Dio»
(2Cor 5,18.20).
Di tale missione riconciliatrice
mediante la morte sulla croce, parlava in altri termini l'evangelista
Giovanni nell'osservare che Cristo doveva morire «per riunire insieme
i figli di Dio, che erano dispersi» (Gv 11,52).
Ma ancora san Paolo ci consente di
allargare la nostra visione dell'opera di Cristo a dimensioni
cosmiche, quando scrive che in lui il Padre ha riconciliato con sé
tutte le creature, quelle del cielo e quelle della terra. Giustamente
si può dire di Cristo redentore che «nel tempo dell'ira è stato
fatto riconciliazione», e che, se egli è «la nostra pace» (Ef
2,14), è anche la nostra riconciliazione.
Ben a ragione la sua passione e
morte, sacramentalmente rinnovate nell'eucaristia, vengono chiamate
dalla liturgia «sacrificio di riconciliazione» («Prex Eucharistica
III»): riconciliazione con Dio e con i fratelli, se Gesù stesso
insegna che la riconciliazione fraterna deve operarsi prima del
sacrificio. E' legittimo, dunque, partendo da questi e da altri
significativi passi neo-testamentari, far convergere le riflessioni
sull'intero mistero di Cristo intorno alla sua missione di
riconciliatore. E' pertanto da proclamare ancora una volta la fede
della Chiesa nell'atto redentivo di Cristo, nel mistero pasquale della
sua morte e risurrezione, come causa della riconciliazione dell'uomo,
nel suo duplice aspetto di liberazione dal peccato e di comunione di
grazia con Dio.
E proprio dinanzi al quadro
doloroso delle divisioni e delle difficoltà della riconciliazione fra
gli uomini, invito a guardare al «mysterium crucis» come al più
alto dramma, nel quale Cristo percepisce e soffre fino in fondo il
dramma stesso della divisione dell'uomo da Dio, sì da gridare con le
parole del salmista: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?»
(Mt 27,46; Mc 15,34; Sal 22,2), e attua, nello stesso tempo, la nostra
riconciliazione. Lo sguardo fisso al mistero del Golgota deve farci
ricordare sempre quella dimensione «verticale» della divisione e
della riconciliazione riguardante il rapporto uomo-Dio, che in una
visione di fede prevale sempre sulla dimensione «orizzontale», cioè
sulla realtà della divisione e sulla necessità della riconciliazione
tra gli uomini. Noi sappiamo, infatti, che una tale riconciliazione
tra loro non è e non può essere che il frutto dell'atto redentivo di
Cristo, morto e risorto per sconfiggere il regno del peccato,
ristabilire l'alleanza con Dio e abbattere così il muro di
separazione, che il peccato aveva innalzato tra gli uomini.
La Chiesa riconciliatrice
8. Ma - come diceva san Leone
Magno parlando della passione di Cristo - «tutto quello che il Figlio
di Dio ha fatto e ha insegnato per la riconciliazione del mondo, non
lo conosciamo soltanto dalla storia delle sue azioni passate, ma lo
sentiamo anche nell'efficacia di ciò che egli compie al presente».
Sentiamo la riconciliazione, operata nella sua umanità,
nell'efficacia dei sacri misteri celebrati dalla sua Chiesa, per la
quale egli ha dato se stesso e che ha costituito segno e insieme
strumento di salvezza.
Ciò afferma san Paolo, quando
scrive che Dio ha dato agli apostoli di Cristo una partecipazione alla
sua opera riconciliatrice. «Dio - egli dice - ci ha affidato il
ministero della riconciliazione... e la parola della riconciliazione»
(2Cor 5,18s).
Nelle mani e sulla bocca degli
apostoli, suoi messaggeri, il Padre ha posto misericordiosamente un
ministero di riconciliazione, che essi adempiono in maniera singolare,
in virtù del potere di agire «in persona Christi». Ma anche a tutta
la comunità dei credenti, all'intera compagine della Chiesa è
affidata la parola di riconciliazione, il compito cioè di fare quanto
è possibile per testimoniare la riconciliazione e per attuarla nel
mondo.
Si può dire che anche il Concilio
Vaticano II, nel definire la Chiesa come «sacramento, o segno e
strumento dell'intima unione con Dio e dell'unità di tutto il genere
umano» e nel segnalare come sua funzione quella di ottenere la «piena
unità in Cristo» per gli «uomini oggi più strettamente congiunti
da vari vincoli» («Lumen Gentium», 1), riconosceva che essa deve
tendere soprattutto a riportare gli uomini alla piena riconciliazione.
In intima connessione con la missione di Cristo, si può dunque
riassumere la missione, pur ricca e complessa, della Chiesa nel
compito per lei centrale della riconciliazione dell'uomo: con Dio, con
se stesso, con i fratelli, con tutto il creato; e questo in modo
permanente, perché - come ho detto altra volta - «la Chiesa è per
sua natura sempre riconciliante».
Riconciliatrice è la Chiesa in
quanto proclama il messaggio della riconciliazione, come ha sempre
fatto nella sua storia dal Concilio apostolico di Gerusalemme fino
all'ultimo Sinodo e al recente giubileo della redenzione. L'originalità
di questa proclamazione sta nel fatto che per la Chiesa la
riconciliazione è strettamente collegata alla conversione del cuore:
questa è la via necessaria verso l'intesa fra gli esseri umani.
Riconciliatrice è la Chiesa anche
in quanto mostra all'uomo le vie e gli offre i mezzi per la suddetta
quadruplice riconciliazione. Le vie sono, appunto, quelle della
conversione del cuore e della vittoria sul peccato, sia questo
l'egoismo, l'ingiustizia, la prepotenza o lo sfruttamento altrui,
l'attaccamento ai beni materiali o la ricerca sfrenata del piacere. I
mezzi sono quelli del fedele e amoroso ascolto della parola di Dio,
della preghiera personale e comunitaria e, soprattutto, dei
sacramenti, veri segni e strumenti di riconciliazione, tra i quali
eccelle, proprio sotto questo aspetto, quello che con ragione usiamo
chiamare il sacramento della riconciliazione, o della penitenza, sul
quale ritornerò in seguito.
La Chiesa riconciliata
9. Il mio venerato predecessore
Paolo VI ha avuto il merito di mettere in chiaro che, per essere
evangelizzatrice, la Chiesa deve cominciare col mostrarsi essa stessa
evangelizzata, aperta cioè al pieno e integrale annuncio della buona
novella di Gesù Cristo per ascoltarla e metterla in pratica. Anch'io,
raccogliendo in un documento organico le riflessioni della IV
assemblea generale del Sinodo, ho parlato di una Chiesa che si
catechizza nella misura in cui è operatrice di catechesi.
Non esito ora a riprendere qui il
confronto, per quanto si applica al tema che sto trattando, per
affermare che la Chiesa, per essere riconciliatrice, deve cominciare
con l'essere una Chiesa riconciliata. Sotto questa semplice e lineare
espressione soggiace la convinzione che la Chiesa, per annunciare e
proporre sempre più efficacemente al mondo la riconciliazione, deve
diventare sempre più una comunità (fosse anche il «piccolo gregge»
dei primi tempi) di discepoli di Cristo, uniti nell'impegno di
convertirsi continuamente al Signore e di vivere come uomini nuovi
nello spirito e nella pratica della riconciliazione.
Dinanzi ai nostri contemporanei,
così sensibili alla prova delle concrete testimonianze di vita, la
Chiesa è chiamata a dare l'esempio della riconciliazione anzitutto al
suo interno; e per questo tutti dobbiamo operare per pacificare gli
animi, moderare le tensioni, superare le divisioni, sanare le ferite
eventualmente inferte tra fratelli, quando si acuisce il contrasto
delle opzioni nel campo dell'opinabile, e cercare invece di essere
uniti in ciò che è essenziale per la fede e la vita cristiana,
secondo l'antica massima: «In dubiis libertas, in necessariis unitas,
in omnibus caritas».
Secondo questo stesso criterio, la
Chiesa deve attuare anche la sua dimensione ecumenica. Infatti, per
essere interamente riconciliata, essa sa di dover proseguire nella
ricerca dell'unità fra coloro che si onorano di chiamarsi cristiani,
ma sono separati tra loro, anche come Chiese o Comunioni, e dalla
Chiesa di Roma. Questa cerca un'unità che, per esser frutto ed
espressione di vera riconciliazione, non intende fondarsi né sulla
dissimulazione dei punti che dividono, né su compromessi tanto facili
quanto superficiali e fragili. L'unità deve essere il risultato di
una vera conversione di tutti, del perdono reciproco, del dialogo
teologico e delle relazioni fraterne, della preghiera, della piena
docilità all'azione dello Spirito Santo, che è anche Spirito di
riconciliazione.
Infine la Chiesa, per dirsi
pienamente riconciliata, sente di doversi impegnare sempre di più nel
portare il Vangelo a tutte le genti, promovendo il «dialogo della
salvezza», a quei vasti ambienti dell'umanità nel mondo
contemporaneo che non condividono la sua fede e che addirittura, a
causa di un crescente secolarismo, prendono le distanze nei suoi
riguardi e le oppongono una fredda indifferenza, quando non la
osteggiano e perseguitano. A tutti la Chiesa sente di dover ripetere
con san Paolo: «Lasciatevi riconciliare con Dio» (2Cor 5,20).
In ogni caso, la Chiesa promuove
una riconciliazione nella verità, sapendo bene che non sono possibili
né la riconciliazione né l'unità fuori o contro la verità.
III.
L'INIZIATIVA
DI DIO E IL MINISTERO DELLA CHIESA
10. Comunità riconciliata e
riconciliatrice, la Chiesa non può dimenticare che alle sorgenti del
suo dono e della sua missione di riconciliazione si trova
l'iniziativa, piena di amore compassionevole e di misericordia, di
quel Dio che è amore e che per amore ha creato gli uomini: li ha
creati, affinché vivano in amicizia con lui e in comunione fra di
loro.
La riconciliazione viene da
Dio
Dio è fedele al suo disegno
eterno anche quando l'uomo, spinto dal maligno e trascinato dal suo
orgoglio, abusa della libertà, datagli per amare e cercare
generosamente il bene, rifiutando l'obbedienza al suo Signore e Padre;
anche quando l'uomo, invece di rispondere con amore all'amore di Dio,
gli si oppone come a un suo rivale, illudendosi e presumendo delle sue
forze, con la conseguente rottura dei rapporti con colui che lo ha
creato. Nonostante questa prevaricazione dell'uomo, Dio rimane fedele
nell'amore. Certo, il racconto del giardino dell'Eden ci fa meditare
sulle funeste conseguenze del rifiuto del Padre, che si traduce nel
disordine interno all'uomo e nella rottura dell'armonia tra l'uomo e
la donna, tra fratello e fratello. Anche la parabola evangelica dei
due figli che si allontanano, in diverso modo, dal padre, scavando un
abisso fra di loro, è significativa. Il rifiuto dell'amore paterno di
Dio e dei suoi doni di amore è sempre alla radice delle divisioni
dell'umanità.
Ma noi sappiamo che Dio, «ricco
di misericordia» (Ef 2,4), come il padre della parabola, non chiude
il cuore a nessuno dei suoi figli. Egli li attende, li cerca, li
raggiunge là dove il rifiuto della comunione li imprigiona
nell'isolamento e nella divisione, li chiama a raccogliersi intorno
alla sua mensa, nella gioia della festa del perdono e della
riconciliazione.
Questa iniziativa di Dio si
concretizza e manifesta nell'atto redentivo di Cristo, che si irradia
nel mondo mediante il ministero della Chiesa.
Infatti, secondo la nostra fede,
il Verbo di Dio si è fatto carne ed è venuto ad abitare la terra
degli uomini, è entrato nella storia del mondo, assumendola e
ricapitolandola in sé. Egli ci ha rivelato che Dio è amore e ci ha
dato il «comandamento nuovo» (Gv 13,34) dell'amore, comunicandoci al
tempo stesso la certezza che la via dell'amore si dischiude a tutti
gli uomini, cosicché non è vano lo sforzo per instaurare la
fratellanza universale. Vincendo, con la sua morte sulla croce, il
male e la potenza del peccato, con la sua obbedienza piena di amore
egli ha portato la salvezza a tutti ed è diventato per tutti «riconciliazione».
In lui Dio ha riconciliato l'uomo con sé.
La Chiesa, continuando l'annuncio
di riconciliazione fatto risuonare da Cristo nei villaggi della
Galilea e di tutta la Palestina, non cessa di invitare l'umanità
intera a convertirsi e a credere alla buona novella. Essa parla in
nome di Cristo, facendo suo l'appello dell'apostolo Paolo, che abbiamo
già ricordato: «Noi fungiamo... da ambasciatori per Cristo, come se
Dio esortasse per mezzo nostro. Vi supplichiamo in nome di Cristo:
Lasciatevi riconciliare con Dio» (2Cor 5,20).
Chi accetta questo appello entra
nell'economia della riconciliazione e fa l'esperienza della verità
contenuta in quell'altro annuncio di san Paolo, secondo il quale
Cristo «è nostra pace, egli che ha fatto dei due un popolo solo,
abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè
l'inimicizia (...), facendo la pace per riconciliare tutti e due con
Dio» (Ef 2,14-16). Se questo testo riguarda direttamente il
superamento della divisione religiosa tra Israele, come popolo eletto
dell'Antico Testamento, e gli altri popoli, chiamati tutti a far parte
della nuova alleanza, esso contiene però l'affermazione della nuova
universalità spirituale, voluta da Dio e operata da lui mediante il
sacrificio del suo Figlio, il Verbo fatto uomo, senza limiti ed
esclusioni di sorta, per tutti coloro che si convertono e credono a
Cristo. Tutti, dunque, siamo chiamati a godere i frutti di questa
riconciliazione voluta da Dio: ogni uomo, ogni popolo.
La Chiesa, grande sacramento
di riconciliazione
11. La Chiesa ha la missione di
annunciare questa riconciliazione e di esserne il sacramento nel
mondo. Sacramento, cioè segno e strumento di riconciliazione, è la
Chiesa a diversi titoli, di diverso valore, ma tutti convergenti
nell'ottenere ciò che la divina iniziativa di misericordia vuol
concedere agli uomini.
Lo è, anzitutto, per la sua
stessa esistenza di comunità riconciliata, che testimonia e
rappresenta nel mondo l'opera di Cristo. Lo è, poi, per il suo
servizio di custode e di interprete della Sacra Scrittura, che è
lieta novella di riconciliazione, in quanto fa conoscere di
generazione in generazione il disegno d'amore di Dio e indica a
ciascuno le vie dell'universale riconciliazione in Cristo. Lo è,
infine, per i sette sacramenti, che in un modo proprio a ciascuno «fanno
la Chiesa». Infatti, poiché commemorano e rinnovano il mistero della
pasqua di Cristo, tutti i sacramenti sono sorgente di vita per la
Chiesa e, nelle sue mani, sono strumento di conversione a Dio e di
riconciliazione degli uomini.
Altre vie di riconciliazione
12. La missione riconciliatrice è
propria di tutta la Chiesa, anche e soprattutto di quella già ammessa
alla piena partecipazione della gloria divina con Maria vergine, con
gli angeli e i santi, i quali contemplano e adorano il Dio tre volte
santo. Chiesa del cielo, Chiesa della terra, Chiesa del purgatorio
sono misteriosamente unite in questa cooperazione con Cristo nel
riconciliare il mondo con Dio.
La prima via di questa azione
salvifica è quella della preghiera. Senza dubbio la Vergine, madre di
Cristo e della Chiesa, e i santi, giunti ormai alla fine del cammino
terreno e in possesso della gloria di Dio, con la loro intercessione
sostengono i loro fratelli pellegrini nel mondo, nell'impegno di
conversione, di fede, di ripresa dopo ogni caduta, di azione per far
crescere la comunione e la pace nella Chiesa e nel mondo. Nel mistero
della comunione dei santi la riconciliazione universale si attua nella
sua forma più profonda e più fruttuosa per la comune salvezza.
C'è poi un'altra via: quella
della predicazione. Discepola dell'unico maestro Gesù Cristo, la
Chiesa a sua volta, come madre e maestra, non si stanca di proporre
agli uomini la riconciliazione e non esita a denunciare la malizia del
peccato, a proclamare la necessità della conversione, a invitare e a
chiedere agli uomini di «lasciarsi riconciliare». In realtà, è
questa la sua missione profetica nel mondo d'oggi, come in quello di
ieri: è la stessa missione del suo maestro e capo, Gesù. Come lui,
la Chiesa adempirà sempre tale missione con sentimenti di amore
misericordioso e porterà a tutti le parole del perdono e l'invito
alla speranza, che vengono dalla croce.
C'è, ancora, la via spesso così
difficile e aspra dell'azione pastorale per riportare ogni uomo -
chiunque sia e dovunque si trovi - sul cammino, a volte lungo, del
ritorno al Padre nella comunione con tutti i fratelli.
C'è, infine, la via della
testimonianza, quasi sempre silenziosa, che nasce da una duplice
consapevolezza della Chiesa: quella di essere in sé «indefettibilmente
santa» («Lumen Gentium», 39), ma anche bisognosa di andare «di
giorno in giorno purificandosi, fino a che Cristo se la faccia
comparire dinanzi gloriosa, senza macchia né ruga», giacché, per i
nostri peccati, talvolta «il suo volto rifulge meno» agli occhi di
chi la guarda. Questa testimonianza non può non assumere due aspetti
fondamentali: essere segno di quella carità universale che Gesù
Cristo ha lasciato in eredità ai suoi seguaci, come prova
dell'appartenenza al suo Regno; tradursi in fatti sempre nuovi di
conversione e di riconciliazione all'interno e all'esterno della
Chiesa col superamento delle tensioni, col perdono reciproco, con la
crescita nello spirito di fraternità e di pace, da propagare nel
mondo intero. Lungo questa via la Chiesa potrà operare validamente
per far nascere quella che il mio predecessore Paolo VI chiamava la «civiltà
dell'amore».
SECONDA PARTE
L'AMORE PIU' GRANDE DEL PECCATO
Il dramma dell'uomo
13. Come scrive l'apostolo san
Giovanni, «se diciamo che siamo senza peccato, inganniamo noi stessi
e la verità non è in noi. Se riconosciamo i nostri peccati, egli che
è fedele e giusto ci perdonerà i peccati» (1Gv 1,8s). Queste parole
ispirate, scritte agli albori della Chiesa, avviano meglio di
qualsiasi altra espressione umana quel discorso sul peccato, che è
strettamente connesso con quello sulla riconciliazione. Esse colgono
il problema del peccato nel suo orizzonte antropologico, in quanto
parte integrante della verità sull'uomo, ma lo inseriscono subito
nell'orizzonte divino, nel quale il peccato è confrontato con la
verità dell'amore divino, giusto, generoso e fedele, che si manifesta
soprattutto col perdono e la redenzione. Perciò, lo stesso san
Giovanni scrive poco oltre che «qualunque cosa (il nostro cuore) ci
rimproveri, Dio è più grande del nostro cuore» (1Gv 3,20).
Riconoscere il proprio peccato,
anzi - andando ancora più a fondo nella considerazione della propria
personalità - riconoscersi peccatore, capace di peccato e portato al
peccato, è il principio indispensabile del ritorno a Dio. E'
l'esperienza esemplare di Davide, che dopo «aver fatto male agli
occhi del Signore», rimproverato dal profeta Natan, esclama: «Riconosco
la mia colpa, il mio peccato mi sta sempre dinanzi. Contro di te,
contro te solo ho peccato; quello che è male ai tuoi occhi io l'ho
fatto» (Sal 51,5s). Del resto, Gesù mette sulla bocca e nel cuore
del figlio prodigo quelle significative parole: «Padre, ho peccato
contro il cielo e contro di te» (Lc 15,18.21).
In realtà, riconciliarsi con Dio
suppone e include il distaccarsi con lucidità e determinazione dal
peccato, in cui si è caduti. Suppone e include, dunque, il fare
penitenza nel senso più completo del termine: pentirsi, manifestare
il pentimento, assumere l'atteggiamento concreto del pentito, che è
quello di chi si mette sulla via del ritorno al Padre. Questa è una
legge generale, che ciascuno deve seguire nella situazione particolare
in cui si trova. Il discorso sul peccato e sulla conversione, infatti,
non può essere svolto solo in termini astratti.
Nella condizione concreta
dell'uomo peccatore, in cui non può esservi conversione senza
riconoscimento del proprio peccato, il ministero di riconciliazione
della Chiesa interviene in ogni caso con una finalità schiettamente
penitenziale, cioè per riportare l'uomo al «cognoscimento di sé»,
secondo l'espressione di santa Caterina da Siena, al distacco dal
male, al ristabilimento dell'amicizia con Dio, al riordinamento
interiore, alla nuova conversione ecclesiale. Anzi, oltre l'ambito
della Chiesa e dei credenti, il messaggio e il ministero della
penitenza sono rivolti a tutti gli uomini, perché tutti hanno bisogno
di conversione e di riconciliazione.
Per adempiere adeguatamente tale
ministero penitenziale, è necessario anche valutare, con gli «occhi
illuminati» della fede, le conseguenze del peccato, che sono motivo
di divisione e di rottura non solo all'interno di ogni uomo, ma anche
nelle varie cerchie in cui egli vive: familiare, ambientale,
professionale, sociale, come tante volte si può sperimentalmente
constatare, a conferma della pagina biblica riguardante la città di
Babele e la sua torre. Intenti a costruire ciò che doveva essere a un
tempo simbolo e focolare di unità, quegli uomini si ritrovarono più
dispersi di prima, confusi nel linguaggio, divisi tra loro, incapaci
di consenso e di convergenza.
Perché fallì l'ambizioso
progetto? Perché «si affaticarono invano i costruttori»? Perché
gli uomini avevano posto quale segno e garanzia dell'auspicata unità
soltanto un'opera delle loro mani, dimentichi dell'azione del Signore.
Essi avevano puntato sulla sola dimensione orizzontale del lavoro e
della vita sociale, noncuranti di quella verticale, per la quale si
sarebbero trovati radicati in Dio, loro Creatore e Signore, e protesi
verso di lui come fine ultimo del loro cammino.
Ora si può dire che il dramma
dell'uomo d'oggi, come dell'uomo di tutti i tempi, consista proprio
nel suo carattere babelico.
I.
IL
MISTERO DEL PECCATO
14. Se leggiamo la pagina biblica
della città e della torre di Babele alla luce della novità
evangelica, e la confrontiamo con l'altra pagina della caduta dei
progenitori, possiamo ricavarne preziosi elementi per una presa di
coscienza del mistero del peccato. Questa espressione, nella quale
echeggia ciò che san Paolo scrive circa il mistero dell'iniquità,
tende a farci percepire quel che di oscuro e di inafferrabile si cela
nel peccato. Questo, senza dubbio, è opera della libertà dell'uomo;
ma dentro il suo stesso spessore umano agiscono fattori, per i quali
esso si situa al di là dell'umano, nella zona di confine dove la
coscienza, la volontà e la sensibilità dell'uomo sono in contatto
con le forze oscure che, secondo san Paolo, agiscono nel mondo fin
quasi a signoreggiarlo.
La disobbedienza a Dio
Dalla narrazione biblica relativa
alla costruzione della torre di Babele emerge un primo elemento, che
ci aiuta a capire il peccato: gli uomini hanno preteso di edificare
una città, riunirsi in una compagine sociale, esser forti e potenti
senza Dio, se non proprio contro Dio. In questo senso, il racconto del
primo peccato nell'Eden e il racconto di Babele, malgrado notevoli
differenze di contenuto e di forma tra loro, hanno un punto di
convergenza: in ambedue ci si trova di fronte a un'esclusione di Dio
per l'opposizione frontale a un suo comandamento, per un gesto di
rivalità nei suoi confronti, per l'ingannevole pretesa di essere «come
lui» (Gen 3,5). Nel racconto di Babele l'esclusione di Dio non appare
tanto in chiave di contrasto con lui, ma come dimenticanza e
indifferenza di fronte a lui, quasi che Dio non meriti alcun interesse
nell'ambito del disegno operativo e associativo dell'uomo. Ma in
ambedue i casi viene troncato con violenza il rapporto con Dio. Nel
caso dell'Eden appare in tutta la sua gravità e drammaticità ciò
che costituisce l'essenza più intima e più oscura del peccato: la
disobbedienza a Dio, alla sua legge, alla norma morale che egli ha
dato all'uomo, scrivendogliela nel cuore e confermandola e
perfezionandola con la rivelazione.
Esclusione di Dio, rottura con
Dio, disobbedienza a Dio: lungo tutta la storia umana questo è stato
ed è, sotto forme diverse, il peccato, che può giungere fino alla
negazione di Dio e della sua esistenza: è il fenomeno chiamato
ateismo. Disobbedienza dell'uomo, che - con un atto della sua libertà
- non riconosce la signoria di Dio sulla sua vita, almeno in quel
determinato momento in cui viola la sua legge.
La divisione tra i fratelli
15. Nelle narrazioni bibliche
sopra ricordate la rottura con Dio sfocia drammaticamente nella
divisione tra i fratelli. Nella descrizione del «primo peccato», la
rottura con Jahvè spezza al tempo stesso il filo dell'amicizia che
univa la famiglia umana, cosicché le pagine successive della Genesi
ci mostrano l'uomo e la donna, che puntano quasi il dito accusatore
l'uno contro l'altra; poi il fratello che, ostile al fratello, finisce
col togliergli la vita. Secondo la narrazione dei fatti di Babele, la
conseguenza del peccato è la frantumazione della famiglia umana, già
cominciata col primo peccato e ora giunta all'estremo nella sua forma
sociale.
Chi vuole indagare il mistero del
peccato non può non considerare questa concatenazione di causa e di
effetto. Come rottura con Dio, il peccato è l'atto di disobbedienza
di una creatura che, almeno implicitamente, rifiuta colui dal quale è
uscita e che la mantiene in vita; è, dunque, un atto suicida. Poiché
col peccato l'uomo rifiuta di sottomettersi a Dio, anche il suo
equilibrio interiore si rompe e proprio al suo interno scoppiano
contraddizioni e conflitti. Così lacerato, l'uomo produce quasi
inevitabilmente una lacerazione nel tessuto dei suoi rapporti con gli
altri uomini e col mondo creato. E' una legge e un fatto oggettivo,
che hanno riscontro in tanti momenti della psicologia umana e della
vita spirituale, come pure nella realtà della vita sociale, dov'è
facile osservare le ripercussioni e i segni del disordine interiore.
Il mistero del peccato si compone
di questa doppia ferita, che il peccatore apre nel suo proprio fianco
e nel rapporto col prossimo. Perciò, si può parlare di peccato
personale e sociale: ogni peccato è personale sotto un aspetto; sotto
un altro aspetto, ogni peccato è sociale, in quanto e perché ha
anche conseguenze sociali.
Peccato personale e peccato
sociale
16. Il peccato, in senso vero e
proprio, è sempre un atto della persona, perché è un atto di libertà
di un singolo uomo, e non propriamente di un gruppo o di una comunità.
Quest'uomo può essere condizionato, premuto, spinto da non pochi né
lievi fattori esterni, come anche può essere soggetto a tendenze,
tare, abitudini legate alla sua condizione personale. In non pochi
casi tali fattori esterni e interni possono attenuare, in maggiore o
minore misura, la sua libertà e, quindi, la sua responsabilità e
colpevolezza. Ma è una verità di fede, confermata anche dalla nostra
esperienza e ragione, che la persona umana è libera. Non si può
ignorare questa verità, per scaricare su realtà esterne - le
strutture, i sistemi, gli altri - il peccato dei singoli. Oltretutto,
sarebbe questo un cancellare la dignità e la libertà della persona,
che si rivelano - sia pure negativamente e disastrosamente - anche in
tale responsabilità per il peccato commesso. Perciò, in ogni uomo
non c'è nulla di tanto personale e intrasferibile quanto il merito
della virtù o la responsabilità della colpa.
Atto della persona, il peccato ha
le sue prime e più importanti conseguenze nel peccatore stesso: cioè,
nella relazione di questi con Dio, che è il fondamento stesso della
vita umana; nel suo spirito, indebolendone la volontà e oscurandone
l'intelligenza.
A questo punto dobbiamo chiederci
a quale realtà si riferivano coloro che, nella preparazione del
Sinodo e nel corso dei lavori sinodali, menzionarono con non poca
frequenza il peccato sociale. L'espressione e il concetto, che ad essa
è sotteso, hanno invero diversi significati.
Parlare di peccato sociale vuol
dire, anzitutto, riconoscere che, in virtù di una solidarietà umana
tanto misteriosa e impercettibile quanto reale e concreta, il peccato
di ciascuno si ripercuote in qualche modo sugli altri. E', questa,
l'altra faccia di quella solidarietà che, a livello religioso, si
sviluppa nel profondo e magnifico mistero della comunione dei santi,
grazie alla quale si è potuto dire che «ogni anima che si eleva,
eleva il mondo». A questa legge dell'ascesa corrisponde, purtroppo,
la legge della discesa, sicché si può parlare di una comunione del
peccato, per cui un'anima che si abbassa per il peccato abbassa con sé
la Chiesa e, in qualche modo, il mondo intero. In altri termini, non
c'è alcun peccato, anche il più intimo e segreto, il più
strettamente individuale, che riguardi esclusivamente colui che lo
commette. Ogni peccato si ripercuote, con maggiore o minore veemenza,
con maggiore o minore danno, su tutta la compagine ecclesiale e
sull'intera famiglia umana. Secondo questa prima accezione, a ciascun
peccato si può attribuire indiscutibilmente il carattere di peccato
sociale.
Alcuni peccati, però,
costituiscono, per il loro oggetto stesso, un'aggressione diretta al
prossimo e - più esattamente, in base al linguaggio evangelico - al
fratello. Essi sono un'offesa a Dio, perché offendono il prossimo. A
tali peccati si suole dare la qualifica di sociali, e questa è la
seconda accezione del termine. In questo senso è sociale il peccato
contro l'amore del prossimo, tanto più grave nella legge di Cristo,
perché è in gioco il secondo comandamento, che è «simile al primo».
E' egualmente sociale ogni peccato commesso contro la giustizia nei
rapporti sia da persona a persona, sia dalla persona alla comunità,
sia ancora dalla comunità alla persona. E' sociale ogni peccato
contro i diritti della persona umana, a cominciare dal diritto alla
vita, non esclusa quella del nascituro, o contro l'integrità fisica
di qualcuno; ogni peccato contro la libertà altrui, specialmente
contro la suprema libertà di credere in Dio e di adorarlo; ogni
peccato contro la dignità e l'onore del prossimo. Sociale è ogni
peccato contro il bene comune e contro le sue esigenze, in tutta
l'ampia sfera dei diritti e dei doveri dei cittadini. Sociale può
essere il peccato di commissione o di omissione da parte di dirigenti
politici, economici, sindacali, che, pur potendolo, non s'impegnano
con saggezza nel miglioramento o nella trasformazione della società
secondo le esigenze e le possibilità del momento storico; come pure
da parte di lavoratori, che vengono meno ai loro doveri di presenza e
di collaborazione, perché le aziende possano continuare a procurare
il benessere a loro stessi, alle loro famiglie, all'intera società.
La terza accezione di peccato
sociale riguarda i rapporti tra le varie comunità umane. Questi
rapporti non sempre sono in sintonia col disegno di Dio, che vuole nel
mondo giustizia, libertà e pace tra gli individui, i gruppi, i
popoli. Così la lotta di classe, chiunque ne sia il responsabile e, a
volte, il codificatore, è un male sociale. Così la contrapposizione
ostinata dei blocchi di nazioni e di una nazione contro l'altra, dei
gruppi contro altri gruppi in seno alla stessa nazione, è pure un
male sociale. In ambedue i casi, ci si può chiedere se si possa
attribuire a qualcuno la responsabilità morale di tali mali e,
quindi, il peccato. Ora si deve ammettere che realtà e situazioni,
come quelle indicate, nel loro generalizzarsi e persino ingigantirsi
come fatti sociali, diventano quasi sempre anonime, come complesse e
non sempre identificabili sono le loro cause. Perciò, se si parla di
peccato sociale, qui l'espressione ha un significato evidentemente
analogico. In ogni caso, il parlare di peccati sociali, sia pure in
senso analogico, non deve indurre nessuno a sottovalutare la
responsabilità dei singoli, ma vuol essere un richiamo alle coscienze
di tutti, perché ciascuno si assuma le proprie responsabilità, per
cambiare seriamente e coraggiosamente quelle nefaste realtà e quelle
intollerabili situazioni.
Ciò premesso nel modo più chiaro
e inequivocabile, bisogna subito aggiungere che non è legittima e
accettabile un'accezione del peccato sociale, pur molto ricorrente ai
nostri giorni in alcuni ambienti, la quale nell'opporre, non senza
ambiguità, peccato sociale a peccato personale, più o meno
inconsapevolmente conduca a stemperare e quasi a cancellare il
personale, per ammettere solo colpe e responsabilità sociali. Secondo
tale accezione, che rivela facilmente la sua derivazione da ideologie
e sistemi non cristiani - forse accantonati oggi da coloro stessi che
ne erano già i sostenitori ufficiali - praticamente ogni peccato
sarebbe sociale, nel senso di essere imputabile non tanto alla
coscienza morale di una persona, quanto ad una vaga entità e
collettività anonima, che potrebbe essere la situazione, il sistema,
la società, le strutture, l'istituzione.
Orbene la Chiesa, quando parla di
situazioni di peccato o denuncia come peccati sociali certe situazioni
o certi comportamenti collettivi di gruppi sociali più o meno vasti,
o addirittura di intere nazioni e blocchi di nazioni, sa e proclama
che tali casi di peccato sociale sono il frutto, l'accumulazione e la
concentrazione di molti peccati personali. Si tratta dei
personalissimi peccati di chi genera o favorisce l'iniquità o la
sfrutta; di chi, potendo fare qualcosa per evitare, o eliminare, o
almeno limitare certi mali sociali, omette di farlo per pigrizia, per
paura e omertà, per mascherata complicità o per indifferenza; di chi
cerca rifugio nella presunta impossibilità di cambiare il mondo; e
anche di chi pretende estraniarsi dalla fatica e dal sacrificio,
accampando speciose ragioni di ordine superiore. Le vere responsabilità,
dunque, sono delle persone.
Una situazione - e così
un'istituzione, una struttura, una società - non è, di per sé,
soggetto di atti morali; perciò, non può essere, in se stessa, buona
o cattiva. Al fondo di ogni situazione di peccato si trovano sempre
persone peccatrici. Ciò è tanto vero che, se tale situazione può
essere cambiata nei suoi aspetti strutturali e istituzionali per la
forza della legge o - come più spesso avviene, purtroppo - per la
legge della forza, in realtà il cambiamento si rivela incompleto, di
poca durata e, in definitiva, vano e inefficace - per non dire
controproducente -, se non si convertono le persone direttamente o
indirettamente responsabili di tale situazione.
Mortale, veniale
17. Ma ecco, nel mistero del
peccato, una nuova dimensione, sulla quale l'intelligenza dell'uomo
non ha mai cessato di meditare: quella della sua gravità. E' una
questione inevitabile, alla quale la coscienza cristiana non ha mai
rinunciato a dare una risposta: perché e in quale misura il peccato
è grave nell'offesa che fa a Dio e nella sua ripercussione sull'uomo?
La Chiesa ha una sua dottrina in proposito e la riafferma nei suoi
elementi essenziali, pur sapendo che non sempre è facile, nella
concretezza delle situazioni, operare nette delimitazioni di confini.
Già nell'Antico Testamento, per
non pochi peccati - quelli commessi con deliberazione, le varie forme
di impudicizia, di idolatria, di culto dei falsi dèi - si dichiarava
che il reo doveva essere «eliminato dal suo popolo», ciò che poteva
anche significare condannato a morte. Ad essi si contrapponevano altri
peccati, soprattutto quelli commessi per ignoranza, che venivano
perdonati mediante un sacrificio.
Anche in riferimento a quei testi
la Chiesa, da secoli, costantemente parla di peccato mortale e di
peccato veniale. Ma questa distinzione e questi termini ricevono luce
soprattutto dal Nuovo Testamento, nel quale si trovano molti testi che
enumerano e riprovano con forti espressioni i peccati particolarmente
meritevoli di condanna, oltre alla conferma del Decalogo fatta da Gesù
stesso. Voglio qui riferirmi specialmente a due pagine significative e
impressionanti.
In un testo della sua prima
lettera, san Giovanni parla di un peccato che conduce alla morte («pròs
thánaton») in contrapposizione a un peccato che non conduce alla
morte («mè pròs thánaton»). Ovviamente, qui il concetto di morte
è spirituale: si tratta della perdita della vera vita o «vita eterna»,
che per Giovanni è la conoscenza del Padre e del Figlio, la comunione
e l'intimità con loro. Il peccato che conduce alla morte sembra
essere in quel brano la negazione del Figlio, o il culto di false
divinità. Comunque, con tale distinzione di concetti Giovanni sembra
voler accentuare l'incalcolabile gravità di ciò che è l'essenza del
peccato, il rifiuto di Dio, che si attua soprattutto nell'apostasia e
nell'idolatria, cioè nel ripudiare la fede nella verità rivelata e
nell'equiparare a Dio certe realtà create, erigendole a idoli o falsi
dèi. Ma l'apostolo in quella pagina intende anche mettere in luce la
certezza che viene al cristiano dal fatto di essere «nato da Dio»
per la venuta del Figlio: c'è in lui una forza che lo preserva dalla
caduta nel peccato; Dio lo custodisce, «il maligno non lo tocca».
Che se pecca per debolezza o per ignoranza, c'è in lui la speranza
della remissione, anche per il sostegno che gli proviene dalla
preghiera congiunta dei fratelli.
In un'altra pagina del Nuovo
Testamento, nel Vangelo di Matteo (Mt 12,31s), Gesù stesso parla di
una «bestemmia contro lo Spirito Santo», la quale è «irremissibile»,
poiché essa è nelle sue manifestazioni un ostinato rifiuto di
conversione all'amore del Padre delle misericordie.
Si tratta, beninteso, di
espressioni estreme e radicali: rifiuto di Dio, rifiuto della sua
grazia e, quindi, opposizione al principio stesso della salvezza, per
cui l'uomo sembra volontariamente precludersi la via della remissione.
E' da sperare che ben pochi vogliano ostinarsi fino alla fine in
questo atteggiamento di ribellione o addirittura di sfida contro Dio,
il quale, d'altra parte, nel suo amore misericordioso è più grande
del nostro cuore - come ci insegna ancora san Giovanni - e può
vincere tutte le nostre resistenze psicologiche e spirituali, sicché
- come scrive san Tommaso d'Aquino - «non c'è da disperare della
salvezza di nessuno in questa vita, considerata l'onnipotenza e la
misericordia di Dio».
Ma dinanzi al problema
dell'incontro di una volontà ribelle col Dio infinitamente giusto non
si può non nutrire sentimenti di salutare «timore e tremore», come
suggerisce san Paolo; mentre l'ammonimento di Gesù circa il peccato
che non è «remissibile» conferma l'esistenza di colpe, che possono
attirare sul peccatore, come pena, la «morte eterna».
Alla luce di questi e altri testi
della Sacra Scrittura, i dottori e i teologi, i maestri spirituali e i
pastori hanno distinto i peccati in mortali e veniali. Sant'Agostino,
fra gli altri, parla di «letalia» o «mortifera crimina»,
opponendoli a «venialia», «levia» o «quotidiana». Il significato
che egli attribuisce a questi qualificativi influirà nel magistero
successivo della Chiesa. Dopo di lui, sarà san Tommaso d'Aquino a
formulare nei termini più chiari possibili la dottrina divenuta
costante nella Chiesa.
Nel definire e distinguere i
peccati mortali e veniali, non poteva essere estraneo a san Tommaso e
alla teologia del peccato, che si rifà a lui, il riferimento biblico
e, quindi, il concetto di morte spirituale. Secondo il Dottore
Angelico, per vivere spiritualmente l'uomo deve rimanere in comunione
col supremo principio della vita, che è Dio, in quanto è il fine
ultimo di tutto il suo essere e il suo agire. Ora il peccato è un
disordine perpetrato dall'uomo contro questo principio vitale. E
quando, «per mezzo del peccato, l'anima commette un disordine che va
fino alla separazione dal fine ultimo - Dio -, al quale essa è legata
per la carità, allora si ha il peccato mortale; invece, ogni volta
che il disordine rimane al di qua della separazione da Dio, allora il
peccato è veniale». Per questa ragione, il peccato veniale non priva
della grazia santificante, dell'amicizia con Dio, della carità, né
quindi della beatitudine eterna, mentre siffatta privazione è appunto
conseguenza del peccato mortale.
Considerando, inoltre, il peccato
sotto l'aspetto della pena che include, san Tommaso con altri dottori
chiama mortale il peccato che, se non rimesso, fa contrarre una pena
eterna; veniale il peccato che merita una semplice pena temporale (cioè
parziale ed espiabile in terra o nel purgatorio).
Se poi si guarda alla materia del
peccato, allora le idee di morte, di rottura radicale con Dio, sommo
bene, di deviazione dalla strada che porta a Dio o di interruzione del
cammino verso di lui (tutti modi di definire il peccato mortale) si
congiungono con l'idea di gravità del contenuto oggettivo: perciò,
il peccato grave si identifica praticamente, nella dottrina e
nell'azione pastorale della Chiesa, col peccato mortale.
Cogliamo qui il nucleo
dell'insegnamento tradizionale della Chiesa, ribadito spesso e con
vigore nel corso del recente Sinodo. Questo, infatti, non soltanto ha
riaffermato quanto è stato proclamato dal Concilio Tridentino
sull'esistenza e la natura dei peccati mortali e veniali, ma ha voluto
ricordare che è peccato mortale quello che ha per oggetto una materia
grave e che, inoltre, viene commesso con piena consapevolezza e
deliberato consenso. E' doveroso aggiungere - come è stato anche
fatto nel Sinodo - che alcuni peccati, quanto alla loro materia, sono
intrinsecamente gravi e mortali. Esistono, cioè, atti che, per se
stessi e in se stessi, indipendentemente dalle circostanze, sono
sempre gravemente illeciti, in ragione del loro oggetto. Questi atti,
se compiuti con sufficiente consapevolezza e libertà, sono sempre
colpa grave.
Questa dottrina fondata sul
Decalogo e sulla predicazione dell'Antico Testamento, ripresa nel
kerigma degli apostoli e appartenente al più antico insegnamento
della Chiesa, che la ripete fino ad oggi, ha un preciso riscontro
nell'esperienza umana di tutti i tempi. L'uomo sa bene, per
esperienza, che nel cammino di fede e di giustizia che lo porta verso
la conoscenza e l'amore di Dio in questa vita e verso la perfetta
unione con lui nell'eternità, può sostare o distrarsi, senza però
abbandonare la via di Dio: in questo caso si ha il peccato veniale, il
quale, tuttavia, non dovrà essere attenuato quasi che sia
automaticamente qualcosa di trascurabile o un «peccato di poco conto».
Sennonché l'uomo sa pure, per
dolorosa esperienza, che con atto consapevole e libero della sua
volontà può fare un'inversione di marcia, camminare nel senso
opposto al volere di Dio e così allontanarsi da lui («aversio a Deo»),
rifiutando la comunione di amore con lui, staccandosi dal principio di
vita che è lui, e scegliendo, dunque, la morte.
Con tutta la tradizione della
Chiesa noi chiamiamo peccato mortale questo atto, per il quale un
uomo, con libertà e consapevolezza, rifiuta Dio, la sua legge,
l'alleanza di amore che Dio gli propone, preferendo volgersi a se
stesso, a qualche realtà creata e finita, a qualcosa di contrario al
volere divino («conversio ad creaturam»). Il che può avvenire in
modo diretto e formale, come nei peccati di idolatria, di apostasia,
di ateismo; o in modo equivalente, come in tutte le disubbidienze ai
comandamenti di Dio in materia grave. L'uomo sente che questa
disubbidienza a Dio tronca il collegamento col suo principio vitale:
è un peccato mortale, cioè un atto che offende gravemente Dio e
finisce col rivolgersi contro l'uomo stesso con un'oscura e potente
forza di distruzione.
Durante l'assemblea sinodale è
stata proposta da alcuni padri una distinzione tripartita fra i
peccati, che sarebbero da classificare come veniali, gravi e mortali.
La tripartizione potrebbe mettere in luce il fatto che fra i peccati
gravi esiste una gradazione. Ma resta sempre vero che la distinzione
essenziale e decisiva è fra peccato che distrugge la carità e
peccato che non uccide la vita soprannaturale: fra la vita e la morte
non si dà via di mezzo.
Parimenti, si dovrà evitare di
ridurre il peccato mortale a un atto di «opzione fondamentale» -
come oggi si suol dire - contro Dio, intendendo con essa un esplicito
e formale disprezzo di Dio o del prossimo. Si ha, infatti, peccato
mortale anche quando l'uomo, sapendo e volendo, per qualsiasi ragione
sceglie qualcosa di gravemente disordinato. In effetti, in una tale
scelta è già contenuto un disprezzo del precetto divino, un rifiuto
dell'amore di Dio verso l'umanità e tutta la creazione: l'uomo
allontana se stesso da Dio e perde la carità. L'orientamento
fondamentale, quindi, può essere radicalmente modificato da atti
particolari. Senza dubbio si possono dare situazioni molto complesse e
oscure sotto l'aspetto psicologico, che influiscono sulla imputabilità
soggettiva del peccatore. Ma dalla considerazione della sfera
psicologica non si può passare alla costituzione di una categoria
teologica, qual è appunto l'«opzione fondamentale», intendendola in
modo tale che, sul piano oggettivo, cambi o metta in dubbio la
concezione tradizionale di peccato mortale.
Se è da apprezzare ogni tentativo
sincero e prudente di chiarire il mistero psicologico e teologico del
peccato, la Chiesa però ha il dovere di ricordare a tutti gli
studiosi di questa materia la necessità, da una parte, di essere
fedeli alla parola di Dio che ci istruisce anche sul peccato, e il
rischio, dall'altra, che si corre di contribuire ad attenuare ancora
di più, nel mondo contemporaneo, il senso del peccato.
Perdita del senso del
peccato
18. Dal Vangelo letto nella
comunione ecclesiale la coscienza cristiana ha acquisito, lungo il
corso delle generazioni, una fine sensibilità e un'acuta percezione
dei fermenti di morte, che sono contenuti nel peccato. Sensibilità e
capacità di percezione anche per individuare tali fermenti nelle
mille forme assunte dal peccato, nei mille volti sotto i quali esso si
presenta. E' ciò che si suol chiamare il senso del peccato.
Questo senso ha la sua radice
nella coscienza morale dell'uomo e ne è come il termometro. E' legato
al senso di Dio, giacché deriva dal rapporto consapevole che l'uomo
ha con Dio come suo creatore, Signore e Padre. Perciò, come non si può
cancellare completamente il senso di Dio né spegnere la coscienza,
così non si cancella mai completamente il senso del peccato.
Eppure, non di rado nella storia,
per periodi di tempo più o meno lunghi e sotto l'influsso di
molteplici fattori, succede che viene gravemente oscurata la coscienza
morale in molti uomini. «Abbiamo noi un'idea giusta della coscienza»?
- domandavo due anni fa in un colloquio con i fedeli -. «Non vive
l'uomo contemporaneo sotto la minaccia di un'eclissi della coscienza?
di una deformazione della coscienza? di un intorpidimento o di
un'"anestesia" delle coscienze?». Troppi segni indicano che
nel nostro tempo esiste una tale eclissi, che è tanto più
inquietante, in quanto questa coscienza, definita dal Concilio «il
nucleo più segreto e il sacrario dell'uomo» («Gaudium et Spes»,
16), è «strettamente legata alla libertà dell'uomo (...). Per
questo la coscienza in misura principale sta alla base della dignità
interiore dell'uomo e, nello stesso tempo, del suo rapporto con Dio».
E' inevitabile, pertanto, che in questa situazione venga obnubilato
anche il senso di Dio, il quale è strettamente connesso con la
coscienza morale, con la ricerca della verità, con la volontà di
fare un uso responsabile della libertà. Insieme con la coscienza
viene oscurato anche il senso di Dio, e allora, smarrito questo
decisivo punto di riferimento interiore, si perde il senso del
peccato. Ecco perché il mio predecessore Pio XII, con una parola
diventata quasi proverbiale, poté dichiarare un giorno che «il
peccato del secolo è la perdita del senso del peccato».
Perché questo fenomeno nel nostro
tempo? Uno sguardo a talune componenti della cultura contemporanea può
aiutarci a capire il progressivo attenuarsi del senso del peccato,
proprio a causa della crisi della coscienza e del senso di Dio, sopra
rilevata.
Il «secolarismo», il quale, per
la sua stessa natura e definizione, è un movimento di idee e di
costumi che propugna un umanesimo che astrae totalmente da Dio, tutto
concentrato nel culto del fare e del produrre e travolto nell'ebbrezza
del consumo e del piacere, senza preoccupazione per il pericolo di «perdere
la propria anima», non può non minare il senso del peccato. Quest'ultimo
si ridurrà tutt'al più a ciò che offende l'uomo. Ma proprio qui si
impone l'amara esperienza, a cui già accennavo nella mia prima
enciclica, che cioè l'uomo può costruire un mondo senza Dio, ma
questo mondo finirà per ritorcersi contro l'uomo. In realtà, Dio è
la radice e il fine supremo dell'uomo, e questi porta in sé un germe
divino. Perciò, è la realtà di Dio che svela e illumina il mistero
dell'uomo. E' vano, quindi, sperare che prenda consistenza un senso
del peccato nei confronti dell'uomo e dei valori umani, se manca il
senso dell'offesa commessa contro Dio, cioè il senso vero del
peccato.
Svanisce questo senso del peccato
nella società contemporanea anche per gli equivoci in cui si cade
nell'apprendere certi risultati delle scienze umane. Così in base a
talune affermazioni della psicologia, la preoccupazione di non
colpevolizzare o di non porre freni alla libertà, porta a non
riconoscere mai una mancanza. Per un'indebita estrapolazione dei
criteri della scienza sociologica si finisce - come ho già accennato
- con lo scaricare sulla società tutte le colpe, di cui l'individuo
vien dichiarato innocente. Anche una certa antropologia culturale, a
sua volta a forza di ingrandire i pur innegabili condizionamenti e
influssi ambientali e storici che agiscono sull'uomo, ne limita tanto
la responsabilità da non riconoscergli la capacità di compiere veri
atti umani e, quindi, la possibilità di peccare.
Scade facilmente il senso del
peccato anche in dipendenza di un'etica derivante da un certo
relativismo storicistico. Essa può essere l'etica che relativizza la
norma morale, negando il suo valore assoluto e incondizionato, e
negando, di conseguenza, che possano esistere atti intrisecamente
illeciti, indipendentemente dalle circostanze in cui sono posti dal
soggetto. Si tratta di un vero «rovesciamento e di una caduta di
valori morali», e «il problema non è tanto di ignoranza dell'etica
cristiana», ma «piuttosto è quello del senso, dei fondamenti e dei
criteri dell'atteggiamento morale». L'effetto di questo rovesciamento
etico è sempre anche quello di attutire a tal punto la nozione di
peccato, che si finisce quasi con l'affermare che il peccato c'è, ma
non si sa chi lo commette.
Svanisce, infine, il senso del
peccato quando - come può avvenire nell'insegnamento ai giovani,
nelle comunicazioni di massa, nella stessa educazione familiare - esso
viene erroneamente identificato col sentimento morboso della colpa o
con la semplice trasgressione di norme e precetti legali.
La perdita del senso del peccato,
dunque, è una forma o un frutto della negazione di Dio: non solo di
quella ateistica, ma anche di quella secolaristica. Se il peccato è
l'interruzione del rapporto filiale con Dio per portare la propria
esistenza fuori dell'obbedienza a lui, allora peccare non è soltanto
negare Dio; peccare è anche vivere come se egli non esistesse, è
cancellarlo dal proprio quotidiano. Un modello di società mutilato o
squilibrato nell'uno o nell'altro senso, quale è spesso sostenuto dai
mezzi di comunicazione, favorisce non poco la progressiva perdita del
senso del peccato. In tale situazione l'offuscamento o affievolimento
del senso del peccato risulta sia dal rifiuto di ogni riferimento al
trascendente in nome dell'aspirazione all'autonomia personale; sia
dall'assoggettarsi a modelli etici imposti dal consenso e costume
generale, anche se condannati dalla coscienza individuale; sia dalle
drammatiche condizioni socio-economiche che opprimono tanta parte
dell'umanità, generando la tendenza a vedere errori e colpe soltanto
nell'ambito del sociale; sia, infine e soprattutto, dall'oscuramento
dell'idea della paternità di Dio e del suo dominio sulla vita
dell'uomo.
Persino nel campo del pensiero e
della vita ecclesiale alcune tendenze favoriscono inevitabilmente il
declino del senso del peccato. Alcuni, ad esempio, tendono a
sostituire esagerati atteggiamenti del passato con altre esagerazioni:
essi passano dal vedere il peccato dappertutto al non scorgerlo da
nessuna parte; dall'accentuare troppo il timore delle pene eterne al
predicare un amore di Dio, che escluderebbe ogni pena meritata dal
peccato; dalla severità nello sforzo per correggere le coscienze
erronee a un presunto rispetto della coscienza, tale da sopprimere il
dovere di dire la verità. E perché non aggiungere che la confusione,
creata nella coscienza di numerosi fedeli dalle divergenze di opinioni
e di insegnamenti nella teologia, nella predicazione, nella catechesi,
nella direzione spirituale, circa questioni gravi e delicate della
morale cristiana, finisce per far diminuire, fin quasi a cancellarlo,
il vero senso del peccato? Né vanno taciuti alcuni difetti nella
prassi della penitenza sacramentale: tale è la tendenza a offuscare
il significato ecclesiale del peccato e della conversione, riducendoli
a fatti meramente individuali, o viceversa, ad annullare la valenza
personale del bene e del male per considerarne esclusivamente la
dimensione comunitaria; tale è anche il pericolo, non mai totalmente
scongiurato, del ritualismo abitudinario che toglie al sacramento il
suo pieno significato e la sua efficacia formativa.
Ristabilire il giusto senso del
peccato è la prima forma per affrontare la grave crisi spirituale
incombente sull'uomo del nostro tempo. Ma il senso del peccato si
ristabilisce soltanto con un chiaro richiamo agli inderogabili
principi di ragione e di fede, che la dottrina morale della Chiesa ha
sempre sostenuto.
E' lecito sperare che soprattutto
nel mondo cristiano ed ecclesiale riaffiori un salutare senso del
peccato. A ciò serviranno una buona catechesi, illuminata dalla
teologia biblica dell'alleanza, un attento ascolto e una fiduciosa
accoglienza del magistero della Chiesa, che non cessa di offrire luce
alle coscienze, e una prassi sempre più accurata del sacramento della
penitenza.
II.
«MYSTERIUM
PIETATIS»
19. Per conoscere il peccato era
necessario fissare lo sguardo sulla sua natura, quale ci è fatta
conoscere dalla rivelazione dell'economia della salvezza; esso è «mysterium
iniquitatis». Ma in questa economia il peccato non è protagonista né,
tantomeno, vincitore. Esso contrasta come antagonista con un altro
principio operante, che - usando una bella e suggestiva espressione di
san Paolo - possiamo chiamare il «mysterium», o «sacramentum
pietatis». Il peccato dell'uomo sarebbe vincente e alla fine
distruttivo, il disegno salvifico di Dio rimarrebbe incompiuto o,
addirittura, sconfitto, se questo «mysterium pietatis» non si fosse
inserito nel dinamismo della storia per vincere il peccato dell'uomo.
Troviamo questa espressione in una
delle lettere pastorali di san Paolo, la prima a Timoteo. Essa balza
improvvisa quasi per un'ispirazione irrompente. L'apostolo, infatti,
in antecedenza ha consacrato lunghi paragrafi del suo messaggio al
discepolo prediletto per spiegare il significato dell'ordinamento
della comunità (quello liturgico e, legato ad esso, quello
gerarchico), ha quindi parlato del ruolo dei capi della comunità, per
riferirsi infine al comportamento dello stesso Timoteo nella «chiesa
del Dio vivente, colonna e sostegno della verità». Quindi, alla fine
del brano, egli evoca quasi «ex abrupto», ma con un intento
profondo, ciò che dà significato a tutto quello che ha scritto: «E'
senza dubbio grande il mistero della pietà...» (1Tm 3,15s).
Senza tradire minimamente il senso
letterale del testo, noi possiamo allargare questa magnifica
intuizione teologica dell'apostolo a una più completa visione del
ruolo che la verità da lui annunciata ha nell'economia della
salvezza. «E' grande davvero - ripetiamo con lui - il mistero della
pietà», perché vince il peccato.
Ma che cos'è nella concezione
paolina questa «pietà»?
E' il Cristo stesso
20. E' profondamente significativo
che, per presentare questo «mysterium pietatis», Paolo trascriva
semplicemente, senza stabilire un legame grammaticale col testo
precedente, tre righe di un inno cristologico, che - secondo la
sentenza di autorevoli studiosi - era usato nelle comunità
ellenico-cristiane. Con le parole di quell'inno, dense di contenuto
teologico e ricche di nobile bellezza, quei credenti del primo secolo
professavano la loro fede circa il mistero del Cristo, per il quale
egli si è manifestato nella realtà della carne umana e dallo Spirito
Santo è stato costituito quale giusto, che si offre per gli ingiusti;
egli è apparso agli angeli, fatto più grande di essi, ed è stato
predicato alle genti, portatore di salvezza; egli è stato creduto nel
mondo, quale inviato del Padre, e dallo stesso Padre assunto in cielo,
quale Signore.
Il mistero o sacramento della pietà,
pertanto, è il mistero stesso del Cristo. Esso è, in una sintesi
pregnante, il mistero dell'incarnazione e della redenzione, della
piena pasqua di Gesù, Figlio di Dio e Figlio di Maria: mistero della
sua passione e morte, della sua risurrezione e glorificazione. Ciò
che san Paolo, riprendendo le frasi dell'inno, ha voluto ribadire è
che questo mistero è il segreto principio vitale che fa della Chiesa
la casa di Dio, la colonna e il sostegno della verità. Nel solco
dell'insegnamento paolino, noi possiamo affermare che questo medesimo
mistero dell'infinita pietà di Dio verso di noi è capace di
penetrare fino alle nascoste radici della nostra iniquità, per
suscitare nell'anima un movimento di conversione, per redimerla e
scioglierne le vele verso la riconciliazione.
Riferendosi senza dubbio a questo
mistero, anche san Giovanni, pur col suo caratteristico linguaggio,
che è diverso da quello di san Paolo, poteva scrivere che «chiunque
è nato da Dio, non pecca»: il Figlio di Dio lo salva e «il maligno
non lo tocca» (1Gv 5,18s). In questa affermazione giovannea c'è
un'indicazione di speranza, fondata sulle promesse divine: il
cristiano ha ricevuto la garanzia e le forze necessarie per non
peccare. Non si tratta, dunque, di un'impeccabilità acquisita per
virtù propria o, addirittura, insita nell'uomo, come pensavano gli
gnostici. E' un risultato dell'azione di Dio. Per non peccare il
cristiano dispone della conoscenza di Dio, ricorda san Giovanni in
questo stesso passo. Ma poco prima egli aveva scritto: «Chiunque è
nato da Dio, non commette peccato, perché un seme divino dimora in
lui» (1Gv 3,9). Se per questo «seme di Dio» intendiamo - come
propongono alcuni commentatori - Gesù, il Figlio di Dio, allora
possiamo dire che per non peccare - o per liberarsi dal peccato - il
cristiano dispone della presenza in sé dello stesso Cristo e del
mistero di Cristo, che è mistero di pietà.
Lo sforzo del cristiano
21. Ma c'è nel «mysterium
pietatis» un altro versante: la pietà di Dio verso il cristiano deve
aver corrispondenza nella pietà del cristiano verso Dio. In questa
seconda accezione, la pietà («eusébeia») significa appunto il
comportamento del cristiano, che alla pietà paterna di Dio risponde
con la sua pietà filiale.
Anche in questo senso possiamo
affermare con san Paolo che «è grande il mistero della pietà».
Anche in questo senso la pietà, quale forza di conversione e di
riconciliazione, affronta l'iniquità e il peccato. Anche in questo
caso gli aspetti essenziali del mistero del Cristo sono oggetto della
pietà nel senso che il cristiano accoglie il mistero, lo contempla,
ne trae la forza spirituale necessaria per condurre la vita secondo il
Vangelo. Anche qui si deve dire che «chi è nato da Dio, non commette
peccato»; ma l'espressione ha un senso imperativo: sostenuto dal
mistero del Cristo, come da un'interiore sorgente di energia
spirituale, il cristiano è diffidato dal peccare e, anzi, riceve il
comandamento di non peccare, ma di comportarsi degnamente «nella casa
di Dio, che è la chiesa del Dio vivente» (1Tm 3,15), essendo un
figlio di Dio.
Verso una vita riconciliata
22. Così la parola della
Scrittura, nel rivelarci il mistero della pietà, apre l'intelligenza
umana alla conversione e alla riconciliazione, intese non come alte
astrazioni, ma come valori cristiani concreti da conquistare nella
nostra quotidianità. Insidiati dalla perdita del senso del peccato,
talora tentati da qualche illusione ben poco cristiana di impeccabilità,
anche gli uomini d'oggi hanno bisogno di riascoltare, come diretto a
ciascuno personalmente, l'ammonimento di san Giovanni: «Se diciamo di
essere senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi»
(1Gv 1,8), e anzi «tutto il mondo giace sotto il potere del maligno»
(1Gv 5,19). Ciascuno, dunque, è invitato dalla voce della verità
divina a leggere realisticamente nella sua coscienza e a confessare
che è stato generato nell'iniquità, come diciamo nel salmo Miserere.
Tuttavia, minacciati dalla paura e
dalla disperazione, gli uomini d'oggi possono sentirsi sollevati dalla
divina promessa, che li apre alla speranza della piena
riconciliazione.
Il mistero della pietà, da parte
di Dio, è quella misericordia di cui il Signore e Padre nostro - lo
ripeto ancora - è infinitamente ricco. Come ho detto nell'enciclica
dedicata al tema della divina misericordia, essa è un amore più
potente del peccato, più forte della morte. Quando ci accorgiamo che
l'amore che Dio ha per noi non si arresta di fronte al nostro peccato,
non indietreggia dinanzi alle nostre offese, ma si fa ancora più
premuroso e generoso; quando ci rendiamo conto che questo amore è
giunto fino a causare la passione e la morte del Verbo fatto carne, il
quale ha accettato di redimerci pagando col suo sangue, allora
prorompiamo nel riconoscimento: «Sì, il Signore è ricco di
misericordia», e diciamo perfino: «Il Signore è misericordia». Il
mistero della pietà è la via aperta dalla divina misericordia alla
vita riconciliata.
TERZA PARTE
LA PASTORALE DELLA PENITENZA E DELLA RICONCILIAZIONE
Promozione della penitenza e
della riconciliazione
23. Suscitare nel cuore dell'uomo
la conversione e la penitenza e offrirgli il dono della
riconciliazione è la connaturale missione della Chiesa, come
continuatrice dell'opera redentrice del suo fondatore divino. E',
questa, una missione che non si esaurisce in alcune affermazioni
teoriche e nella proposta di un ideale etico non accompagnata da
energie operative, ma tende ad esprimersi in precise funzioni
ministeriali in ordine a una pratica concreta della penitenza e della
riconciliazione.
A questo ministero, fondato e
illuminato dai principi di fede sopra illustrati, orientato verso
obiettivi precisi e sostenuto da mezzi adeguati, possiamo dare il nome
di pastorale della penitenza e della riconciliazione. Suo punto di
partenza è la convinzione della Chiesa che l'uomo, al quale si
rivolge ogni forma di pastorale, ma principalmente la pastorale della
penitenza e della riconciliazione, è l'uomo segnato dal peccato, la
cui immagine pregnante si può trovare nel re Davide. Rimproverato dal
profeta Natan, egli accetta di confrontarsi con le proprie nefandezze
e confessa: «Ho peccato contro il Signore» (2Sam 12,13), e proclama:
«Riconosco il mio delitto, il mio peccato mi sta sempre dinanzi» (Sal
51,5); ma prega anche: «Purificami, Signore, e sarò mondo; lavami, e
sarò più bianco della neve» (Ps 9), ricevendo la risposta della
divina misericordia: «Il Signore ha perdonato il tuo peccato: non
morirai» (2Sam 12,13).
La Chiesa si trova, dunque, di
fronte all'uomo - ad un intero mondo umano - vulnerato dal peccato e
da esso toccato in ciò che possiede di più intimo nella profondità
del suo essere, ma al tempo stesso mosso verso un incoercibile
desiderio di liberazione dal peccato e, specialmente se cristiano,
consapevole che il mistero della pietà, Cristo Signore, già opera in
lui e nel mondo con la forza della redenzione.
La funzione riconciliatrice della
Chiesa deve così svolgersi secondo quell'intimo nesso, che raccorda
strettamente il perdono e la remissione del peccato di ciascun uomo
alla fondamentale e piena riconciliazione dell'umanità, avvenuta con
la redenzione. Questo nesso ci fa capire che, essendo il peccato il
principio attivo della divisione - divisione fra l'uomo e il Creatore,
divisione nel cuore e nell'essere dell'uomo, divisione fra gli uomini
singoli e fra i gruppi umani, divisione fra l'uomo e la natura creata
da Dio -, soltanto la conversione dal peccato è capace di operare una
profonda e duratura riconciliazione dovunque sia penetrata la
divisione.
Non c'è bisogno di ripetere
quanto ho già detto circa l'importanza di questo «ministero della
riconciliazione», e della relativa pastorale che lo attua, nella
coscienza e nella vita della Chiesa. Questa fallirebbe in un aspetto
essenziale del suo essere e mancherebbe a una sua irrinunciabile
funzione, se non pronunciasse con chiarezza e fermezza, a tempo e
fuori tempo, la «parola della riconciliazione» e non offrisse al
mondo il dono della riconciliazione. Ma conviene ripetere che tale
importanza del servizio ecclesiale di riconciliazione si estende,
oltre i confini della Chiesa, al mondo intero.
Parlare di pastorale della
penitenza e della riconciliazione, dunque, vuol dire riferirsi
all'insieme dei compiti che incombono alla Chiesa, a tutti i livelli,
per la promozione di esse. Più concretamente, parlare di questa
pastorale vuol dire evocare tutte le attività, mediante le quali la
Chiesa, per il tramite di tutte e di ciascuna delle sue componenti -
pastori e fedeli, a tutti i livelli e in tutti gli ambiti - e con
tutti i mezzi a sua disposizione - parola e azione, insegnamento e
preghiera -, conduce gli uomini, singoli o in gruppo, alla vera
penitenza e li introduce così nel cammino della piena
riconciliazione.
I padri del Sinodo, come
rappresentanti dei loro confratelli vescovi, guide del popolo loro
affidato, si sono occupati di questa pastorale nei suoi elementi più
pratici e concreti. E io sono lieto di far loro eco, associandomi alle
loro inquietudini e speranze, accogliendo i frutti delle loro ricerche
ed esperienze, incoraggiandoli nei loro progetti e realizzazioni.
Possano essi ritrovare in questa parte dell'esortazione apostolica
l'apporto che hanno dato essi stessi al Sinodo, apporto la cui utilità
intendo allargare, mediante queste pagine, alla Chiesa intera.
Ritengo, pertanto, di mettere in
luce l'essenziale della pastorale della penitenza e della
riconciliazione rilevandone, con l'assemblea del Sinodo, i due punti
seguenti: 1) i mezzi usati e le vie seguite dalla Chiesa per
promuovere la penitenza e la riconciliazione; 2) il sacramento per
eccellenza della penitenza e della riconciliazione.
I.
MEZZI
E VIE PER LA PROMOZIONE DELLA PENITENZA E DELLA RICONCILIAZIONE
24. Per promuovere la penitenza e
la riconciliazione la Chiesa ha a disposizione principalmente due
mezzi, che le sono stati affidati dal suo stesso fondatore: la
catechesi e i sacramenti. Il loro impiego, sempre ritenuto dalla
Chiesa come pienamente consono alle esigenze della sua missione
salvifica e rispondente, nello stesso tempo, alle esigenze e ai
bisogni spirituali degli uomini di tutti i tempi, può essere fatto in
forme e modi antichi e nuovi, tra i quali sarà bene ricordare
particolarmente quello che, seguendo il mio predecessore Paolo VI,
possiamo chiamare il metodo del dialogo.
Il dialogo
25. Il dialogo per la Chiesa è,
in certo senso, un mezzo e soprattutto un modo di svolgere la sua
azione nel mondo contemporaneo. Il Concilio Vaticano II, infatti, dopo
aver proclamato che «la Chiesa, in virtù della missione che ha di
illuminare tutto il mondo col messaggio evangelico e di radunare in un
solo Spirito tutti gli uomini (...), diventa segno di quella fraternità
che permette e rafforza un sincero dialogo», aggiunge che essa deve
essere capace di «stabilire un dialogo sempre più fecondo fra tutti
coloro che formano l'unico popolo di Dio» («Gaudium et Spes», 92),
come anche di «stabilire un dialogo con l'umana società» («Christus
Dominus», 13).
Il mio predecessore Paolo VI ha
dedicato al dialogo una parte notevole della sua prima enciclica «Ecclesiam
suam», in cui lo descrive e caratterizza significativamente quale
dialogo della salvezza. La Chiesa, infatti, usa il metodo del dialogo
per meglio condurre gli uomini - quelli che per il battesimo e la
professione di fede si riconoscono membra della comunità cristiana e
quelli che le sono estranei - alla conversione e alla penitenza, sulla
via di un profondo rinnovamento della propria coscienza e della
propria vita, alla luce del mistero della redenzione e della salvezza,
operata da Cristo e affidata al ministero della sua Chiesa.
L'autentico dialogo, quindi, è rivolto innanzitutto alla
rigenerazione di ciascuno mediante la conversione interiore e la
penitenza, sempre con profondo rispetto per le coscienze e con la
pazienza e la gradualità indispensabili nelle condizioni degli uomini
del nostro tempo.
Il dialogo pastorale in vista
della riconciliazione continua a essere oggi un impegno fondamentale
della Chiesa in diversi ambiti e a vari livelli. Essa promuove,
anzitutto, un dialogo ecumenico, cioè tra Chiese e comunità
ecclesiali che si richiamano alla fede in Cristo, Figlio di Dio e
unico salvatore, e un dialogo con le altre comunità di uomini che
cercano Dio e vogliono avere un rapporto di comunione con lui.
Alla base di tale dialogo con le
altre Chiese e comunità ecclesiali e con le altre religioni, e quale
condizione della sua credibilità ed efficacia, deve esserci un
sincero sforzo di permanente e rinnovato dialogo all'interno della
stessa Chiesa cattolica. Questa Chiesa è consapevole di essere, per
sua natura, sacramento della comunione universale di carità; ma è,
altresì, consapevole delle tensioni esistenti al suo interno, che
rischiano di diventare fattori di divisione.
L'invito accorato e fermo, già
rivolto dal mio predecessore in vista dell'anno santo 1975, vale anche
per il momento presente. Per ottenere il superamento dei conflitti e
far sì che le normali tensioni non risultino dannose all'unità della
Chiesa, occorre che tutti ci confrontiamo con la parola di Dio e,
abbandonate le proprie vedute soggettive, cerchiamo la verità laddove
essa si trova, cioè nella stessa divina Parola e nell'interpretazione
autentica, che ne dà il magistero della Chiesa. A questa luce
l'ascolto reciproco, il rispetto e l'astensione da ogni giudizio
affrettato, la pazienza, la capacità di evitare che la fede, che
unisce, sia subordinata alle opinioni, alle mode, alle scelte
ideologiche, che dividono, sono tutte doti di un dialogo che
all'interno della Chiesa deve essere assiduo, volenteroso, sincero. E'
chiaro che esso non sarebbe tale e non diventerebbe un fattore di
riconciliazione, senza l'attenzione al magistero e l'accettazione di
esso.
Così impegnata fattivamente nella
ricerca della propria comunione interna, la Chiesa cattolica può
rivolgere l'appello alla riconciliazione - come ha già fatto da tempo
- alle altre Chiese, con le quali non c'è piena comunione, nonché
alle altre religioni e persino a chi cerca Dio con cuore sincero.
Alla luce del Concilio e del
magistero dei miei predecessori, la cui preziosa eredità ho ricevuto
e mi sforzo di conservare e attuare, posso affermare che la Chiesa
cattolica in tutte le sue componenti si impegna con lealtà nel
dialogo ecumenico, senza facili ottimismi, ma anche senza sfiducia e
senza esitazioni o ritardi. Le leggi fondamentali che essa cerca di
seguire in tale dialogo sono, da una parte, la persuasione che
soltanto un ecumenismo spirituale - cioè fondato nella preghiera
comune e nella comune docilità all'unico Signore - permette di
rispondere sinceramente e seriamente alle altre esigenze dell'azione
ecumenica; dall'altra, la convinzione che un certo facile irenismo in
materia dottrinale e, soprattutto, dogmatica potrebbe forse portare a
una forma di convivenza superficiale e non durevole, ma non a quella
comunione profonda e stabile che tutti noi auspichiamo. A questa
comunione si giungerà nell'ora voluta dalla divina provvidenza; ma
per giungervi la Chiesa cattolica, per quanto la concerne, sa di dover
essere aperta e sensibile a tutti «i valori veramente cristiani,
promananti dal comune patrimonio, che si trovano presso i fratelli da
noi separati», ma di dover parimenti porre alla base di un dialogo
leale e costruttivo la chiarezza delle impostazioni, la fedeltà e la
coerenza con la fede trasmessa e definita nel solco della tradizione
perenne del suo magistero. Nonostante la minaccia, poi, di un certo
disfattismo, e malgrado le inevitabili lentezze che l'avventatezza non
potrà mai correggere, la Chiesa cattolica continua a cercare con
tutti gli altri fratelli cristiani le vie dell'unità e con i seguaci
delle altre religioni un dialogo sincero. Possa questo dialogo
inter-religioso condurre al superamento di ogni atteggiamento di
ostilità, di diffidenza, di mutua condanna e persino di mutua
invettiva, condizione preliminare almeno all'incontro nella fede in un
unico Dio e nella certezza della vita eterna per l'anima immortale.
Voglia il Signore specialmente che il dialogo ecumenico conduca a una
sincera riconciliazione intorno a tutto ciò che possiamo avere già
in comune con le altre Chiese cristiane: la fede in Gesù Cristo,
Figlio di Dio fatto uomo, Salvatore e Signore, l'ascolto della Parola,
lo studio della Rivelazione, il sacramento del battesimo.
Nella misura in cui la Chiesa è
capace di generare la concordia attiva - l'unità nella varietà - al
suo proprio interno, e di offrirsi come testimone e umile operatrice
di riconciliazione nei confronti delle altre Chiese e comunità
ecclesiali e delle altre religioni, essa diventa, secondo l'espressiva
definizione di sant'Agostino, «mondo riconciliato». Allora potrà
essere segno di riconciliazione nel mondo e per il mondo.
Nella consapevolezza della
smisurata gravità della situazione creata dalle forze della divisione
e della guerra, che costituisce oggi una pesante minaccia non soltanto
per l'equilibrio e l'armonia delle nazioni, ma per la sopravvivenza
stessa dell'umanità, la Chiesa sente di dover offrire e proporre la
sua specifica collaborazione per il superamento dei conflitti e la
ricomposizione della concordia.
E' un complesso e delicato dialogo
di riconciliazione, in cui la Chiesa si impegna, anzitutto, con
l'opera della Santa Sede e dei suoi diversi organismi. La Santa Sede
si sforza sia di intervenire presso i governanti delle nazioni e i
responsabili delle varie istanze internazionali, sia di associarsi ad
essi, dialogando con essi o stimolandoli a dialogare fra di loro, a
beneficio della riconciliazione in mezzo ai numerosi conflitti. Essa
fa questo non per secondi fini o per interessi occulti - poiché non
ne ha -, ma «per una preoccupazione umanitaria», mettendo la sua
struttura istituzionale e la sua autorità morale, del tutto
singolari, a servizio della concordia e della pace. Essa fa questo
convinta che come «nella guerra due parti insorgono l'una contro
l'altra», così «nella questione della pace sono pure sempre e
necessariamente due parti che debbono sapersi impegnare», e in ciò
«si trova il vero senso del dialogo per la pace».
Nel dialogo per la riconciliazione
la Chiesa si impegna anche per mezzo dei vescovi secondo la competenza
e responsabilità che è loro propria, sia individualmente nella
direzione delle rispettive Chiese particolari, sia riuniti nelle
conferenze episcopali, con la collaborazione dei presbiteri e di tutte
le componenti delle comunità cristiane. Essi adempiono puntualmente i
loro compiti, quando promuovono quell'indispensabile dialogo e
proclamano le esigenze umane e cristiane di riconciliazione e di pace.
In comunione con i loro pastori, i laici, i quali hanno come «campo
proprio della loro attività evangelizzatrice il mondo vasto e
complicato della politica, della realtà sociale, dell'economia (...)
della vita internazionale», sono chiamati ad impegnarsi direttamente
nel dialogo o in favore del dialogo per la riconciliazione. Per loro
tramite è ancora la Chiesa che svolge la sua azione riconciliatrice.
La rigenerazione dei cuori mediante la conversione e la penitenza è,
pertanto, il presupposto fondamentale e la base sicura per ogni
rinnovamento sociale e per la pace tra le nazioni.
Resta da ribadire che da parte
della Chiesa e dei suoi membri il dialogo, in qualsiasi forma si
svolga - e sono e possono essere molto diverse, sicché lo stesso
concetto di dialogo ha un valore analogico - non potrà mai partire da
un atteggiamento di indifferenza verso la verità, ma esserne,
piuttosto, una presentazione fatta in modo sereno e rispettoso
dell'intelligenza e della coscienza altrui. Il dialogo della
riconciliazione non potrà mai sostituire o attenuare l'annuncio della
verità evangelica, che ha come scopo preciso la conversione dal
peccato e la comunione con Cristo e con la Chiesa, ma dovrà servire
alla sua trasmissione e attuazione attraverso i mezzi lasciati da
Cristo alla Chiesa per la pastorale della riconciliazione: la
catechesi e la penitenza.
La Catechesi
26. Nella vasta area, in cui la
Chiesa ha la missione di operare con lo strumento del dialogo, la
pastorale della penitenza e della riconciliazione si rivolge ai membri
del corpo della Chiesa, innanzitutto, con un'adeguata catechesi circa
le due realtà distinte e complementari, alle quali i padri sinodali
hanno dato una particolare importanza, e che hanno messo in rilievo in
alcune delle «Propositiones» conclusive: appunto la penitenza e la
riconciliazione. La catechesi, dunque, è il primo mezzo da impiegare.
Alla radice della raccomandazione
del Sinodo, così opportuna, si trova un presupposto fondamentale: ciò
che è pastorale non si oppone al dottrinale, né può l'azione
pastorale prescindere dal contenuto dottrinale, dal quale, anzi, trae
la sua sostanza e la sua reale validità. Ora, se la Chiesa è «colonna
e sostegno della verità» (1Tm 3,15) ed è posta nel mondo come madre
e maestra, come potrebbe tralasciare il compito di insegnare la verità
che costituisce un cammino di vita?
Dai pastori della Chiesa si
attende, prima di tutto, una catechesi sulla riconciliazione. Questa
non può non fondarsi sull'insegnamento biblico, specialmente quello
neo-testamentario, circa la necessità di ricostituire l'alleanza con
Dio in Cristo redentore e riconciliatore e, alla luce e come
espansione di questa nuova comunione e amicizia, circa la necessità
di riconciliarsi col fratello, a costo di dover interrompere l'offerta
del sacrificio. Su questo tema della riconciliazione fraterna Gesù
insiste molto: ad esempio, quando invita a porgere l'altra guancia a
chi ci ha percosso e a lasciare anche il mantello a chi ci ha preso la
tunica, o quando inculca la legge del perdono: perdono che ciascuno
riceve nella misura in cui sa perdonare, perdono da offrire anche ai
nemici, perdono da concedere settanta volte sette, cioè, in pratica,
senza alcuna limitazione. A queste condizioni, realizzabili solo in un
clima genuinamente evangelico, è possibile una vera riconciliazione
sia fra gli individui, sia fra le famiglie, le comunità, le nazioni e
i popoli. Da questi dati biblici sulla riconciliazione deriverà
naturalmente una catechesi teologica, la quale integrerà nella sua
sintesi anche gli elementi della psicologia, della sociologia e delle
altre scienze umane, che possono servire per chiarire le situazioni,
impostare bene i problemi, persuadere gli ascoltatori o i lettori a
prendere risoluzioni concrete.
Dai pastori della Chiesa si
attende pure una catechesi sulla penitenza. Anche qui la ricchezza del
messaggio biblico ne deve essere la sorgente. Questo messaggio
sottolinea nella penitenza, anzitutto, il suo valore di conversione,
termine col quale si cerca di tradurre la parola del testo greco «metanoia»,
che letteralmente significa lasciar capovolgere lo spirito per farlo
volgere a Dio. Sono questi, del resto, i due elementi fondamentali
emergenti dalla parabola del figlio perduto e ritrovato: il «rientrare
in sé» e la decisione di tornare al padre. Non ci può essere
riconciliazione senza questi atteggiamenti primordiali della
conversione, e la catechesi deve spiegarli con concetti e termini
adatti alle varie età, alle diverse condizioni culturali, morali e
sociali.
E' un primo valore della penitenza
che si prolunga nel secondo: penitenza significa anche pentimento. I
due sensi della «metanoia» appaiono nella significativa consegna
data da Gesù: «Se un tuo fratello si pente (= ritorna a te),
perdonagli. E se pecca sette volte al giorno contro di te e sette
volte torna a te dicendo: "Mi pento", tu gli perdonerai» (Lc
17,3s). Una buona catechesi mostrerà come il pentimento, tanto quanto
la conversione, lungi dall'essere un sentimento superficiale, è un
vero capovolgimento dell'anima.
Un terzo valore è contenuto nella
penitenza, ed è il movimento per il quale i precedenti atteggiamenti
di conversione e di pentimento si manifestano all'esterno: è il fare
penitenza. Questo significato è ben percepibile nel termine «metanoia»,
come è usato dal Precursore secondo il testo dei sinottici. Fare
penitenza vuol dire, oltre tutto, ristabilire l'equilibrio e l'armonia
rotti dal peccato, cambiare direzione anche a costo di sacrificio.
Insomma, una catechesi sulla
penitenza, la più completa e adeguata possibile, è inderogabile in
un tempo come il nostro, nel quale gli atteggiamenti dominanti nella
psicologia e nel comportamento sociale sono così in contrasto col
triplice valore, già illustrato: l'uomo contemporaneo sembra far più
fatica che mai a riconoscere i propri sbagli e a decidere di tornare
sui suoi passi per riprendere il cammino dopo aver rettificato la
marcia; egli sembra molto riluttante a dire «me ne pento» o «mi
dispiace»; sembra rifiutare istintivamente, e spesso
irresistibilmente, tutto ciò che è penitenza nel senso del
sacrificio accolto e praticato per la correzione del peccato. A questo
riguardo, vorrei sottolineare che, anche se mitigata da qualche tempo,
la disciplina penitenziale della Chiesa non può essere abbandonata
senza grave nocumento sia per la vita interiore dei cristiani e della
comunità ecclesiale, sia per la loro capacità di irradiazione
missionaria. Non è raro che non-cristiani siano sorpresi per la
scarsa testimonianza di vera penitenza da parte dei discepoli di
Cristo. E' chiaro, peraltro, che la penitenza cristiana sarà
autentica, se sarà ispirata dall'amore, e non dal mero timore; se
consisterà in un serio sforzo di crocifiggere l'«uomo vecchio»,
perché possa rinascere il «nuovo», ad opera di Cristo; se seguirà
come modello Cristo che, pur essendo innocente, scelse la via della
povertà, della pazienza, dell'austerità e, si può dire, della vita
penitente.
Dai pastori della Chiesa si
attende ancora - come ha ricordato il Sinodo - una catechesi sulla
coscienza e la sua formazione. Anche questo è un tema di acuta
attualità, visto che, nei sussulti a cui è soggetta la cultura del
nostro tempo, viene troppo spesso aggredito, messo a prova, sconvolto,
ottenebrato questo santuario interiore, cioè l'io più intimo
dell'uomo: la sua coscienza. Per una sapiente catechesi sulla
coscienza si possono trovare indicazioni preziose sia nei dottori
della Chiesa, sia nella teologia del Concilio Vaticano II e,
specialmente, nei due documenti sulla Chiesa nel mondo contemporaneo e
sulla libertà religiosa. Su questa stessa linea il pontefice Paolo VI
intervenne spesso, per ricordare la natura e il ruolo della coscienza
nella nostra vita. Io stesso, seguendo le sue orme, non tralascio
nessuna occasione per far luce su questa altissima componente della
grandezza e dignità dell'uomo, su questa «sorta di senso morale, che
ci porta a discernere ciò che è bene da ciò che è male (...) come
un occhio interiore, una capacità visiva dello spirito, in grado di
guidare i nostri passi sulla via del bene», ribadendo la necessità
di formare cristianamente la propria coscienza, affinché essa non
diventi «una forza distruttrice dell'umanità vera (della persona),
anziché il luogo santo dove Dio gli rivela il suo vero bene».
Anche su altri punti di non minore
rilevanza per la riconciliazione si attende la catechesi dei pastori
della Chiesa.
- Sul
senso del peccato, che, come ho detto, si è non poco attenuato
nel nostro mondo.
- Sulla
tentazione e le tentazioni: lo stesso Signore Gesù, Figlio di
Dio, «provato in ogni cosa, come noi, escluso il peccato» (Eb
4,15), volle esser tentato dal maligno, per indicare che, come
lui, anche i suoi sarebbero sottoposti alla tentazione, nonché
per mostrare come bisogna comportarsi nella tentazione. Per chi
supplica il Padre di non esser tentato al di sopra delle proprie
forze e di non soccombere alla tentazione, per chi non si espone
alle occasioni, l'esser sottoposto a tentazione non significa aver
peccato, ma è, piuttosto, occasione per crescere nella fedeltà e
nella coerenza attraverso l'umiltà e la vigilanza.
- Sul
digiuno: che può praticarsi in forme antiche e nuove, come segno
di conversione, di pentimento e di mortificazione personale e, al
tempo stesso, di unione con Cristo crocifisso e di solidarietà
con gli affamati e i sofferenti.
- Sull'elemosina:
che è mezzo per render concreta la carità, condividendo ciò di
cui si dispone con colui che soffre le conseguenze della povertà.
- Sul
nesso intimo, che collega il superamento delle divisioni nel mondo
alla comunione piena con Dio e fra gli uomini, scopo escatologico
della Chiesa.
- Sulle
circostanze concrete, in cui si deve operare la riconciliazione
(nella famiglia, nella comunità civile, nelle strutture sociali)
e, particolarmente, sulle quattro riconciliazioni che riparano le
quattro fratture fondamentali: riconciliazione dell'uomo con Dio,
con se stesso, con i fratelli, con tutto il creato.
Né la Chiesa può omettere, senza
grave mutilazione del suo messaggio essenziale, una costante catechesi
su quelli che il linguaggio cristiano tradizionale designa come i
quattro novissimi dell'uomo: morte, giudizio (particolare e
universale), inferno e paradiso. In una cultura, che tende a
racchiudere l'uomo nella sua vicenda terrena più o meno riuscita, ai
pastori della Chiesa si chiede una catechesi che dischiuda e illumini
con le certezze della fede l'aldilà della vita presente: oltre le
misteriose porte della morte si profila un'eternità di gioia nella
comunione con Dio o di pena nella lontananza da lui. Soltanto in
questa visione escatologica si può avere la misura esatta del peccato
e sentirsi spinti decisamente alla penitenza e alla riconciliazione.
Ai pastori zelanti e capaci di
inventiva non mancano mai le occasioni per impartire questa ampia e
varia catechesi, tenendo conto della diversità di cultura e di
formazione religiosa di coloro ai quali si rivolgono. Le offrono
spesso le letture bibliche e i riti della santa messa e degli altri
sacramenti, come le stesse circostanze in cui essi vengono celebrati.
Allo stesso scopo possono esser prese molte iniziative, quali
predicazioni, lezioni, dibattiti, incontri e corsi di cultura
religiosa, ecc., come avviene in molti luoghi. Desidero qui segnalare,
in particolare, l'importanza e l'efficacia che, ai fini di tale
catechesi, hanno le antiche missioni popolari. Se adattate alle
peculiari esigenze del nostro tempo, esse possono essere, oggi come
ieri, un valido strumento di educazione nella fede anche per quanto
riguarda il settore della penitenza e della riconciliazione.
Per la grande rilevanza che ha la
riconciliazione, fondata sulla conversione, nel delicato campo dei
rapporti umani e della convivenza sociale a tutti i livelli, compreso
quello internazionale, non può mancare alla catechesi il prezioso
apporto della dottrina sociale della Chiesa. Il puntuale e preciso
insegnamento dei miei predecessori, a partire dal papa Leone XIII, a
cui è venuto a unirsi il sostanzioso apporto della costituzione
pastorale «Gaudium et Spes» del Concilio Vaticano II con quello dei
diversi episcopati sollecitati da varie circostanze nei rispettivi
paesi, ha costituito un ampio e solido corpo di dottrina riguardante
le molteplici esigenze inerenti alla vita della comunità umana, ai
rapporti tra individui, famiglie, gruppi nei suoi diversi ambiti, e
alla stessa costituzione di una società che voglia esser coerente con
la legge morale, che è fondamento della civiltà.
Alla base di questo insegnamento
sociale della Chiesa si trova, ovviamente, la visione che essa trae
dalla parola di Dio circa i diritti e i doveri degli individui, della
famiglia e della comunità; circa il valore della libertà e le
dimensioni della giustizia; circa il primato della carità; circa la
dignità della persona umana e le esigenze del bene comune, al quale
devono mirare la politica e la stessa economia. Su questi fondamentali
principi del magistero sociale, che confermano e ripropongono i
dettami universali della ragione e della coscienza dei popoli, poggia
in gran parte la speranza di una pacifica soluzione di tanti conflitti
sociali e, in definitiva, della riconciliazione universale.
I sacramenti
27. Il secondo mezzo di
istituzione divina, che dalla Chiesa è offerto alla pastorale della
penitenza e della riconciliazione, è costituito dai sacramenti. Nel
misterioso dinamismo dei sacramenti, così ricco di simbolismi e di
contenuti, è possibile ravvisare un aspetto non sempre messo in luce:
ciascuno di essi, oltreché della sua grazia propria, è segno anche
di penitenza e riconciliazione e, dunque, in ciascuno di essi è
possibile rivivere queste dimensioni dello spirito.
Il battesimo è, certo, un lavacro
salvifico, che - come dice san Pietro - vale «non (come) rimozione di
sporcizia del corpo, ma (come) invocazione di salvezza, rivolta a Dio
da parte di una buona coscienza» (1Pt 3,21). E' morte, sepoltura e
risurrezione con Cristo morto, sepolto e risorto. E' dono dello
Spirito Santo per il tramite di Cristo. Ma questo costitutivo
essenziale e originale del battesimo cristiano, lungi dall'eliminare,
arricchisce l'elemento penitenziale già presente nel battesimo, che
Gesù stesso ricevette da Giovanni «per adempiere ogni giustizia»:
un fatto, cioè, di conversione e di reintegrazione nel giusto ordine
di rapporti con Dio, di riconciliazione con Dio, con la cancellazione
della macchia originale e il conseguente inserimento nella grande
famiglia dei riconciliati.
Parimenti la cresima, anche in
quanto confermazione del battesimo e, con esso, sacramento di
iniziazione, nel conferire la pienezza dello Spirito Santo e nel
portare all'età adulta la vita cristiana, significa e realizza per ciò
stesso una maggiore conversione del cuore e una più intima ed
effettiva appartenenza alla medesima assemblea di riconciliati, che è
la Chiesa di Cristo.
La definizione, che sant'Agostino
dà dell'eucaristia come «sacramentum pietatis, signum unitatis,
vinculum caritatis», mette in chiara luce gli effetti di
santificazione personale («pietas») e di riconciliazione comunitaria
(«unitas» e «caritas»), che derivano dall'essenza stessa del
mistero eucaristico, come rinnovamento incruento del sacrificio della
croce, fonte di salvezza e di riconciliazione per tutti gli uomini. E'
necessario, tuttavia, ricordare che la Chiesa, guidata dalla fede in
questo augusto sacramento, insegna che nessun cristiano, consapevole
di peccato grave, può ricevere l'eucaristia prima di aver ottenuto il
perdono di Dio. Come si legge nell'istruzione «Eucharisticum
mysterium», la quale, debitamente approvata da Paolo VI, conferma in
pieno l'insegnamento del Concilio Tridentino: «L'eucaristia sia
proposta ai fedeli anche «come antidoto, che ci libera dalle colpe
quotidiane, e ci preserva dai peccati mortali», e sia loro indicato
il modo conveniente di servirsi delle parti penitenziali della
liturgia della messa. «A colui che vuole comunicarsi venga
ricordato... il precetto: L'uomo provi se stesso (1Cor 11,28). E la
consuetudine della Chiesa dimostra che quella prova è necessaria,
perché nessuno consapevole di essere in peccato mortale, per quanto
si creda contrito, si accosti alla santa eucaristia prima della
confessione sacramentale. Che, se si trova in caso di necessità e non
ha modo di confessarsi, faccia prima un atto di contrizione perfetta».
Il sacramento dell'ordine è
destinato a dare alla Chiesa i pastori, i quali, oltreché maestri e
guide, sono chiamati a essere testimoni e operatori di unità,
costruttori della famiglia di Dio, difensori e preservatori della
comunione di questa famiglia contro i fermenti di divisione e di
dispersione.
Il sacramento del matrimonio,
esaltazione dell'amore umano sotto l'azione della grazia, è segno, sì,
dell'amore di Cristo per la Chiesa, ma anche della vittoria che egli
concede agli sposi di riportare sulle forze che deformano e
distruggono l'amore, sicché la famiglia, nata da tale sacramento,
diventa segno anche della Chiesa riconciliata e riconciliatrice per un
mondo riconciliato in tutte le sue strutture e istituzioni.
L'unzione degli infermi, infine,
nella prova della malattia e della vecchiaia e specialmente nell'ora
finale del cristiano, è segno della definitiva conversione al
Signore, nonché della totale accettazione del dolore e della morte
come penitenza per i peccati. E in questo si attua la suprema
riconciliazione col Padre.
Tuttavia, fra i sacramenti ce n'è
uno che, se spesso è stato chiamato della confessione a motivo
dell'accusa dei peccati che in esso vien fatta, più propriamente può
ritenersi il sacramento della penitenza per antonomasia, come di fatto
si chiama, e quindi è il sacramento della conversione e della
riconciliazione. Di questo sacramento si è particolarmente occupata
la recente assemblea del Sinodo per l'importanza che ha in ordine alla
riconciliazione.
II.
IL
SACRAMENTO DELLA PENITENZA E DELLA RICONCILIAZIONE
28. In tutte le fasi e a tutti i
livelli del suo svolgimento, il Sinodo ha considerato con la massima
attenzione quel segno sacramentale che rappresenta e insieme realizza
la penitenza e la riconciliazione. Questo sacramento certamente non
esaurisce in se stesso i concetti di conversione e di riconciliazione.
La Chiesa, infatti, sin dalle sue origini conosce e valorizza numerose
e svariate forme di penitenza: alcune liturgiche o paraliturgiche, che
vanno dall'atto penitenziale della messa alle funzioni propiziatorie,
ai pellegrinaggi; altre di carattere ascetico, come il digiuno.
Tuttavia, di tutti gli atti nessuno è più significativo, né più
divinamente efficace, né più elevato e in pari tempo accessibile nel
suo stesso rito, del sacramento della penitenza.
Sin dalla sua preparazione, poi
nei numerosi interventi succedutisi durante il suo svolgimento, nei
lavori dei gruppi e nelle «Propositiones» finali, il Sinodo ha
tenuto conto dell'affermazione pronunciata molte volte, con toni
diversi e diverso contenuto: il sacramento della penitenza è in
crisi, e di tale crisi ha preso atto. Ha raccomandato un'approfondita
catechesi, ma anche una non meno approfondita analisi di carattere
teologico, storico, psicologico, sociologico e giuridico circa la
penitenza in generale e il sacramento della penitenza in particolare.
Con tutto ciò esso ha inteso chiarire i motivi della crisi e aprire
le vie per una soluzione positiva, a beneficio dell'umanità. Intanto,
dal Sinodo stesso la Chiesa ha ricevuto una chiara conferma della sua
fede riguardo al sacramento, per il quale viene data ad ogni cristiano
e all'intera comunità dei credenti la certezza del perdono per la
potenza del sangue redentore di Cristo.
Giova rinnovare e riaffermare
questa fede nel momento in cui essa potrebbe affievolirsi, perdere
qualcosa della sua integrità o entrare in una zona d'ombra e di
silenzio, minacciata com'è dalla già menzionata crisi in ciò che
essa ha di negativo. Insidiano, infatti, il sacramento della
confessione, da un lato, l'oscuramento della coscienza morale e
religiosa, l'attenuazione del senso del peccato, il travisamento del
concetto di pentimento, la scarsa tensione verso una vita
autenticamente cristiana; dall'altro lato, la mentalità, talora
diffusa, che si possa ottenere il perdono direttamente da Dio anche in
maniera ordinaria, senza accostarsi al sacramento della
riconciliazione, e l'abitudine di una pratica sacramentale priva
talora di fervore e di vera spontaneità, originata forse da una
considerazione errata e deviante degli effetti del sacramento.
Conviene, pertanto, ricordare le
principali dimensioni di questo grande sacramento.
«A chi rimetterete»
29. Il primo dato fondamentale ci
è offerto dai libri santi dell'Antico e del Nuovo Testamento riguardo
alla misericordia del Signore e al suo perdono. Nei salmi e nella
predicazione dei profeti il nome di misericordioso è forse quello che
più spesso viene attribuito al Signore, contrariamente al persistente
cliché, secondo il quale il Dio dell'Antico Testamento viene
presentato soprattutto come severo e punitivo. Così, fra i salmi, un
lungo discorso sapienziale, attingendo alla tradizione dell'Esodo,
rievoca l'azione benefica di Dio in mezzo al suo popolo. Tale azione,
pur nella sua rappresentazione antropomorfica, è forse una delle più
eloquenti proclamazioni veterotestamentarie della misericordia divina.
Basti qui riportare il versetto: «Ed egli, pietoso, perdonava la
colpa, li perdonava invece di distruggerli. Molte volte placò la sua
ira e trattenne il suo furore, ricordando che essi sono carne, un
soffio che va e non ritorna» (Sal 78,38s).
Nella pienezza dei tempi il Figlio
di Dio, venendo come l'Agnello che toglie e porta su di sé il peccato
del mondo, appare come colui che ha il potere sia di giudicare sia di
perdonare i peccati, e che è venuto non per condannare, ma per
perdonare e salvare.
Ora, questo potere di rimettere i
peccati Gesù lo conferisce, mediante lo Spirito Santo, a semplici
uomini, soggetti essi stessi all'insidia del peccato, cioè ai suoi
apostoli: «Ricevete lo Spirito Santo: a chi rimetterete i peccati,
saranno rimessi, e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi»
(Gv 20,22; Mt 18,18). E', questa, una delle più formidabili novità
evangeliche! Egli conferisce tale potere agli apostoli anche come
trasmissibile - così lo ha inteso la Chiesa sin dai suoi primi albori
- ai loro successori, investiti dagli stessi apostoli della missione e
della responsabilità di continuare la loro opera di annunciatori del
Vangelo e di ministri dell'opera redentrice di Cristo.
Qui si rivela in tutta la sua
grandezza la figura del ministro del sacramento della penitenza,
chiamato, per antichissima consuetudine, il confessore.
Come all'altare dove celebra
l'eucaristia e come in ciascuno dei sacramenti, il sacerdote, ministro
della penitenza, opera «in persona Christi». Il Cristo, che da lui
è reso presente e che per suo mezzo attua il mistero della remissione
dei peccati, è colui che appare come fratello dell'uomo, pontefice
misericordioso, fedele e compassionevole, pastore deciso a cercare la
pecora smarrita, medico che guarisce e conforta, maestro unico che
insegna la verità e indica le vie di Dio, giudice dei vivi e dei
morti, che giudica secondo la verità e non secondo le apparenze.
Questo è, senza dubbio, il più
difficile e delicato, il più faticoso ed esigente, ma anche uno dei
più belli e consolanti ministeri del sacerdote, e proprio per questo,
attento anche al forte richiamo del Sinodo, non mi stancherò mai di
richiamare i miei fratelli, vescovi e presbiteri, al suo fedele e
diligente adempimento. Di fronte alla coscienza del fedele, che a lui
si apre con un misto di trepidazione e di fiducia, il confessore è
chiamato a un alto compito che è servizio alla penitenza e alla
riconciliazione umana: conoscere di quel fedele le debolezze e cadute,
valutarne il desiderio di ripresa e gli sforzi per ottenerla,
discernere l'azione dello Spirito santificatore nel suo cuore,
comunicargli un perdono che solo Dio può concedere, «celebrare» la
sua riconciliazione col Padre raffigurata nella parabola del figlio
prodigo, reinserire quel peccatore riscattato nella comunione
ecclesiale con i fratelli, ammonire paternamente quel penitente con un
fermo, incoraggiante e amichevole «D'ora in poi non peccare più»
(Gv 8,11).
Per l'efficace adempimento di tale
ministero, il confessore deve avere necessariamente qualità umane di
prudenza, discrezione, discernimento, fermezza temperata da
mansuetudine e bontà. Egli deve avere, altresì, una seria e accurata
preparazione, non frammentaria ma integrale e armonica, nelle diverse
branche della teologia, nella pedagogia e nella psicologia, nella
metodologia del dialogo e, soprattutto, nella conoscenza viva e
comunicativa della parola di Dio. Ma ancora più necessario è che
egli viva una vita spirituale intensa e genuina. Per condurre altri
sulla via della perfezione cristiana il ministro della penitenza deve
percorrere egli stesso, per primo, questa via e, più con gli atti che
con abbondanti discorsi, dar prova di reale esperienza dell'orazione
vissuta, di pratica delle virtù evangeliche teologali e morali, di
fedele obbedienza alla volontà di Dio, di amore alla Chiesa e di
docilità al suo magistero.
Tutto questo corredo di doti
umane, di virtù cristiane e di capacità pastorali non si improvvisa
né si acquista senza sforzo. Per il ministero della penitenza
sacramentale ogni sacerdote deve essere preparato già dagli anni del
seminario, insieme con lo studio della teologia dogmatica, morale,
spirituale e pastorale (che son sempre una sola teologia), con le
scienze dell'uomo, la metodologia del dialogo e, specialmente, del
colloquio pastorale. Egli dovrà poi essere avviato e sostenuto nelle
prime esperienze. Dovrà sempre curare il proprio perfezionamento e
aggiornamento con lo studio permanente. Quale tesoro di grazia, di
vita vera e di spirituale irradiazione non verrebbe alla Chiesa, se
ciascun sacerdote si mostrasse premuroso di non mancare mai, per
negligenza o pretesti vari, all'appuntamento con i fedeli al
confessionale, e fosse ancor più premuroso di non andarvi mai
impreparato, o privo delle indispensabili qualità umane e delle
condizioni spirituali e pastorali!
A questo proposito non posso non
evocare con devota ammirazione le figure di straordinari apostoli del
confessionale, quali san Giovanni Nepomuceno, san Giovanni Maria
Vianney, san Giuseppe Cafasso e san Leopoldo da Castelnuovo, per
parlare di quelli più noti che la Chiesa ha iscritto nell'albo dei
suoi santi. Ma io desidero rendere omaggio anche all'innumerevole
schiera di confessori santi e quasi sempre anonimi, ai quali è dovuta
la salvezza di tante anime, da loro aiutate nella conversione, nella
lotta contro il peccato e le tentazioni, nel progresso spirituale e,
in definitiva, nella santificazione. Non esito a dire che anche i
grandi santi canonizzati sono generalmente usciti da quei
confessionali e, con i santi, il patrimonio spirituale della Chiesa e
la stessa fioritura di una civiltà, permeata di spirito cristiano!
Onore, dunque, a questo silenzioso esercito di nostri confratelli, che
hanno ben servito e servono ogni giorno la causa della riconciliazione
mediante il ministero della penitenza sacramentale.
Il Sacramento del perdono
30. Dalla rivelazione del valore
di questo ministero e del potere di rimettere i peccati, da Cristo
conferito agli apostoli e ai loro successori, si è sviluppata nella
Chiesa la coscienza del segno del perdono, conferito mediante il
sacramento della penitenza. La certezza, cioè, che lo stesso Signore
Gesù ha istituito e affidato alla Chiesa - quale dono della sua
benignità e della sua «filantropia», da offrire a tutti - uno
speciale sacramento per la remissione dei peccati commessi dopo il
battesimo.
La pratica di questo sacramento,
per quanto riguarda la sua celebrazione e la sua forma, ha conosciuto
un lungo processo di sviluppo, come attestano i più antichi
sacramentari, gli atti di concili e di sinodi episcopali, la
predicazione dei padri e l'insegnamento dei dottori della Chiesa. Ma
circa la sostanza del sacramento è rimasta sempre solida e immutata
nella coscienza della Chiesa la certezza che, per volontà di Cristo,
il perdono è offerto a ciascuno per mezzo dell'assoluzione
sacramentale, data dai ministri della penitenza: è certezza
riaffermata con particolare vigore sia dal Concilio di Trento, che dal
Concilio Vaticano II: «Quelli che si accostano al sacramento della
penitenza ricevono dalla misericordia di Dio il perdono delle offese
fatte a lui e, nello stesso tempo, la riconciliazione con la Chiesa,
alla quale hanno inflitto una ferita col peccato: la Chiesa che
coopera alla loro conversione con la carità, con l'esempio e la
preghiera» («Lumen Gentium», 11). E come dato essenziale di fede
sul valore e lo scopo della penitenza si deve riaffermare che il
nostro salvatore Gesù Cristo istituì nella sua Chiesa il sacramento
della penitenza, perché i fedeli caduti in peccato dopo il battesimo
ricevessero la grazia e si riconciliassero con Dio.
La fede della Chiesa in questo
sacramento comporta alcune altre verità fondamentali, che sono
ineludibili. Il rito sacramentale della penitenza, nella sua
evoluzione e variazione di forme pratiche, ha sempre conservato e
messo in luce queste verità. Il Concilio Vaticano II, nel prescrivere
la riforma di questo rito, intendeva far sì che esso esprimesse ancor
più chiaramente tali verità, e ciò è avvenuto nel nuovo «Rito
della penitenza». Questo, infatti, ha assunto nella sua integrità la
dottrina della tradizione raccolta dal Concilio Tridentino,
trasferendola dal suo particolare contesto storico (quello di un
deciso sforzo di chiarimento dottrinale di fronte alle gravi
deviazioni dal genuino insegnamento della Chiesa) per tradurla
fedelmente in termini più aderenti al contesto del nostro tempo.
Alcune convinzioni
fondamentali
31. Le menzionate verità,
ribadite con forza e chiarezza dal Sinodo e presenti nelle «Propositiones»,
possono riassumersi nelle seguenti convinzioni di fede, intorno alle
quali si raccolgono tutte le altre affermazioni della dottrina
cattolica sul sacramento della penitenza.
I. La prima convinzione è che,
per un cristiano, il sacramento della penitenza è la via ordinaria
per ottenere il perdono e la remissione dei suoi peccati gravi
commessi dopo il battesimo. Certo, il Salvatore e la sua azione
salvifica non sono così legati ad un segno sacramentale, da non
potere in qualsiasi tempo e settore della storia della salvezza
operare al di fuori e al di sopra dei sacramenti. Ma alla scuola della
fede noi apprendiamo che il medesimo Salvatore ha voluto e disposto
che gli umili e preziosi sacramenti della fede siano ordinariamente i
mezzi efficaci, per i quali passa e opera la sua potenza redentrice.
Sarebbe dunque insensato, oltreché presuntuoso, voler prescindere
arbitrariamente dagli strumenti di grazia e di salvezza che il Signore
ha disposto e, nel caso specifico, pretendere di ricevere il perdono
facendo a meno del sacramento, istituito da Cristo proprio per il
perdono. Il rinnovamento dei riti, attuato dopo il Concilio, non
autorizza alcuna illusione e alterazione in questa direzione. Esso
doveva e deve servire, secondo l'intenzione della Chiesa, a suscitare
in ciascuno di noi un nuovo slancio verso il rinnovamento del nostro
atteggiamento interiore, cioè verso una comprensione più profonda
della natura del sacramento della penitenza; verso un'accoglienza di
esso più nutrita di fede, non ansiosa ma fiduciosa; verso una
maggiore frequenza del sacramento, che si riconosce tutto pervaso
dall'amore misericordioso del Signore.
II. La seconda convinzione
riguarda la funzione del sacramento della penitenza per colui che vi
ricorre. Esso è, secondo la più antica tradizionale concezione, una
specie di azione giudiziaria; ma questa si svolge presso un tribunale
di misericordia, più che di stretta e rigorosa giustizia, il quale
non è paragonabile che per analogia ai tribunali umani, cioè in
quanto il peccatore vi svela i suoi peccati e la sua condizione di
creatura soggetta al peccato; si impegna a rinunciare e a combattere
il peccato; accetta la pena (penitenza sacramentale) che il confessore
gli impone e ne riceve l'assoluzione. Ma, riflettendo sulla funzione
di questo sacramento, la coscienza della Chiesa vi scorge, oltre il
carattere di giudizio nel senso accennato, un carattere terapeutico o
medicinale. E questo si ricollega al fatto che è frequente nel
Vangelo la presentazione di Cristo come medico, mentre la sua opera
redentrice viene spesso chiamata, sin dall'antichità cristiana, «medicina
salutis». «Io voglio curare, non accusare», diceva sant'Agostino
riferendosi all'esercizio della pastorale penitenziale, ed è grazie
alla medicina della confessione che l'esperienza del peccato non
degenera in disperazione. Il «Rito della penitenza» allude a questo
aspetto medicinale del sacramento, al quale l'uomo contemporaneo è
forse più sensibile, vedendo nel peccato, sì, ciò che comporta di
errore, ma ancor più ciò che dimostra in ordine alla debolezza e
infermità umana. Tribunale di misericordia o luogo di guarigione
spirituale, sotto entrambi gli aspetti, il sacramento esige una
conoscenza dell'intimo del peccatore, per poterlo giudicare
edassolvere, per curarlo e guarirlo. E proprio per questo esso
implica, da parte del penitente, l'accusa sincera e completa dei
peccati, che ha pertanto una ragion d'essere non solo ispirata da fini
ascetici (quale esercizio di umiltà e di mortificazione), ma inerente
alla natura stessa del sacramento.
III. La terza convinzione, che
tengo ad accentuare, riguarda le realtà o parti, che compongono il
segno sacramentale del perdono e della riconciliazione. Alcune di
queste realtà sono atti del penitente, di diversa importanza,
ciascuno però indispensabile o alla validità, o all'integrità, o
alla fruttuosità del segno. Una condizione indispensabile è,
innanzitutto, la rettitudine e la limpidezza della coscienza del
penitente. Un uomo non si avvia ad una vera e genuina penitenza, finché
non scorge che il peccato contrasta con la norma etica, iscritta
nell'intimo del proprio essere; finché non riconosce di aver fatto
l'esperienza personale e responsabile di un tale contrasto; finché
non dice non soltanto «il peccato c'è», ma «io ho peccato»; finché
non ammette che il peccato ha introdotto nella sua coscienza una
divisione, che pervade poi tutto il suo essere e lo separa da Dio e
dai fratelli. Il segno sacramentale di questa limpidezza della
coscienza è l'atto tradizionalmente chiamato esame di coscienza, atto
che deve esser sempre non già un'ansiosa introspezione psicologica,
ma il confronto sincero e sereno con la legge morale interiore, con le
norme evangeliche proposte dalla Chiesa, con lo stesso Cristo Gesù,
che è per noi maestro e modello di vita, e col Padre celeste, che ci
chiama al bene e alla perfezione.
Ma l'atto essenziale della
penitenza, da parte del penitente, è la contrizione, ossia un chiaro
e deciso ripudio del peccato commesso insieme col proposito di non
tornare a commetterlo, per l'amore che si porta a Dio e che rinasce
col pentimento. Così intesa, la contrizione è, dunque, il principio
e l'anima della conversione, di quella «metanoia» evangelica che
riporta l'uomo a Dio come il figlio prodigo che ritorna al padre, e
che ha nel sacramento della penitenza il suo segno visibile,
perfezionativo della stessa attrizione. Perciò, «da questa
contrizione del cuore dipende la verità della penitenza» («Ordo
Paenitentiae», 6c).
Rimandando a tutto quanto la
Chiesa, ispirata dalla parola di Dio, insegna circa la contrizione, mi
preme qui sottolineare un solo aspetto di tale dottrina, che va meglio
conosciuto e tenuto presente. Non di rado si considerano la
conversione e la contrizione sotto il profilo delle innegabili
esigenze, che esse comportano, e della mortificazione che esse
impongono in vista di un radicale cambiamento di vita. Ma è bene
ricordare e rilevare che contrizione e conversione sono ancor più un
avvicinamento alla santità di Dio, un ritrovare la propria verità
interiore, turbata e sconvolta dal peccato, un liberarsi nel più
profondo di se stessi e, per questo, un riacquistare la gioia perduta,
la gioia di essere salvati, che la maggioranza degli uomini del nostro
tempo non sa più gustare.
Si comprende, perciò, come fin
dai primi tempi cristiani, in collegamento con gli apostoli e con
Cristo, la Chiesa abbia incluso nel segno sacramentale della penitenza
l'accusa dei peccati. Questa appare così rilevante, che da secoli il
nome usuale del sacramento è stato ed è tuttora quello di
confessione. Accusare i propri peccati è, anzitutto, richiesto dalla
necessità che il peccatore sia conosciuto da colui che nel sacramento
esercita il ruolo di giudice, il quale deve valutare sia la gravità
dei peccati, sia il pentimento del penitente, e insieme il ruolo di
medico, il quale deve conoscere lo stato dell'infermo per curarlo e
guarirlo. Ma la confessione individuale ha anche il valore di segno:
segno dell'incontro del peccatore con la mediazione ecclesiale nella
persona del ministro; segno del suo scoprirsi al cospetto di Dio e
della Chiesa come peccatore, del suo chiarirsi a se stesso sotto lo
sguardo di Dio. L'accusa dei peccati, dunque, non è riducibile ad un
qualsiasi tentativo di autoliberazione psicologica, anche se
corrisponde a quel legittimo e naturale bisogno di aprirsi a qualcuno,
che è insito nel cuore umano: è un gesto liturgico, solenne nella
sua drammaticità, umile e sobrio nella grandezza del suo significato.
E' il gesto del figlio prodigo, che ritorna al Padre ed è accolto da
lui col bacio della pace; gesto di lealtà e di coraggio; gesto di
affidamento di se stessi, al di là del peccato, alla misericordia che
perdona. Si capisce allora perché l'accusa dei peccati deve essere
ordinariamente individuale e non collettiva, come il peccato è un
fatto profondamente personale. Nello stesso tempo, però, questa
accusa strappa in certo modo il peccato dal segreto del cuore e,
quindi, dall'ambito della pura individualità, mettendo in risalto
anche il suo carattere sociale, perché mediante il ministro della
penitenza è la comunità ecclesiale, lesa dal peccato, che accoglie
di nuovo il peccatore pentito e perdonato.
L'altro momento essenziale del
sacramento della penitenza compete questa volta al confessore giudice
e medico, immagine di Dio Padre che accoglie e perdona colui che
ritorna: è l'assoluzione. Le parole che la esprimono e i gesti che la
accompagnano nell'antico e nel nuovo «Rito della penitenza»
rivestono una significativa semplicità nella loro grandezza. La
formula sacramentale: «Io ti assolvo...», l'imposizione della mano e
il segno della croce, tracciato sul penitente, manifestano che in quel
momento il peccatore contrito e convertito entra in contatto con la
potenza e la misericordia di Dio. E' il momento nel quale, in risposta
al penitente, la Trinità si fa presente per cancellare il suo peccato
e restituirgli l'innocenza, e la forza salvifica della passione, morte
e risurrezione di Gesù è comunicata al medesimo penitente, quale «misericordia
più forte della colpa e dell'offesa», come ebbi a definirla
nell'enciclica «Dives in Misericordia». Dio è sempre il principale
offeso dal peccato - «tibi soli peccavi!» -, e solo Dio può
perdonare. Perciò, l'assoluzione che il sacerdote, ministro del
perdono, benché egli stesso peccatore, concede al penitente, è il
segno efficace dell'intervento del Padre in ogni assoluzione e della
«risurrezione» dalla «morte spirituale», che si rinnova ogni volta
che si attua il sacramento della penitenza. Soltanto la fede può
assicurare che in quel momento ogni peccato è rimesso e cancellato
per il misterioso intervento del Salvatore.
La soddisfazione è l'atto finale,
che corona il segno sacramentale della penitenza. In alcuni paesi ciò
che il penitente perdonato e assolto accetta di compiere dopo aver
ricevuto l'assoluzione, si chiama appunto penitenza. Qual è il
significato di questa soddisfazione che si presta, o di questa
penitenza che si compie? Non è certo il prezzo che si paga per il
peccato assolto e per il perdono acquistato: nessun prezzo umano può
equivalere a ciò che si è ottenuto, frutto del preziosissimo sangue
di Cristo. Le opere della soddisfazione - che, pur conservando un
carattere di semplicità e umiltà, dovrebbero essere rese più
espressive di tutto ciò che significano - vogliono dire alcune cose
preziose: esse sono il segno dell'impegno personale che il cristiano
ha assunto con Dio, nel sacramento, di cominciare un'esistenza nuova
(e perciò non dovrebbero ridursi soltanto ad alcune formule da
recitare, ma consistere in opere di culto, di carità, di
misericordia, di riparazione); includono l'idea che il peccatore
perdonato è capace di unire la sua propria mortificazione fisica e
spirituale, ricercata o almeno accettata, alla passione di Gesù che
gli ha ottenuto il perdono; ricordano che anche dopo l'assoluzione
rimane nel cristiano una zona d'ombra, dovuta alle ferite del peccato,
all'imperfezione dell'amore nel pentimento, all'indebolimento delle
facoltà spirituali, in cui opera ancora un focolaio infettivo di
peccato, che bisogna sempre combattere con la mortificazione e la
penitenza. Tale è il significato dell'umile, ma sincera
soddisfazione.
IV. Resta da fare un breve accenno
ad altre importanti convinzioni circa il sacramento della penitenza.
Anzitutto, bisogna ribadire che nulla è più personale e intimo di
questo sacramento, nel quale il peccatore si trova al cospetto di Dio,
solo con la sua colpa, il suo pentimento e la sua fiducia. Nessuno può
pentirsi al suo posto o può chiedere perdono in suo nome. C'è una
certa solitudine del peccatore nella sua colpa, che si può vedere
drammaticamente rappresentata in Caino col peccato «accovacciato alla
sua porta», come dice tanto efficacemente il libro della Genesi, e
col particolare segno, inciso sulla sua fronte; o in Davide,
rimproverato dal profeta Natan; o nel figlio prodigo, quando prende
coscienza della condizione, a cui si è ridotto per la lontananza dal
padre, e decide di tornare a lui: tutto ha luogo soltanto fra l'uomo e
Dio. Ma, nello stesso tempo, è innegabile la dimensione sociale di
questo sacramento, nel quale è l'intera Chiesa - quella militante,
quella purgante e quella gloriosa del cielo - che interviene in
soccorso del penitente e lo accoglie di nuovo nel suo grembo, tanto più
che tutta la Chiesa era stata offesa e ferita dal suo peccato. Il
sacerdote, ministro della penitenza, appare in forza del suo ufficio
sacro come testimone e rappresentante di tale ecclesialità. Sono due
aspetti complementari del sacramento l'individualità e l'ecclesialità,
che la progressiva riforma del rito della penitenza, specialmente
quella dell'«Ordo paenitentiae» promulgata da Paolo VI, ha cercato
di mettere in risalto e di rendere più significativi nella sua
celebrazione.
V. E' da sottolineare, poi, che il
frutto più prezioso del perdono ottenuto nel sacramento della
penitenza consiste nella riconciliazione con Dio, la quale avviene nel
segreto del cuore del figlio prodigo e ritrovato, che è ciascun
penitente. Ma bisogna aggiungere che tale riconciliazione con Dio ha
come conseguenza, per così dire, altre riconciliazioni, che rimediano
ad altrettante rotture, causate dal peccato: il penitente perdonato si
riconcilia con se stesso nel fondo più intimo del proprio essere, in
cui ricupera la propria verità interiore; si riconcilia con i
fratelli, da lui in qualche modo aggrediti e lesi; si riconcilia con
la Chiesa; si riconcilia con tutto il creato. Da questa consapevolezza
nasce nel penitente, al termine della celebrazione, il senso della
gratitudine a Dio per il dono della misericordia ottenuta, a cui lo
invita la Chiesa. Ogni confessionale è uno spazio privilegiato e
benedetto, dal quale, cancellate le divisioni, nasce nuovo e
incontaminato un uomo riconciliato - un mondo riconciliato!
VI. Infine, mi sta particolarmente
a cuore fare un'ultima considerazione, che riguarda tutti noi
sacerdoti, che siamo i ministri del sacramento della penitenza, ma ne
siamo pure - e dobbiamo esserne - i beneficiari. La vita spirituale e
pastorale del sacerdote, come quella dei suoi fratelli laici e
religiosi, dipende, per la sua qualità e il suo fervore, dall'assidua
e coscienziosa pratica personale del sacramento della penitenza. La
celebrazione dell'eucaristia e il ministero degli altri sacramenti, lo
zelo pastorale, il rapporto con i fedeli, la comunione con i
confratelli, la collaborazione col vescovo, la vita di preghiera, in
una parola tutta l'esistenza sacerdotale subisce un inesorabile
scadimento, se viene a mancarle, per negligenza o per qualsiasi altro
motivo, il ricorso, periodico e ispirato da autentica fede e
devozione, al sacramento della penitenza. In un prete che non si
confessasse più o si confessasse male, il suo essere prete e il suo
fare il prete ne risentirebbero molto presto, e se ne accorgerebbe
anche la comunità, di cui egli è pastore.
Ma aggiungo pure che, persino per
essere un buono ed efficace ministro della penitenza, il sacerdote ha
bisogno di ricorrere alla sorgente di grazia e santità presente in
questo sacramento. Noi sacerdoti, in base alla nostra personale
esperienza, possiamo ben dire che, nella misura in cui siamo attenti a
ricorrere al sacramento della penitenza e ci accostiamo ad esso con
frequenza e con buone disposizioni, adempiamo meglio il nostro stesso
ministero di confessori e ne assicuriamo il beneficio ai penitenti.
Perderebbe, invece, molto della sua efficacia questo ministero, se in
qualche modo tralasciassimo di essere buoni penitenti. Tale è la
logica interna di questo grande sacramento. Esso invita noi tutti,
sacerdoti di Cristo, a una rinnovata attenzione alla nostra
confessione personale.
A sua volta, l'esperienza diventa
e deve diventare oggi uno stimolo all'esercizio diligente, regolare,
paziente, fervoroso del sacro ministero della penitenza, al quale
siamo impegnati in forza del nostro sacerdozio e della nostra
vocazione ad essere pastori e servitori dei nostri fratelli. Anche con
la presente esortazione rivolgo, dunque, un insistente invito a tutti
i sacerdoti del mondo, specialmente ai miei confratelli
nell'episcopato e ai parroci, perché favoriscano con tutte le forze
la frequenza dei fedeli a questo sacramento, e mettano in opera tutti
i mezzi possibili e convenienti, tentino tutte le vie per far
pervenire al maggior numero di nostri fratelli la «grazia che a noi
è stata data» mediante la penitenza per la riconciliazione di ogni
anima e di tutto il mondo con Dio, in Cristo.
Le forme della celebrazione
32. Seguendo le indicazioni del
Concilio Vaticano II, l'«Ordo paenitentiae» ha predisposto tre riti
che, salvi sempre gli elementi essenziali, permettono di adattare la
celebrazione del sacramento della penitenza a determinate circostanze
pastorali. La prima forma - riconciliazione dei singoli penitenti -
costituisce l'unico modo normale e ordinario della celebrazione
sacramentale, e non può né deve essere lasciata cadere in disuso o
essere trascurata. La seconda - riconciliazione di più penitenti con
confessione e assoluzione individuale -, anche se negli atti
preparatori permette di sottolineare di più gli aspetti comunitari
del sacramento, raggiunge la prima forma nell'atto sacramentale
culminante, che è la confessione e l'assoluzione individuale dei
peccati, e perciò può essere equiparata alla prima forma per quanto
riguarda la normalità del rito. La terza, invece - riconciliazione di
più penitenti con la confessione e l'assoluzione generale - riveste
un carattere di eccezionalità, e non è, quindi, lasciata alla libera
scelta, ma è regolata da un'apposita disciplina.
La prima forma consente la
valorizzazione degli aspetti più propriamente personali - ed
essenziali - che son compresi nell'itinerario penitenziale. Il dialogo
tra penitente e confessore, l'insieme stesso degli elementi utilizzati
(i testi biblici, la scelta delle forme di «soddisfazione», ecc.)
sono elementi che rendono la celebrazione sacramentale più
rispondente alla concreta situazione del penitente. Si scopre il
valore di tali elementi, quando si pensa alle diverse ragioni che
portano un cristiano alla penitenza sacramentale: un bisogno di
personale riconciliazione e riammissione all'amicizia con Dio,
riacquistando la grazia perduta a causa del peccato; un bisogno di
verifica del cammino spirituale e, a volte, di un più puntuale
discernimento vocazionale; tante altre volte un bisogno e un desiderio
di uscire da uno stato di apatia spirituale e di crisi religiosa.
Grazie, poi, alla sua indole individuale la prima forma di
celebrazione permette di associare il sacramento della penitenza a
qualcosa di diverso, ma ben conciliabile con esso: mi riferisco alla
direzione spirituale. E' certo, dunque, che la decisione e l'impegno
personali sono chiaramente significati e promossi in questa prima
forma.
La seconda forma di celebrazione,
proprio per il suo carattere comunitario e per la modalità che la
distingue, dà risalto ad alcuni aspetti di grande importanza: la
parola di Dio ascoltata in comune ha un singolare effetto rispetto
alla sua lettura individuale, e sottolinea meglio il carattere
ecclesiale della conversione e della riconciliazione. Essa risulta
particolarmente significativa nei diversi tempi dell'anno liturgico e
in connessione con avvenimenti di speciale rilevanza pastorale. Basti
qui solo accennare che per tale celebrazione è opportuna la presenza
di un numero sufficiente di confessori.
E' naturale, pertanto, che i
criteri per stabilire a quale delle due forme di celebrazione si debba
ricorrere vengano dettati non da motivazioni congiunturali e
soggettive, ma dalla volontà di ottenere il vero bene spirituale dei
fedeli, in obbedienza alla disciplina penitenziale della Chiesa.
Sarà bene anche ricordare che,
per un equilibrato orientamento spirituale e pastorale in merito, è
necessario continuare ad attribuire grande valore ed educare i fedeli
al ricorso al sacramento della penitenza anche solo per i peccati
veniali, come attestano una tradizione dottrinale e una prassi ormai
secolari.
Pur sapendo e insegnando che i
peccati veniali vengono perdonati anche in altri modi - si pensi agli
atti di dolore, alle opere di carità, alla preghiera, ai riti
penitenziali -, la Chiesa non cessa di ricordare a tutti la singolare
ricchezza del momento sacramentale anche in riferimento a tali
peccati. Il ricorso frequente al sacramento - a cui sono tenute alcune
categorie di fedeli - rafforza la consapevolezza che anche i peccati
minori offendono Dio e feriscono la Chiesa, corpo di Cristo, e la sua
celebrazione diventa per loro «l'occasione e lo stimolo a conformarsi
più intimamente a Cristo e a rendersi più docili alla voce dello
Spirito» («Ordo Paenitentiae», 7b). Soprattutto è da sottolineare
il fatto che la grazia propria della celebrazione sacramentale ha una
grande virtù terapeutica e contribuisce a togliere le radici stesse
del peccato.
La cura dell'aspetto celebrativo,
con particolare riferimento all'importanza della parola di Dio, letta,
richiamata e spiegata, quando sia possibile e opportuno, ai fedeli e
con i fedeli, contribuirà a vivificare la pratica del sacramento e a
impedire che scada in qualcosa di formalistico e abitudinario. Il
penitente sarà piuttosto aiutato a scoprire che sta vivendo un evento
di salvezza, capace di infondere un nuovo slancio di vita e una vera
pace nel cuore. Questa cura per la celebrazione porterà, fra l'altro,
a fissare nelle singole Chiese dei tempi appositi per la celebrazione
del sacramento, e a educare i fedeli, specialmente i fanciulli e i
giovani, ad attenervisi in via ordinaria, salvo i casi di necessità,
nei quali il pastore d'anime dovrà sempre dimostrarsi pronto ad
accogliere volentieri chi ricorre a lui.
La celebrazione del
sacramento con assoluzione generale
33. Nel nuovo ordinamento
liturgico e, più recentemente, nel nuovo Codice di diritto canonico («Codex
Iuris Canonici», can. 961-963), si precisano le condizioni che
legittimano il ricorso al «rito della riconciliazione di più
penitenti con la confessione e l'assoluzione generale». Le norme e
gli ordinamenti dati su questo punto, frutto di matura ed equilibrata
considerazione, devono essere accolti e applicati evitando ogni tipo
di interpretazione arbitraria.
E' opportuno riflettere in maniera
più approfondita sulle motivazioni, che impongono la celebrazione
della penitenza in una delle prime due forme e consentono il ricorso
alla terza forma. Vi è, anzitutto, una motivazione di fedeltà alla
volontà del Signore Gesù, trasmessa dalla dottrina della Chiesa, e
di obbedienza, altresì, alle leggi della Chiesa; il Sinodo ha
ribadito in una delle sue «Propositiones» l'immutato insegnamento,
che la Chiesa ha attinto alla più antica tradizione, e la legge, con
cui essa ha codificato l'antica prassi penitenziale: la confessione
individuale e integra dei peccati con l'assoluzione egualmente
individuale costituisce l'unico modo ordinario, con cui il fedele,
consapevole di peccato grave, è riconciliato con Dio e con la Chiesa.
Da questa riconferma dell'insegnamento della Chiesa risulta
chiaramente che ogni peccato grave deve essere sempre dichiarato, con
le sue circostanze determinanti, in una confessione individuale.
Vi è, poi, una motivazione di
ordine pastorale. Se è vero che, ricorrendo le condizioni richieste
dalla disciplina canonica, si può fare uso della terza forma di
celebrazione, non si deve però dimenticare che questa non può
diventare una forma ordinaria, e che non può e non deve essere
adoperata - lo ha ripetuto il Sinodo - se non «in casi di grave
necessità», fermo restando l'obbligo di confessare individualmente i
peccati gravi prima di ricorrere di nuovo a un'altra assoluzione
generale. Il vescovo, pertanto, al quale soltanto spetta, nell'ambito
della sua diocesi, di valutare se esistano in concreto le condizioni
che la legge canonica stabilisce per l'uso della terza forma, darà
questo giudizio con grave onere della sua coscienza, nel pieno
rispetto della legge e della prassi della Chiesa, e tenendo conto,
altresì, dei criteri e degli orientamenti concordati - sulla base
delle considerazioni dottrinali e pastorali sopra esposte - con gli
altri membri della conferenza episcopale. Parimenti, sarà sempre
un'autentica preoccupazione pastorale a porre e garantire le
condizioni che rendono il ricorso alla terza forma capace di dare quei
frutti spirituali, per i quali essa è prevista. Né l'uso eccezionale
della terza forma di celebrazione dovrà mai condurre ad una minore
considerazione, tanto meno all'abbandono, delle forme ordinarie, né a
ritenere tale forma come alternativa delle altre due: non è, infatti,
lasciato alla libertà dei pastori e dei fedeli di scegliere fra le
menzionate forme di celebrazione quella ritenuta più opportuna. Ai
pastori rimane l'obbligo di facilitare ai fedeli la pratica della
confessione integra e individuale dei peccati, che costituisce per
essi non solo un dovere, ma anche un diritto inviolabile e
inalienabile, oltre che un bisogno dell'anima. Per i fedeli l'uso
della terza forma di celebrazione comporta l'obbligo di attenersi a
tutte le norme che ne regolano l'esercizio, compresa quella di non
ricorrere di nuovo all'assoluzione generale prima di una regolare
confessione integra e individuale dei peccati, che deve essere fatta
non appena possibile. Di questa norma e dell'obbligo di osservarla i
fedeli devono essere avvertiti e istruiti dal sacerdote prima
dell'assoluzione.
Con questo richiamo alla dottrina
e alla legge della Chiesa intendo inculcare in tutti il vivo senso di
responsabilità, che deve guidarci nel trattare le cose sacre, le
quali non sono di nostra proprietà, come i sacramenti, o hanno
diritto a non essere lasciate nell'incertezza e nella confusione, come
le coscienze. Cose sacre - ripeto - sono le une e le altre - i
sacramenti e le coscienze -, ed esigono da parte nostra di essere
servite nella verità.
Questa è la ragione della legge
della Chiesa.
Alcuni casi più delicati
34. Ritengo di dover fare a questo
punto un accenno, sia pur brevissimo, a un caso pastorale che il
Sinodo ha voluto trattare - per quanto gli era possibile farlo -,
contemplandolo anche in una delle «Propositiones». Mi riferisco a
certe situazioni, oggi non infrequenti, in cui vengono a trovarsi
cristiani desiderosi di continuare la pratica religiosa sacramentale,
ma che ne sono impediti dalla condizione personale in contrasto con
gli impegni liberamente assunti davanti a Dio e alla Chiesa. Sono
situazioni che appaiono particolarmente delicate e quasi
inestricabili.
Non pochi interventi nel corso del
Sinodo, esprimendo il pensiero generale dei padri, hanno messo in luce
la coesistenza e il mutuo influsso di due principi, egualmente
importanti, in merito a questi casi. Il primo è il principio della
compassione e della misericordia, secondo il quale la Chiesa,
continuatrice nella storia della presenza e dell'opera di Cristo, non
volendo la morte del peccatore ma che si converta e viva, attenta a
non spezzare la canna incrinata e a non spegnere il lucignolo che
fumiga ancora, cerca sempre di offrire, per quanto le è possibile, la
via del ritorno a Dio e della riconciliazione con lui. L'altro è il
principio della verità e della coerenza, per cui la Chiesa non
accetta di chiamare bene il male e male il bene. Basandosi su questi
due principi complementari, la Chiesa non può che invitare i suoi
figli, i quali si trovano in quelle situazioni dolorose, ad
avvicinarsi alla misericordia divina per altre vie, non però per
quella dei sacramenti della penitenza e dell'eucaristia, finché non
abbiano raggiunto le disposizioni richieste.
Circa questa materia, che affligge
profondamente anche il nostro cuore di pastori, è sembrato mio
preciso dovere dire parole chiare nell'esortazione apostolica «Familiaris
Consortio», per quanto riguarda il caso di divorziati risposati, o
comunque di cristiani che convivono irregolarmente.
Al tempo stesso, sento il vivo
dovere di esortare, insieme col Sinodo, le comunità ecclesiali e,
soprattutto, i vescovi a portare ogni aiuto possibile ai sacerdoti,
che, venendo meno ai gravi impegni assunti nell'ordinazione si trovano
in situazioni irregolari. Nessuno di questi fratelli deve sentirsi
abbandonato dalla Chiesa. Per tutti coloro che non si trovano
attualmente nelle condizioni oggettive richieste dal sacramento della
penitenza, le dimostrazioni di materna bontà da parte della Chiesa,
il sostegno di atti di pietà diversi da quelli sacramentali, lo
sforzo sincero di mantenersi in contatto col Signore, la
partecipazione alla santa messa, la ripetizione frequente di atti di
fede, di speranza, di carità, di dolore il più possibile perfetti,
potranno preparare il cammino per una piena riconciliazione nell'ora
che solo la Provvidenza conosce.
AUSPICIO
CONCLUSIVO
35. Al termine di questo
documento, sento echeggiare in me e desidero ripetere a voi tutti
l'esortazione che il primo vescovo di Roma, in un'ora critica degli
albori della Chiesa, volle indirizzare «ai fedeli nella diaspora
(...), eletti secondo la prescienza di Dio Padre: siate tutti
concordi, partecipi delle gioia e dei dolori degli altri, animati da
affetto fraterno, misericordiosi, umili». L'apostolo raccomandava: «Siate
tutti concordi...»; ma subito proseguiva col segnalare i peccati
contro la concordia e la pace, che bisogna evitare: «Non rendete male
per male, né ingiuria per ingiuria, ma, al contrario, rispondete
benedicendo, poiché a questo siete stati chiamati per avere in eredità
la benedizione». E concludeva con una parola di incoraggiamento e di
speranza: «Chi vi potrà fare del male, se sarete ferventi nel bene?».
Oso riallacciare la mia
esortazione, in un'ora non meno critica della storia, a quella del
principe degli apostoli, che per primo sedette su questa cattedra
romana, come testimone di Cristo e pastore della Chiesa, e qui «presiedette
alla carità» di fronte al mondo intero. Anch'io, in comunione con i
vescovi successori degli apostoli, e confortato dalla riflessione
collegiale che molti di essi, riuniti nel Sinodo, hanno dedicato ai
temi e problemi della riconciliazione, ho voluto comunicarvi con lo
stesso spirito del pescatore di Galilea quanto egli diceva ai nostri
fratelli di fede, lontani nel tempo e così uniti nel cuore: «Siate
tutti concordi (...), non rendete male per male (...), siate ferventi
nel bene». E aggiungeva: «E' meglio infatti, se così vuole Dio,
soffrire operando il bene piuttosto che fare il male» (1Pt 3,17).
Questa consegna è tutta pervasa da parole, che Pietro aveva ascoltato
dallo stesso Gesù, e da concetti che facevano parte della sua «lieta
novella»: il nuovo comandamento dell'amore vicendevole; l'anelito e
l'impegno all'unità; le beatitudini della misericordia e della
pazienza nella persecuzione per la giustizia; il ripagare il male col
bene; il perdono delle offese; l'amore ai nemici. In tali parole e
concetti è la sintesi originale e trascendente dell'etica cristiana
o, meglio e più profondamente, della spiritualità dell'alleanza
nuova in Gesù Cristo.
Affido al Padre, ricco di
misericordia, affido al Figlio di Dio, fatto uomo come nostro
redentore e riconciliatore, affido allo Spirito Santo, sorgente di
unità e di pace, questo mio appello di padre e di pastore alla
penitenza e alla riconciliazione. Voglia la Trinità santissima e
adorabile far germinare nella Chiesa e nel mondo il piccolo seme, che
in quest'ora consegno alla terra generosa di tanti cuori umani.
Perché ne provengano in un giorno
non lontano copiosi frutti, vi invito tutti a rivolgervi con me al
cuore di Cristo, segno eloquente della divina misericordia, «propiziazione
per i nostri peccati», «nostra pace e riconciliazione», per
attingervi la spinta interiore verso la detestazione del peccato e la
conversione a Dio, e trovarvi la benignità divina che risponde
amorosamente al pentimento umano.
Vi invito pure a rivolgervi con me
al cuore immacolato di Maria, madre di Gesù, nella quale «si è
operata la riconciliazione di Dio con l'umanità (...), si è compiuta
l'opera della riconciliazione, perché ella ha ricevuto da Dio la
pienezza della grazia in virtù del sacrificio redentore di Cristo».
In verità, Maria è diventata «l'alleata di Dio», in virtù della
sua maternità divina, nell'opera della riconciliazione.
Alle mani di questa Madre, il cui
«fiat» segnò l'inizio di quella «pienezza dei tempi», nella quale
fu attuata da Cristo la riconciliazione dell'uomo con Dio, e al suo
cuore immacolato - al quale abbiamo ripetutamente affidato l'intera
umanità, turbata dal peccato e straziata da tante tensioni e
conflitti - affido ora in special modo questa intenzione: che, per la
sua intercessione, l'umanità stessa scopra e percorra la via della
penitenza, l'unica che potrà condurla alla piena riconciliazione.
A tutti voi, che con spirito di
ecclesiale comunione nell'obbedienza e nella fede, vorrete accogliere
le indicazioni, i suggerimenti e le direttive contenute in questo
documento, studiandovi di tradurle in vitale prassi pastorale, imparto
ben volentieri la confortatrice benedizione apostolica.
Dato a Roma, presso San Pietro,
il 2 dicembre, I domenica di avvento, dell'anno 1984, settimo del mio
Pontificato.