LETTERA
APOSTOLICA
AUGUSTINUM
HIPPONENSEM
DEL SOMMO PONTEFICE
GIOVANNI PAOLO II
NEL XVI CENTENARIO
DELLA CONVERSIONE DI S.AGOSTINO
Agostino di Ippona, da quando
appena un anno dopo la morte, fu annoverato dal mio lontano
predecessore Celestino I tra i «maestri migliori della chiesa», ha
continuato ad essere presente, nella vita della chiesa e nella mente e
nella cultura di tutto l'Occidente. Altri pontefici romani poi, per
non parlare dei Concili che hanno attinto spesso e in abbondanza ai
suoi scritti, ne hanno proposto gli esempi e i documenti di dottrina
affinché fossero studiati e imitati. Leone XIII ne esaltò gli
insegnamenti filosofici nella «Aeterni Patris»; Pio XI ne riassunse
le virtù e il pensiero nell'enciclica «Ad salutem humani generis»,
dichiarando che, per l'ingegno acutissimo, per la ricchezza e sublimità
della dottrina, per la santità della vita e per la difesa della verità
cattolica, nessuno o certo pochissimi gli si possono paragonare di
quanti sono fioriti dall'inizio del genere umano fino ad oggi; Paolo
VI affermò che «in realtà, oltre a rifulgere in lui in grado
eminente le qualità dei Padri, si può dire che tutto il pensiero
dell'antichità confluisca nella sua opera e da essa derivino correnti
di pensiero che pervadono tutta la tradizione dottrinale dei secoli
successivi».
Io stesso ho aggiunto la mia voce
a quella dei miei predecessori esprimendo il vivo desiderio che «la
sua dottrina filosofica, teologica, spirituale sia studiata e diffusa,
sicché egli continui... il suo magistero nella chiesa, un magistero,
aggiungevo, umile insieme e luminoso che parla soprattutto di Cristo e
dell'amore». Ho avuto altresì occasione di raccomandare in modo
particolare ai figli spirituali del grande santo di «mantenere vivo e
attraente il fascino di sant'Agostino anche nella società moderna»,
ideale stupendo ed entusiasmante, perché «la conoscenza esatta e
affettuosa della sua vita suscita la sete di Dio, il fascino di
Cristo, l'amore alla sapienza e alla verità, il bisogno della grazia,
della preghiera, della virtù, della carità fraterna, l'anelito
dell'eternità beata».
Sono lieto pertanto che la felice
circostanza del XVI centenario della sua conversione e del suo
battesimo mi offra l'opportunità di rievocarne la luminosa figura.
Sarà questa rievocazione allo stesso tempo un ringraziamento a Dio
per il dono fatto alla chiesa, e per essa all'umanità intera, con
quella mirabile conversione; sarà un'occasione propizia per ricordare
che il convertito, divenuto vescovo, fu un modello fulgido di pastore,
un difensore intrepido della fede ortodossa o, come egli diceva, della
«verginità» della fede, un costruttore geniale di quella filosofia
che per l'armonia con la fede si può ben chiamare cristiana, un
promotore indefesso della perfezione spirituale e religiosa.
I.
LA
CONVERSIONE
Conosciamo il cammino della sua
conversione dalle sue stesse opere, quelle cioè che egli scrisse
nella solitudine di Cassiciaco prima del battesimo e soprattutto dalle
celebri «Confessioni», un'opera che è insieme autobiografia,
filosofia, teologia, mistica e poesia, in cui uomini sitibondi di
verità e consapevoli dei propri limiti, hanno ritrovato e ritrovano
se stessi. Già a suo tempo l'autore la considerava tra le sue opere
più conosciute. «Quale delle mie opere», scrive verso la fine della
vita, «poté avere più vasta notorietà e riuscire più dilettevole
dei libri delle mie Confessioni?». Questo giudizio la storia non l'ha
mai smentito, anzi lo ha confermato ampiamente. Anche oggi le «Confessioni»
di sant'Agostino sono molto lette e, ricche qual sono d'introspezione
e di passione religiosa, operano in profondità, scuotono e
commuovono. E non solo i credenti. Anche chi non ha la fede, ma va
cercando una certezza almeno che gli permetta di capire se stesso, le
sue aspirazioni profonde, i suoi tormenti, trova vantaggioso leggere
quest'opera. La conversione di sant'Agostino, dominata dal bisogno di
trovare la verità, ha molto da insegnare agli uomini d'oggi così
spesso smarriti di fronte al grande problema della vita.
Si sa che questa conversione ebbe
un cammino del tutto singolare, perché non si trattò di una
conquista della fede cattolica, ma di una riconquista. Egli l'aveva
perduta, convinto, nel perderla, di non abbandonare Cristo, bensì
solo la Chiesa.
Infatti era stato educato
cristianamente da sua madre, la pia e santa Monica. In forza di quest'educazione
Agostino restò sempre non solo un credente in Dio, nella provvidenza
e nella vita futura, ma anche un credente in Cristo, il cui nome «aveva
bevuto», come egli dice, «con il latte materno». Tornato alla fede
della Chiesa cattolica, egli dirà di essere tornato alla religione «che
mi era stata instillata da bambino e fatta entrare fin nelle midolla».
Chi vuol capire la sua evoluzione interiore e un aspetto, forse il più
profondo, della sua personalità e del suo pensiero, deve partire da
questa constatazione.
Svegliatosi a 19 anni all'amore
della sapienza con la lettura dell'«Ortensio» di Cicerone - «Quel
libro, devo ammetterlo, mutò il mio modo di sentire... e mi fece
bramare la sapienza immortale con incredibile ardore di cuore» - amò
profondamente e cercò sempre con tutte le fibre dell'anima la verità.
«O Verità, Verità, come già allora e dalle intime fibre del mio
cuore sospiravo verso di te!».
Nonostante questo amore alla verità,
Agostino cadde in gravi errori. Gli studiosi ne cercano le cause e le
trovano in tre direzioni: nell'errata impostazione delle relazioni tra
la ragione e la fede quasi che si dovesse scegliere tra l'una e
l'altra; nel supposto contrasto tra Cristo e la Chiesa con la
conseguente persuasione che occorresse abbandonare la Chiesa per
aderire più pienamente a Cristo; nel desiderio di liberarsi dalla
coscienza del peccato non attraverso la sua remissione per opera della
grazia ma attraverso la negazione della responsabilità umana nel
peccato stesso.
Il primo errore consisteva dunque
in un certo spirito razionalista per cui si persuase «di dover
seguire non coloro che comandano di credere, ma coloro che insegnano
la verità». Con questo spirito lesse le sacre Scritture e si sentì
respinto dai misteri che esse contengono, misteri che occorre
accettare con umile fede. Parlando poi al suo popolo di questo momento
della vita egli disse: «Io che vi parlo fui ingannato un tempo,
quando da giovane mi avvicinai per la prima volta alle sacre
Scritture. Mi avvicinai non con la pietà di chi cerca umilmente, ma
con la presunzione di chi vuol discutere... Misero me, che mi credei
idoneo al volo, abbandonai il nido e caddi prima di poter volare!».
Fu allora che s'imbatté nei
manichei, li ascoltò, li seguì. Ragione principale: la promessa «di
mettere da parte la terribile autorità e di condurre a Dio e liberare
dagli errori i propri discepoli con la pura e semplice ragione». E
tale appunto, si mostrava Agostino, «desideroso di tenere e assorbire
la verità autentica e senza veli» con la forza della sola ragione.
Accortosi dopo lunghi anni di
studi, particolarmente di studi filosofici, di essere stato ingannato,
ma, per effetto della propaganda manichea, sempre convinto che nella
Chiesa cattolica la verità non ci fosse, cadde in un profondo
scoramento e disperò affatto di poter trovare la verità: «gli
accademici tennero a lungo il timone della mia nave in mezzo ai flutti».
Da questo pericoloso atteggiamento
lo sollevò lo stesso amore per la verità che albergava sempre nel
suo animo. Si convinse che non è possibile che alla mente umana sia
chiusa la via della verità; se non la trova, è perché ignora e
disprezza il metodo per cercarla. Confortato da questa convinzione
egli disse a se stesso: «Ma no, cerchiamo con maggior diligenza
anziché disperare»; continuò quindi a cercare, e questa volta,
guidato dalla grazia divina che la madre implorava con preghiere e
lacrime, raggiunse il porto.
Comprese che ragione e fede sono
due forze destinate a cooperare insieme per condurre l'uomo alla
conoscenza della verità, che ognuna di esse ha un suo primato:
temporale la fede, assoluto la ragione - «per importanza viene prima
la ragione, in ordine di tempo l'autorità (della fede)» -. Comprese
che la fede per essere sicura richiede un'autorità divina, che questa
autorità non è altro che quella di Cristo, sommo maestro - di questo
Agostino non aveva mai dubitato -, che l'autorità di Cristo si
ritrova nelle sacre Scritture, garantite dall'autorità della Chiesa
cattolica.
Con l'aiuto dei filosofi platonici
si liberò dalla concezione materialistica dell'essere che aveva
assorbito dal manicheismo: «Ammonito da quegli scritti a tornare in
me stesso, entrai nell'intimo del mio cuore sotto la tua guida... Vi
entrai e scorsi con l'occhio della mia anima... sopra la mia
intelligenza, una luce immutabile». Fu questa luce immutabile che gli
aprì gli immensi orizzonti dello spirito e di Dio.
Capì che intorno alla grave
questione del male, che costituiva il suo grande tormento, la prima
domanda da porsi non era da dove esso abbia origine, ma che cosa sia,
e intuì che il male non è una sostanza ma una privazione di bene: «Tutto
ciò che esiste è bene, e il male di cui cercavo l'origine, non è
una sostanza». Dio dunque, ne concluse, è il creatore di tutte le
cose e non esiste nessuna sostanza che non sia stata creata da lui.
Capì altresì, riferendosi alla sua esperienza personale - e questa
fu la scoperta più decisiva - che il peccato ha origine dalla volontà
dell'uomo, una volontà libera e defettibile: «ero io a volere, io a
non volere, io, io ero».
A questo punto poteva dirsi
arrivato, invece non lo era ancora; le insidie di un nuovo errore lo
avvolsero. Fu la presunzione di poter arrivare al possesso
beatificante della verità con le sole sue forze naturali.
Un'esperienza personale fallita lo dissuase. Comprese allora che altro
è conoscere la meta, altro arrivarci. Per trovare la forza e la via
necessarie, «mi buttai con la massima avidità», scrive egli stesso,
«sulla venerabile Scrittura del tuo Spirito, e prima di tutto
sull'apostolo Paolo». Nelle lettere di Paolo scoperse Cristo maestro,
come sempre lo aveva venerato, ma anche Cristo redentore, Verbo
incarnato, unico mediatore tra Dio e gli uomini. Allora gli apparve in
tutto il suo splendore «il volto della filosofia»: era la filosofia
di Paolo che ha per centro Cristo, «potenza e sapienza di Dio» (1Cor
1,24), e che ha altri centri: la fede, l'umiltà, la grazia; quella «filosofia»
che è insieme sapienza e grazia, per cui diventa possibile non solo
conoscere la patria ma anche raggiungerla.
Ritrovato Cristo redentore e
afferratosi a lui, Agostino era tornato al porto della fede cattolica,
alla fede in cui era stato educato da sua madre: «Avevo udito parlare
sin da fanciullo della vita eterna, che ci fu promessa mediante
l'umiltà del Signore Dio nostro, sceso fino alla nostra superbia».
L'amore per la verità, sostenuto dalla grazia divina, aveva trionfato
di tutti gli errori.
Sennonché il cammino non era
ancora concluso. Nell'animo di Agostino rinasceva un antico proposito,
quello di consacrarsi totalmente alla sapienza una volta che l'avesse
trovata, di abbandonare cioè, per possederla, ogni terrena speranza.
Ora egli non poteva portare più scuse: la verità tanto bramata era
ormai certa. Eppure esitava, cercando ragioni per non decidersi a
farlo. I vincoli che lo legavano alle speranze terrene erano forti:
gli onori, i guadagni, le nozze; specialmente, date le abitudini
contratte, le nozze.
Non già che gli fosse proibito
sposarsi - Agostino questo lo sapeva bene - ma non voleva essere
cristiano cattolico se non in questo modo: rinunciando anche
all'ideale vagheggiato della famiglia e dedicandosi con «tutta»
l'anima all'amore e al possesso della sapienza. A prendere questa
decisione, che corrispondeva alle sue aspirazioni più profonde ma
contrastava con le abitudini più radicate, lo stimolava l'esempio di
Antonio e dei monaci che si andavano diffondendo anche in Occidente,
di cui venne fortuitamente a conoscenza. Egli si chiedeva con grande
vergogna: «Non potrai fare anche tu ciò che fecero questi giovani,
queste donne?». Ne nacque un dramma interiore, profondo e lacerante,
che la grazia divina condusse a buon fine.
Ecco come Agostino narra a sua
madre la serena e forte decisione: «Ci rechiamo da mia madre e le
riveliamo la decisione presa: ne gioisce; le raccontiamo lo
svolgimento dei fatti: esulta e trionfa. E cominciò a benedirti perché
puoi fare più di quanto chiediamo e comprendiamo (Ef 3,20). Vedeva
che le avevi concesso a mio riguardo molto più di quanto ti aveva
chiesto con tutti i suoi gemiti e le sue lacrime pietose. Infatti mi
rivolgesti a te così appieno, che non cercavo più né moglie né
avanzamenti in questo secolo».
Da quel momento incominciava per
Agostino una vita nuova: terminò l'anno scolastico - le vacanze della
vendemmia erano vicine -, si ritirò nella solitudine di Cassiciaco;
al termine delle vacanze rinunciò all'insegnamento, tornò a Milano
agli inizi del 387, s'iscrisse tra i catecumeni, e nella notte del
sabato santo - 23/24 aprile - fu battezzato dal vescovo Ambrogio dalla
cui predicazione aveva tanto imparato. «E fummo battezzati, e si
dileguò da noi l'inquietudine della vita passata. In quei giorni non
mi saziavo di considerare con mirabile dolcezza i tuoi profondi
disegni sulla salute del genere umano». E aggiunge manifestando
l'intima commozione dell'animo: «Quante lacrime versai ascoltando gli
accenti dei tuoi inni e cantici, che risuonavano dolcemente nella tua
Chiesa».
Dopo il battesimo l'unico
desiderio di Agostino fu quello di trovare un luogo adatto dove poter
vivere insieme con i suoi amici secondo il «santo proposito» di
servire il Signore. Lo trovò in Africa, a Tagaste, suo paese natale,
dove giunse dopo la morte della madre a Ostia Tiberina e la permanenza
di alcuni mesi a Roma per studiare il movimento monastico. Giunto a
Tagaste, «rinunciò ai suoi beni e, insieme con quelli che erano
uniti a lui, viveva per Dio nei digiuni, nelle preghiere, nelle buone
opere, meditando giorno e notte la legge del Signore». L'appassionato
amante della verità voleva dedicare la sua vita all'ascetismo, alla
contemplazione, all'apostolato intellettuale. Il primo biografo
aggiunge infatti: «E delle verità che Dio rivelava alla sua
intelligenza faceva parte ai presenti e agli assenti, ammaestrandoli
con discorsi e con libri». A Tagaste scrisse libri e libri, come
aveva fatto a Roma, a Milano, a Cassiciaco.
Dopo tre anni scese a Ippona con
l'intento di cercare un luogo dove fondare un monastero e d'incontrare
un amico che sperava di guadagnare alla vita monastica, e trovò
invece, suo malgrado, il sacerdozio. Ma non rinunciò al suo ideale:
chiese e ottenne di fondare un monastero: il «monasterium laicorum»,
in cui visse, e da cui uscirono molti sacerdoti e molti vescovi per
tutta l'Africa. Diventò, dopo cinque anni, vescovo, trasformò
l'episcopio in monastero: il «monasterium clericorum». L'ideale
concepito al momento della conversione non lo lasciò cadere mai,
neppure da sacerdote e da vescovo. Scrisse anche una regola «ad
servos Dei», che tanta parte ebbe e ha nella storia della vita
religiosa occidentale.
II.
IL
DOTTORE
Mi sono intrattenuto un poco sui
punti essenziali della conversione di Agostino, perché da essa
vengono tanti utili insegnamenti non solo per i credenti ma anche per
tutti gli uomini di buona volontà: come sia facile deviare nel
cammino della vita e come sia difficile ritrovare la via della verità.
Ma questa mirabile conversione ci aiuta inoltre a capire meglio la sua
vita successiva di monaco, sacerdote, vescovo. Egli restò sempre il
grande folgorato della grazia: «Ci avevi bersagliato il cuore con le
frecce del tuo amore e portavamo le tue parole confitte nelle viscere».
Soprattutto ci aiuta a penetrare più facilmente nel suo pensiero, che
fu così universale e profondo da rendere a quello cristiano un
servizio incomparabile e imperituro, tanto che possiamo chiamarlo, non
senza fondamento, il padre comune dell'Europa cristiana.
La molla segreta della sua insonne
ricerca fu la stessa che l'aveva guidato lungo l'itinerario della
conversione: l'amore per la verità. Infatti, dice egli stesso: «che
cosa desidera l'uomo più fortemente che la verità?». In un'opera di
alta speculazione teologica e mistica, scritta più per bisogno
personale che per esigenze esterne, ricorda questo amore e scrive: «Ci
sentiamo rapiti dall'amore di indagare la verità». E questa volta
l'oggetto dell'indagine era l'augusto mistero trinitario e il mistero
di Cristo rivelazione del Padre, «scienza e sapienza» dell'uomo:
nacque così la grande opera su «La Trinità».
L'orientamento della ricerca, che
l'amore incessante nutriva, ebbe due coordinate: l'approfondimento
della fede cattolica e la sua difesa contro coloro che la negavano,
come i manichei e i pagani, o ne davano interpretazioni errate, come i
donatisti, i pelagiani, gli ariani. E' difficile inoltrarsi nel mare
del pensiero agostiniano, e tanto più difficile riassumerlo, se pur
questo è davvero possibile. Mi si consenta però di ricordare, a
comune edificazione, alcune luminose intuizioni di questo sommo
pensatore.
1. Ragione e fede
Prima di tutto quelle riguardanti
il problema che più lo attanagliò in gioventù e sul quale egli tornò
con tutta la forza dell'ingegno e la passione dell'animo, quello
riguardante le relazioni tra la ragione e la fede: un problema di
sempre, di oggi non meno che di ieri, dalla cui soluzione dipende
l'indirizzo del pensiero umano. Ma problema difficile, perché si
tratta di passare incolumi tra un estremo e l'altro, tra il fideismo
che disprezza la ragione e il razionalismo che esclude la fede. Lo
sforzo intellettuale e pastorale di Agostino fu quello di mostrare,
senza ombra di dubbio, che «le due forze che ci portano a conoscere»,
devono cooperare insieme.
Egli ascoltò la fede, ma non
esaltò meno la ragione, dando a ciascuna il suo primato, o di tempo o
di importanza. Disse a tutti il «crede ut intelligas», ma ripeté
anche l'«intellige ut credas». Scrisse un'opera, sempre attuale,
sull'utilità della fede e spiegò che è la fede la medicina
destinata a sanare l'occhio dello spirito, la fortezza inespugnabile
per la difesa di tutti, particolarmente dei deboli, contro l'errore,
il nido in cui si mettono le penne per gli alti voli dello spirito, la
via breve che permette di conoscere presto, con sicurezza e senza
errori, le verità che conducono l'uomo alla sapienza. Ma sostenne
anche che la fede non è mai senza ragione, perché è la ragione che
dimostra «a chi si debba credere». Pertanto «anche la fede ha i
suoi occhi con i quali vede in qualche modo che è vero quello che
ancora non vede». «Nessuno dunque crede se prima non ha pensato di
dover credere», poiché «credere altro non è che pensare con
assenso ("cum assentione cogitare")...» tanto che «la fede
che non sia pensata non è fede».
Il discorso sugli occhi della fede
sfocia in quello della credibilità, di cui Agostino parla spesso
adducendone i motivi, quasi a confermare la consapevolezza con cui era
tornato egli stesso alla fede cattolica. Giova riportare un testo.
Scrive: «Molte sono le ragioni che mi trattengono in seno della
Chiesa cattolica. A parte la sapienza dell'insegnamento (questo
argomento, per Agostino fortissimo, non era ammesso dagli
avversari)... mi trattiene il consenso dei popoli e delle genti; mi
trattiene l'autorità fondata coi miracoli, nutrita con la speranza,
aumentata con la carità, consolidata con l'antichità; mi trattiene
la successione dei vescovi, della sede stessa dell'apostolo Pietro, a
cui il Signore dopo la risurrezione diede a pascere le sue pecore,
fino al presente episcopato; mi trattiene infine lo stesso nome di
cattolica che non senza ragione solo questa Chiesa ha ottenuto».
Nella grande opera della «Città
di Dio», che è insieme apologetica e dommatica, il problema ragione
e fede diventa quello di fede e cultura. Agostino, che tanto operò
per fondare e promuovere la cultura cristiana, lo risolve svolgendo
tre grossi argomenti: l'esposizione fedele della dottrina cristiana;
il ricupero attento della cultura pagana in ciò che aveva di
ricuperabile, e che sul piano filosofico non era poco; la
dimostrazione insistente della presenza nell'insegnamento cristiano di
quanto di vero e di perennemente valido v'era in quella cultura, col
vantaggio di trovarvisi perfezionato e sublimato. Non per nulla la «Città
di Dio» fu molto letta nel medioevo; e merita molto di essere letta
anche oggi come esempio e stimolo per approfondire l'incontro del
cristianesimo con le culture dei popoli. Vale la pena di riportare un
importante testo agostiniano: «La città celeste... convoca cittadini
da tutte le nazioni non badando alla differenza dei costumi, delle
leggi, delle istituzioni... non sopprime né distrugge alcuna di
queste cose, anzi accetta e conserva tutto ciò che, sebbene diverso
nelle diverse nazioni, tende a un solo e medesimo fine: la pace
terrena, a condizione che non impediscano la religione che insegna ad
adorare l'unico Dio, sommo e vero».
2. Dio e l'uomo
L'altro grande binomio che
Agostino approfondì senza posa è Dio e l'uomo. Liberatosi, come ho
detto sopra, dal materialismo che gli impediva di avere un'esatta
nozione di Dio - e quindi la vera nozione dell'uomo -, fissò in
questo binomio i grandi temi della sua ricerca e li studiò sempre
insieme: l'uomo pensando a Dio, Dio pensando all'uomo, che ne è
l'immagine.
Nelle «Confessioni» si pone
queste due domande: «Che cosa sei tu per me, Signore?», «e che cosa
sono io per te...?». Per rispondere ad esse impiega tutte le risorse
del suo pensiero e tutta l'insonne fatica del suo apostolato. Egli è
pienamente convinto dell'ineffabilità di Dio, tanto da esclamare: «Che
c'è di strano se non comprendi. Se comprendi non è Dio»; perciò «non
è un piccolo inizio della conoscenza di Dio se, prima di sapere che
cosa egli è, cominciamo a sapere che cosa egli non è». Occorre
dunque cercar «di capire Dio, se possiamo, per quanto lo possiamo,
buono senza qualità, grande senza quantità, creatore senza necessità»,
e così via per tutte le categorie del reale che Aristotele aveva
descritte.
Nonostante la trascendenza e
l'ineffabilità divina Agostino, partendo dall'autocoscienza dell'uomo
che sa di essere, di conoscere e di amare, e confortato dalla
Scrittura che ci rivela Dio come l'Essere supremo (Es 3,14), la somma
Sapienza (Sap passim) e il primo amore (1Gv 4,8), illustra questa
triplice nozione di Dio: essere da cui procede, per creazione dal
nulla, ogni essere, verità che illumina la mente umana perché possa
conoscere con certezza la verità, amore da cui procede e a cui tende
ogni vero amore. Dio infatti, come egli ripete tante volte, è «la
causa del sussistere, la ragione del pensare, la norma del vivere» o,
per riportare un'altra formula celebre, «la causa dell'universo
creato, la luce della verità che percepiamo, la fonte della felicità
che assaporiamo».
Ma dove il genio di Agostino si
esercitò maggiormente fu nello studiare la presenza di Dio nell'uomo,
presenza che è insieme profonda e misteriosa. Egli trova Dio, «l'interno-eterno»,
remotissimo e presentissimo: perché remoto l'uomo lo cerca, perché
presente lo conosce e lo trova. Dio è presente come «sostanza
creatrice del mondo», come verità illuminatrice, come amore che
attrae, più intimo di quanto vi è nell'uomo di più intimo e più
alto di quanto vi è di più alto. Riferendosi al periodo antecedente
la conversione, Agostino dice a Dio: «Dov'eri dunque allora e quanto
lontano da me? Io vagavo lontano da te... tu, invece, eri più dentro
in me della mia parte più profonda e più alto della mia parte più
alta»; «eri con me, e io non ero con te». E insiste: «eri davanti
a me, ma io mi ero allontanato da me, e non mi ritrovavo. Tanto meno
ritrovavo te». Chiunque non trova se stesso non trova Dio, perché
Dio è nel profondo di ciascuno di noi.
L'uomo dunque non s'intende se non
in ordine a Dio. Agostino ha illustrato con vena inesauribile questa
grande verità, mentre studiava il rapporto dell'uomo con Dio e lo
espresse nelle maniere più varie e più efficaci. Egli vede l'uomo
come una tensione verso Dio. Sono celebri le sue parole: «Ci hai
fatti per te e il nostro cuore non ha posa finché non riposa in te».
Lo vede come capacità di essere elevato fino alla visione immediata
di Dio: il finito che raggiunge l'Infinito. L'uomo, scrive ne «La
Trinità», «è immagine di Dio, in quanto è capace di Dio e può
essere partecipe di lui». Questa capacità «impressa immortalmente
nella natura immortale dell'anima razionale» è il segno della sua
grandezza suprema: «in quanto è capace e può essere partecipe della
natura suprema, l'uomo è una grande natura». Lo vede inoltre come un
essere indigente di Dio, perché bisognoso della felicità che non può
trovare se non in Dio. «La natura umana è stata creata in tanta
eccellente grandezza che, per quanto mutabile, solo aderendo al Bene
immutabile, che è il sommo Dio, può conseguire la felicità, né può
colmare la sua indigenza senza essere felice, ma a colmarla non basta
se non Dio».
Da questo rapporto costituzionale
dell'uomo con Dio dipende l'insistente richiamo agostiniano
all'interiorità. «Torna in te stesso; nell'uomo interiore abita la
verità; e se troverai che la tua natura è mutabile, trascendi te
stesso» per trovare Dio, fonte della luce che illumina la mente.
Insieme alla verità c'è nell'uomo interiore la misteriosa capacità
d'amare, la quale, come un peso - è questa la celebre metafora
agostiniana -, lo porta al di fuori di sé, verso gli altri e
soprattutto verso l'Altro, cioè Dio. Il peso dell'amore lo rende
costituzionalmente sociale, al punto che «nessuno», come scrive
Agostino, «è tanto sociale per natura quanto l'uomo».
L'interiorità dell'uomo, dove si
raccolgono le ricchezze inesauribili della verità e dell'amore,
costituisce «un abisso», che il nostro dottore non cessa mai di
scrutare, e mai cessa di stupirsene. Ma a questo punto occorre
aggiungere che l'uomo appare, per chi sia pensoso di sé e della
storia, un grande problema, come dice Agostino, una «magna quaestio».
Troppi sono gli enigmi che lo circondano: l'enigma della morte, della
divisione profonda che soffre in se stesso, dello squilibrio
insanabile tra ciò che è e ciò che desidera; enigmi che si riducono
a quello fondamentale, che consiste nella sua grandezza e nella sua
incomparabile miseria. Su questi enigmi, dei quali ha parlato a lungo
il concilio Vaticano II quando si è proposto di illustrare «il
mistero dell'uomo», Agostino si è gettato con passione e vi ha
esercitato tutto l'acume della sua intelligenza non solo per scoprirne
la realtà, che è spesso molto triste - se è vero che nessuno è
tanto sociale per natura quanto l'uomo, è vero anche, aggiunge
l'autore della «Città di Dio» edotto dalla storia, che «nessuno
quanto l'uomo è tanto antisociale per vizio» - ma anche e
soprattutto per cercarne e proporne la soluzione. Ora in quanto alla
soluzione non ne trova che una, quella che gli era apparsa alla
vigilia della sua conversione: Cristo, redentore dell'uomo. Su questa
soluzione ho inteso il bisogno di richiamare anch'io l'attenzione dei
figli della Chiesa e di tutti gli uomini di buona volontà nella mia
prima enciclica, appunto la «Redemptor Hominis», lieto di
raccogliere nella mia voce la voce di tutta la tradizione cristiana.
Entrando in questa problematica il
pensiero di Agostino, pur restando fondamentalmente filosofico, si fa
più teologico, e il binomio Cristo e la Chiesa, che aveva prima
negato e poi riconosciuto negli anni della giovinezza, incomincia a
illustrare quello più generale di Dio e dell'uomo.
3. Cristo e la Chiesa
Si può ben dire che Cristo e la
Chiesa siano il fulcro del pensiero teologico del vescovo di Ippona,
anzi, si potrebbe aggiungere, della sua stessa filosofia, in quanto
egli rimprovera ai filosofi di aver fatto filosofia «sine homine
Christo». Da Cristo è inseparabile la Chiesa. Egli riconobbe al
momento della conversione e accettò con gioia e gratitudine la legge
della Provvidenza che ha posto in Cristo e nella Chiesa «l'autorità
più eccelsa e la luce della ragione ("totum culmen auctoritatis
lumemque rationis") allo scopo di ricreare e riformare il genere
umano».
Senza dubbio egli ha parlato a
lungo ed egregiamente, nella grande opera sulla Trinità e nei
discorsi sul mistero trinitario tracciando la strada alla teologia
posteriore. Ha insistito insieme sull'uguaglianza e sulla distinzione
delle Persone divine illustrandole con la dottrina delle relazioni:
Dio «è tutto ciò che ha, eccetto le relazioni per cui ogni persona
si riferisce all'altra». Ha sviluppato la teologia sullo Spirito
santo, che procede dal Padre e dal Figlio, ma «principaliter» dal
Padre, perché «di tutta la divinità o, meglio, della deità, il
principio è il Padre»; ed egli ha dato al Figlio di spirare lo
Spirito Santo, che procede come Amore e perciò non è generato. Per
rispondere poi ai «garruli ragionatori», ha proposto la spiegazione
«psicologica» della Trinità cercandone l'immagine nella memoria,
nell'intelligenza, nell'amore dell'uomo, studiando così insieme il più
augusto mistero della fede e la più alta natura del creato qual è lo
spirito umano.
Ma parlando della Trinità tiene
sempre lo sguardo fisso nel Cristo rivelatore del Padre, e nell'opera
della salvezza. Da quando, poco prima della conversione, comprese i
termini del mistero del Verbo incarnato, non cessò mai di
approfondirlo riassumendo il suo pensiero in formule tanto piene ed
efficaci da preannunziare quella di Calcedonia. Ecco un testo
significativo da una delle sue ultime opere: «Il cristiano fedele
crede e confessa in Cristo la vera natura umana, cioè la nostra, ma
assunta in maniera singolare da Dio Verbo, sublimata nell'unico Figlio
di Dio, così che colui che assume e ciò che è assunto sia un'unica
persona nella Trinità... una sola persona Dio e l'uomo. Perché noi
non diciamo che Cristo è solo Dio... e nemmeno diciamo che Cristo è
solo uomo... e neppure diciamo che è uomo ma con qualcosa in meno di
ciò che con certezza appartiene alla natura umana... Noi al contrario
diciamo che Cristo è vero Dio, nato dal Padre... e che lo stesso è
vero uomo, nato da madre che fu creatura umana... e che la sua umanità,
con la quale è minore del Padre, non toglie nulla alla sua divinità
con la quale è uguale al Padre: due nature, un solo Cristo». O, più
brevemente: «Colui che è uomo quello stesso è Dio e colui che è
Dio quello stesso è uomo, non per la confusione della natura, ma per
l'unità della persona», «una persona in due nature».
Con questa ferma visione dell'unità
della persona in Cristo, «totus Deus et totus homo», Agostino spazia
nell'ampio panorama della teologia e della storia. Se lo sguardo
d'aquila si fissa sul Cristo Verbo del Padre, non insiste meno su
Cristo uomo. Anzi, afferma energicamente: senza Cristo uomo non c'è né
mediazione, né riconciliazione, né giustificazione, né
risurrezione, né appartenenza alla Chiesa, di cui Cristo è capo. Su
questi temi egli torna sovente e li svolge ampiamente sia per rendere
ragione della fede che aveva riconquistato a 32 anni, sia per le
esigenze della controversia pelagiana.
Cristo, uomo-Dio, è l'unico
mediatore tra Dio giusto e immortale e gli uomini mortali e peccatori,
perché è mortale e giusto insieme; è pertanto la via universale
della libertà e della salvezza. Fuori di questa via, che «non è mai
mancata al genere umano, nessuno è stato mai liberato, nessuno viene
liberato, nessuno sarà liberato».
La mediazione di Cristo si compie
nella redenzione, che non consiste solo nell'esempio di giustizia, ma
prima di tutto nel sacrificio di riconciliazione che fu verissimo,
liberissimo, perfettissimo. La redenzione di Cristo ha come carattere
essenziale l'universalità, la quale dimostra l'universalità del
peccato. In questo senso Agostino ripete e interpreta le parole di san
Paolo: «se uno è morto per tutti, dunque tutti sono morti» (2Cor
5,14), morti a causa del peccato. «Tutta la fede cristiana consiste
dunque nella causa di due uomini», «uno e uno: uno che porta la
morte, uno che dona la vita». Ne segue che «ogni uomo è Adamo, come
in coloro che credono ogni uomo è Cristo».
Negare questa dottrina voleva dire
per Agostino «rendere vana la croce di Cristo» (1Cor 1,17). Perché
ciò non avvenisse parlò e scrisse molto sull'universalità del
peccato, compresa la dottrina del peccato originale, «che la Chiesa,
scrive egli, crede fin dall'antichità». Infatti Agostino insegna che
«il Signore Gesù Cristo non per altro motivo si è fatto uomo... se
non per vivificare, salvare, liberare, redimere, illuminare coloro che
prima erano nella morte, nell'infermità, nella schiavitù, nella
prigionia, nelle tenebre dei peccati. E' logico che nessuno potrà
appartenere a Cristo se non ha bisogno di questi benefici della
redenzione».
Poiché unico mediatore e
redentore degli uomini, Cristo è capo della Chiesa, Cristo e la
Chiesa sono una sola persona mistica, il Cristo totale. Scrive
arditamente: «Siamo diventati Cristo. Infatti se egli è il capo, noi
le sue membra, l'uomo totale è lui e noi». Questa dottrina del
Cristo totale è una delle più care al vescovo di Ippona e anche una
delle più feconde della sua teologia ecclesiologica.
Altra verità fondamentale è
quella dello Spirito Santo anima del corpo mistico - «ciò che è
l'anima per il corpo, questo stesso è lo Spirito Santo per il corpo
di Cristo che è la Chiesa» -, dello Spirito Santo principio della
comunione che unisce i fedeli tra loro e alla Trinità. Infatti «il
Padre e il Figlio hanno voluto che noi entrassimo in comunione tra noi
e con loro per mezzo di colui che è a loro comune e ci hanno raccolto
nell'unità mediante l'unico dono che essi hanno in comune, cioè per
mezzo dello Spirito Santo, Dio e dono di Dio». Perciò egli dice
nello stesso luogo: «la comunione dell'unità della Chiesa o la
"societas unitatis", fuori della quale non c'è perdono dei
peccati, è l'opera propria dello Spirito Santo con il quale operano
insieme il Padre e il Figlio, poiché in certo modo lo stesso Spirito
Santo è il legame o la "societas" che unisce il Padre e il
Figlio».
Guardando alla Chiesa corpo di
Cristo e vivificata dallo Spirito Santo che è lo spirito di Cristo,
Agostino svolse in molte forme una nozione sulla quale si è
soffermato con particolare compiacenza anche il recente concilio: la
Chiesa comunione. Ne parla in tre modi diversi e convergenti: la
comunione dei sacramenti o realtà istituzionale fondata da Cristo sul
fondamento degli apostoli, della quale discute a lungo nella
controversia donatista difendendone l'unità, l'universalità, l'apostolicità
e la santità, e dimostrando che ha per centro la «sede di Pietro»,
«nella quale fu sempre in vigore il primato della cattedra apostolica»;
la comunione dei santi o realtà spirituale che unisce tutti i giusti
da Abele fino alla consumazione dei secoli; la comunione dei beati o
realtà escatologica che raccoglie tutti coloro che hanno raggiunto la
salvezza, cioè la Chiesa «senza macchia e senza ruga» (Ef 5,27).
Altro tema caro all'ecclesiologia
agostiniana fu quello della Chiesa madre e maestra. Su questo tema
Agostino scrisse pagine profonde e commoventi, perché esso toccava da
vicino la sua esperienza di convertito e la sua dottrina di teologo.
Sulle vie del ritorno alla fede egli incontrò la Chiesa non più
opposta a Cristo come gli avevano fatto credere, bensì manifestazione
di Cristo, «madre dei cristiani verissima», e garante della verità
rivelata.
La Chiesa è madre che genera i
cristiani: «Due ci hanno generato per la morte, due ci hanno generato
per la vita. I genitori che ci hanno generato per la morte sono Adamo
ed Eva, i genitori che ci hanno generato per la vita sono Cristo e la
Chiesa». La Chiesa è madre che soffre per quelli che si allontanano
dalla giustizia, soprattutto per quelli che ne lacerano l'unità, è
la colomba che geme e chiama perché tutti tornino o approdino sotto
le sue ali, è la manifestazione della paternità universale di Dio
attraverso la carità la quale «per gli uni è carezzevole, per gli
altri severa; a nessuno è nemica, a tutti è madre».
E' madre, ma anche, come Maria,
vergine: madre per l'ardore della carità, vergine per l'integrità
della fede che custodisce, difende, insegna. A questa maternità
verginale si riallaccia il suo compito di maestra che la Chiesa
esercita in obbedienza a Cristo. Per questo Agostino guarda alla
Chiesa come garante delle Scritture, e proclama che egli resta sicuro
in essa, qualunque difficoltà si presenti, insegnando insistentemente
agli altri a fare altrettanto. «Così, come ho detto spesso e ripeto
insistentemente: qualunque cosa noi siamo, voi siete sicuri: voi che
avete Dio per padre e la Chiesa per madre». Nasce da questa
convinzione l'esortazione accorata ad amare Dio e la Chiesa, appunto
Dio come padre, la Chiesa come madre. Nessun altro, forse, ha parlato
della Chiesa con tanto affetto e con tanta passione come Agostino. Ne
ho riproposto alcuni accenti, pochi in verità ma sufficienti, spero,
per far comprendere la profondità e la bellezza d'una dottrina che
non sarà mai studiata abbastanza, particolarmente sotto l'aspetto
della carità che anima la Chiesa come effetto della presenza in lei
dello Spirito Santo. «Abbiamo lo Spirito Santo, scrive, se amiamo la
Chiesa; e amiamo la Chiesa se rimaniamo nella sua unità e nella sua
carità».
4. Libertà e grazia
Non si finirebbe più a indicare,
sia pure per sommi capi, i diversi aspetti della teologia agostiniana.
Un altro argomento importante, anzi fondamentale, legato pur esso alla
conversione, è quello della libertà e della grazia. Come già ho
ricordato, fu alla vigilia della conversione che prese coscienza della
responsabilità dell'uomo nelle sue azioni e della necessità della
grazia dell'unico Mediatore, di cui sperimentò la forza nel momento
dell'ultima decisione. Ne è testimonianza eloquente il libro VIII
delle «Confessioni». Le riflessioni personali e le controversie
sostenute poi, particolarmente con i seguaci dei manichei e dei
pelagiani, gli offrivano l'opportunità di approfondire i termini del
problema e di proporne, sia pure con grande modestia a causa della
misteriosità della questione, una sintesi.
Sostenne sempre che la libertà è
un caposaldo dell'antropologia cristiana. Lo sostenne contro i suoi
antichi correligionari, contro il determinismo degli astrologi di cui
egli stesso era stato vittima, contro ogni forma di fatalismo; spiegò
che la libertà e la prescienza non sono inconciliabili, come pure non
lo sono libertà e aiuto della grazia divina. «Il libero arbitrio non
viene tolto, perché viene aiutato, ma viene aiutato perché non viene
tolto». E' celebre del resto il principio agostiniano: «Chi ti ha
creato senza di te, non ti giustifica senza di te. Dunque, ha creato
chi non sapeva, non giustifica chi non vuole».
A chi dubitava di questa
conciliabilità o affermava il contrario dimostra con lunga serie di
testi biblici che libertà e grazia appartengono alla divina
rivelazione e che occorre tener ferme insieme le due verità. Vedere
in profondità la loro conciliazione è questione difficilissima che
pochi sono in grado di capire, e che può creare angustia per molti,
perché difendendo la libertà si può dare l'impressione di negare la
grazia e viceversa. Occorre però credere nella loro conciliabilità
come nella conciliabilità di due prerogative essenziali di Cristo
dalle quali l'una e l'altra rispettivamente dipendono. Cristo infatti
è insieme salvatore e giudice. Ora, «se non c'è la grazia, come
salva il mondo? se non c'è il libero arbitrio come giudica il mondo?».
D'altra parte Agostino insiste
sulla necessità della grazia, che è insieme necessità della
preghiera. A chi diceva che Dio non comanda l'impossibile e perciò la
grazia non è necessaria, risponde che sì, è vero, «Dio non comanda
l'impossibile, ma comandando ti ammonisce di fare ciò che puoi e di
chiedere ciò che non puoi», e aiuta l'uomo perché possa, egli che
«non abbandona nessuno se non è abbandonato».
La dottrina sulla necessità della
grazia diventa la dottrina sulla necessità della preghiera, su cui
Agostino tanto insiste, perché, così egli scrive, «è certo che Dio
ha preparato alcuni doni anche a chi non li implora, come l'inizio
della fede, altri solo a chi li implora, come la perseveranza finale».
La grazia è dunque necessaria per
rimuovere gli ostacoli che impediscono alla volontà di fuggire il
male e di compiere il bene. Questi ostacoli sono due, «l'ignoranza e
la debolezza», soprattutto il secondo, «perché anche quando
incomincia a non rimanere più nascosto ciò che si deve fare..., non
si agisce, non si esegue, non si vive bene». Perciò la grazia
adiuvante è soprattutto «l'ispirazione della carità per cui
facciamo con santo amore ciò che conosciamo di dover fare».
Ignoranza e debolezza sono due
ostacoli che occorre superare per poter respirare la libertà. Non sarà
inutile ricordare che la difesa della necessità della grazia è per
Agostino la difesa della libertà cristiana. Partendo dalle parole di
Cristo: «se il Figlio vi libererà, allora sarete veramente liberi»
(Gv 8,36), egli si fece difensore e cantore di questa libertà che è
inseparabile dalla verità e dall'amore. Verità, amore, libertà, i
tre grandi beni, che appassionarono l'animo di Agostino e ne
esercitarono il genio. Su di essi gettò molta luce di intelligibilità.
Per fermarsi un momento su quest'ultimo
bene - quello della libertà - è il caso di osservare che egli
descrive ed esalta la libertà cristiana in tutte le sue forme. Queste
vanno dalla libertà dall'errore - la libertà invece dell'errore è
«la peggior morte dell'anima» -, attraverso il dono della fede che
assoggetta l'anima alla verità, fino alla libertà ultima e
indefettibile, quella maggiore, che consiste nel non poter morire e
nel non poter peccare, cioè nell'immortalità e nella piena
giustizia. Tra queste due, che segnano l'inizio e il termine della
salvezza, illustra e proclama tutte le altre: la libertà dal peccato
opera della giustificazione; la libertà dal dominio delle passioni
disordinate, opera della grazia che illumina l'intelletto e dà tanta
forza alla volontà da renderla invitta contro il male, come sperimentò
egli stesso nella conversione, quando fu liberato dalla dura schiavitù;
la libertà dal tempo che divoriamo e ci divora, in quanto l'amore ci
permette di vivere ancorati all'eternità.
Sulla giustificazione, di cui
espone le ineffabili ricchezze - la vita divina della grazia, l'inabitazione
dello Spirito Santo, la «deificazione» - fa un'importante
distinzione fra la remissione dei peccati che è piena e totale, piena
e perfetta, e il rinnovamento interiore che è progressivo e sarà
pieno e totale solo dopo la risurrezione quando tutto l'uomo diventerà
partecipe dell'immutabilità divina.
Sulla grazia che fortifica la
volontà insiste nel dire che essa opera per mezzo dell'amore e
pertanto rende invitta la volontà contro il male senza toglierle la
possibilità di non volere. Trattando delle parole di Gesù nel
Vangelo di Giovanni: «nessuno viene a me se il Padre non lo attira»
(Gv 6,44), commenta: «non pensare di essere attratto contro la tua
volontà: l'animo è attratto anche dall'amore». Ma l'amore, osserva
ancora, opera con «liberale soavità», perciò «compie la legge
liberamente chi la compie con amore»: «la legge della carità è
legge di libertà».
Non meno insistente è
l'insegnamento di Agostino sulla libertà del tempo, libertà che
Cristo, Verbo eterno, è venuto a portarci entrando nel mondo con
l'incarnazione: «O Verbo, esclama Agostino, che esisti prima dei
tempi, per mezzo del quale furono fatti i tempi, anche tu nato nel
tempo pur essendo la vita eterna, tu chiami all'esistenza gli esseri
temporali e li rendi eterni». Si sa che il nostro dottore ha scrutato
molto il mistero del tempo e ha sentito e ha ridetto il bisogno di
trascendere il tempo per essere veramente. «Se anche tu vuoi essere,
trascendi il tempo. Ma chi può trascendere il tempo con le sue forze?
Ci elevi su in alto colui che ha detto al Padre: «Voglio che dove
sono io, siano anch'essi con me» (Gv 17,24)».
La libertà cristiana, di cui ho
fatto poco più che un accenno, viene vista e studiata nella Chiesa,
la città di Dio, che ne mostra gli effetti e, sostenuta dalla grazia
divina, li partecipa, per quanto dipende da lei, a tutti gli uomini.
E' fondata infatti sull'amore «sociale» che abbraccia tutti gli
uomini e vuole unirli nella giustizia e nella pace; al contrario della
città degli iniqui che divide e pone l'uno contro l'altro perché
fondata sull'amore «privato».
Giova ricordare qui qualcuna delle
definizioni della pace che Agostino ha coniato secondo le realtà alle
quali viene applicata. Partendo dalla nozione che «la pace degli
uomini è l'ordinata concordia», definisce la pace della casa come «l'ordinata
concordia degli abitanti nel comandare e nell'obbedire»; così pure
la pace della città; continua poi: «la pace della città celeste è
la ordinatissima e la concordissima società di coloro che godono di
Dio e vicendevolmente in Dio». Dà poi la definizione della pace di
tutte le cose che è la tranquillità dell'ordine. Infatti definisce
l'ordine stesso, che altro non è se non «la disposizione di realtà
uguali e disuguali che dà a ciascuno il proprio posto».
Per questa pace opera e a questa
pace «sospira il popolo di Dio durante il suo pellegrinaggio dalla
partenza al ritorno».
5. La carità e le
ascensioni dello Spirito
Il breve riassunto
dell'insegnamento agostiniano resterebbe gravemente incompleto se non
si dedicasse un accenno alla dottrina spirituale che, unita
strettamente a quella filosofica e teologica, non è meno ricca
dell'una e dell'altra. Occorre tornare di nuovo alla conversione da
cui ho cominciato. Fu allora che decise di dedicarsi totalmente
all'ideale della perfezione cristiana. A questo proposito restò
sempre fedele; non solo, ma si impegnò con tutte le forze ad
indicarne agli altri la strada. Lo fece attingendo alla sua esperienza
e alla Scrittura, che è per tutti il primo alimento della pietà.
Fu un uomo di preghiera, anzi, si
direbbe un uomo fatto di preghiera - basti ricordare le celebri «Confessioni»
scritte sotto forma di una lettera a Dio -, e ridisse a tutti con
incredibile perseveranza la necessità della preghiera: «Dio ha
disposto che combattiamo più con la preghiera che con le nostre forze»;
ne descrisse la natura, così semplice eppur così complessa,
l'interiorità in base alla quale identificò la preghiera con il
desiderio: «Il tuo stesso desiderio è la tua preghiera: e il
continuo desiderio è una continua preghiera»; il valore sociale: «Preghiamo
per quelli che non sono stati chiamati, scrive, perché lo siano:
forse sono stati predestinati in modo da essere concessi alle nostre
preghiere»; l'insostituibile inserimento in Cristo, «che prega per
noi, prega in noi, è pregato da noi; prega per noi come nostro
sacerdote, prega in noi come nostro capo, è pregato da noi come
nostro Dio: riconosciamo pertanto in lui la nostra voce e in noi la
sua».
Salì con progressiva diligenza i
gradini delle ascensioni interiori, e descrisse il loro programma per
tutti, un programma ampio e articolato che comprende il movimento
dell'animo verso la contemplazione: purificazione, costanza e serenità,
orientamento verso la luce, dimora nella luce; i gradi della carità:
incipiente, progressiva, intensa, perfetta; i doni dello Spirito Santo
rapportati alle beatitudini; le petizioni del Padre nostro; gli esempi
di Cristo.
Se le beatitudini evangeliche
costituiscono il clima soprannaturale in cui il cristiano deve vivere,
i doni dello Spirito Santo danno il tocco soprannaturale della grazia
che rende possibile quel clima; le petizioni del Padre nostro, o in
genere la preghiera che tutta si riduce a quelle petizioni, come
alimento necessario; l'esempio di Cristo il modello da imitare; la
carità poi costituisce l'anima di tutto, il centro di irradiazione,
la molla segreta dell'organismo spirituale. Fu merito non piccolo del
vescovo di Ippona l'aver ricondotto tutta la dottrina e la vita
cristiana alla carità, intesa come «adesione alla verità per vivere
nella giustizia».
Vi riconduce infatti la Scrittura
che, tutta, «narra Cristo e raccomanda la carità», la teologia che
in essa trova il suo fine, la filosofia, la pedagogia e persino la
politica. Nella carità pose l'essenza e la misura della perfezione
cristiana, il primo dono dello Spirito Santo, la realtà con la quale
nessuno può essere cattivo, il bene con il quale si possiedono tutti
i beni e senza il quale non giovano a nulla tutti gli altri beni. «Abbi
la carità e avrai tutto, perché senza di essa a nulla giova tutto ciò
che potrai avere».
Della carità mise in rilievo
tutte le inesauribili ricchezze: rende facile tutto quanto è
difficile, muove ciò che è abituale, insopprimibile il movimento
verso il Bene sommo, poiché qui in terra la carità non è mai piena,
libera da ogni interesse che non sia Dio, è inseparabile dall'umiltà
- «dove c'è l'umiltà, ivi c'è la carità» - è l'essenza d'ogni
virtù - la virtù infatti non è che amore ordinato -, dono di Dio.
Punto cruciale, quest'ultimo, che distingue e separa la concezione
naturalistica e quella cristiana della vita. «Da dove negli uomini la
carità di Dio e del prossimo se non da Dio stesso? Poiché se essa
proviene non da Dio ma dagli uomini, hanno partita vinta i pelagiani;
se invece proviene da Dio, abbiamo vinto i pelagiani».
Dalla carità nasceva in Agostino
l'ansia della contemplazione delle cose divine, che è propria della
sapienza. Delle forme più alte di contemplazione egli ebbe spesso
l'esperienza, non solo quella celebre di Ostia, ma altre ancora. Dice
di sé: «spesso faccio questo» - ricorre cioè alla meditazione
della Scrittura perché le pressanti occupazioni non l'opprimano -,
«è la mia gioia, e in questo diletto mi rifugio, allorché posso
liberarmi dalla stretta delle occupazioni... Talvolta m'introduci in
un sentiero interiore del tutto sconosciuto e indefinibilmente dolce,
che, qualora raggiunga in me la sua pienezza, non so dire che mai sarà,
ché non sarà certo questa vita». Se si aggiungono queste esperienze
all'acume teologico e psicologico di Agostino e alla sua rara capacità
di scrittore, si comprende perché abbia descritto con tanta
precisione le ascensioni mistiche, tanto che qualcuno ha potuto
chiamarlo il principe dei mistici.
Nonostante l'amore predominante
per la contemplazione, Agostino accettò la «sarcina»
dell'episcopato e insegnò agli altri a fare altrettanto, rispondendo
così, con umiltà, alla chiamata della Chiesa madre, ma insegnò
anche con l'esempio e gli scritti come conservare tra le occupazioni
dell'attività pastorale il gusto della preghiera e della
contemplazione. Vale la pena riportare la sintesi, divenuta classica,
che ci offre la «Città di Dio». «L'amore della verità ricerca la
quiete della contemplazione, il dovere dell'amore accetta l'attività
dell'apostolato. Se nessuno impone questo peso, ci si deve dedicare
alla ricerca e alla contemplazione della verità; se però esso ci
viene imposto, dev'essere assunto per dovere di carità. Ma anche in
questo caso non si devono abbandonare le consolazioni della verità,
perché non accada che, privati di questa dolcezza, si resti
schiacciati da quella necessità». La profonda dottrina qui esposta
merita una lunga e attenta riflessione. Questa diventa più facile e
più efficace se si guarda ad Agostino stesso, che diede un fulgido
esempio di come conciliare i due aspetti, apparentemente contrastanti,
della vita cristiana: preghiera e azione.
III.
IL
PASTORE
Non sarà inopportuno dedicare un
ricordo all'azione pastorale di questo vescovo che nessuno ricuserà
di annoverare tra i più grandi pastori della Chiesa. Anche quest'azione
ebbe origine dalla conversione, perché da essa nacque il proposito di
servire solo Dio. «Ormai te solo amo... a te solo voglio servire...».
Quando poi si accorse che questo servizio doveva estendersi all'azione
pastorale, non esita ad accettarla; con umiltà e con trepidazione e
con rammarico, ma, per obbedire a Dio e alla Chiesa, l'accettò.
I campi di tale azione furono tre,
che si andavano allargando come tre cerchi concentrici: la Chiesa
locale d'Ippona, non grande ma inquieta e bisognosa; la Chiesa
africana, miseramente divisa tra cattolici e donatisti; la Chiesa
universale combattuta dal paganesimo e dal manicheismo e attraversata
da movimenti ereticali.
Egli si sentì in tutto servo
della Chiesa - «servo dei servi di Cristo» - traendo da questo
presupposto tutte le conseguenze, anche le più ardue come quella di
esporre la propria vita per i fedeli. Chiedeva infatti al Signore la
forza di amarli in modo da essere pronto a morire per loro «o in
realtà o nella disposizione». Era convinto che chi, messo a capo del
popolo, non avesse questa disposizione, più che vescovo, era simile a
«un fantoccio di paglia che sta nella vigna». Non vuol essere salvo
senza i suoi fedeli ed è pronto ad ogni sacrificio pur di richiamare
gli erranti sulla via della verità. In un momento di estremo pericolo
a causa dell'invasione dei vandali, insegna ai sacerdoti a restare in
mezzo ai fedeli anche col rischio della propria vita. In altre parole
egli vuole che vescovi e sacerdoti servano i fedeli come Cristo li ha
serviti. «In che senso chi presiede è servo? Nel senso stesso in cui
fu servo il Signore». Fu il suo programma.
Nella sua diocesi, da cui non si
allontanò mai se non per necessità, fu assiduo alla predicazione -
predicava al sabato e alla domenica e spesso per l'intera settimana -,
nella catechesi, nella «audientia episcopi» talvolta per tutto il
giorno trascurando perfino il mangiare, nella cura dei poveri, nella
formazione del clero, nella guida dei monaci, molti dei quali furono
chiamati al sacerdozio e all'episcopato, e dei monasteri delle «sanctimoniales».
Morendo «lasciò alla Chiesa un clero molto numeroso, come pure
monasteri d'uomini e di donne pieni di persone votate alla continenza
sotto l'obbedienza dei loro superiori, insieme con le biblioteche...».
Per la Chiesa africana lavorò
parimenti senza posa: si prestò per la predicazione dovunque fosse
chiamato, fu presente ai frequenti concili regionali nonostante le
difficoltà del viaggio, s'impegnò con intelligenza, assiduità e
passione per comporre lo scisma donatista che divideva in due quella
Chiesa. Fu questa la sua grande fatica e, per il successo ottenuto, il
suo grande merito. Illustrò con innumerevoli opere la storia e la
dottrina del donatismo, propose quella cattolica sulla natura dei
sacramenti e della Chiesa, promosse una conferenza ecumenica tra
vescovi cattolici e donatisti, l'animò con la sua presenza, propose e
ottenne di rimuovere tutti gli ostacoli alla riunificazione, anche
quello dell'eventuale rinuncia dei vescovi donatisti all'episcopato,
divulgò le conclusioni di quella conferenza, avviò a pieno successo
il processo di pacificazione. Perseguitato a morte, una volta sfuggì
dalle mani dei «circoncellioni» donatisti perché la guida sbagliò
la strada.
Per la Chiesa universale compose
tante opere, scrisse tante lettere, sostenne tante controversie. I
manichei, i pelagiani, gli ariani, i pagani furono l'oggetto delle
cure pastorali in difesa della fede cattolica. Lavorò indefessamente
di giorno e di notte. Negli ultimi anni della vita dettava ancora
un'opera di notte e un'altra, quand'era libero, di giorno. Morendo a
76 anni, ne lasciò tre incompiute. Queste tre opere incompiute sono
la testimonianza più eloquente della sua insonne laboriosità e del
suo insuperabile amore verso la Chiesa.
IV.
AGOSTINO
AGLI UOMINI D'OGGI
A quest'uomo straordinario
vogliamo chiedere, prima di terminare, che cosa abbia da dire agli
uomini d'oggi. Penso che abbia da dire veramente molto, sia con
l'esempio che con l'insegnamento.
A chi cerca la verità insegna a
non disperare di trovarla. Lo insegna con l'esempio - egli la ritrovò
dopo molti anni di faticose ricerche - e con la sua attività
letteraria della quale fissa il programma nella prima lettera scritta
poco dopo la conversione. «A me sembra che si debbano ricondurre gli
uomini alla speranza di trovare la verità». Insegna pertanto a
cercarla «con umiltà, disinteresse, diligenza»; a superare lo
scetticismo attraverso il ritorno in se stessi, dove abita la verità;
il materialismo che impedisce alla mente di percepire la sua unione
indissolubile con le realtà intelligibili; il razionalismo, che
ricusando la collaborazione della fede si mette nella condizione di
non capire il «mistero» dell'uomo.
Ai teologi che meritatamente
faticano per approfondire il contenuto della fede, egli lascia
l'immenso patrimonio del suo pensiero, nel complesso sempre valido, e
particolarmente il metodo teologico cui restò incrollabilmente
fedele. Sappiamo che questo metodo comportava l'adesione piena
all'autorità della fede, che, una nella sua origine - l'autorità di
Cristo - si manifesta attraverso la Scrittura, la tradizione, la
Chiesa; l'ardente desiderio di capire la propria fede: «ama molto di
capire», dice agli altri e applica a se stesso; il senso profondo del
mistero: «è migliore la fedele ignoranza», esclama, «che la
temeraria scienza»; la convinta sicurezza che la dottrina cristiana
viene da Dio e ha pertanto una sua originalità che non solo dev'essere
conservata integralmente - è questa la «verginità» della fede di
cui si parlava -, ma deve servire anche come misura per giudicare
filosofie ad essa conformi o difformi.
E' noto quanto Agostino amasse la
Scrittura, di cui esalta l'origine divina, l'inerranza, la profondità
e la ricchezza inesauribile, e quanto la studiasse. Ma egli studia e
vuole che si studi tutta la Scrittura, che se ne metta in luce il vero
pensiero o, come dice, il «cuore», concordandola, dove occorra, con
se stessa. Ritiene questi due presupposti leggi fondamentali per
capirla. Per questo la legge nella Chiesa, e tenendo conto della
tradizione, della quale mette in rilievo con insistenza le proprietà
e la forza obbligante. E' celebre il suo effato: «Io non crederei nel
Vangelo se non mi c'inducesse l'autorità della Chiesa cattolica».
Nelle controversie che sorgono
sull'interpretazione della Scrittura raccomanda di discutere «con
santa umiltà, con pace cattolica, con carità cristiana» «finché
non sia emersa la verità, che Dio ha posto nella cattedra dell'unità».
Allora si potrà constatare che la controversia non è sorta
inutilmente, perché è diventata «occasione d'imparare»,
determinando un progresso nell'intelligenza della fede.
Per continuare ancora un poco
sugli insegnamenti agostiniani agli uomini d'oggi, egli ricorda ai
pensatori il duplice oggetto d'indagine che deve occupare la mente
umana: Dio e l'uomo. «Che cosa vuoi conoscere?» chiede egli a se
stesso. E risponde: «Dio e l'uomo». «Nulla di più? Proprio nulla».
Di fronte al triste spettacolo del male, ricorda loro altresì di
avere fiducia nel trionfo finale del bene, cioè di quella Città «dove
la vittoria è verità, la dignità è santità, la pace è felicità,
la vita è eternità».
Invita inoltre gli uomini della
scienza a riconoscere nelle cose create il vestigio di Dio e a
scoprire nell'armonia dell'universo le «ragioni seminali» che Dio vi
ha inserito. Agli uomini poi che hanno in mano le sorti dei popoli
raccomanda di amare soprattutto la pace e di promuoverla non con la
lotta ma con i metodi di pace, perché, scrive sapientemente, «è
titolo più grande di gloria uccidere la guerra con la parola che gli
uomini con la spada, e procurare o mantenere la pace con la pace, non
con la guerra».
Infine vorrei dedicare una parola
ai giovani che Agostino molto amò come professore prima della
conversione e come pastore dopo. Egli ricorda ad essi il suo grande
trinomio: verità, amore, libertà; tre beni supremi che stanno
insieme; e li invita ad amare la bellezza, egli che ne fu un grande
innamorato. Non solo la bellezza dei corpi che potrebbe far
dimenticare quella dello spirito, né solo quella dell'arte, ma la
bellezza interiore della virtù e soprattutto la bellezza eterna di
Dio, da cui la bellezza dei corpi, dell'arte e della virtù discende;
di Dio che è «la bellezza di ogni bellezza», «fondamento,
principio e ordinatore del bene e della bellezza di tutti gli esseri
che sono buoni e belli». Agostino, ricordando gli anni precedenti la
sua conversione, si rammarica amaramente di aver amato tardi questa «bellezza
tanto antica e tanto nuova», e vuole che i giovani non lo seguano in
questo, ma che, amandola sempre e soprattutto, conservino
perpetuamente in essa lo splendore interiore della loro giovinezza.
V.
CONCLUSIONE
Ho ricordato la conversione e ho
delineato un rapido panorama del pensiero di un uomo incomparabile di
cui un po' tutti nella Chiesa e in Occidente ci sentiamo discepoli e
figli. Esprimo di nuovo il vivo desiderio che la sua dottrina sia
studiata e largamente conosciuta e il suo zelo pastorale imitato,
affinché il magistero di tanto dottore e pastore continui nella
Chiesa e nel mondo a favore della cultura e della fede.
Il XVI centenario della
conversione di sant'Agostino offre una occasione assai propizia per
incrementare gli studi e diffondere la devozione verso di lui. Esorto
a tale impegno e fine in particolare gli ordini religiosi - maschili e
femminili - che portano il suo nome, vivono sotto il suo patrocinio o
che in qualsiasi modo ne seguono la regola e lo chiamano padre.
Vogliano essi profittare di questa occasione per rivivere o far
rivivere più intensamente i suoi ideali.
Alle varie iniziative e
celebrazioni, che sono state organizzate ovunque per questo motivo,
sarò presente con animo grato e beneaugurante; sopra ciascuna di esse
invoco di cuore la celeste protezione e l'efficace ausilio della
vergine Maria, che il vescovo d'Ippona ha esaltato come madre della
Chiesa, auspice la mia apostolica benedizione, che con questa lettera
mi è caro impartire.
Dato a Roma presso San Pietro,
il 28 agosto, nella festa di sant'Agostino, vescovo e dottore della
Chiesa, nell'anno 1986, ottavo del mio Pontificato.