LETTERA
APOSTOLICA
DILECTI
AMICI
DEL PAPA
GIOVANNI PAOLO II
PER L'ANNO INTERNAZIONALE DELLA GIOVENTU'
Cari amici!
Auguri per l'anno della
gioventù
1. «Pronti sempre a rispondere a
chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» (1Pt 3,15).
E' questo l'augurio che rivolgo a
voi, giovani, sin dall'inizio dell'anno corrente. Il 1985 è stato
proclamato dall'Organizzazione delle Nazioni Unite l'Anno
Internazionale della Gioventù, e ciò riveste un molteplice
significato prima di tutto per voi stessi, ed anche per tutte le
generazioni, per le singole persone, per le comunità e per l'intera
società. Ciò riveste un particolare significato anche per la Chiesa,
quale custode di fondamentali verità e valori ed insieme ministra
degli eterni destini che l'uomo e la grande famiglia umana hanno in
Dio stesso.
Se l'uomo è la fondamentale ed
insieme quotidiana via della Chiesa (Redemptor Hominis, 14), allora si
comprende bene perché la Chiesa attribuisca una speciale importanza
al periodo della giovinezza come ad una tappa-chiave della vita di
ogni uomo. Voi, giovani, incarnate appunto questa giovinezza: voi
siete la giovinezza delle nazioni e delle società, la giovinezza di
ogni famiglia e dell'intera umanità; voi siete anche la giovinezza
della Chiesa. Tutti guardiamo in direzione vostra, poiché noi tutti,
grazie a voi, in un certo senso ridiventiamo di continuo giovani.
Pertanto, la vostra giovinezza non è solo proprietà vostra, proprietà
personale o di una generazione: essa appartiene al complesso di quello
spazio, che ogni uomo percorre nell'itinerario della sua vita, ed è
al tempo stesso un bene speciale di tutti. E' un bene dell'umanità
stessa.
In voi c'è la speranza, perché
voi appartenete al futuro, come il futuro appartiene a voi. La
speranza, infatti, è sempre legata al futuro, è l'attesa dei «beni
futuri». Come virtù cristiana, essa è unita all'attesa di quei beni
eterni, che Dio ha promesso all'uomo in Gesù Cristo (cfr. Rm 8,19.21;
Ef 4,4; Fil 3,10s; Tm 3,7; Eb 7,19; 1Pt 1,13). E contemporaneamente
questa speranza, come virtù insieme cristiana e umana, è l'attesa
dei beni che l'uomo si costruirà utilizzando i talenti a lui dati
dalla Provvidenza.
In questo senso a voi, giovani,
appartiene il futuro, così come un tempo esso appartenne alla
generazione degli adulti e proprio insieme con essi è divenuto
attualità. Di questa attualità, della sua molteplice forma e profilo
sono responsabili prima di tutto gli adulti. A voi spetta la
responsabilità di ciò che un giorno diventerà attualità insieme
con voi, ed ora è ancora futuro.
Quando diciamo che a voi
appartiene il futuro, pensiamo in categorie di transitorietà umana,
la quale è sempre un passaggio verso il futuro. Quando diciamo che da
voi dipende il futuro, pensiamo in categorie etiche, secondo le
esigenze della responsabilità morale, che ci ordina di attribuire
all'uomo come persona - e alle comunità e società che sono composte
da persone - il valore fondamentale degli atti, dei propositi, delle
iniziative e delle intenzioni umane.
Questa dimensione è anche la
dimensione propria della speranza cristiana e umana. E in questa
dimensione il primo e principale augurio che la Chiesa fa a voi
giovani, per mia bocca, in quest'Anno dedicato alla Gioventù è:
siate «pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della
speranza che è in voi» (1Pt 3,15).
Cristo parla con i giovani
2. Queste parole, scritte un tempo
dall'apostolo Pietro alla prima generazione cristiana, sono in
rapporto con tutto il Vangelo di Gesù Cristo. Avvertiremo questo
rapporto in modo forse più distinto, quando mediteremo il colloquio
di Cristo col giovane, riferito dagli evangelisti (cfr. Mc 10,17-22;
Mt 19,16-22; Lc 18,18-23). Tra i molti testi biblici è questo prima
di tutto che merita di essere qui ricordato.
Alla domanda: «Maestro buono, che
cosa devo fare per avere la vita eterna?», Gesù risponde prima con
la domanda: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio
solo». Poi continua dicendo: «Tu conosci i comandamenti: Non
uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non dire falsa
testimonianza, non frodare, onora il padre e la madre» (Mc 10,17-19).
Con queste parole Gesù ricorda al suo interlocutore alcuni dei
comandamenti del Decalogo.
Ma la conversazione non finisce
qui. Il giovane, infatti, afferma: «Maestro, tutte queste cose le ho
osservate fin dalla mia giovinezza». Allora - scrive l'evangelista -
«Gesù, fissatolo, lo amò» e gli disse: «Una cosa sola ti manca:
va', vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in
cielo; poi vieni e seguimi» (Mc 10,20s).
A questo punto cambia il clima
dell'incontro. L'evangelista scrive che il giovane «rattristatosi per
quelle parole, se ne andò afflitto, poiché aveva molti beni» (Mc
10,22).
Ci sono ancora altri passi nei
Vangeli, in cui Gesù di Nazareth incontra i giovani - particolarmente
suggestive sono le due risurrezioni: quella della figlia di Giairo (cfr.
Lc 8,49-56) e quella del figlio della vedova di Naim (cfr. Lc 7,11-17)
-; tuttavia, possiamo ammettere senz'altro che il colloquio sopra
ricordato è l'incontro più completo e più ricco di contenuto. Si può
anche dire che esso ha carattere più universale e ultratemporale, e
cioè che vale, in un certo senso, costantemente e continuamente,
attraverso i secoli e le generazioni. Cristo parla così con un
giovane, con un ragazzo o una ragazza: conversa in diversi luoghi
della terra, in mezzo alle diverse nazioni, razze e culture. Ognuno di
voi in questo colloquio è un suo potenziale interlocutore.
Al tempo stesso, tutti gli
elementi della descrizione e tutte le parole, dette in quella
conversazione da ambedue le parti, hanno un significato quanto mai
essenziale, possiedono un loro peso specifico. Si può dire che queste
parole contengano una verità particolarmente profonda sull'uomo in
genere e, soprattutto, la verità sulla giovinezza umana. Esse sono
davvero importanti per i giovani.
Permettete, perciò, che in linea
di massima io colleghi la mia riflessione nella presente lettera con
questo incontro e con questo testo evangelico. Forse in tal modo sarà
più facile per voi sviluppare il proprio colloquio con Cristo: un
colloquio che è d'importanza fondamentale ed essenziale per un
giovane.
La giovinezza è una
ricchezza singolare
3. Inizieremo da ciò che si trova
alla fine del testo evangelico. Il giovane se ne va rattristato, «perché
aveva molti beni».
Senza dubbio questa frase si
riferisce ai beni materiali, dei quali quel giovane era proprietario o
erede. Forse è questa una situazione propria solo di alcuni, ma non
è tipica. E perciò le parole dell'evangelista suggeriscono un'altra
impostazione del problema: si tratta del fatto che la giovinezza di
per se stessa (indipendentemente da qualsiasi bene materiale) è una
singolare ricchezza dell'uomo, di una ragazza o di un ragazzo, e il più
delle volte viene vissuta dai giovani come una specifica ricchezza. Il
più delle volte, ma non sempre, non di regola, perché non mancano al
mondo uomini che per diversi motivi non sperimentano la giovinezza
come ricchezza. Occorrerà parlarne separatamente.
Ci sono tuttavia ragioni - e anche
di natura oggettiva - per pensare alla giovinezza come ad una
singolare ricchezza, che l'uomo sperimenta proprio in tale periodo
della sua vita. Questo si distingue certamente dal periodo
dell'infanzia (è appunto l'uscita dagli anni dell'infanzia), come si
distingue anche dal periodo della piena maturità. Il periodo della
giovinezza, infatti, è il tempo di una scoperta particolarmente
intensa dell'«io» umano e delle proprietà e capacità ad esso
unite. Davanti alla vista interiore della personalità in sviluppo di
un giovane o di una giovane, gradualmente e successivamente si scopre
quella specifica e, in un certo senso, unica e irripetibile
potenzialità di una concreta umanità, nella quale è come inscritto
l'intero progetto della vita futura. La vita si delinea come la
realizzazione di quel progetto: come «auto-realizzazione».
La questione merita naturalmente
una spiegazione da molti punti di vista; a volerla tuttavia esprimere
in breve, si rivela proprio un tale profilo e forma di quella
ricchezza che è la giovinezza. E' questa la ricchezza di scoprire ed
insieme di programmare, di scegliere, di prevedere e di assumere le
prime decisioni in proprio, che avranno importanza per il futuro nella
dimensione strettamente personale dell'esistenza umana. Nello stesso
tempo, tali decisioni hanno non poca importanza sociale. Il giovane
del Vangelo si trovava proprio in questa fase esistenziale, come
desumiamo dalle domande stesse che egli fa nel colloquio con Gesù.
Perciò, anche quelle parole conclusive sui «molti beni», cioè
sulla ricchezza, possono essere intese proprio in tale senso:
ricchezza che è la giovinezza stessa.
Dobbiamo però chiedere: questa
ricchezza, che è la giovinezza, deve forse allontanare l'uomo da
Cristo? L'evangelista certamente non dice questo; l'esame del testo
permette, piuttosto, di concludere diversamente. Sulla decisione di
allontanarsi da Cristo hanno pesato in definitiva solo le ricchezze
esteriori, ciò che quel giovane possedeva («i beni»). Non ciò che
egli era! Ciò che egli era, proprio in quanto giovane uomo - cioè la
ricchezza interiore che si nasconde nella giovinezza umana - l'aveva
condotto a Gesù. E gli aveva anche imposto di fare quelle domande, in
cui si tratta nella maniera più chiara del progetto di tutta la vita.
Che cosa devo fare? «Che cosa devo fare per avere la vita eterna?».
Che cosa devo fare, affinché la mia vita abbia pieno valore e pieno
senso?
La giovinezza di ciascuno di voi,
cari amici, è una ricchezza che si manifesta proprio in questi
interrogativi. L'uomo se li pone nell'arco di tutta la vita; tuttavia,
nella giovinezza essi si impongono in modo particolarmente intenso,
addirittura insistente.. Ed è bene che sia così. Questi
interrogativi provano appunto la dinamica dello sviluppo della
personalità umana, che è propria della vostra età. Queste domande
ve le ponete a volte in modo impaziente, e contemporaneamente voi
stessi capite che la risposta ad esse non può essere frettolosa né
superficiale. Essa deve avere un peso specifico e definitivo. Si
tratta qui di una risposta che riguarda tutta la vita, che racchiude
in sé l'insieme dell'esistenza umana.
In modo particolare queste domande
essenziali se le pongono quei vostri coetanei, la cui vita sin dalla
giovinezza è gravata dalla sofferenza: da qualche carenza fisica, da
qualche deficienza, da qualche handicap o limitazione, dalla difficile
situazione familiare o sociale. Se con tutto ciò la loro coscienza si
sviluppa normalmente, l'interrogativo sul senso e sul valore della
vita diventa per loro tanto più essenziale ed insieme particolarmente
drammatico, perché sin dall'inizio è contrassegnato dal dolore
dell'esistenza. E quanti di questi giovani si trovano in mezzo alla
grande moltitudine dei giovani nel mondo intero! Nelle diverse nazioni
e società; nelle singole famiglie! Quanti sin dalla giovinezza sono
costretti a vivere in un istituto o in un ospedale, condannati ad una
certa passività, che può far nascere in loro ii sentimento di essere
inutili all'umanità!
Si può dire allora che anche tale
loro giovinezza sia una ricchezza interiore? A chi dobbiamo chiedere
questo? A chi essi devono porre questo interrogativo essenziale?
Sembra che qui sia Cristo l'unico interlocutore competente, quello che
nessuno può sostituire pienamente.
Dio è amore
4. Cristo risponde al suo giovane
interlocutore nel Vangelo. Egli dice: «Nessuno è buono, se non Dio
solo». Abbiamo già sentito che cosa l'altro aveva domandato: «Maestro
buono, che cosa devo fare per avere la vita eterna?». Come agire,
affinché la mia vita abbia senso, pieno senso e valore? Noi potremmo
tradurre così la sua domanda nel linguaggio della nostra epoca. In
questo contesto la risposta di Cristo vuol dire: solo Dio è il
fondamento ultimo di tutti i valori; solo lui dà il senso definitivo
alla nostra esistenza umana. Solo Dio è buono, il che significa: in
lui e solo in lui tutti i valori hanno la loro prima fonte e il loro
compimento finale: egli è «l'Alfa e l'Omega, il principio e la fine»
(Ap 21,6). Solo in lui essi trovano la loro autenticità e la loro
conferma definitiva. Senza di lui - senza il riferimento a Dio -
l'intero mondo dei valori creati resta come sospeso in un vuoto
assoluto. Esso perde anche la sua trasparenza, la sua espressività.
Il male si presenta come bene e il bene viene squalificato. Non ci
indica questo l'esperienza stessa dei nostri tempi, dovunque Dio sia
stato rimosso oltre l'orizzonte delle valutazioni, degli
apprezzamenti, degli atti?
Perché solo Dio è buono? Perché
egli è amore. Cristo dà questa risposta con le parole del Vangelo e,
soprattutto, con la testimonianza della propria vita e morte: «Dio,
infatti, ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito» (Gv
3,16). Dio è buono proprio perché «è amore» (1Gv 4,8.16).
L'interrogativo sul valore,
l'interrogativo sul senso della vita - abbiamo detto - fa parte della
ricchezza singolare della giovinezza. Esso erompe dal cuore stesso
delle ricchezze e delle inquietudini, legate a quel progetto di vita
che si deve assumere e realizzare. Ancor più, quando la giovinezza è
provata dalla sofferenza personale o è profondamente cosciente della
sofferenza altrui; quando sperimenta una forte scossa di fronte al
male multiforme, che è nel mondo; infine, quando si pone a faccia a
faccia col mistero del peccato, dell'iniquità umana «mysterium
iniquitatis» (cfr. 2Ts 2,7). La risposta di Cristo suona così: «Solo
Dio è buono»; solo Dio è amore. Questa risposta può sembrare
difficile, ma nello stesso tempo essa è ferma ed è vera: essa porta
in sé la soluzione definitiva. Quanto prego affinché voi, giovani
amici, udiate questa risposta di Cristo in modo veramente personale,
affinché troviate la strada interiore per comprenderla, per
accettarla e per intraprenderne la realizzazione!
Tale è Cristo nella conversazione
col giovane. Tale è nel colloquio con ciascuno e con ciascuna di voi.
Quando voi gli dite: «Maestro buono ...», egli domanda: «Perché mi
chiami buono? Nessuno è buono se non Dio solo». E dunque: il fatto
che io sono buono dà testimonianza a Dio. «Chi ha visto me, ha visto
il Padre» (Gv 14,9). Così dice Cristo, maestro e amico, Cristo
crocifisso e risorto: sempre lo stesso ieri, oggi e nei secoli (cfr.
Eb 13,8).
Tale è il nucleo, il punto
essenziale della risposta a questi interrogativi che voi, giovani,
ponete a lui mediante la ricchezza che è in voi, che è radicata
nella vostra giovinezza. Questa schiude davanti a voi diverse
prospettive, vi offre come compito il progetto di tutta la vita. Di
qui l'interrogativo sui valori; di qui la domanda sul senso, sulla
verità, sul bene e sul male. Quando Cristo rispondendovi vi comanda
di riferire tutto questo a Dio, nello stesso tempo vi indica quale di
ciò sia la fonte e il fondamento in voi stessi. Ognuno di voi,
infatti, è immagine e somiglianza di Dio per il fatto stesso della
creazione (cfr. Gen 1,26). Proprio una tale immagine e somiglianza fa
sì che voi poniate quegli interrogativi che dovete porvi. Essi
dimostrano fino a che punto l'uomo senza Dio non può comprendere se
stesso, e non può neanche realizzarsi senza Dio. Gesù Cristo è
venuto nel mondo prima di tutto per rendere ognuno di noi consapevole
di questo. Senza di lui questa dimensione fondamentale della verità
sull'uomo sprofonderebbe facilmente nel buio. Tuttavia, «la luce è
venuta nel mondo» (Gv 3,19; cfr. 1,9) «ma le tenebre non l'hanno
accolta» (Gv 1,5).
La domanda sulla vita eterna
...
5. Che cosa devo fare perché la
mia vita abbia valore, abbia senso? Questo interrogativo appassionante
nella bocca del giovane del Vangelo suona così: «Che cosa devo fare
per avere la vita eterna?». Un uomo, che ponga la domanda in questa
forma, parla in un linguaggio ancora comprensibile agli uomini d'oggi?
Non siamo noi la generazione, alla quale il mondo e il progresso
temporale riempiono completamente l'orizzonte dell'esistenza? Noi
pensiamo prima di tutto in categorie terrene. Se oltrepassiamo i
confini del nostro pianeta, ciò facciamo allo scopo di inaugurare i
voli interplanetari, per trasmettere segnali agli altri pianeti ed
inviare le sonde cosmiche nella loro direzione.
Tutto questo è diventato il
contenuto della nostra civiltà moderna. La scienza insieme alla
tecnica ha scoperto in modo impareggiabile le possibilità dell'uomo
nei riguardi della materia, ed è riuscita, altresì, a dominare il
mondo interiore del suo pensiero, delle sue capacità, delle sue
tendenze, delle sue passioni.
Allo stesso tempo, però, è
chiaro che, quando ci poniamo di fronte a Cristo, quando egli diventa
il confidente degli interrogativi della nostra giovinezza, non
possiamo porre la domanda diversamente da quel giovane del Vangelo: «Che
cosa devo fare per avere la vita eterna?». Ogni altra domanda sul
senso e sul valore della nostra vita sarebbe, di fronte a Cristo,
insufficiente e non essenziale.
Cristo, infatti, non solo è il «maestro
buono», che indica le vie della vita sulla terra. Egli è il
testimone di quei definitivi destini che l'uomo ha in Dio stesso. Egli
è il testimone dell'immortalità dell'uomo. Il Vangelo, che egli
annunciava con la sua voce, viene definitivamente sigillato con la
Croce e con la Risurrezione nel mistero pasquale. «Cristo risuscitato
dai morti non muore più; la morte non ha più potere su di lui» (Rm
6,9). Nella sua risurrezione Cristo è divenuto anche il permanente «segno
di contraddizione» (Lc 2,34) di fronte a tutti i programmi incapaci
di condurre l'uomo oltre la frontiera della morte. Anzi essi con
questo confine chiudono ogni interrogativo dell'uomo sul valore e sul
senso della vita. Di fronte a tutti questi programmi, ai modi di
vedere il mondo e alle ideologie Cristo ripete costantemente: «lo
sono la risurrezione e la vita» (Gv 11,25).
Se tu dunque, caro fratello e cara
sorella, desideri parlare con Cristo aderendo a tutta la verità della
sua testimonianza, devi da un lato «amare il mondo» - poiché «Dio
ha tanto amato il mondo, da dare il suo Figlio unigenito» (Gv 3,16) -
e, nello stesso tempo, devi acquistare il distacco interiore nei
riguardi di tutta questa ricca e appassionante realtà, qual è «il
mondo». Devi deciderti a fare la domanda sulla vita eterna. Infatti,
«passa la scena di questo mondo» (1Cor 7,13), e ciascuno di noi è
soggetto a tale passaggio. L'uomo nasce con la prospettiva del giorno
della sua morte, nella dimensione del mondo visibile; al tempo stesso,
l'uomo, per cui l'interiore ragion d'essere è di superare se stesso,
porta in sé anche tutto ciò con cui supera il mondo.
Tutto quello con cui l'uomo supera
in se stesso il mondo - pur essendo in esso radicato - si spiega con
l'immagine e la somiglianza di Dio, che è inscritta nell'essere umano
sin dall'inizio. E tutto ciò con cui l'uomo supera il mondo non solo
giustifica l'interrogativo sulla vita eterna, ma lo rende addirittura
indispensabile. Questa è la domanda che gli uomini si pongono da
tempo non solo nell'ambito del cristianesimo, ma anche al di fuori di
esso. Voi dovete trovare il coraggio anche di porla come il giovane
del Vangelo. Il cristianesimo ci insegna a comprendere la temporalità
dalla prospettiva del Regno di Dio, dalla prospettiva della vita
eterna. Senza di essa la temporalità, anche la più ricca, anche la
più formata in tutti gli aspetti, alla fine non porta all'uomo
null'altro che l'ineluttabile necessità della morte.
Ora, esiste un'antinomia tra la
giovinezza e la morte. La morte sembra essere lontana dalla
giovinezza. E' così. Poiché, tuttavia, la giovinezza significa il
progetto di tutta la vita, progetto costruito secondo il criterio del
senso e del valore, anche durante la giovinezza è indispensabile la
domanda sulla fine. L'esperienza umana, lasciata a se stessa, dice la
stessa cosa della Sacra Scrittura: «E' stabilito che gli uomini
muoiano una sola volta» (Eb 9,27). Lo scrittore ispirato aggiunge: «Dopo
di che viene il giudizio». E Cristo dice: «Io sono la risurrezione e
la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e
crede in me, non morrà in eterno» (Gv 11,25s). Domandate dunque a
Cristo, come il giovane del Vangelo: «Che cosa devo fare per avere la
vita eterna?».
... sulla morale e sulla
coscienza
6. A questo interrogativo Gesù
risponde: «Tu conosci i comandamenti», e subito elenca questi
comandamenti, che fan parte del Decalogo. Li ricevette un giorno Mosè
sul monte Sinai, al momento dell'Alleanza di Dio con Israele. Essi
furono scritti su tavole di pietra (cfr. Es 34,1; Dt 9,10; 2Cor 3,3) e
costituivano per ogni israelita l'indicazione quotidiana della strada
(cfr. Dt 4,5-9). Il giovane che parla con Cristo conosce naturalmente
a memoria, i comandamenti del Decalogo; può, anzi, dichiarare con
gioia: «Tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza»
(Mc 10, 20).
Dobbiamo presupporre che in quel
dialogo che Cristo sviluppa con ciascuno di voi, o giovani, si ripeta
la stessa domanda: «Conosci i comandamenti?». Essa si ripeterà
infallibilmente, perché i comandamenti fanno parte dell'Alleanza tra
Dio e l'umanità. I comandamenti determinano le basi essenziali del
comportamento, decidono del valore morale degli atti umani, rimangono
in rapporto organico con la vocazione dell'uomo alla vita eterna, con
l'instaurazione del Regno di Dio negli uomini e tra gli uomini. Nella
parola della Rivelazione divina è inscritto il chiaro codice della
moralità, di cui rimangono punto-chiave le tavole del Decalogo del
monte Sinai, ed il cui apice si trova nel Vangelo: nel Discorso della
montagna (cfr. Mt 5-7) e nel comandamento dell'amore (Cfr. Mt
22,37-40; Mc 12,29-31; Lc 10,27).
Questo codice della moralità
trova, al tempo stesso, un'altra redazione. Esso è inscritto nella
coscienza morale dell'umanità, sicché coloro che non conoscono i
comandamenti, cioè la legge rivelata da Dio, «sono legge a se stessi»
(cfr. Rm 2,14). Così scrive san Paolo nella Lettera ai Romani, e
subito aggiunge: «Essi dimostrano che quanto la legge esige è
scritto nei loro cuori, come risulta dalla testimonianza della loro
coscienza» (Rm 2,15).
Tocchiamo qui problemi di somma
importanza per la vostra giovinezza e per quel progetto di vita, che
da essa emerge.
Questo progetto aderisce alla
prospettiva della vita eterna prima di tutto attraverso la verità
delle opere, sulle quali verrà costruito. La verità delle opere ha
il suo fondamento in quella duplice redazione della legge morale:
quella che si trova scritta nelle tavole del Decalogo di Mosè e nel
Vangelo, e quella che si trova scolpita nella coscienza morale
dell'uomo. E la coscienza «si presenta come testimone» di quella
legge, come scrive san Paolo. Questa coscienza - secondo le parole
della Lettera ai Romani - sono «i ragionamenti, che ora li accusano
ora li difendono» (Rm 2,15). Ognuno sa quanto queste parole
corrispondano alla nostra realtà interiore: ciascuno di noi sin dalla
giovinezza sperimenta la voce della coscienza.
Quando dunque Gesù, nel colloquio
col giovane, elenca i comandamenti: «Non uccidere, non commettere
adulterio, non rubare, non dire falsa testimonianza, non frodare,
onora il padre e la madre» (Mc 10,19), la retta coscienza risponde
con una reazione interiore alle rispettive opere dell'uomo: essa
accusa o difende. Bisogna, però, che la coscienza non sia deviata;
bisogna che la fondamentale formulazione dei principi della morale non
ceda alla deformazione ad opera di un qualsiasi relativismo o
utilitarismo.
Cari giovani amici! La risposta,
che Gesù dà al suo interlocutore del Vangelo, è rivolta a ciascuno
e a ciascuna di voi. Cristo vi interroga circa lo stato della vostra
consapevolezza morale, e vi interroga, al tempo stesso, circa lo stato
delle vostre coscienze. Questa è una domanda-chiave per l'uomo: è
l'interrogativo fondamentale della vostra giovinezza, valevole per
tutto il progetto di vita, che appunto deve formarsi nella giovinezza.
Il suo valore è quello più strettamente unito al rapporto che ognuno
di voi ha nei confronti del bene e del male morale. Il valore di
questo progetto dipende in modo essenziale dall'autenticità e dalla
rettitudine della vostra coscienza. Dipende anche dalla sua sensibilità.
In tal modo ci troviamo qui in un
momento cruciale, in cui ad ogni passo temporalità ed eternità si
incontrano ad un livello che è proprio dell'uomo. E' il livello della
coscienza, il livello dei valori morali: questa è la più importante
dimensione della temporalità e della storia. La storia, infatti,
viene scritta non solo dagli avvenimenti, che si svolgono in un certo
qual senso «dall'esterno», ma è scritta prima di tutto «dal di
dentro»: è la storia delle coscienze umane, delle vittorie o delle
sconfitte morali. Qui trova anche il suo fondamento l'essenziale
grandezza dell'uomo: la sua dignità autenticamente umana. Questo è
quel tesoro interiore, per il quale l'uomo supera di continuo se
stesso nella direzione dell'eternità. Se è vero che «è stabilito
che gli uomini muoiano una sola volta», è anche vero che il tesoro
della coscienza, il deposito del bene e del male, l'uomo lo porta
attraverso la frontiera della morte, affinché, al cospetto di colui
che è la santità stessa, trovi l'ultima e definitiva verità su
tutta la sua vita: «Dopo di che viene il giudizio» (Eb 9,27).
Così appunto avviene nella
coscienza: nella verità interiore dei nostri atti, in un certo senso,
è costantemente presente la dimensione della vita eterna. E
contemporaneamente la stessa coscienza, mediante i valori morali,
imprime il più espressivo sigillo nella vita delle generazioni, nella
storia e nella cultura degli ambienti umani, delle società, delle
nazioni e dell'intera umanità.
Quanto in questo campo dipende da
ciascuna e da ciascuno di voi!
«Gesù, fissatolo, lo amò»
7. Continuando nell'esame del
colloquio di Cristo col giovane, entriamo ora in un'altra fase. Essa
è nuova e decisiva. Il giovane ha ricevuto la risposta essenziale e
fondamentale alla domanda: «Che cosa devo fare per avere la vita
eterna?», e questa risposta coincide con tutta la strada della sua
vita, finora percorsa: «Tutte queste cose le ho osservate fin dalla
mia giovinezza». Quanto ardentemente auguro a ciascuno di voi che la
strada della vostra vita, finora percorsa, coincida similmente con la
risposta di Cristo! Auguro, anzi, che la giovinezza vi fornisca una
robusta base di sani principi, che la vostra coscienza raggiunga già
in questi anni della giovinezza quella trasparenza matura che nella
vita permetterà a ciascuno di voi di rimanere sempre «persona di
coscienza», «persona di principi», «persona che ispira fiducia»,
cioè che è credibile. La personalità morale, così formata,
costituisce insieme il più importante contributo che voi potete
portare nella vita comunitaria, nella famiglia, nella società,
nell'attività professionale e anche nell'attività culturale o
politica e, finalmente, nella comunità stessa della Chiesa, con la
quale già siete o sarete un giorno legati.
Si tratta qui insieme di una piena
e profonda autenticità dell'umanità e di un'eguale autenticità
dello sviluppo della personalità umana, femminile o maschile, con
tutte le caratteristiche che costituiscono il tratto irripetibile di
questa personalità e, al tempo stesso, provocano una molteplice
risonanza nella vita della comunità e degli ambienti, iniziando già
dalla famiglia. Ognuno di voi deve in qualche modo contribuire alla
ricchezza di queste comunità, prima di tutto, per mezzo di ciò che
è. Non si chiude in questa direzione quella giovinezza, che è la
ricchezza «personale» di ciascuno di voi? L'uomo legge se stesso, la
propria umanità sia come il proprio mondo interiore, sia come il
terreno specifico dell'essere «con gli altri», «per gli altri».
Proprio qui assumono un
significato decisivo i comandamenti del Decalogo e del Vangelo,
specialmente il comandamento della carità, che apre l'uomo verso Dio
e verso il prossimo. La carità, infatti, è «il vincolo della
perfezione» (Col 3,14). Per mezzo di essa maturano più pienamente
l'uomo e la fratellanza inter-umana. Perciò, la carità è più
grande (cfr. 1Cor 13,13), è il primo tra tutti i comandamenti, come
insegna il Cristo (cfr. Mt 22,38); in esso anche tutti gli altri si
racchiudono e si unificano.
Vi auguro, dunque, che le strade
della vostra giovinezza si incontrino col Cristo, affinché possiate
confermare davanti a lui, con la testimonianza della coscienza, questo
codice evangelico della morale, ai cui valori, nel corso delle
generazioni, si sono avvicinati in qualche modo tanti uomini grandi di
spirito.
Non è qui il luogo di citare le
conferme che percorrono l'intera storia dell'umanità. Certo è che
fin dai tempi più antichi il dettame della coscienza indirizza ogni
soggetto umano verso una norma morale oggettiva, che trova espressione
concreta nel rispetto della persona dell'altro e nel principio di non
fare a lui quello che non si vuole sia fatto a sé.
In questo vediamo già emergere
chiaramente quella morale oggettiva, della quale san Paolo afferma che
è «scritta nei cuori» e riceve la «testimonianza della coscienza»
(cfr. Rm 2,15). Il cristiano vi scorge facilmente un raggio del Verbo
creatore che illumina ogni uomo (cfr. Gv 1,9; Nostra Aetate, 2), e
proprio perché di questo Verbo, fatto carne, è seguace, si eleva
alla legge superiore del Vangelo che positivamente gli impone - col
comandamento della carità - di fare al prossimo tutto quel bene che
vuole sia fatto a sé. Egli sigilla così l'intima voce della sua
coscienza con l'adesione assoluta a Cristo ed alla sua parola.
Vi auguro anche di sperimentare,
dopo il discernimento dei problemi essenziali ed importanti per la
vostra giovinezza, per il progetto di tutta la vita che è davanti a
voi, ciò di cui parla il Vangelo: «Gesù, fissatolo, lo amò». Vi
auguro di sperimentare una sguardo così! Vi auguro di sperimentare la
verità che egli, il Cristo, vi guarda con amore!
Egli guarda con amore ogni uomo.
Il Vangelo lo conferma ad ogni passo. Si può anche dire che in questo
«sguardo amorevole» di Cristo sia contenuto quasi il riassunto e la
sintesi di tutta la Buona Novella. Se cerchiamo l'inizio di questo
sguardo, occorre che torniamo indietro al Libro della Genesi, a quell'istante
in cui, dopo la creazione dell'uomo «maschio e femmina», Dio vide
che «era cosa molto buona» (Gen 1,31). Questo primissimo sguardo del
Creatore si rispecchia nello sguardo di Cristo, che accompagna la
conversazione col giovane del Vangelo.
Sappiamo che Cristo confermerà e
sigillerà questo sguardo col sacrificio redentivo della Croce, poiché
proprio per mezzo di questo sacrificio quello «sguardo» raggiunse
una particolare profondità di amore. In esso è contenuta una tale
affermazione dell'uomo e dell'umanità, della quale solo egli è
capace, solo Cristo Redentore e Sposo. Egli solo «sa quello che c'è
in ogni uomo» (cfr. Gv 2,25): conosce la sua debolezza, ma conosce
anche e soprattutto la sua dignità.
Auguro a ciascuno e a ciascuna di
voi di scoprire questo sguardo di Cristo e di sperimentarlo fino in
fondo. Non so in quale momento della vita. Penso che ciò avverrà
quando ce ne sarà più bisogno: forse nella sofferenza, forse insieme
con la testimonianza di una coscienza pura, come nel caso di quel
giovane del Vangelo, o forse proprio in una situazione opposta:
insieme col senso di colpa, col rimorso di coscienza. Cristo, infatti,
guardò anche Pietro nell'ora della sua caduta, quando egli ebbe
rinnegato tre volte il suo Maestro (cfr. Lc 22,61).
E' necessario all'uomo questo
sguardo amorevole: è a lui necessaria la consapevolezza di essere
amato, di essere amato eternamente e scelto dall'eternità (cfr. Ef
1,4). Al tempo stesso, questo eterno amore di elezione divina
accompagna l'uomo durante la vita come lo sguardo d'amore di Cristo. E
forse massimamente nel momento della prova, dell'umiliazione, della
persecuzione, della sconfitta, allorché la nostra umanità viene
quasi cancellata agli occhi degli uomini, oltraggiata e calpestata:
allora la consapevolezza che il Padre ci ha da sempre amati nel suo
Figlio, che il Cristo ama ognuno e sempre, diventa un fermo punto di
sostegno per tutta la nostra esistenza umana. Quando tutto si
pronuncia in favore del dubbio su se stessi e sul senso della propria
vita, allora questo sguardo di Cristo, cioè la consapevolezza
dell'amore che in lui si è dimostrato più potente di ogni male e di
ogni distruzione, questa consapevolezza ci permette di sopravvivere.
Vi auguro, dunque, di sperimentare
ciò che sperimentò il giovane del Vangelo: «Gesù, fissatolo, lo amò».
«Seguimi»
8. Dall'esame del testo evangelico
risulta che questo sguardo fu per così dire, la risposta di Cristo
alla testimonianza che il giovane aveva dato della sua vita fino a
quel momento ossia di aver agito secondo i comandamenti di Dio: «Tutte
queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza».
Al tempo stesso, questo «sguardo
d'amore» fu l'introduzione alla fase conclusiva della conversazione.
Volendo seguire la redazione di Matteo, fu quel giovane stesso ad
aprire questa fase, dato che non solo affermò la propria fedeltà nei
confronti dei comandamenti del Decalogo, che caratterizzava tutta la
sua precedente condotta, ma contemporaneamente pose una nuova domanda.
Difatti chiese: «Che cosa mi manca ancora?» (Mt 19,20).
Questa domanda è molto
importante. Indica che nella coscienza morale dell'uomo, e proprio
dell'uomo giovane, che forma il progetto di tutta la sua vita, è
nascosta l'aspirazione a un «qualcosa di più». Questa aspirazione
si fa sentire in diversi modi, e noi possiamo notarla anche tra gli
uomini che sembrano esser lontani dalla nostra religione.
Tra i seguaci delle religioni non
cristiane, soprattutto del Buddhismo, dell'Induismo e dell'Islamismo,
troviamo già da millenni schiere di uomini «spirituali», i quali
spesso fin dalla giovinezza lasciano tutto per mettersi in stato di
povertà e di purezza alla ricerca dell'Assoluto che sta oltre
l'apparenza delle cose sensibili, si sforzano di acquistare lo stato
di liberazione perfetta, si rifugiano in Dio con amore e confidenza,
cercano di sottomettersi con tutta l'anima ai decreti nascosti di lui.
Essi sono come spinti da una misteriosa voce interiore che risuona nel
loro spirito, quasi echeggiando la parola di san Paolo: «Passa la
scena di questo mondo» (1Cor 7,31) e li guida alla ricerca di cose più
grandi e durature: «Cercate le cose di lassù» (Col 3,1). Essi
tendono con tutte le forze verso la meta lavorando con serio tirocinio
alla purificazione del loro spirito, giungendo talvolta a fare della
propria vita una donazione d'amore alla divinità. Così facendo, si
levano come un esempio vivente per i loro contemporanei, ai quali
additano con la loro stessa condotta il primato dei valori eterni su
quelli fuggevoli e talora ambigui offerti dalla società, in cui
vivono.
Ma è nel Vangelo che
l'aspirazione alla perfezione, a un «qualcosa di più» trova il suo
esplicito punto di riferimento. Cristo nel Discorso della montagna
conferma tutta la legge morale, al cui centro si trovano le tavole
mosaiche dei dieci comandamenti; nello stesso tempo, però, egli
conferisce a questi comandamenti un significato nuovo, evangelico. E
tutto viene concentrato - come è già stato detto - intorno alla
carità, non solo come comandamento, ma anche come dono: «L'amore di
Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo,
che ci è stato dato» (Rm 5,5).
In questo nuovo contesto diventa
anche comprensibile il programma delle otto Beatitudini, con cui si
apre il Discorso della montagna nel Vangelo secondo Matteo (cfr. Mt
5,3-12).
In questo stesso contesto
l'insieme dei comandamenti, che costituiscono il codice fondamentale
della morale cristiana, viene completato dall'insieme dei consigli
evangelici, nei quali in modo speciale si esprime e si concretizza la
chiamata di Cristo alla perfezione, che è chiamata alla santità.
Quando il giovane chiede intorno
al «di più»: «Che cosa mi manca ancora?», Gesù lo fissa con
amore, e questo amore trova qui un nuovo significato. L'uomo viene
portato interiormente, per mano dello Spirito Santo, da una vita
secondo i comandamenti ad una vita nella consapevolezza del dono, e lo
sguardo pieno di amore di Cristo esprime questo «passaggio»
interiore. E Gesù dice: «Se vuoi essere perfetto, va', vendi quello
che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e
seguimi» (Mt 19,21).
Sì, miei amati giovani amici!
L'uomo, il cristiano è capace di vivere nella dimensione del dono.
Anzi, questa dimensione non solo è «superiore» alla dimensione dei
soli obblighi morali noti dai comandamenti, ma è anche «più
profonda» di essa e più fondamentale. Essi testimonia una più piena
espressione di quel progetto di vita, che costruiamo già nella
giovinezza. La dimensione del dono crea anche il profilo maturo di
ogni vocazione umana e cristiana, come verrà detto in seguito.
In questo momento desidero,
tuttavia, parlarvi del particolare significato delle parole, che
Cristo disse a quel giovane. E ciò faccio nella convinzione che
Cristo le rivolga nella Chiesa ad alcuni suoi giovani interlocutori di
ogni generazione. Anche della nostra. Quelle sue parole significano
allora una particolare vocazione nella comunità del Popolo di Dio. La
Chiesa trova il «seguimi» di Cristo (cfr. Mc 10,21; Gv 1,43; 21,23)
all'inizio di ogni chiamata al servizio nel sacerdozio ministeriale,
il che simultaneamente nella Chiesa cattolica latina è unito alla
consapevole e libera scelta del celibato. La Chiesa trova lo stesso «seguimi»
di Cristo all'inizio della vocazione religiosa, nella quale mediante
la professione dei consigli evangelici (castità, povertà e
obbedienza) un uomo o una donna riconoscono come proprio il programma
di vita che Cristo stesso realizzò sulla terra, per il Regno di Dio (cfr.
Mt 19,12). Emettendo i voti religiosi, tali persone si impegnano a
dare una particolare testimonianza dell'amore di Dio sopra ogni cosa
ed insieme di quella chiamata all'unione con Dio nell'eternità, che
è rivolta a tutti. C'è, tuttavia, bisogno che alcuni ne diano una
testimonianza eccezionale davanti agli altri.
Mi limito solo a menzionare questi
argomenti nella presente Lettera, perché essi sono stati già
presentati ampiamente altrove ed anche più volte (Redemptionis Donum).
Io li ricordo, perché nel contesto del colloquio di Cristo col
giovane essi acquistano una particolare chiarezza, specialmente
l'argomento della povertà evangelica. Li ricordo anche perché la
chiamata «seguimi» di Cristo, proprio in questo senso eccezionale e
carismatico, si fa sentire il più delle volte già nel periodo della
giovinezza; a volte si avverte addirittura nel periodo dell'infanzia.
E' per questo che desidero dire a
tutti voi, giovani, in questa importante fase dello sviluppo della
vostra personalità femminile o maschile: se una tale chiamata giunge
al tuo cuore, non farla tacere! Lascia che si sviluppi fino alla
maturità di una vocazione! Collabora con essa mediante la preghiera e
la fedeltà ai comandamenti! «La messe, infatti, è molta» (Mt
9,37). C'è un enorme bisogno di molti che siano raggiunti dalla
chiamata di Cristo: «Seguimi». C'è un enorme bisogno di sacerdoti
secondo il cuore di Dio, e la Chiesa e il mondo d'oggi hanno un enorme
bisogno di una testimonianza di vita donata senza riserva a Dio: della
testimonianza di un tale amore sponsale di Cristo stesso, che in modo
particolare renda presente tra gli uomini il Regno di Dio e lo
avvicini al mondo.
Permettetemi, dunque, di
completare ancora le parole di Cristo Signore sulla messe che è
molta. Sì, è molta questa messe del Vangelo, questa messe della
salvezza!... «Ma gli operai sono pochi!». Forse oggi ciò si risente
più che in passato, specialmente in alcuni paesi, come anche in
alcuni istituti di vita consacrata e simili.
«Pregate dunque il padrone della
messe che mandi operai nella sua messe» (Mt 9,37), continua Cristo. E
queste parole, specialmente ai nostri tempi, diventano un programma di
preghiera e di azione in favore delle vocazioni sacerdotali e
religiose. Con questo programma la Chiesa si rivolge a voi, ai
giovani. Anche voi: chiedete! E se il frutto di questa preghiera della
Chiesa nascerà nel profondo del vostro cuore, ascoltate il Maestro
che dice: «Seguimi».
Il progetto di vita e la
vocazione cristiana
9. Queste parole nel Vangelo
certamente riguardano la vocazione sacerdotale o religiosa; al tempo
stesso, però, esse ci permettono di comprendere più profondamente la
questione della vocazione in un senso ancor più ampio e fondamentale.
Si potrebbe parlare qui della
vocazione «di vita», la quale in qualche modo si identifica con quel
progetto di vita, che ognuno di voi elabora nel periodo della sua
giovinezza. Tuttavia, «la vocazione» dice ancora qualcosa di più
del «progetto». In questo secondo caso sono io stesso il soggetto
che elabora, e ciò corrisponde meglio alla realtà della persona,
qual è ognuna e ognuno di voi. Questo «progetto» è la «vocazione»,
in quanto in essa si fanno sentire i vari fattori che chiamano. Questi
fattori compongono di solito un determinato ordine di valori (detto
anche «gerarchia di valori»), dai quali emerge un ideale da
realizzare, che è attraente per un cuore giovane. In questo processo
la «vocazione» diventa «progetto», e il progetto comincia a essere
anche vocazione.
Dato però che ci troviamo davanti
a Cristo e basiamo le nostre riflessioni intorno alla giovinezza sul
suo colloquio col giovane, occorre precisare ancor meglio quel
rapporto del «progetto di vita» nei riguardi della «vocazione di
vita». L'uomo è una creatura ed è insieme un figlio adottivo di Dio
in Cristo: è figlio di Dio. Allora, l'interrogativo: «Che cosa devo
fare?» l'uomo lo pone durante la sua giovinezza non solo a sé e agli
altri uomini, dai quali può attendere una risposta, specialmente ai
genitori e agli educatori, ma lo pone anche a Dio, come suo creatore e
padre. Egli lo pone nell'ambito di quel particolare spazio interiore,
nel quale ha imparato ad essere in stretta relazione con Dio, prima di
tutto nella preghiera. Egli chiede dunque a Dio: «Che cosa devo fare?»,
qual è il tuo piano riguardo alla mia vita? Il tuo piano creativo e
paterno? Qual'è la tua volontà? lo desidero compierla.
In un tale contesto il «progetto»
acquista il significato di «vocazione di vita», come qualcosa che
viene all'uomo affidato da Dio come compito. Una persona giovane,
rientrando dentro di sé ed insieme intraprendendo il colloquio con
Cristo nella preghiera, desidera quasi leggere quel pensiero eterno,
che Dio, creatore e padre, ha nei suoi riguardi. Si convince allora
che il compito, a lei assegnato da Dio, è lasciato completamente alla
sua libertà e, al tempo stesso, è determinato da diverse circostanze
di natura interna ed esterna. Esaminandole la persona giovane, ragazzo
o ragazza, costruisce il suo progetto di vita ed insieme riconosce
questo progetto come la vocazione alla quale Dio la chiama.
Desidero, dunque, affidare a voi
tutti, giovani destinatari della presente Lettera, questo lavoro
meraviglioso, che si collega alla scoperta, davanti a Dio, della
rispettiva vocazione di vita. E' questo un lavoro appassionante. E' un
affascinante impegno interiore. In questo impegno si sviluppa e cresce
la vostra umanità, mentre la vostra giovane personalità va
acquistando la maturità interiore. Vi radicate in ciò che ognuno e
ognuna di voi è, per diventare ciò che deve diventare: per sé - per
gli uomini - per Dio.
Di pari passo col processo di
scoprire la propria «vocazione di vita» dovrebbe svilupparsi il
rendersi conto in qual modo questa vocazione di vita sia, al tempo
stesso, una «vocazione cristiana».
Occorre qui osservare che, nel
periodo anteriore al Concilio Vaticano II, il concetto di «vocazione»
veniva applicato prima di tutto in relazione al sacerdozio e alla vita
religiosa, come se Cristo avesse rivolto al giovane il suo «seguimi»
evangelico solo per questi casi. Il Concilio ha allargato questa
visuale. La vocazione sacerdotale e religiosa ha conservato il suo
carattere particolare e la sua sacramentale e carismatica importanza
nella vita del Popolo di Dio. Al tempo stesso, però, la
consapevolezza, rinnovata dal Vaticano II, dell'universale
partecipazione di tutti i battezzati alla triplice missione di Cristo
(tria munera) profetica, sacerdotale e regale, come anche la
consapevolezza dell'universale vocazione alla santità (Lumen Gentium,
39-42), fanno sì che ogni vocazione di vita dell'uomo come la
vocazione cristiana corrisponda alla chiamata evangelica. Il «seguimi»
di Cristo si fa sentire su diverse strade, lungo le quali camminano i
discepoli ed i confessori del divin Redentore, In diversi modi si può
diventare imitatori di Cristo, cioè non solamente dando una
testimonianza del Regno escatologico di verità e di amore, ma anche
adoperandosi per la trasformazione secondo lo spirito del Vangelo di
tutta la realtà temporale (cfr. Gaudium et Spes, 43-44). E' a questo
punto che prende anche inizio l'apostolato dei laici, che è
inseparabile dall'essenza stessa della vocazione cristiana.
Sono queste le premesse
estremamente importanti per il progetto di vita, che corrisponde
all'essenziale dinamismo della vostra giovinezza. Bisogna che voi
esaminiate questo progetto - indipendentemente dal concreto contenuto
«di vita», di cui esso si riempirà - alla luce delle parole rivolte
da Cristo a quel giovane.
Bisogna anche che ripensiate - e
molto profondamente - al significato del battesimo e della cresima. In
questi due sacramenti, infatti, è contenuto il deposito fondamentale
della vita e della vocazione cristiana. Da essi parte la strada verso
l'Eucaristia, che contiene la pienezza della sacramentale elargizione
concessa al cristiano: tutta la ricchezza della Chiesa si concentra in
questo sacramento di amore. A sua volta - e sempre in rapporto
all'Eucaristia - bisogna riflettere sull'argomento del sacramento
della penitenza, il quale ha un'importanza insostituibile per la
formazione della personalità cristiana, specialmente se ad esso viene
unita la direzione spirituale, cioè una scuola sistematica di vita
interiore.
Su tutto questo mi pronuncio
brevemente, anche se ciascuno dei sacramenti della Chiesa ha il suo
definito e specifico riferimento alla giovinezza ed ai giovani.
Confido che questo tema venga trattato in maniera particolareggiata da
altri, specialmente dagli operatori pastorali appositamente inviati a
collaborare con la gioventù.
La Chiesa stessa - come insegna il
Concilio Vaticano II - è «come un sacramento, o segno e strumento
dell'intima unione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano»
(Lumen Gentium, 1). Ogni vocazione di vita, come vocazione «cristiana»,
è radicata nella sacramentalità della Chiesa: essa si forma, dunque,
mediante i sacramenti della nostra fede. Sono essi a permetterci sin
dalla giovinezza di aprire il nostro «io» umano all'azione salvifica
di Dio, cioè della santissima Trinità. Essi ci permettono di
partecipare alla vita di Dio, vivendo al massimo un'autentica vita
umana. In tal modo questa vita umana acquista una nuova dimensione ed
insieme la sua originalità cristiana: la consapevolezza delle
esigenze poste all'uomo dal Vangelo viene completata dalla
consapevolezza del dono, che supera ogni cosa. «Se tu conoscessi il
dono di Dio» (Gv 4,10), disse Cristo parlando con la Samaritana.
«Grande Sacramento sponsale»
10. Su questo vasto sfondo, che il
vostro progetto giovanile di vita acquista in confronto con l'idea
della vocazione cristiana, io desidero rivolgere l'attenzione insieme
con voi, giovani destinatari della presente Lettera, verso il problema
che, in un certo senso, si trova al centro della giovinezza di voi
tutti. Questo è uno dei problemi centrali della vita umana ed è
insieme uno dei temi centrali di riflessione, di creatività e di
cultura. Questo è anche uno dei principali temi biblici, al quale
personalmente ho dedicato molte riflessioni e molte analisi. Dio ha
creato l'essere umano uomo e donna, introducendo con ciò nella storia
dell'umanità quella particolare «duplicità» con una completa parità,
se si tratta della dignità umana, e con una meravigliosa
complementarietà, se si tratta della divisione degli attributi, delle
proprietà e dei compiti, uniti alla mascolinità ed alla femminilità
dell'essere umano.
Pertanto, questo è un tema di per
sé inscritto nello stesso «io» personale di ciascuno e di ciascuna
di voi. La giovinezza è quel periodo, in cui questo grande tema
attraversa in modo sperimentale e creativo l'anima e il corpo di ogni
ragazza e di ogni ragazzo, e si manifesta all'interno della coscienza
giovanile insieme con la scoperta fondamentale del proprio «io» in
tutta la sua molteplice potenzialità. Allora anche, sull'orizzonte di
un giovane cuore, si delinea un'esperienza nuova: questa è
l'esperienza dell'amore, che sin dall'inizio richiede di essere
inscritta in quel progetto di vita, che la giovinezza crea e forma
spontaneamente.
Tutto questo possiede ogni volta
la sua irripetibile espressione soggettiva, la sua ricchezza
affettiva, la sua bellezza addirittura metafisica. Al tempo stesso, in
tutto questo è contenuta una possente esortazione a non falsare
questa espressione, a non distruggere tale ricchezza e a non deturpare
tale bellezza. Siate convinti che questo appello viene da Dio stesso,
che ha creato l'uomo «a sua immagine e somiglianza» proprio «come
uomo e donna». Questo appello scaturisce dal Vangelo e si fa sentire
nella voce delle giovani coscienze, se esse hanno conservato la loro
semplicità e limpidezza: «Beati i puri di cuore, perché vedranno
Dio» (Mt 5,8). Sì! Per mezzo di quell'amore che nasce in voi - e
vuol essere inscritto nel progetto di tutta la vita - dovete vedere
Dio che è amore (cfr. 1Gv 4,8.16).
E perciò vi chiedo di non
interrompere il colloquio con Cristo in questa fase estremamente
importante della vostra giovinezza; vi chiedo, anzi, di impegnarvi
ancora di più. Quando Cristo dice «seguimi», la sua chiamata può
significare: «Ti chiamo ad un altro amore ancora»; però, molto
spesso significa: «Seguimi», segui me che sono lo sposo della
Chiesa, della mia sposa ...; vieni, diventa anche tu lo sposo della
tua sposa ..., diventa anche tu la sposa del tuo sposo. Diventate
ambedue i partecipanti a quel mistero, a quel sacramento, del quale
nella Lettera agli Efesini si dice che è grande: grande «in
riferimento a Cristo e alla Chiesa» (cfr. Ef 5,32).
Molto dipende dal fatto che voi,
anche su questa via, seguiate il Cristo; che non fuggiate da lui
mentre avete questo problema che giustamente ritenete il grande evento
del vostro cuore, un problema che esiste solo in voi e tra voi.
Desidero che crediate e vi convinciate che questo grande problema ha
la sua dimensione definitiva in Dio, che è amore, in Dio, che
nell'assoluta unità della sua divinità è insieme una comunione di
persone: Padre, Figlio e Spirito Santo. Desidero che voi crediate e vi
convinciate che questo vostro umano «grande mistero» ha il suo
principio in Dio che è il Creatore, che esso è radicato in Cristo
Redentore, il quale come lo sposo «ha dato se stesso», ed a tutti
gli sposi e a tutte le spose insegna a «donarsi» secondo la piena
misura della dignità personale di ciascuno e di ciascuna. Cristo ci
insegna l'amore sponsale.
Imboccare la via della vocazione
matrimoniale significa imparare l'amore sponsale giorno per giorno,
anno per anno: l'amore secondo l'anima e il corpo, l'amore che «è
paziente, è benigno, che non cerca il suo ... e non tiene conto del
male»; l'amore, che sa «compiacersi della verità», l'amore che «tutto
sopporta» (cfr. 1Cor 13,4.5.6.7).
Proprio di questo amore voi,
giovani, avete bisogno, se il vostro futuro matrimonio deve «superare»
la prova di tutta la vita. E proprio questa prova fa parte
dell'essenza stessa della vocazione che, mediante il matrimonio,
intendete inscrivere nel progetto della vostra vita.
E perciò io non smetto di pregare
il Cristo e la Madre del bell'Amore per l'amore che nasce nei giovani
cuori. Molte volte nella mia vita mi è stato dato di accompagnare, in
un certo senso, più da vicino questo amore dei giovani. Grazie a
questa esperienza ho capito quanto sia essenziale il problema, di cui
si tratta qui, quanto esso sia importante e quanto grande. Penso che
il futuro dell'uomo si decida in misura importante sulle vie di questo
amore, inizialmente giovanile, che tu e lei... che tu e lui scoprite
sulle strade della vostra giovinezza. Questa è - si può dire - una
grande avventura, ma è anche un grande compito.
Oggi i principi della morale
cristiana matrimoniale in molti ambienti vengono presentati secondo
un'immagine distorta. Si cerca di imporre ad ambienti, e perfino a
intere società un modello che si autoproclama «progressista» e «moderno».
Non si nota all'occasione che in questo modello l'uomo e, forse,
soprattutto la donna da soggetto è trasformato in oggetto (oggetto di
una specifica manipolazione), e tutto il grande contenuto dell'amore
viene ridotto a «godimento», il quale, anche se fosse da ambedue le
parti, non cesserebbe di essere egoistico nella sua essenza. Infine il
bambino, che è il frutto e la nuova incarnazione dell'amore dei due,
diventa sempre più «un'aggiunta fastidiosa». La civiltà
materialistica e consumistica penetra in tutto questo meraviglioso
insieme dell'amore coniugale e paterno e materno, e lo spoglia di quel
contenuto profondamente umano, che sin dall'inizio fu pervaso anche da
un contrassegno e riflesso divino.
Cari giovani amici! Non permettete
che vi sia tolta questa ricchezza! Non inscrivete nel progetto della
vostra vita un contenuto deformato, impoverito e falsato: l'amore «si
compiace della verità». Cercatela questa verità là dove essa si
trova realmente! Se c'è bisogno, siate decisi ad andare contro la
corrente delle opinioni che circolano e degli slogans propagandati!
Non abbiate paura dell'amore, che pone precise esigenze all'uomo.
Queste esigenze - così come le trovate nel costante insegnamento
della Chiesa - sono appunto capaci di rendere il vostro amore un vero
amore.
E se dovessi farlo in qualche
luogo, qui specialmente io desidero ripetere l'augurio formulato
all'inizio, che cioè siate «pronti sempre a rispondere a chiunque vi
domandi ragione della speranza che è in voi»! La Chiesa e l'umanità
vi affidano il grande problema di quell'amore, sul quale si basa il
matrimonio, la famiglia: il futuro. Esse confidano che saprete farlo
rinascere; confidano che saprete renderlo bello: umanamente e
cristianamente bello. Umanamente e cristianamente grande, maturo e
responsabile.
Eredità
11. Nel vasto ambito nel quale il
progetto di vita, elaborato nella giovinezza, s'incontra con «gli
altri», abbiamo toccato il punto più nevralgico. Consideriamo ancora
che questo punto centrale, nel quale il nostro «io» personale si
apre verso la vita «con gli altri» e «per gli altri» nell'alleanza
matrimoniale, trova nella Sacra Scrittura una parola molto
significativa: «L'uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà
a sua moglie» (Gen 2,24; cfr. Mt 19,5).
Quell'«abbandonerà» merita una
particolare attenzione. La storia dell'umanità passa sin dall'inizio
- e passerà sino alla fine - attraverso la famiglia. L'uomo entra in
essa mediante la nascita che deve ai genitori: al padre e alla madre,
per abbandonare poi al momento opportuno questo primo ambiente di vita
e di amore e passare al nuovo. «Abbandonando il padre e la madre»,
ognuno e ognuna di voi contemporaneamente, in un certo senso li porta
dentro con sé, assume la molteplice eredità, che in loro e nella
loro famiglia ha il suo diretto inizio e la sua fonte. In questo modo,
anche abbandonando, ognuno di voi rimane: l'eredità che assume lo
lega stabilmente con coloro che l'hanno trasmessa a lui ed ai quali
tanto deve. E egli stesso - lei e lui - continuerà a trasmettere la
stessa eredità. Perciò, anche il quarto comandamento del Decalogo
possiede una così grande importanza: «Onora tuo padre e tua madre»
(Es 20,12; Dt 5,16; Mt 15,4).
Si tratta qui, prima di tutto, del
retaggio di essere uomo e, successivamente, di essere uomo in una più
definita situazione personale e sociale. In questo ha la sua parte
persino la somiglianza fisica nei riguardi dei genitori. Ancor più
importante di questo è l'intero retaggio della cultura, al centro del
quale si trova quasi quotidianamente la lingua. I genitori hanno
insegnato a ciascuno di voi a parlare quella lingua, che costituisce
l'espressione essenziale del legame sociale con altri uomini. Esso è
determinato da confini più ampi della famiglia stessa oppure di un
certo ambiente. Questi sono i confini almeno di una tribù e il più
delle volte i confini di un popolo o di una nazione, nella quale siete
nati.
In questo modo l'eredità
familiare si estende. Attraverso l'educazione familiare partecipate ad
una determinata cultura, partecipate anche alla storia del vostro
popolo o nazione. Il legame familiare significa insieme l'appartenenza
ad una comunità più grande della famiglia, e ancora un'altra base di
identità della persona. Se la famiglia è la prima educatrice di
ognuno di voi, al tempo stesso - mediante la famiglia - educatrice è
la tribù, il popolo o la nazione, con cui siamo legati per l'unità
della cultura, della lingua e della storia.
Questo retaggio costituisce,
altresì, una chiamata in senso etico. Ricevendo la fede ed ereditando
i valori e contenuti che costituiscono l'insieme della cultura della
sua società, della storia della sua nazione, ciascuno e ciascuna di
voi viene dotato spiritualmente nella sua individuale umanità.
Ritorna qui la parabola dei talenti, che riceviamo dal Creatore per il
tramite dei nostri genitori e delle nostre famiglie, ed anche della
comunità nazionale, alla quale apparteniamo. Nei riguardi di questa
eredità noi non possiamo mantenere un atteggiamento passivo, o
addirittura rinunciatario, come fece l'ultimo di quei servi che sono
nominati nella parabola dei talenti (cfr. Mt 25,14-30; Lc 19,12-26).
Noi dobbiamo fare tutto ciò di cui siamo capaci, per assumere questo
retaggio spirituale, per confermarlo, mantenerlo e incrementarlo.
Questo è un compito importante per tutte le società, specialmente
forse per quelle che si trovano all'inizio della loro esistenza
autonoma, oppure per quelle che devono difendere dal pericolo di
distruzione dall'esterno o di decomposizione dall'interno questa
stessa esistenza e l'essenziale identità della propria nazione.
Scrivendo a voi, giovani, io cerco
di avere davanti agli occhi dell'anima la complessa e distinta
situazione delle tribù, dei popoli e delle nazioni sul nostro globo
terrestre. La vostra giovinezza ed il progetto di vita, che durante la
giovinezza ciascuno e ciascuna di voi elabora, sono sin dall'inizio
inseriti nella storia di queste diverse società, e ciò avviene non
«dall'esterno», ma eminentemente «dall'interno». Questo diventa
per voi una questione di consapevolezza familiare e, conseguentemente,
nazionale: una questione di cuore, una questione di coscienza. Il
concetto di «patria» si sviluppa in immediata contiguità col
concetto di «famiglia» e, in un certo senso, l'uno nell'ambito
dell'altro. E voi gradualmente, sperimentando questo legame sociale,
che è più ampio del legame familiare, iniziate anche a partecipare
alla responsabilità per il bene comune di quella più grande
famiglia, che è la «patria» terrena di ciascuno e di ciascuna di
voi. Le eminenti figure della storia, antica o contemporanea, di una
nazione guidano anche la vostra giovinezza, e favoriscono lo sviluppo
di quell'amore sociale, che più spesso viene chiamato «amor patrio».
Talenti e compiti
12. Ecco, in questo contesto della
famiglia e della società, che è la vostra patria, si inserisce
gradualmente un tema connesso molto da vicino con la parabola dei
talenti. Gradualmente, infatti, voi riconoscete quel «talento» o
quei «talenti», che sono propri di ciascuno e di ciascuna di voi, e
cominciate a servirvene in modo creativo, cominciate a moltiplicarli.
E ciò avviene per mezzo del lavoro.
Quale scala enorme di possibili
direzioni, capacità, interessi esiste in questo campo! lo non mi
impegno ad enumerarli qui neanche a titolo di esempio, perché c'è
pericolo di ometterne più di quanti possa prenderne in
considerazione. Presuppongo, dunque, tutta quella varietà e
molteplicità di direzioni. Essa dimostra anche la molteplice
ricchezza delle scoperte che la giovinezza porta con sé. Facendo
riferimento al Vangelo, si può dire che la giovinezza sia il tempo
del discernimento dei talenti. Ed insieme essa è il tempo in cui si
entra nei molteplici itinerari, lungo i quali si sono sviluppate e
ancora continuano a svilupparsi tutta l'attività umana, il lavoro e
la creatività.
Auguro a ciascuna e a ciascuno di
scoprire se stesso lungo questi itinerari. Auguro di entrarvi con
interesse, con diligenza, con entusiasmo. Il lavoro - ogni lavoro - è
unito alla fatica: «Col sudore del tuo volto mangerai il pane» (Gen
3,19) e questa esperienza di fatica viene partecipata da ciascuno e da
ciascuna di voi sin dai primissimi anni. Al tempo stesso, tuttavia, il
lavoro in modo specifico forma l'uomo e, in un certo senso, lo crea.
Dunque, si tratta sempre di una fatica creativa.
Ciò si riferisce non solo al
lavoro di ricerca o, in genere, al lavoro intellettuale conoscitivo,
ma anche agli ordinari lavori fisici, i quali apparentemente non hanno
in sé niente di «creativo».
Il lavoro, che è caratteristico
del periodo della giovinezza, costituisce, prima di tutto, una
preparazione al lavoro dell'età matura, ed è perciò legato alla
scuola. Penso, dunque, mentre scrivo queste parole a voi, giovani, a
tutte le scuole esistenti in tutto quanto il mondo, alle quali la
vostra giovane esistenza è collegata per vari anni, successivamente a
diversi livelli, a seconda del grado dello sviluppo mentale e
l'indirizzo delle inclinazioni: dalle scuole elementari fino alle
università. Penso anche a tutte le persone adulte, miei fratelli e
sorelle, che sono i vostri insegnanti, educatori, guide delle giovani
menti e dei giovani caratteri. Quanto è grande il loro compito! Quale
particolare responsabilità è la loro! Ma quanto grande è anche il
loro merito!
Penso, infine, a quei settori
della gioventù, dei vostri coetanei e coetanee, i quali -
specialmente in alcune società e in alcuni ambienti - sono privi
della possibilità dell'istruzione, spesso perfino dell'istruzione
elementare. Questo fatto costituisce una sfida permanente per tutte le
istituzioni responsabili su scala nazionale ed internazionale, affinché
un tale stato di cose venga sottoposto ai necessari miglioramenti.
L'istruzione, infatti, è uno dei beni fondamentali della civiltà
umana. Essa ha un'importanza particolare per i giovani. Da essa
dipende anche in larga misura il futuro dell'intera società.
Quando però poniamo il problema
dell'istruzione, dello studio, della scienza e delle scuole, emerge un
problema di importanza fondamentale per l'uomo e, in modo speciale,
per il giovane. Questo è il problema della verità. La verità è la
luce dell'intelletto umano. Se, fin dalla giovinezza, esso cerca di
conoscere la realtà nelle sue diverse dimensioni, ciò fa allo scopo
di possedere la verità: per vivere di verità. Tale è la struttura
dello spirito umano. La fame di verità costituisce la sua
fondamentale aspirazione ed espressione.
Ora Cristo dice: «Conoscerete la
verità, e la verità vi farà liberi» (Gv 8,32). Delle parole
contenute nel Vangelo queste certamente sono tra le più importanti.
Esse, infatti, si riferiscono all'uomo nella sua totalità. Esse
spiegano su che cosa si edificano dal di dentro, nelle dimensioni
dello spirito umano, la dignità e la grandezza proprie dell'uomo. La
conoscenza che libera l'uomo non dipende solamente dall'istruzione,
anche se universitaria: può appartenere anche ad un analfabeta; pur
tuttavia l'istruzione, quale conoscenza sistematica della realtà,
dovrebbe servire tale dignità e grandezza. Essa dovrebbe, dunque,
servire la verità.
Il servizio alla verità si compie
anche nel lavoro, che sarete chiamati a svolgere dopo aver completato
il programma della vostra istruzione. A scuola dovete acquistare le
capacità intellettuali, tecniche e pratiche, che vi permetteranno di
prendere utilmente il vostro posto presso il grande banco del lavoro
umano. Ma se è vero che la scuola deve preparare al lavoro, anche a
quello manuale, è pure vero che il lavoro in se stesso è una scuola
di grandi ed importanti valori: esso possiede una sua eloquenza, che
apporta un valido contributo alla cultura dell'uomo.
Nel rapporto, però, tra
istruzione e lavoro, che caratterizza l'odierna società, emergono
gravissimi problemi di ordine pratico. Mi riferisco, in particolare,
al problema della disoccupazione e, più in generale, della mancanza
di posti di lavoro, che travaglia in forme diverse le giovani
generazioni di tutto il mondo. Esso - voi lo sapete bene - porta con sé
altri interrogativi, che fin dagli anni della scuola proiettano
un'ombra di insicurezza circa il vostro futuro. Voi vi domandate: «Ha
bisogno di me la società? Potrò anch'io trovare un lavoro adeguato,
che mi consenta di rendermi indipendente? Di formare una mia famiglia
in dignitose condizioni di vita e, prima fra tutte, in una cosa
propria? Insomma, è proprio vero che la società aspetta il mio
contributo?».
La gravità di questi
interrogativi mi sollecita a ricordare anche in questa occasione ai
governanti ed a tutti coloro che hanno responsabilità per l'economia
e lo sviluppo delle nazione che il lavoro è un diritto dell'uomo e,
perciò, va garantito, rivolgendo ad esso le cure più assidue e
mettendo al centro della politica economica la preoccupazione di
creare occasioni adeguate di lavoro per tutti e, soprattutto, per i
giovani, che tanto spesso oggi soffrono per la piaga della
disoccupazione. Siamo tutti convinti che «il lavoro è un bene
dell'uomo, è un bene della sua umanità, perché mediante il lavoro
l'uomo non solo trasforma la natura adattandola alle proprie necessità,
ma anche realizza se stesso come uomo ed anzi, in un certo senso,
diventa più uomo» (Laborem Exercens, 9).
L'auto-educazione e le
minacce
13. Quel che riguarda la scuola
come istituzione e ambiente comprende in sé, prima di tutto, la
gioventù. Direi, però, che l'eloquenza delle summenzionate parole di
Cristo intorno alla verità riguarda ancor più i giovani stessi. Se,
infatti, non c'è dubbio che la famiglia educa, che la scuola
istruisce ed educa, al tempo stesso sia l'azione della famiglia, come
quella della scuola, rimarrà incompleta (e potrà addirittura essere
vanificata), se ciascuno e ciascuna di voi, giovani, non intraprenderà
da sé l'opera della propria educazione. L'educazione familiare e
scolastica potrà fornirvi solo alcuni elementi per l'opera
dell'auto-educazione.
E in questo campo le parole di
Cristo: «Conoscerete la verità, e la verità vi farà liberi»,
diventano un programma essenziale. I giovani - se così ci si può
esprimere - hanno congenito il «senso della verità». E la verità
deve servire per la libertà: i giovani hanno anche spontaneo il «desiderio
della libertà». E che cosa significa essere liberi? Significa saper
usare la propria libertà nella verità: essere «veramente» liberi.
Essere veramente liberi non significa affatto fare tutto ciò che mi
piace, o ciò che ho voglia di fare. La libertà contiene in sé il
criterio della verità, la disciplina della verità. Essere veramente
liberi significa usare la propria libertà per ciò che è un vero
bene. Continuando dunque: essere veramente liberi significa essere un
uomo di retta coscienza, essere responsabile, essere un uomo «per gli
altri».
Tutto questo costituisce il nucleo
interiore stesso di ciò che chiamiamo educazione e, innanzitutto, di
ciò che chiamiamo auto-educazione. Sì: auto-educazione! Infatti, una
tale struttura interiore, dove «la verità ci fa liberi», non può
essere costruita solamente «dall'esterno». Ognuno deve costruirla «dal
di dentro», edificarla nella fatica, con perseveranza e pazienza (il
che non è sempre così facile ai giovani). E proprio questa
costruzione si chiama auto-educazione. Il Signore Gesù parla anche di
questo, quando sottolinea che solo «con la perseveranza» possiamo «salvare
le nostre anime» (cfr. Lc 21,19). «Salvare la propria anima»: ecco
il frutto dell'auto-educazione.
In tutto questo è contenuto un
nuovo modo di vedere la giovinezza. Qui non si tratta più del
semplice progetto di vita, che deve essere realizzato in futuro. Esso
si realizza ormai nella fase della giovinezza, se noi mediante il
lavoro, l'istruzione e, specialmente, mediante l'auto-educazione
creiamo la vita stessa, costruendo il fondamento del successivo
sviluppo della nostra personalità. In questo senso, si può dire che
la giovinezza è «la scultrice che scolpisce tutta la vita», e la
forma, che essa conferisce alla concreta umanità di ciascuno e di
ciascuna di voi, si consolida in tutta la vita.
Se ciò ha un importante
significato positivo, purtroppo può anche avere un importante
significato negativo. Non potete coprirvi gli occhi davanti alle
minacce, che vi insidiano durante il periodo della giovinezza. Anche
esse possono imprimere il loro segno su tutta la vita.
Intendo alludere, ad esempio, alla
tentazione del criticismo esasperato, che vorrebbe tutto discutere e
tutto rivedere; o a quella dello scetticismo nei confronti dei valori
tradizionali, da cui facilmente si scivola in una sorta di cinismo
spregiudicato, quando si tratta di affrontare i problemi del lavoro,
della carriera o dello stesso matrimonio. E come tacere, poi, della
tentazione costituita dal diffondersi, soprattutto nei paesi più
prosperi, di un mercato del divertimento che distoglie da un serio
impegno nella vita ed educa alla passività, all'egoismo ed
all'isolamento? Vi minaccia, carissimi giovani, il cattivo uso delle
tecniche pubblicitarie, che incentiva la naturale inclinazione ad
evitare la fatica, promettendo la soddisfazione immediata di ogni
desiderio, mentre il consumismo, ad esso legato, suggerisce che l'uomo
cerchi di realizzare se stesso soprattutto nella fruizione dei beni
materiali. Quanti giovani, conquistati dal fascino di ingannevoli
miraggi, si abbandonano alla forza incontrollata degli istinti o si
avventurano su strade apparentemente ricche di promesse, ma prive in
realtà di prospettive autenticamente umane! Sento il bisogno di
ripetere qui quanto ho scritto nel Messaggio, che proprio a voi ho
dedicato per la Giornata Mondiale della Pace: «Alcuni di voi possono
essere tentati di rifuggire dalle responsabilità negli illusori mondi
dell'alcool e della droga, nelle fugaci relazioni sessuali senza
impegno per il matrimonio e la famiglia, nell'indifferenza, nel
cinismo e perfino nella violenza. State in guardia contro l'inganno di
un mondo che vuole sfruttare o far deviare la vostra energica e
potente ricerca della felicità e del senso della vita».
Vi scrivo tutto ciò per esprimere
la viva preoccupazione che ho per voi. Se, infatti, dovete essere «pronti
sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che
è in voi», allora tutto ciò che insidia questa speranza deve
destare preoccupazione. Ed a tutti coloro, che con varie tentazioni ed
illusioni cercano di distruggere la vostra giovinezza, non posso non
ricordare le parole di Cristo, con le quali parla dello scandalo e di
coloro che lo provocano: «Guai a colui per cui avvengono gli
scandali! E' meglio per lui che gli sia messa al collo una pietra da
mulino e venga gettato nel mare, piuttosto che scandalizzare uno di
questi piccoli» (Lc 17,1s).
Gravi parole! Specialmente gravi
sulla bocca di colui che è venuto a rivelare l'amore. Chi, però,
legge attentamente proprio queste parole del Vangelo, deve sentire
quanto profonda sia l'antitesi tra il bene e il male, tra la virtù e
il peccato. Egli deve ancor più chiaramente notare quale importanza
abbia agli occhi di Cristo la giovinezza di ciascuno e di ciascuna di
voi. E' stato proprio l'amore per i giovani a dettare queste gravi e
severe parole. E' contenuta in esse quasi un'eco lontana del colloquio
evangelico di Cristo col giovane, al quale la presente Lettera fa
costante riferimento.
La giovinezza come «crescita»
14. Permettetemi di concludere
questa parte delle mie considerazioni ricordando le parole, con le
quali il Vangelo parla della giovinezza stessa di Gesù di Nazareth.
Esse sono brevi, anche se coprono il periodo dei trent'anni da lui
trascorsi nella casa di famiglia, a fianco di Maria e di Giuseppe, il
carpentiere. L'evangelista Luca scrive: E Gesù cresceva (o
progrediva) in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini» (Lc
2,52).
Così dunque la giovinezza è una
«crescita». Alla luce di tutto ciò che è stato detto finora su
questo tema, tale parola evangelica sembra essere particolarmente
sintetica e suggestiva. La crescita «in età» si riferisce al
naturale rapporto dell'uomo col tempo: questa crescita è come una
tappa «ascendente» nell'insieme del passaggio umano. A questo
corrisponde tutto lo sviluppo psico-fisico: è la crescita di tutte le
energie, per meno delle quali si costituisce la normale individualità
umana. Ma bisogna che a questo processo corrisponda la crescita «in
sapienza e in grazia».
A voi tutti, cari giovani amici,
auguro proprio una tale «crescita». Si può dire che per mezzo di
essa la giovinezza è proprio la giovinezza. In questo modo essa
acquista la sua propria, irripetibile caratteristica. In questo modo
essa viene data a ciascuno e ciascuna di voi, nell'esperienza
personale ed insieme comunitaria, come uno speciale valore. E in modo
simile essa si consolida anche nell'esperienza degli uomini adulti,
che hanno ormai la giovinezza dietro di sé, e che dalla tappa «ascendente»
si spostano verso quella «discendente» facendo il bilancio globale
della vita.
Bisogna che la giovinezza sia una
«crescita», che porti con sé il graduale accumulo di tutto ciò che
è vero, che è buono e che è bello, perfino quando essa sia «dall'esterno»
unita alle sofferenze, alla perdita di persone care ed a tutta
l'esperienza del male, che incessantemente si fa sentire nel mondo in
cui viviamo.
Bisogna che la giovinezza sia una
«crescita». A questo fine è di enorme importanza il contatto col
mondo visibile, quello con la natura. Questo rapporto ci arricchisce
durante la giovinezza in modo diverso da quello della scienza sul
mondo «attinta dai libri». Ci arricchisce in modo diretto. Si
potrebbe dire che, rimanendo in contatto con la natura, noi assumiamo
nella nostra esistenza umana il mistero stesso della creazione, che si
scopre davanti a noi con inaudita ricchezza e varietà di esseri
visibili e, al tempo stesso, costantemente invita verso ciò che è
nascosto, che è invisibile. La sapienza - sia per bocca dei libri
ispirati (cfr. Sal 104[103]; Sal 19[18]; Sap 13,1-9; 7,15-20), come
del resto con la testimonianza di molte menti geniali - sembra mettere
in evidenza in diversi modi «la trasparenza del mondo». E' bene per
l'uomo leggere in questo mirabile libro qual è il «libro della
natura», spalancato per ognuno di noi. Ciò che una giovane mente e
un giovane cuore leggono in esso sembra essere sincronizzato
profondamente con l'esortazione alla sapienza: «Acquista la sapienza,
acquista l'intelligenza ... Non abbandonarla, ed essa ti custodirà;
amala, e veglierà su di te» (Pr 4,5s).
L'uomo d'oggi, specialmente
nell'ambito della civiltà tecnica ed industriale altamente
sviluppata, è divenuto su grande scala l'esploratore della natura,
trattandola non di rado in modo utilitario, distruggendo così molte
delle ricchezze e delle sue attrattive ed inquinando l'ambiente
naturale della sua esistenza terrena. La natura, invece, è data
all'uomo anche come oggetto di ammirazione e di contemplazione, come
un grande specchio del mondo. Si riflette in essa l'alleanza del
Creatore con la sua creatura, il cui centro sin dall'inizio si trova
nell'uomo, creato direttamente «ad immagine» del suo Creatore.
E perciò auguro anche a voi,
giovani, che la vostra crescita «in età e in sapienza» avvenga
mediante il contatto con la natura. Abbiate tempo per questo! Non lo
risparmiate! Accettate anche la fatica e lo sforzo che questo contatto
a volte comporta, specialmente quando desideriamo raggiungere
obiettivi particolarmente rilevanti. Questa fatica è creativa,
costituisce insieme l'elemento di un sano riposo, che è necessario al
pari dello studio e del lavoro.
Questa fatica e questo sforzo
possiedono anche una loro classificazione biblica, specialmente in san
Paolo, il quale paragona tutta la vita cristiana ad una gara nello
stadio sportivo (1Cor 9,24-27).
A ciascuna e a ciascuno di voi
sono necessari questa fatica e questo sforzo, in cui non solo si
tempra il corpo, ma tutto l'uomo prova la gioia di dominarsi e di
superare gli ostacoli e le resistenze. Certamente, è questo uno degli
elementi della «crescita», che caratterizza la giovinezza.
Vi auguro, altresì, che questa «crescita»
avvenga mediante il contatto con le opere dell'uomo e, ancor più, con
gli uomini viventi. Quante sono le opere che gli uomini hanno compiuto
nella storia! Quanto grande è la loro ricchezza e varietà! La
giovinezza sembra essere particolarmente sensibile alla verità, al
bene e alla bellezza, che sono contenute nelle opere dell'uomo.
Rimanendo in contatto con loro sul terreno di tante culture diverse,
di tante arti e di tante scienze, noi impariamo la verità sull'uomo
(espressa così suggestivamente anche nel Salmo 8), la verità che è
in grado di formare e di approfondire l'umanità di ciascuno di noi.
In maniera particolare, però, noi
studiamo l'uomo, avendo rapporti con gli uomini. Bisogna che la
giovinezza vi permetta di crescere «in sapienza» mediante questo
contatto. E' questo, infatti, il tempo in cui si instaurano nuovi
contatti, compagnie ed amicizie, in un ambito più vasto della sola
famiglia. Si schiude il grande campo dell'esperienza, che possiede non
solo un'importanza conoscitiva, ma al tempo stesso anche educativa ed
etica. Tutta questa esperienza della giovinezza sarà utile, allorché
produrrà in ciascuno e in ciascuna di voi anche il senso critico e,
innanzitutto, la capacità del discernimento nel campo di tutto ciò
che è umano. Benedetta sarà questa esperienza della giovinezza, se
da essa imparerete gradualmente quell'essenziale verità sull'uomo -
su ogni uomo e su se stessi -, la verità che viene così sintetizzata
nell'insigne testo della Costituzione pastorale «Gaudium et Spes»:
«L'uomo, il quale sulla terra è la sola creatura che Dio ha voluto
per se stessa, non può ritrovarsi pienamente se non mediante un dono
sincero di sé» (Gaudium et Spes, 24).
Così dunque impariamo a conoscere
gli uomini, per essere più pienamente uomini mediante la capacità di
«donarsi»; essere uomo «per gli altri». Una tale verità sull'uomo
- una tale antropologia - trova il suo apice irraggiungibile in Gesù
di Nazareth. E perciò è così importante anche la sua adolescenza,
mentre «cresceva in sapienza ... e grazia davanti a Dio e agli uomini».
Vi auguro anche questa «crescita»
mediante il contatto con Dio. Può servire per esso - in senso
indiretto - anche il contatto con la natura e con gli uomini; ma in
modo diretto serve per esso specialmente la preghiera. Pregate ed
imparate a pregare! Aprite i vostri cuori e le vostre coscienze
davanti a colui che vi conosce meglio di voi stessi. Parlate con lui!
Approfondite la Parola del Dio vivo, leggendo e meditando la Sacra
Scrittura.
Sono questi i metodi e i mezzi per
avvicinarsi a Dio ed aver contatto con lui. Ricordate che si tratta di
un rapporto reciproco. Dio risponde anche col più «gratuito dono di
sé», dono che nel linguaggio biblico si chiama «grazia». Cercate
di vivere in grazia di Dio!
Questo per quanto riguarda il tema
della «crescita», di cui scrivo segnalando solamente i principali
problemi. Ognuno di essi, infatti, è suscettibile di una più ampia
discussione. Spero che ciò stia avvenendo nei diversi ambienti
giovanili e gruppi, nei movimenti e nelle organizzazioni, che sono così
numerosi nei diversi paesi e nei singoli continenti, mentre ognuno
viene guidato dal suo proprio metodo di lavoro spirituale e di
apostolato. Questi organismi, con la partecipazione dei Pastori della
Chiesa, desiderano indicare ai giovani la via di quella «crescita»,
che costituisce, in un certo senso, la definizione evangelica della
giovinezza.
La grande sfida del futuro
15. La Chiesa guarda i giovani;
anzi, la Chiesa in modo speciale guarda se stessa nei giovani, in voi
tutti ed insieme in ciascuna e in ciascuno di voi. Così è stato sin
dall'inizio, dai tempi apostolici. Le parole di san Giovanni nella sua
Prima Lettera possono essere una particolare testimonianza: «Scrivo a
voi, giovani, perché avete vinto il maligno. Ho scritto a voi,
figlioli, perché avete conosciuto il Padre... Ho scritto a voi,
giovani, perché siete forti, e la parola di Dio dimora in voi» (1Gv
2,13s).
Le parole dell'apostolo si
aggiungono alla conversazione evangelica di Cristo col giovane, e
risuonano con un'eco potente di generazione in generazione.
Nella nostra generazione, al
termine del secondo Millennio dopo Cristo, anche la Chiesa guarda se
stessa nei giovani. E come la Chiesa guarda se stessa? Ne sia una
particolare testimonianza l'insegnamento del Concilio Vaticano II. La
Chiesa vede se stessa come «un sacramento, o segno e strumento
dell'intima unione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano»
(Lumen Gentium, 1). E dunque vede se stessa in relazione a tutta la
grande famiglia umana costantemente in crescita. Vede se stessa nelle
dimensioni universali. Vede se stessa sulle vie dell'ecumenismo, cioè
dell'unità di tutti i cristiani, per la quale Cristo stesso ha
pregato e che è di indiscutibile urgenza nel nostro tempo. Vede se
stessa anche nel dialogo con i seguaci delle religioni non cristiane e
con tutti gli uomini di buona volontà. Un tale dialogo è un dialogo
di salvezza il quale deve servire anche alla pace nel mondo e alla
giustizia tra gli uomini.
Voi, giovani, siete la speranza
della Chiesa che proprio in questo modo vede se stessa e la sua
missione nel mondo. Essa vi parla di questa missione. Di ciò è stato
espressione il recente Messaggio del 1· gennaio 1985, per la
celebrazione della Giornata Mondiale della Pace. Esso è stato
indirizzato proprio a voi sulla base della convinzione che «la via
della pace è insieme la via dei giovani» (La pace e i giovani
camminano insieme). Questa convinzione è un appello ed insieme un
impegno: ancora una volta si tratta di essere «pronti a rispondere a
chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi», della
speranza che a voi è collegata. Come vedete, questa speranza riguarda
istanze fondamentali ed insieme universali.
Tutti vivete ogni giorno in mezzo
ai vostri cari. Questa cerchia, tuttavia, si allarga gradualmente. Un
numero sempre maggiore di persone partecipa alla vostra vita, e voi
stessi scorgete l'abbozzo di una comunione che vi unisce a loro. Quasi
sempre questa è una comunità, in qualche modo, differenziata. E'
differenziata così come intravvedeva e dichiarava il Concilio
Vaticano II nella Costituzione dogmatica sulla Chiesa e in quella
pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo. La vostra giovinezza
si forma a volte in ambienti uniformi dal punto di vista delle
confessioni, a volte differenziati religiosamente o, addirittura, sul
confine tra la fede e la miscredenza, sia questa sotto la forma
dell'agnosticismo o dell'ateismo dipinto in diversi modi.
Sembra, tuttavia, che di fronte ad
alcuni problemi queste molteplici e differenziate comunità di giovani
sentano, pensino, reagiscano in maniera molto simile. Sembra, ad
esempio, che tutti li unisca un atteggiamento simile verso il fatto
che centinaia di migliaia di uomini vivono in estrema miseria e
muoiono addirittura di fame, mentre contemporaneamente cifre
vertiginose sono impiegate per la produzione delle armi nucleari, i
cui arsenali già al momento presente sono in grado di portare
all'autodistruzione dell'umanità. Ci sono altre simili tensioni e
minacce, su scala finora non mai conosciuta nella storia dell'umanità.
Di questo si parla nel menzionato Messaggio per il Capodanno; perciò,
non ripeto questi problemi. Tutti siamo consapevoli che all'orizzonte
dell'esistenza di miliardi di persone, che formano la famiglia umana
al termine del secondo millennio dopo Cristo, sembra profilarsi la
possibilità di calamità e di catastrofi in misura davvero
apocalittica.
In tale situazione voi, giovani,
potete domandare giustamente alle precedenti generazioni: Perché si
è arrivati a questo? Perché è stato raggiunto un tale grado di
minaccia all'umanità sul globo terrestre? Quali sono le cause
dell'ingiustizia che ferisce gli occhi? Perché tanti che muoiono di
fame? Tanti milioni di profughi alle diverse frontiere? Tanti casi in
cui vengono calpestati i diritti elementari dell'uomo? Tante prigioni
e campi di concentramento, tanta sistematica violenza e uccisioni di
persone innocenti, tanti maltrattamenti dell'uomo e torture, tanti
tormenti inflitti ai corpi umani e alle coscienze umane? E in mezzo a
tutto questo c'è anche il fatto di uomini in giovane età, che hanno
sulla coscienza tante vittime innocenti, perché è stata loro
inculcata la convinzione che solo per questa via - del terrorismo
programmato - si può migliorare il mondo. Voi, dunque, ancora una
volta chiedete: perché?
Voi, giovani, potete domandare
tutto questo, anzi voi lo dovete! Si tratta, infatti, del mondo nel
quale vivete oggi, e nel quale dovrete vivere domani, allorché la
generazione di età più matura sarà passata. A ragione, dunque, voi
chiedete: Perché un così grande progresso dell'umanità - che non si
può paragonare a nessuna epoca precedente della storia - nel campo
della scienza e della tecnica; perché il progresso nel dominio della
materia da parte dell'uomo si rivolge per tanti aspetti contro l'uomo?
Giustamente voi chiedete anche, pur con un senso di interiore tremore:
Questo stato di cose è forse irreversibile? Può essere mutato?
Riusciremo noi a cambiarlo?
Questo voi giustamente chiedete. Sì,
è questa la domanda fondamentale nell'ambito della vostra
generazione.
In questa forma continua il vostro
colloquio con Cristo, iniziato un giorno nel Vangelo. Quel giovane
domandava: «Che cosa devo fare per avere la vita eterna?». E voi
ponete la domanda a seconda dei tempi, nei quali vi trovate ad essere
giovani: Che cosa dobbiamo fare affinché la vita - la vita fiorente
dell'umanità - non si trasformi nel cimitero della morte nucleare?
Che cosa dobbiamo fare affinché non domini su di noi il peccato
dell'universale ingiustizia? Il peccato del disprezzo dell'uomo e il
vilipendio della sua dignità, pur con tante dichiarazioni che
confermano tutti i suoi diritti? Che cosa dobbiamo fare? E ancora:
Sapremo noi farlo?
Il Cristo risponde come già
rispondeva ai giovani della prima generazione della Chiesa con le
parole dell'Apostolo: «Scrivo a voi giovani perché avete vinto il
maligno. Ho scritto a voi, figlioli, perché avete conosciuto il
Padre... Ho scritto a voi, giovani, perché siete forti e la parola di
Dio dimora in voi» (1Gv 2,13s). Le parole dell'Apostolo, risalenti a
quasi duemila anni fa, sono anche una risposta per oggi. Esse usano il
semplice e forte linguaggio della fede, che implica la vittoria contro
il male che è nel mondo: «E' questa la vittoria che ha sconfitto il
mondo: la nostra fede» (1Gv 5,4). Queste parole sono forti
dell'esperienza apostolica - e delle successive generazioni cristiane
- della Croce e della Risurrezione di Cristo. In questa esperienza si
conferma tutto il Vangelo. Si conferma, tra l'altro, la verità
contenuta nel colloquio di Cristo col giovane.
Soffermiamoci, dunque - verso la
fine della presente Lettera - su queste parole apostoliche, che sono
ad un tempo una conferma ed una sfida per voi. Esse sono anche una
risposta.
Palpita in voi, nei vostri giovani
cuori, il desiderio di un'autentica fratellanza fra tutti gli uomini,
senza divisioni né contrapposizioni né discriminazioni. Sì! Il
desiderio di una fratellanza e di una molteplice solidarietà, voi
giovani, lo portate con voi - e non desiderate certo la reciproca
lotta dell'uomo contro l'uomo sotto qualsiasi forma. Questo desiderio
di fratellanza - l'uomo è il prossimo dell'altro uomo! l'uomo è
fratello per l'altro uomo! - non testimonia forse il fatto (come
scrive l'Apostolo) che «avete conosciuto il Padre»? Che i fratelli
sono solo là dove c'è un padre. E solo là dove c'è il Padre gli
uomini sono fratelli.
Se voi, dunque, portate in voi
stessi il desiderio della fratellanza, ciò significa che «la parola
di Dio dimora in voi». Dimora in voi quella dottrina che Cristo ha
portato e che giustamente ha il nome di «Buona Novella». E dimora
sulle vostre labbra, o almeno è radicata nei vostri cuori, la
preghiera del Signore, che inizia con le parole «Padre nostro». La
preghiera che, mentre rivela il Padre, conferma al tempo stesso che
gli uomini sono fratelli - e si oppone nell'intero suo contenuto a
tutti i programmi costruiti secondo un principio di lotta dell'uomo
contro l'uomo in qualsiasi forma. La preghiera del «Padre nostro»
allontana i cuori umani dall'inimicizia, dall'odio, dalla violenza,
dal terrorismo, dalla discriminazione, dalle situazioni in cui la
dignità umana e i diritti umani sono calpestati.
L'Apostolo scrive che voi,
giovani, siete forti della dottrina divina: di quella dottrina che è
contenuta nel Vangelo di Cristo e si riassume nella preghiera del «Padre
nostro». Sì! Siete forti di questo insegnamento divino, siete forti
di questa preghiera. Siete forti, perché essa infonde in voi l'amore,
la benevolenza, il rispetto dell'uomo, della sua vita, della sua
dignità, della sua coscienza, delle sue convinzioni e dei suoi
diritti. Se «avete conosciuto il Padre», siete forti con la potenza
della fratellanza umana.
Siete anche forti per la lotta:
non per la lotta contro l'uomo, nel nome di qualsiasi ideologia o
pratica distaccata dalle radici stesse del Vangelo, ma forti per la
lotta contro il male, contro il vero male: contro tutto ciò che
offende Dio, contro ogni ingiustizia e ogni sfruttamento, contro ogni
falsità e menzogna, contro tutto ciò che offende ed umilia, contro
tutto ciò che profana la convivenza umana e le relazioni umane,
contro ogni crimine nei riguardi della vita: contro ogni peccato.
L'Apostolo scrive: «Avete vinto
il maligno»! E' così. Bisogna costantemente risalire alle radici del
male e del peccato nella storia dell'umanità e dell'universo, così
come Cristo risalì a queste stesse radici nel suo mistero pasquale
della Croce e della Risurrezione. Non bisogna aver timore di chiamare
per nome il primo artefice del male: il Maligno. La tattica, che egli
adoperava ed adopera, consiste nel non rivelarsi, affinché il male,
da lui innestato sin dall'inizio, riceva il suo sviluppo dall'uomo
stesso, dai sistemi stessi e dalle religioni interumane, tra le classi
e tra le nazioni ... per diventare anche sempre di più peccato «strutturale»,
e lasciarsi sempre di meno identificare come peccato «personale».
Dunque, affinché l'uomo si senta in un certo senso «liberato» dal
peccato e, al tempo stesso, sempre di più sia in esso sprofondato.
L'Apostolo dice: «Giovani, siete
forti»: occorre soltanto che «la parola di Dio dimori in voi».
Allora siete forti: potrete così arrivare ai meccanismi nascosti del
male, alle sue radici, e così riuscirete gradualmente a cambiare il
mondo, a trasformarlo, a renderlo più umano, più fraterno e, al
tempo stesso, più di Dio. Non si può, infatti, staccare il mondo da
Dio e contrapporlo a Dio nel cuore dell'uomo. Né si può staccare
l'uomo da Dio e contrapporlo a Dio. Ciò sarebbe contro la natura del
mondo e contro la natura dell'uomo: contro l'intrinseca verità, che
costituisce tutta la realtà! Davvero il cuore dell'uomo è
irrequieto, finché non riposi in Dio. Queste parole del grande
Agostino non perdono mai la loro attualità (cfr. Sant'Agostino,
Confessiones, I, 1).
Messaggio finale
16. Ecco dunque, giovani amici, io
depongo nelle vostre mani questa Lettera, che si colloca nella scia
del colloquio evangelico di Cristo col giovane e scaturisce dalla
testimonianza degli apostoli e delle prime generazioni di cristiani.
Vi consegno questa Lettera nell'Anno della Gioventù, mentre ci stiamo
avvicinando al termine del secondo millennio cristiano. Ve la consegno
nell'anno in cui ricorre il ventesimo della conclusione del Concilio
Vaticano II, che chiamò i giovani «speranza della Chiesa» (Gravissimum
Educationis, 2) ed ai giovani di allora - come a quelli di oggi e di
sempre - indirizzò quel suo «ultimo Messaggio», in cui la Chiesa è
presentata come la vera giovinezza del mondo, come colei che «possiede
ciò che fa la forza e l'attrattiva dei giovani: la capacità di
rallegrarsi per ciò che comincia, di donarsi gratuitamente, di
rinnovarsi e di ripartire per nuove conquiste». Ciò faccio nella
Domenica delle Palme, giorno in cui mi è dato di incontrarmi con
molti di voi, pellegrini in Piazza San Pietro, qui a Roma. Proprio in
questo giorno il Vescovo di Roma prega insieme con voi per tutti i
giovani di tutto il mondo, per ciascuna e ciascuno. Stiamo pregando
nella comunità della Chiesa, affinché - sullo sfondo dei tempi
difficili in cui viviamo - siate «pronti sempre a rispondere a
chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi». Sì,
proprio voi, perché da voi dipende il futuro, da voi dipende il
termine di questo millennio e l'inizio del nuovo. Non siate, dunque,
passivi; assumetevi le vostre responsabilità in tutti i campi a voi
aperti nel nostro mondo! Per questa stessa intenzione pregheranno
insieme con voi i vescovi e i sacerdoti nei diversi luoghi.
E pregando così nella grande
comunità dei giovani di tutta la Chiesa e di tutte le Chiese, abbiamo
davanti agli occhi Maria, la quale accompagna il Cristo all'inizio
della sua missione tra gli uomini. Questa è Maria di Cana di Galilea,
che intercede per i giovani, per gli sposi novelli, quando al
banchetto nuziale viene a mancare il vino per gli ospiti. Allora la
Madre di Cristo rivolge agli uomini, ivi presenti per servire durante
il banchetto, queste parole: «Fate quello che egli vi dirà» (Gv
2,5). Egli, il Cristo.
Io ripeto queste parole della
Madre di Dio e le rivolgo a voi, giovani, a ciascuno e a ciascuna: «Fate
quello che Cristo vi dirà». E vi benedico nel nome della Trinità
Santissima. Amen.
Dato a Roma, presso San Pietro,
il 31 marzo, domenica delle Palme «de Passione Domini», dell'anno
1985, settimo di Pontificato.