LETTERA
APOSTOLICA
ORIENTALE
LUMEN
DEL SOMMO PONTEFICE
GIOVANNI PAOLO II
ALL'EPISCOPATO, AL CLERO E AI FEDELI
PER LA RICORRENZA CENTENARIA DELLA ORIENTALIUM DIGNITAS
DI PAPA LEONE XIII
Venerati Fratelli,
Carissimi Figli e Figlie della Chiesa
1. La luce dell'Oriente ha
illuminato la Chiesa universale, sin da quando è apparso su
di noi «un sole che sorge» (Lc 1,78), Gesù Cristo, nostro
Signore, che tutti i cristiani invocano quale Redentore
dell'uomo e speranza del mondo.
Quella luce ispirava al
mio Predecessore Papa Leone XIII la Lettera Apostolica
Orientalium Dignitas con la quale egli volle difendere il
significato delle tradizioni orientali per tutta la Chiesa [cfr.
Leonis XIII Acta, 14 (1894), 358-370. Il Pontefice richiama la
stima e l'aiuto concreto che la Santa Sede ha riservato alle
Chiese Orientali e la volontà di tutelarne le specificità;
inoltre Lett. ap.Praeclara gratulationis (20 giugno 1894),
1.c.,195-214; Lett. enc. Christi nomen (24 dicembre 1894),
1.c., 405-409].
Ricorrendo il centenario
di quell'avvenimento e delle iniziative contemporanee con le
quali questo Pontefice intendeva favorire la ricomposizione
dell'unità con tutti i cristiani d'Oriente, ho voluto che un
appello simile, arricchito dalle tante esperienze di
conoscenza e d'incontro realizzatesi in quest'ultimo secolo,
fosse rivolto alla Chiesa cattolica.
Poiché infatti crediamo
che la venerabile e antica tradizione delle Chiese orientali
sia parte integrante del patrimonio della Chiesa di Cristo, la
prima necessità per i cattolici e di conoscerla per potersene
nutrire e favorire, nel modo possibile a ciascuno, il processo
dell'unità.
I nostri fratelli
orientali cattolici sono ben coscienti di essere i portatori
viventi, insieme con i fratelli ortodossi, di questa
tradizione. E necessario che anche i figli della Chiesa
cattolica di tradizione latina possano conoscere in pienezza
questo tesoro e sentire così, insieme con il Papa, la
passione perché sia restituita alla Chiesa e al mondo la
piena manifestazione della cattolicità della Chiesa, espressa
non da una sola tradizione, né tanto meno da una comunità
contro l'altra; e perché anche a noi tutti sia concesso di
gustare in pieno quel patrimonio divinamente rivelato e
indiviso della Chiesa universale [cfr. Conc. Ecum. Vat. II,
Decr. sulle Chiese Orientali Cattoliche Orientalium
Ecclesiarum, I; Decr. sull'ecumenismo Unitatis Redintegratio,
17] che si conserva e cresce nella vita delle Chiese d'Oriente
come in quelle d'Occidente.
2. Il mio sguardo si
rivolge all'Orientale Lumen che risplende da Gerusalemme (cfr.
Is 60,1; Ap 21,10), la città nella quale il Verbo di Dio,
fatto uomo per la nostra salvezza, ebreo «nato dalla stirpe
di Davide» (Rm 1,3; 2Tm 2,8), morì e fu risuscitato. In
quella città santa, mentre si compiva il giorno di Pentecoste
e «si trovavano tutti insieme nello stesso luogo» (At 2,1),
lo Spirito Paraclito fu inviato su Maria e i discepoli. Di lì
il Buon Annuncio si irradiò nel mondo perché, ripieni dello
Spirito Santo, «annunziavano la Parola di Dio con franchezza»
(At 4,31). Di lì dalla madre di tutte le Chiese [S. Agostino,
al riguardo, osserva: «Da dove la Chiesa ha avuto inizio? Da
Gerusalemme», In Epistulam Ioannis, II, 2: PL 35,1990] il
Vangelo fu predicato a tutte le nazioni, molte delle quali si
gloriano di aver avuto in uno degli apostoli il primo
testimone del Signore [cfr. Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm.
sulla Chiesa Lumen Gentium, 23; Decr. sull'ecumenismo Unitatis
Redintegratio, 14]. In quella città le culture e le
tradizioni più varie ebbero ospitalità nel nome dell'unico
Dio (cfr. At 2,9-11). Nel volgerci ad essa con nostalgia e
gratitudine ritroviamo la forza e l'entusiasmo per
intensificare la ricerca dell'armonia in quell'autenticità e
pluriformità che rimane l'ideale della Chiesa [cfr. Conc.
Ecum. Vat. II, Decr. sull'ecumenismo Unitatis Redintegratio,
4].
3. Un Papa, figlio di un
popolo slavo, sente particolarmente nel cuore il richiamo di
quei popoli verso i quali si volsero i due santi fratelli
Cirillo e Metodio, esempio glorioso di apostoli dell'unità
che seppero annunziare Cristo nella ricerca della comunione
tra Oriente ed Occidente, pur tra le difficoltà che già
talvolta contrapponevano i due mondi. Più volte mi sono
soffermato sull'esempio del loro operato [cfr. Lett. ap.
Egregiae virtutis (31 dicembre 1980): AAS 73 (1981), 258-262;
Lett. enc. Slavorum Apostoli (2 giugno 1985), 12-14: AAS 77
(1985), 792-796], anche rivolgendomi a quanti ne sono i figli
nella fede e nella cultura.
Queste considerazioni
vogliono ora allargarsi per abbracciare tutte le Chiese
orientali, nella varietà delle loro diverse tradizioni. Ai
fratelli delle Chiese d'Oriente va il mio pensiero, nel
desiderio di ricercare insieme la forza di una risposta agli
interrogativi che l'uomo oggi si pone, ad ogni latitudine del
mondo. Al loro patrimonio di fede e di vita intendo
rivolgermi, nella coscienza che il cammino dell'unità non può
conoscere ripensamenti ma è irreversibile come l'appello del
Signore all'unità. «Carissimi, abbiamo questo compito
comune, dobbiamo dire insieme fra Oriente e Occidente: Ne
evacuetur Crux! (cfr. 1Cor 1,17). Non sia svuotata la Croce di
Cristo, perché se si svuota la Croce di Cristo, l'uomo non ha
più radici, non ha più prospettive: è distrutto! Questo è
il grido alla fine del secolo ventesimo. E il grido di Roma,
il grido di Costantinopoli, il grido di Mosca. E il grido di
tutta la cristianità: delle Americhe, dell'Africa, dell'Asia,
di tutti. E il grido della nuova evangelizzazione» [Discorso
dopo la Via Crucis del Venerdi Santo (1· aprile 1994), 3: AAS
87 (1995), 88].
Alle Chiese d'Oriente si
dirige il mio pensiero, come numerosi altri Papi fecero nel
passato, sentendo rivolto anzitutto a sé il mandato di
mantenere l'unità della Chiesa e di cercare instancabilmente
l'unione dei cristiani dove fosse stata lacerata. Un legame
particolarmente stretto già ci unisce. Abbiamo in comune
quasi tutto [cfr. Conc. Ecum. Vat. II, Decr. sull'ecumenismo
Unitatis Redintegratio, 14-18]; e abbiamo in comune
soprattutto l'anelito sincero all'unità.
4. Giunge a tutte le
Chiese, d'Oriente e d'Occidente, il grido degli uomini d'oggi
che chiedono un senso per la loro vita. Noi vi percepiamo
l'invocazione di chi cerca il Padre dimenticato e perduto (cfr.
Lc 15,18-20; Gv 14,8). Le donne e gli uomini di oggi ci
chiedono di indicare loro Cristo, che conosce il Padre e ce lo
ha rivelato (cfr. Gv 8,55; 14,8-11). Lasciandoci interpellare
dalle domande del mondo, ascoltandole con umiltà e tenerezza,
in piena solidarietà con chi le esprime, noi siamo chiamati a
mostrare con parole e gesti di oggi le immense ricchezze che
le nostre Chiese conservano nei forzieri delle loro
tradizioni. Impariamo dal Signore stesso che lungo il cammino
si fermava tra la gente, l'ascoltava, si commuoveva quando li
vedeva «come pecore senza pastore» (Mt 9,36; cfr. Mc 6,34).
Da lui dobbiamo apprendere quello sguardo d'amore con il quale
riconciliava gli uomini con il Padre e con se stessi,
comunicando loro quella forza che sola è in grado di sanare
tutto l'uomo.
Di fronte a questo appello
le Chiese d'Oriente e di Occidente sono chiamate a
concentrarsi sull'essenziale: «Non possiamo presentarci
davanti a Cristo, Signore della storia, così divisi come ci
siamo purtroppo ritrovati nel corso del secondo millennio.
Queste divisioni devono cedere il passo al riavvicinamento e
alla concordia; debbono essere rimarginate le ferite sul
cammino dell'unità dei cristiani» [Discorso al Concistoro
straordinario, 13 giugno 1994].
Al di là delle nostre
fragilità dobbiamo volgerci a Lui, unico Maestro,
partecipando alla sua morte, in modo da purificarci da quel
geloso attaccamento ai sentimenti e alle memorie non delle
grandi cose che Dio ha fatto per noi, ma delle vicende umane
di un passato che pesa ancora fortemente sui nostri cuori. Lo
Spirito renda limpido il nostro sguardo, perché insieme
possiamo camminare verso l'uomo contemporaneo che attende il
lieto annuncio. Se di fronte alle attese e alle sofferenze del
mondo daremo una risposta concorde, illuminante, vivificante,
contribuiremo davvero a un annuncio più efficace del Vangelo
tra gli uomini del nostro tempo.
I
CONOSCERE
L'ORIENTE CRISTIANO
UN'ESPERIENZA DI FEDE
5. «Nell'indagare la
verità rivelata in oriente e in occidente furono usati metodi
e prospettive diversi per giungere alla conoscenza e alla
proclamazione delle cose divine. Non fa quindi meraviglia che
alcuni aspetti del mistero rivelato siano talvolta percepiti
in modo più adatto e posti in miglior luce dall'uno che non
dall'altro, cosicché si può dire allora che quelle varie
formule teologiche non di rado si completino, piuttosto che
opporsi» [Conc. Ecum. Vat. II, Decr. sull'ecumenismo Unitatis
Redintegratio, 17].
Portando nel cuore le
domande, le aspirazioni e le esperienze a cui ho accennato, la
mia mente si volge al patrimonio cristiano dell'Oriente. Non
intendo descriverlo né interpretarlo: mi metto in ascolto
delle Chiese d'Oriente che so essere interpreti viventi del
tesoro tradizionale da esse custodito. Nel contemplarlo
appaiono ai miei occhi elementi di grande significato per una
più piena ed integrale comprensione dell'esperienza cristiana
e, quindi, per dare una più completa risposta cristiana alle
attese degli uomini e delle donne di oggi. Rispetto a
qualsiasi altra cultura, l'Oriente cristiano ha infatti un
ruolo unico e privilegiato, in quanto contesto originario
della Chiesa nascente.
La tradizione orientale
cristiana implica un modo di accogliere, di comprendere e di
vivere la fede nel Signore Gesù. In questo senso essa è
vicinissima alla tradizione cristiana d'Occidente che nasce e
si nutre della stessa fede. Eppure se ne differenzia,
legittimamente e mirabilmente, in quanto il cristiano
orientale ha un proprio modo di sentire e di comprendere, e
quindi anche un modo originale di vivere il suo rapporto con
il Salvatore. Voglio qui avvicinarmi con rispetto e
trepidazione all'atto di adorazione che esprimono queste
Chiese, piuttosto che individuare questo o quel punto
teologico specifico, emerso nei secoli in contrapposizione
polemica nel dibattito tra Occidentali e Orientali.
L'Oriente cristiano fin
dalle origini si mostra multiforme al proprio interno, capace
di assumere i tratti caratteristici di ogni singola cultura e
con un sommo rispetto di ogni comunità particolare. Non
possiamo che ringraziare Dio, con profonda commozione, per la
mirabile varietà con cui ha consentito di comporre, con
tessere diverse, un mosaico così ricco e composito.
6. Vi sono alcuni tratti
della tradizione spirituale e teologica, comuni alle diverse
Chiese d'Oriente, che ne distinguono la sensibilità rispetto
alle forme assolute della trasmissione del Vangelo nelle terre
d'Occidente. Così li sintetizza il Vaticano II: «E noto a
tutti con quanto amore i cristiani orientali compiano le sacre
azioni liturgiche, soprattutto la celebrazione eucaristica,
fonte della vita della Chiesa e pegno della gloria futura, con
la quale i fedeli uniti col Vescovo hanno accesso a Dio Padre
per mezzo del Figlio, Verbo Incarnato, morto e glorificato,
nell'effusione dello Spirito Santo, ed entrano in comunione
con la santissima Trinità, fatti "partecipi della natura
divina" (2Pt 1,4)» [Ibidem, 15].
In questi tratti si
delinea la visione orientale del cristiano, il cui fine è la
partecipazione alla natura divina mediante la comunione al
mistero della santa Trinità. Vi si tratteggiano la «monarchia»
del Padre e la concezione della salvezza secondo l'economia,
quale la presenta la teologia orientale dopo Sant'Ireneo di
Lione e quale si diffonde presso i Padri cappadoci [cfr. S.
Ireneo, Contro le eresie, V,36,2: SCh 153/2,461; S. Basilio,
Trattato sullo Spirito Santo, XV,36: PG 32,132; XVII,43, I.c.,
148; XVIII, 47, I.c., 153].
La partecipazione alla
vita trinitaria si realizza attraverso la liturgia e in modo
particolare l'Eucaristia, mistero di comunione con il corpo
glorificato di Cristo, seme di immortalità [cfr. S. Gregorio
di Nissa, Discorso catechetico XXXVII: PG 45,97]. Nella
divinizzazione e soprattutto nei sacramenti la teologia
orientale attribuisce un ruolo tutto particolare allo Spirito
Santo: per la potenza dello Spirito che dimora nell'uomo la
deificazione comincia già sulla terra, la creatura è
trasfigurata e il Regno di Dio è inaugurato.
L'insegnamento dei Padri
cappadoci sulla divinizzazione è passato nella tradizione di
tutte le Chiese orientali e costituisce parte del loro
patrimonio comune. Ciò si può riassumere nel pensiero già
espresso da Sant'Ireneo alla fine del II secolo: Dio si è
fatto figlio dell'uomo, affinché l'uomo potesse divenire
figlio di Dio [cfr. Contro le eresie, III,10,2: SCh 211/2,121;
III,18,7, I.c., 365; III,19,1, I.c., 375; IV,20,4: SCh
100/2,635; IV 33,4, I.c., 811; V, Pref., SCh 153/2,15]. Questa
teologia della divinizzazione resta una delle acquisizioni
particolarmente care al pensiero cristiano orientale
[Innestati in Cristo «gli uomini diventano dei e figli di
Dio, ... la polvere e innalzata ad un tale grado di gloria da
essere ormai uguale in onore e deità alla natura divina»,
Nicola Cabasilas, La vita in Cristo, I: PG 150,505].
In questo cammino di
divinizzazione ci precedono coloro che la grazia e l'impegno
nella via del bene ha reso «somigliantissimi» al Cristo: i
martiri e i santi [cfr. S.Giovanni Damasceno, Sulle immagini,
I,19: PG 94,1249]. E tra questi un posto tutto particolare
occupa la Vergine Maria, dalla quale è germogliato il
Virgulto di Jesse (cfr. Is 11,1). La sua figura è non solo la
Madre che ci attende ma la Purissima che - realizzazione di
tante prefigurazioni veterotestamentarie - è icona della
Chiesa, simbolo e anticipo dell'umanità trasfigurata dalla
grazia, modello e sicura speranza per quanti muovono i loro
passi verso la Gerusalemme del cielo [cfr. Giovanni Paolo II,
Lett. enc. Redemptoris Mater (25 marzo 1987) 31-34: AAS 79
(1987), 402-406; Conc. Ecum. Vat. II, Decr. sull'ecumenismo
Unitatis Redintegratio, 15].
Pur accentuando fortemente
il realismo trinitario e la sua implicazione nella vita
sacramentale l'Oriente associa la fede nell'unità della
natura divina alla inconoscibilità della divina essenza. I
Padri orientali affermano sempre che è impossibile sapere ciò
che Dio è, si può solo sapere che Egli è, poiché si è
rivelato nella storia della salvezza come Padre, Figlio e
Spirito Santo [cfr. S. Ireneo, Contro le eresie, II,28,3-6:
SCh 294,274-284; S. Gregorio di Nissa, Vita di Mosè: PG
44,377; S. Gregorio di Nazianzo, Sulla santa Pasqua, or. XLV,
3s: PG 36,625-630].
Questo senso della
indicibile realtà divina si riflette nella celebrazione
liturgica, dove il senso del mistero è colto così fortemente
da parte di tutti i fedeli dell'Oriente cristiano.
«In oriente si trovano
pure le ricchezze di quelle tradizioni spirituali, che sono
state espresse specialmente dal monachesimo. Ivi infatti fin
dai gloriosi tempi dei santi padri fiorì quella spiritualità
monastica, che si estese poi all'occidente e dalla quale, come
da sua fonte trasse origine la regola monastica dei latini e
in seguito ricevette ripetutamente nuovo vigore. Perciò
caldamente si raccomanda che i cattolici con maggior frequenza
accedano a queste ricchezze dei padri orientali, le quali
trasportano tutto l'uomo alla contemplazione delle cose divine»
[Conc. Ecum. Vat. II, Decr. sull'ecumenismo Unitatis
Redintegratio, 15].
Vangelo, Chiese e
culture
7. Già altre volte ho
messo in evidenza che un primo grande valore vissuto
particolarmente nell'Oriente cristiano consiste
nell'attenzione ai popoli e alle loro culture, perché la
Parola di Dio e la sua lode possano risuonare in ogni lingua.
Su questo tema mi sono soffermato nella Lettera enciclica
Slavorum Apostoli, ove rilevavo che Cirillo e Metodio «desiderarono
diventare simili sotto ogni aspetto a coloro ai quali recavano
il Vangelo; vollero diventare parte di quei popoli e
condividerne in tutto la sorte» [N. 9: AAS 77 (1985),
789-790]; «si trattava di un nuovo metodo di catechesi»
[Ibidem, II, I.c., 791]. Nel fare questo essi espressero un
atteggiamento molto diffuso nell'Oriente cristiano: «Incarnando
il Vangelo nella peculiare cultura dei popoli che
evangelizzavano, i Santi Cirillo e Metodio ebbero particolari
meriti per la formazione e lo sviluppo di quella stessa
cultura o, meglio, di molte culture» [Ibidem, 21, I.c.,
802-803]. Rispetto e considerazione per le culture particolari
si uniscono in essi alla passione per l'universalità della
Chiesa, che instancabilmente si sforzano di realizzare.
L'atteggiamento dei due fratelli di Salonicco è
rappresentativo, nell'antichità cristiana, di uno stile
tipico di molte Chiese: la rivelazione si annuncia in modo
adeguato e si fa pienamente comprensibile quando Cristo parla
la lingua dei vari popoli, e questi possono leggere la
Scrittura e cantare la liturgia nella lingua e con le
espressioni che sono loro proprie, quasi rinnovando i prodigi
della Pentecoste.
In un tempo nel quale si
riconosce come sempre più fondamentale il diritto di ogni
popolo ad esprimersi secondo il proprio patrimonio di cultura
e di pensiero, l'esperienza delle singole Chiese d'Oriente ci
si presenta come un autorevole esempio di riuscita
inculturazione.
Da questo modello
apprendiamo che se vogliamo evitare il rinascere di
particolarismi e anche di nazionalismi esasperati, dobbiamo
comprendere che l'annuncio del Vangelo deve essere, ad un
tempo, profondamente radicato nella specificità delle culture
ed aperto a confluire in una universalità che è scambio per
il comune arricchimento.
Tra memoria e attesa
8. Spesso oggi ci sentiamo
prigionieri del presente; è come se l'uomo avesse smarrito la
percezione di far parte di una storia che lo precede e lo
segue. A questa fatica di collocarsi tra passato e futuro con
animo grato per i benefici ricevuti e per quelli attesi, in
particolare le Chiese dell'Oriente offrono uno spiccato senso
della continuità, che prende i nomi di Tradizione e di attesa
escatologica.
La Tradizione è
patrimonio della Chiesa di Cristo, memoria viva del Risorto
incontrato e testimoniato dagli Apostoli che ne hanno
trasmesso il ricordo vivente ai loro successori, in una linea
ininterrotta che è garantita dalla successione apostolica,
attraverso l'imposizione delle mani, fino ai Vescovi di oggi.
Essa si articola nel patrimonio storico e culturale di
ciascuna Chiesa, plasmato in essa dalla testimonianza dei
martiri, dei padri e dei santi, nonché dalla fede viva di
tutti i cristiani lungo i secoli fino ai nostri giorni. Si
tratta non di una ripetizione immutata di formule, ma di un
patrimonio che custodisce il vivo nucleo kerygmatico
originario. E la Tradizione che sottrae la Chiesa al pericolo
di raccogliere solo opinioni mutevoli e ne garantisce la
certezza e la continuità.
Quando gli usi e le
consuetudini propri di ciascuna Chiesa vengono intesi come
pura immobilità, si rischia certo di sottrarre alla
Tradizione quel carattere di realtà vivente, che cresce e si
sviluppa, e che lo Spirito le garantisce proprio perché essa
parli agli uomini di ogni tempo. E come già la Scrittura
cresce con chi la legge [«Divina eloquia cum legente crescunt»:
S. Gregorio Magno In Ezechiel, I,VII,8: PL 76,843], così ogni
altro elemento del patrimonio vivo della Chiesa cresce nella
comprensione dei credenti e si arricchisce di apporti nuovi,
nella fedeltà e nella continuità [cfr. Conc. Ecum. Vat. II,
Cost. dogm. sulla divina Rivelazione Dei Verbum, 8]. Solo una
religiosa assimilazione, nell'obbedienza della fede, di ciò
che la Chiesa chiama «Tradizione» consentirà a questa di
incarnarsi nelle diverse situazioni e condizioni
storico-culturali [cfr. Commissione Teologica lnternazionale,
Interpretationis problema (ottobre 1989), II,1-2: EnVat 11,
pp. 1717-1719]. La Tradizione non è mai pura nostalgia di
cose o forme passate, o rimpianto di privilegi perduti, ma la
memoria viva della Sposa conservata eternamente giovane
dall'Amore che la inabita.
Se la Tradizione ci pone
in continuità con il passato, l'attesa escatologica ci apre
al futuro di Dio. Ogni Chiesa deve lottare contro la
tentazione di assolutizzare ciò che compie e quindi di
autocelebrarsi o di abbandonarsi alla tristezza. Ma il tempo
è di Dio, e tutto ciò che si realizza non si identifica mai
con la pienezza del Regno, che è sempre dono gratuito. Il
Signore Gesù è venuto a morire per noi ed è risorto dai
morti, mentre la creazione, salvata nella speranza, soffre
ancora nelle doglie del parto (cfr. Rm 8,22); quello stesso
Signore tornerà per consegnare il cosmo al Padre (cfr. 1Cor
15,28). Questo ritorno la Chiesa invoca, e di esso è
testimone privilegiato il monaco e il religioso.
L'Oriente esprime in modo
vivo le realtà della tradizione e dell'attesa. Tutta la sua
liturgia, in particolare, è memoriale della salvezza e
invocazione del ritorno del Signore. E se la Tradizione
insegna alle Chiese la fedeltà a ciò che le ha generate,
l'attesa escatologica le spinge al essere ciò che ancora non
sono in pienezza e che il Signore vuole che diventino, e
quindi a cercare sempre nuove vie di fedeltà, vincendo il
pessimismo perché proiettate verso la speranza di Dio che non
delude.
Dobbiamo mostrare agli
uomini la bellezza della memoria, la forza che ci viene dallo
Spirito e che ci rende testimoni perché siamo figli di
testimoni; far gustare loro le cose stupende che lo Spirito ha
disseminato nella storia; mostrare che è proprio la
Tradizione a conservarle dando quindi speranza a coloro che,
pur non avendo veduto i loro sforzi di bene coronati da
successo, sanno che qualcun altro li porterà a compimento,
allora l'uomo si sentirà meno solo, meno rinchiuso
nell'angolo angusto del proprio operato individuale.
Il monachesimo come
esemplarità di vita battesimale
9. Vorrei ora guardare il
vasto paesaggio del cristianesimo d'Oriente da un'altura
particolare, che permette di scorgerne molti tratti: il
monachesimo.
In Oriente il monachesimo
ha conservato una grande unità, non conoscendo, come in
Occidente, la formazione dei diversi tipi di vita apostolica.
Le varie espressioni della vita monastica, dal cenobitismo
stretto, come lo concepivano Pacomio o Basilio, all'eremitismo
più rigoroso di un Antonio o di un Macario l'egiziano,
corrispondono più a stadi diversi del cammino spirituale che
alla scelta tra diversi stati di vita. Tutti comunque si
rifanno al monachesimo in sé, in qualsiasi forma esso si
esprima.
Inoltre il monachesimo non
è stato visto in Oriente soltanto come una condizione a
parte, propria di una categoria di cristiani ma
particolarmente come punto di riferimento per tutti i
battezzati, nella misura dei doni offerti a ciascuno dal
Signore, proponendosi come una sintesi emblematica del
cristianesimo.
Quando Dio chiama in modo
totale come nella vita monastica, allora la persona può
raggiungere il punto più alto di quanto sensibilità, cultura
e spiritualità sono in grado di esprimere. Ciò vale a
maggior ragione per le Chiese orientali, per le quali il
monachesimo costituì una esperienza essenziale e che ancora
oggi mostra di fiorire in esse, non appena la persecuzione ha
termine e i cuori possono levarsi in libertà verso i cieli.
Il monastero è il luogo profetico in cui il creato diventa
lode di Dio e il precetto della carità concretamente vissuta
diventa ideale di convivenza umana, e dove l'essere umano
cerca Dio senza barriere e impedimenti, diventando riferimento
per tutti, portandoli nel cuore ed aiutandoli a cercare Dio.
Vorrei anche ricordare la
fulgida testimonianza delle monache nell'Oriente cristiano.
Essa ha indicato un modello di valorizzazione dello specifico
femminile nella Chiesa, anche forzando la mentalità del
tempo. Durante recenti persecuzioni, soprattutto nei paesi
dell'Est europeo, quando molti monasteri maschili furono
chiusi con violenza, il monachesimo femminile ha conservato
accesa la fiaccola della vita monastica. Il carisma della
monaca con le caratteristiche che le sono specifiche, è un
segno visibile di quella maternità di Dio alla quale sovente
si richiama la Scrittura santa.
Guarderò dunque al
monachesimo, per individuare quei valori che sento oggi molto
importanti per esprimere l'apporto dell'Oriente cristiano al
cammino della Chiesa di Cristo verso il Regno. Senza essere
esclusivi talvolta né della sola esperienza monastica né del
patrimonio dell'Oriente, questi aspetti hanno spesso acquisito
in esso una connotazione particolare. D'altronde noi stiamo
cercando di valorizzare non l'esclusività ma l'arricchimento
reciproco in ciò che l'unico Spirito ha suscitato nell'unica
Chiesa di Cristo.
Il monachesimo è stato da
sempre l'anima stessa delle Chiese orientali: i primi monaci
cristiani sono nati in Oriente e la vita monastica è stata
parte integrante del lumen orientale trasmesso in Occidente
dai grandi Padri della Chiesa indivisa [Grande è stato
l'influsso in Occidente della Vita di Antonio, scritta da S.
Atanasio: PG 26,835-977. La ricorda, tra gli altri, S.
Agostino nelle sue Confessiones, VIII, 6: CSEL 33,181-182. Le
traduzioni di opere dei Padri orientali, tra le quali le
Regole di S. Basilio: PG 31,889-1305; la Storia dei monaci d
'Egitto: PG 65,441-456, e gli Apoftegmi dei Padri del deserto:
PG 65,72-440 segnarono il monachesimo in Occidente; cfr.
Guglielmo di Saint-Thierry, Epistula ad Fratres de Monte Dei:
SCh 223,130-384].
I forti tratti comuni che
uniscono l'esperienza monastica d'Oriente e d'Occidente fanno
di essa un mirabile ponte di fraternità, dove l'unità
vissuta risplende persino più di quanto possa apparire nel
dialogo fra le Chiese.
Tra Parola ed
Eucaristia
10. Il monachesimo in modo
particolare rivela che la vita è sospesa tra due vertici: la
Parola di Dio e l'Eucaristia. Ciò significa che esso è
sempre, anche nelle sue forme eremitiche, al contempo risposta
personale a una chiamata individuale ed evento ecclesiale e
comunitario.
E la Parola di Dio il
punta di partenza del monaco, una Parola che chiama, che
invita; che personalmente interpella, come accadde agli
Apostoli. Quando una persona è raggiunta dalla Parola, nasce
l'obbedienza, cioè l'ascolto che cambia la vita. Ogni giorno
il monaco si nutre del pane della Parola. Privato di esso egli
è come morto, e non ha più nulla da comunicare ai fratelli,
perché la Parola è Cristo, al quale il monaco è chiamato a
conformarsi.
Anche quando canta con i
suoi fratelli la preghiera che santifica il tempo, egli
continua la sua assimilazione della Parola. La ricchissima
innografia liturgica, della quale vanno giustamente fiere
tutte le Chiese dell'Oriente cristiano, non è che la
continuazione della Parola letta, compresa, assimilata e
finalmente cantata: quegli inni sono in gran parte delle
sublimi parafrasi del testo biblico, filtrate e personalizzate
attraverso l'esperienza del singolo e della comunità.
Di fronte all'abisso della
divina misericordia al monaco non resta che proclamare la
coscienza della propria povertà radicale, che diviene subito
invocazione e grido di giubilo per una salvezza ancora più
generosa, perché insperabile dall'abisso della propria
miseria [cfr. ad esempio S. Basilio, Regola breve: PG
31,1079-1305; S. Giovanni Crisostomo, Sulla compunzione: PG 47
391-422; Omelie su Matteo, om. XV,3, PG 57,225-228; S.
Gregorio di Nissa Sulle beatitudini, om. 3: PG 44,1219-1232].
Ecco perché l'invocazione di perdono e la glorificazione di
Dio sostanziano gran parte della preghiera liturgica. Il
cristiano è immerso nello stupore di questo paradosso, ultimo
di una infinita serie, tutta magnificata con riconoscenza nel
linguaggio della liturgia: l'Immenso si fa limite, una vergine
partorisce; attraverso la morte Colui che è la vita sconfigge
per sempre la morte, nell'alto dei cieli un corpo umano si
asside alla destra del Padre.
Al culmine di questa
esperienza orante sta l'Eucaristia, l'altro vertice
indissolubilmente legato alla Parola, in quanto luogo nel
quale la Parola si fa Carne e Sangue, esperienza celeste ove
essa torna a farsi evento.
Nell'Eucaristia si svela
la natura profonda della Chiesa, comunità dei convocati alla
sinassi per celebrare il dono di Colui che è offerente ed
offerta: essi, partecipando ai Santi Misteri divengono «consanguinei»
[cfr. Nicola Cabasilas, La vita in Cristo, IV: PG 150,584-585;
Cirillo d'Alessandria, Trattato su Giovanni, 11: PG 74,561;
ibidem, 12, 1.c., 564; S. Giovanni Crisostomo, Omelie su
Matteo om. LXXXII,5: PG 58,743-744] di Cristo, anticipando
l'esperienza della divinizzazione nell'ormai inseparabile
vincolo che lega in Cristo divinità e umanità.
Ma l'Eucaristia è anche
ciò che anticipa l'appartenenza di uomini e cose alla
Gerusalemme celeste. Essa svela così compiutamente la sua
natura escatologica: come segno vivente di tale attesa, il
monaco prosegue e porta a pienezza nella liturgia
l'invocazione della Chiesa, la Sposa che supplica il ritorno
dello Sposo in un «marana tha» continuamente ripetuto non
solo a parole, ma con l'intera esistenza.
Una liturgia per
tutto l'uomo e per tutto il cosmo
11. Nell'esperienza
liturgica, Cristo Signore è la luce che illumina il cammino e
svela la trasparenza del cosmo, proprio come nella Scrittura.
Gli avvenimenti del passato trovano in Cristo significato e
pienezza e il creato si rivela per ciò che è: un insieme di
tratti che solo nella liturgia trovano la loro compiutezza, la
loro piena destinazione. Ecco perché la liturgia è il cielo
sulla terra e in essa il Verbo che ha assunto la carne permea
la materia di una potenzialità salvifica che si manifesta in
pienezza nei Sacramenti: lì la creazione comunica a ciascuno
la potenza conferitale da Cristo. Così il Signore, immerso
nel Giordano, trasmette alle acque una potenza che le abilita
ad essere lavacro di rigenerazione battesimale [cfr. S.
Gregorio di Nazianzo, Discorso XXXIX: PG 36,335-360].
In questo quadro la
preghiera liturgica in Oriente mostra una grande attitudine a
coinvolgere la persona umana nella sua totalità: il mistero
è cantato nella sublimità dei suoi contenuti, ma anche nel
calore dei sentimenti che suscita nel cuore dell'umanità
salvata. Nell'azione sacra anche la corporeità è convocata
alla lode e la bellezza, che in Oriente è uno dei nomi più
cari per esprimere la divina armonia e il modello dell'umanità
trasfigurata [cfr. Clemente di Alessandria, Il Pedagogo, III,1,1:
SCh 158,12], si mostra ovunque: nelle forme del tempio, nei
suoni, nei colori, nelle luci, nei profumi. Il tempo
prolungato delle celebrazioni, la ripetuta invocazione, tutto
esprime un progressivo immedesimarsi nel mistero celebrato con
tutta la persona. E la preghiera della Chiesa diviene così già
partecipazione alla liturgia celeste, anticipo della
beatitudine finale.
Questa valorizzazione
integrale della persona nelle sue componenti razionali ed
emotive, nell'«estasi» e nell'immanenza, è di grande
attualità, costituendo una mirabile scuola per la
comprensione del significato delle realtà create: esse non
sono né un assoluto, né un nido di peccato e di iniquità.
Nella liturgia le cose svelano la propria natura di dono
offerto dal Creatore all'umanità: «Dio vide quanto aveva
fatto, ed ecco, era cosa molto buona» (Gen 1,31). Se tutto ciò
è segnato dal dramma del peccato, che appesantisce la materia
e ne ostacola la trasparenza, questa è redenta
nell'Incarnazione e resa pienamente teoforica, cioè capace di
metterci in relazione con il Padre: questa proprietà è
massimamente manifesta nei santi misteri, i Sacramenti della
Chiesa.
Il Cristianesimo non
rifiuta la materia, la corporeità, che viene anzi valorizzata
in pieno nell'atto liturgico, nel quale il corpo umano mostra
la sua intima natura di tempio dello Spirito e giunge ad
unirsi al Signore Gesù, fatto anch'egli corpo per la salvezza
del mondo. Né questo comporta una esaltazione assoluta di
tutto quanto è fisico, perché conosciamo bene quale
disordine abbia introdotto il peccato nell'armonia dell'essere
umano. La liturgia rivela che il corpo, attraversando il
mistero della Croce, è in cammino verso la trasfigurazione,
la pneumatizzazione: sul monte Tabor Cristo lo ha mostrato
splendente come è volere del Padre che torni ad essere.
Ed anche la realtà
cosmica è convocata al rendimento di grazie, perché tutto il
cosmo è chiamato alla ricapitolazione nel Cristo Signore. Si
esprime in questa concezione un equilibrato e mirabile
insegnamento sulla dignità, il rispetto e la finalità della
creazione e del corpo umano in particolare. Esso, rigettato
parimenti ogni dualismo ed ogni culto del piacere fine a se
stesso, diventa luogo reso luminoso dalla grazia e quindi
pienamente umano.
A chi cerca un rapporto di
autentico significato con se stesso e con il cosmo, così
spesso ancora sfigurato dall'egoismo e dall'ingordigia, la
liturgia rivela la via verso l'equilibrio dell'uomo nuovo e
invita al rispetto per la potenzialità eucaristica del mondo
creato: esso è destinato ad essere assunto nell'Eucaristia
del Signore, nella sua Pasqua presente nel sacrificio
dell'altare.
Uno sguardo limpido
alla scoperta di se stessi
12. A Cristo, l'Uomo-Dio,
si volge lo sguardo del monaco: nel volto sfigurato di Lui,
uomo del dolore, egli già scorge l'annuncio profetico del
volto trasfigurato del Risorto. All'occhio contemplativo il
Cristo si rivela come alle donne di Gerusalemme, salite a
contemplare il misterioso spettacolo del Calvario. E così,
formato a quella scuola, lo sguardo del monaco si abitua a
contemplare Cristo anche nelle pieghe nascoste della creazione
e nella storia degli uomini, essa pure compresa nel suo
progressivo conformarsi al Cristo totale.
Lo sguardo
progressivamente cristificato impara così a distaccarsi
dall'esteriorità, dal turbine dei sensi da quanto cioè
impedisce all'uomo quella lievità disponibile a lasciarsi
afferrare dallo Spirito. Percorrendo questa strada egli si
lascia riconciliare con Cristo in un incessante processo di
conversione: nella coscienza del proprio peccato e della
lontananza dal Signore, che si fa compunzione del cuore
simbolo del proprio battesimo nell'acqua salutare delle
lacrime; nel silenzio e nella quiete interiore ricercata e
donata, dove si apprende a far battere il cuore in armonia con
il ritmo dello Spirito, eliminando ogni doppiezza o ambiguità.
Questo divenire sempre più sobrio ed essenziale, più
trasparente a se stesso, può farlo cadere nell'orgoglio e
nell'intransigenza, se arriva a ritenere che ciò sia il
frutto del suo sforzo ascetico. Il discernimento spirituale,
nella continua purificazione, lo rende allora umile e
mansueto, cosciente di percepire solo qualche tratto di quella
verità che lo sazia, perché è dono dello Sposo, Lui solo
pienezza di felicità.
All'uomo che cerca il
significato della vita, l'Oriente offre questa scuola per
conoscersi ed essere libero, amato da quel Gesù che disse: «Venite
a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi
ristorerò» (Mt 11,28). A chi cerca la guarigione interiore,
egli dice di continuare a cercare: se l'intenzione è retta e
la via onesta alla fine il volto del Padre si farà
riconoscere, impresso com'è nelle profondità del cuore
umano.
Un padre nello
Spirito
13. Il percorso del monaco
non è scandito in genere unicamente da uno sforzo personale,
ma fa riferimento ad un padre spirituale, al quale si
abbandona con fiducia filiale nella certezza che in lui si
manifesta la tenera ed esigente paternità di Dio. Questa
figura dà al monachesimo orientale una straordinaria duttilità:
per l'opera del padre spirituale il cammino di ogni monaco è
infatti fortemente personalizzato nei tempi, nei ritmi, nei
modi della ricerca di Dio. Proprio perché il padre spirituale
è il punto di raccordo e di ammonizzazione, ciò consente al
monachesimo la più grande varietà di espressioni,
cenobitiche ed eremitiche. Il monachesimo in Oriente ha così
potuto essere realizzazione delle attese di ciascuna Chiesa
nei vari periodi della sua storia [Significative sono, ad
esempio, le esperienze di Antonio; cfr. S. Atanasio Vita di
Antonio, 15: PG 26,865; di S. Pacomio, Les vies copres de
saint Pakhome et ses successeurs, ed. L. Th. Lefort, Louvain
1943, p.3; e la testimonianza di Evagrio Il Pontico, Trattato
pratico, 100: SCh 171,710].
In questa ricerca
l'Oriente insegna in modo particolare che ci sono fratelli e
sorelle ai quali lo Spirito ha elargito il dono della guida
spirituale: essi sono punti di riferimento preziosi, perché
guardano con l'occhio di amore che Dio tiene su di noi. Non si
tratta di rinunciare alla propria libertà, per farsi gestire
da altri: si tratta di trarre profitto dalla conoscenza del
cuore, che è un vero carisma per essere aiutati, con dolcezza
e fermezza a trovare la strada della verità. Il nostro mondo
ha un estremo bisogno di padri. Spesso li ha rifiutati perché
gli sembravano poco credibili, o il loro modello appariva
ormai superato e poco attraente per la sensibilità corrente.
Stenta tuttavia a trovarne di nuovi, e allora soffre nella
paura e nell'incertezza, senza modelli e punti di riferimento.
Colui che è padre nello Spirito, se è veramente tale - e il
popolo di Dio ha sempre mostrato di saperlo riconoscere -, non
farà uguali a se stesso, ma aiuterà a trovare la strada
verso il Regno.
Certo, anche all'Occidente
è dato il dono mirabile di una vita monastica, maschile e
femminile, che custodisce il dono della guida nello Spirito ed
attende di essere valorizzata. In quell'ambito e dovunque la
grazia susciti tali preziosi strumenti di maturazione
interiore, possano i responsabili coltivare e valorizzare un
tale dono e tutti avvalersene: sperimenteranno così quale
consolazione e quale sostegno sia la paternità nello Spirito
per il loro cammino di fede [cfr. Giovanni Paolo II, Omelia ai
Religiosi e alle Religiose (2 febbraio 1988), 6: AAS 80
(1988), 1111].
Comunione e servizio
14. Proprio nel
progressivo distacco da ciò che nel mondo lo ostacola nella
comunione col suo Signore, il monaco ritrova il mondo come
luogo ove si riflette la bellezza del Creatore e l'amore del
Redentore. Nella sua orazione il monaco pronuncia una epiclesi
dello Spirito sul mondo ed è certo che sarà esaudito, perché
essa partecipa della stessa preghiera di Cristo. E così egli
sente nascere in sé un amore profondo per l'umanità, quell'amore
che la preghiera in Oriente così spesso celebra come
attributo di Dio, l'amico degli uomini che non ha esitato ad
offrire suo Figlio perché il mondo fosse salvo. In questo
atteggiamento è dato talora al monaco di contemplare quel
mondo già trasfigurato dall'azione deificante del Cristo
morto e risorto.
Qualunque sia la modalità
che lo Spirito gli riserva, il monaco è sempre essenzialmente
l'uomo della comunione. Con questo nome si è indicato fin
dall'antichità anche lo stile monastico della vita
cenobitica. Il monachesimo ci mostra come non vi sia autentica
vocazione che non nasca dalla Chiesa e per la Chiesa. Ne è
testimonianza l'esperienza di tanti monaci che, rinchiusi
nelle loro celle, portano nella loro preghiera una
straordinaria passione non solo per la persona umana ma per
ogni creatura, nell'invocazione incessante affinché tutto si
converta alla corrente salvifica dell'amore di Cristo. Questo
cammino di liberazione interiore nell'apertura all'Altro fa
del monaco l'uomo della carità. Alla scuola dell'apostolo
Paolo che indica la pienezza della legge nella carità (cfr.
Rm 13,10), la comunione monastica orientale è sempre stata
attenta a garantire la superiorità dell'amore rispetto ad
ogni legge.
Essa si manifesta
anzitutto nel servizio ai fratelli nella vita monastica ma poi
anche alla comunità ecclesiale, in forme che variano nei
tempi e nei luoghi, e vanno dalle opere sociali alla
predicazione itinerante. Le Chiese d'Oriente hanno vissuto con
grande generosità questo impegno, a cominciare dalla
evangelizzazione che è il servizio più alto che il cristiano
possa offrire al fratello, per proseguire in molte altre forme
di servizio spirituale e materiale. Si può anzi dire che il
monachesimo sia stato nell'antichità - e, a varie riprese,
anche in tempi successivi - lo strumento privilegiato per
l'evangelizzazione dei popoli.
Una persona in
relazione
15. La vita del monaco dà
ragione dell'unità che esiste in Oriente fra spiritualità e
teologia: il cristiano, e il monaco in particolare, più che
cercare verità astratte, sa che solo il suo Signore è Verità
e Vita, ma sa anche che egli è la Via (cfr. Gv 14,6) per
raggiungere entrambe; conoscenza e partecipazione sono dunque
un'unica realtà: dalla persona al Dio tripersonale attraverso
l'Incarnazione del Verbo di Dio.
L'Oriente ci aiuta a
delineare con grande ricchezza di elementi il significato
cristiano della persona umana. Esso è centrato
sull'Incarnazione, dalla quale trae luce la stessa creazione.
In Cristo, vero Dio e vero uomo, si svela la pienezza
dell'umana vocazione: perché l'uomo diventasse Dio il Verbo
ha assunto l'umanità. L'uomo, che conosce continuamente il
gusto amaro del suo limite e del suo peccato, non si abbandona
allora alla recriminazione o all'angoscia perché sa che
dentro di sé opera la potenza della divinità. L'umanità è
stata assunta da Cristo senza separazione dalla natura divina
e senza confusione [cfr. Symbolum Chalsedonense, DS 301-302],
e l'uomo non è lasciato solo a tentare, in mille modi spesso
frustrati, una impossibile scalata al cielo: vi è un
tabernacolo di gloria, che è la persona santissima di Gesù
il Signore, dove divino e umano si incontrano in un abbraccio
che non potrà mai essere sciolto: il Verbo si è fatto carne,
in tutto simile a noi eccetto il peccato. Egli versa la
divinità nel cuore malato dell'umanità e, infondendovi lo
Spirito del Padre, la rende capace di diventare Dio per
grazia.
Ma se questo ci ha
rivelato il Figlio, allora a noi è dato di accostarci al
mistero del Padre, principio di comunione nell'amore. La
Trinità Santissima ci appare allora come una comunità di
amore: conoscere un simile Dio significa sentire l'urgenza che
egli parli al mondo, che si comunichi, e la storia della
salvezza non è che la storia d'amore di Dio per la creatura
che egli ha amato e scelto, volendola «secondo l'icona
dell'icona» - come si esprime l'intuizione dei Padri
orientali [cfr. S. Ireneo, Contro le eresie, V,16,2: SCh
153/2,217; IV, 334: SCh 100/2,811; S. Atanasio, Contro i
Gentili 2-3 e 34: PG 25,5-8 e 68-69; L'incarnazione del Verbo,
12-13: SCh 18,228-231], - cioè plasmata ad immagine
dell'Immagine, che è il Figlio, condotta alla comunione
perfetta dal santificatore, lo Spirito d'amore. E anche quando
l'uomo pecca, questo Dio lo cerca e lo ama, perché la
relazione non sia fratturata e l'amore continui a scorrere. E
lo ama nel mistero del Figlio, che si lascia uccidere sulla
croce da un mondo che non lo riconobbe, ma è risuscitato dal
Padre, quale garanzia perenne che nessuno può uccidere
l'amore, perché chiunque ne è partecipe è toccato dalla
gloria di Dio: è quest'uomo trasformato dall'amore che i
discepoli hanno contemplato sul Tabor, l'uomo che noi tutti
siamo chiamati ad essere.
Un silenzio che
adora
16. Eppure continuamente
questo mistero si vela, si copre di silenzio [Il silenzio («hesychia»)
è una componente essenziale della spiritualità monastica
orientale; cfr. Vita e detti dei Padri del Deserto: PG
65,72-456; Evagrio Il Pontico, Le basi della vita monastica:
PC 40,1252-1264], per evitare che, in luogo di Dio, ci si
costruisca un idolo. Solo in una purificazione progressiva
della conoscenza di comunione, l'uomo e Dio si incontreranno e
riconosceranno nell'abbraccio eterno la loro mai cancellata
connaturalità d'amore.
Nasce così quello che
viene chiamato l'apofatismo dell'Oriente cristiano: più
l'uomo cresce nella conoscenza di Dio, più lo percepisce come
mistero inaccessibile, inafferrabile nella sua essenza. Ciò
non va confuso con un misticismo oscuro dove l'uomo si perde
in enigmatiche realtà impersonali. Anzi, i cristiani
d'Oriente si rivolgono a Dio come Padre, Figlio, Spirito
Santo, persone vive, teneramente presenti, alle quali
esprimono una dossologia liturgica solenne e umile, maestosa e
semplice. Essi però percepiscono che a questa presenza ci si
avvicina soprattutto lasciandosi educare ad un silenzio
adorante, perché al culmine della conoscenza e
dell'esperienza di Dio sta la sua assoluta trascendenza. Ad
esso si giunge, più che attraverso una meditazione
sistematica, mediante l'assimilazione orante della Scrittura e
della liturgia.
In questa umile
accettazione del limite creaturale di fronte all'infinita
trascendenza di un Dio che non cessa di rivelarsi come il
Dio-Amore, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, nel gaudio
dello Spirito Santo, io vedo espresso l'atteggiamento della
preghiera e il metodo teologico che l'Oriente preferisce e
continua ad offrire a tutti i credenti in Cristo.
Dobbiamo confessare che
abbiamo tutti bisogno di questo silenzio carico di presenza
adorata: la teologia, per poter valorizzare in pieno la
propria anima sapienziale e spirituale; la preghiera, perché
non dimentichi mai che vedere Dio significa scendere dal monte
con un volto così raggiante da essere costretti a coprirlo
con un velo (cfr. Es 34, 33) e perché le nostre assemblee
sappiano fare spazio alla presenza di Dio, evitando di
celebrare se stesse; la predicazione, perché non si illuda
che sia sufficiente moltiplicare parole per attirare
all'esperienza di Dio; l'impegno, per rinunciare a chiudersi
in una lotta senza amore e perdono. Ne ha bisogno l'uomo di
oggi che spesso non sa tacere per paura di incontrare se
stesso, di svelarsi, di sentire il vuoto che si fa domanda di
significato; l'uomo che si stordisce nel rumore. Tutti,
credenti e non credenti, hanno bisogno di imparare un silenzio
che permetta all'Altro di parlare, quando e come vorrà, e a
noi di comprendere quella parola.
II
DALLA
CONOSCENZA ALL'INCONTRO
17. Trent'anni sono
trascorsi da quando i Vescovi della Chiesa cattolica, riuniti
in Concilio con la presenza di non pochi fratelli delle altre
Chiese e Comunità ecclesiali, hanno ascoltato la voce dello
Spirito che illuminava verità profonde sulla natura della
Chiesa, manifestando così che tutti i credenti in Cristo si
trovavano molto più vicini di quanto potessero pensare, tutti
in cammino verso l'unico Signore, tutti sostenuti e sorretti
dalla sua grazia. Emergeva di qui un invito sempre più
pressante all'unità.
Da allora molta strada si
è fatta nella conoscenza reciproca. Essa ha intensificato la
stima e ci ha consentito spesso di pregare insieme l'unico
Signore ed anche gli uni per gli altri, in un cammino di carità
che è già pellegrinaggio di unità.
Dopo gli importanti passi
compiuti da Papa Paolo VI, ho voluto che si proseguisse sulla
strada della reciproca conoscenza nella carità. Posso
testimoniare la gioia profonda che ha suscitato in me
l'incontro fraterno con tanti capi e rappresentanti di Chiese
e Comunità ecclesiali in questi anni. Insieme abbiamo
condiviso preoccupazioni e attese, insieme abbiamo invocato
l'unione tra le nostre Chiese e la pace per il mondo. Ci siamo
sentiti insieme più responsabili del bene comune, non solo
come singoli ma a nome dei cristiani di cui il Signore ci ha
fatto pastori. Talvolta a questa Sede di Roma sono giunti i
pressanti appelli di altre Chiese, minacciate o colpite dalla
violenza e dal sopruso. A tutte essa ha cercato di aprire il
proprio cuore. Per loro, appena è stato possibile, si è
levata la voce del Vescovo di Roma, perché gli uomini di
buona volontà ascoltassero il grido di quei nostri fratelli
sofferenti.
«Tra i peccati che
esigono un maggior impegno di penitenza e di conversione
devono essere annoverati certamente quelli che hanno
pregiudicato l'unità voluta da Dio per il suo popolo. Nel
corso dei mille anni che si stanno concludendo, ancor più che
nel primo millennio, la comunione ecclesiale, "talora non
senza colpa di uomini d'entrambe le parti" [Conc. Ecum.
Vat. II, Decr. sull'ecumenismo Unitatis Redintegratio, 3], ha
conosciuto dolorose lacerazioni che contraddicono apertamente
alla volontà di Cristo e sono di scandalo al mondo. Tali
peccati del passato fanno sentire ancora, purtroppo, il loro
peso e permangono come altrettante tentazioni anche nel
presente. E necessario farne ammenda, invocando con forza il
perdono di Cristo» [Giovanni Paolo II, Lett. ap.Tertio
Millennio Adveniente (10 novembre 1994), 34: AAS 87 (1995),
26].
Il peccato della nostra
separazione è gravissimo: sento il bisogno che cresca la
nostra comune disponibilità allo Spirito che ci chiama a
conversione, ad accettare e riconoscere l'altro con rispetto
fraterno, a compiere nuovi gesti coraggiosi, capaci di
sciogliere ogni tentazione di ripiegamento. Sentiamo la
necessità di andare oltre il grado di comunione che abbiamo
raggiunto.
18. Si fa in me ogni
giorno più acuto il desiderio di ripercorrere la storia delle
Chiese, per scrivere finalmente una storia della nostra unità,
e riandare così al tempo in cui, all'indomani della morte e
della risurrezione del Signore Gesù, il Vangelo si diffuse
nelle culture più varie, ed ebbe inizio uno scambio
fecondissimo ancor oggi testimoniato dalle liturgie delle
Chiese. Pur non mancando difficoltà e contrasti, le lettere
degli Apostoli (cfr. 2Cor 9,11-14) e dei Padri [cfr. S.
Clemente Romano, Lettera ai Corinti: Patres Apostolici, ed.
F.X. Funk, I, 64-144; S. Ignazio d'Antiochia, Lettere, l.c.,
172-252; S. Policarpo, Lettera ai Filippesi, I.c., 266-282]
mostrano legami strettissimi, fraterni, tra le Chiese, in una
piena comunione di fede nel rispetto delle specificità e
delle identità. La comune esperienza del martirio e la
meditazione degli atti dei martiri di ogni Chiesa, la
partecipazione alla dottrina di tanti santi maestri della
fede, in una profonda circolazione e condivisione, rafforzano
questo mirabile sentimento di unità [cfr. S. Ireneo, Contro
le eresie, I,10,2: SCh 264/2,158- 160]. Lo sviluppo di
differenti esperienze di vita ecclesiale non impediva che,
mediante reciproche relazioni, i cristiani potessero
continuare a provare la certezza di essere a casa propria in
qualsiasi Chiesa perché da tutte si levava, in mirabile
varietà di lingue e di modulazioni, la lode dell'unico Padre,
per Cristo, nello Spirito Santo; tutte erano adunate per
celebrare l'Eucaristia, cuore e modello per la comunità non
solo per quanto riguarda la spiritualità o la vita morale, ma
anche per la struttura stessa della Chiesa, nella varietà dei
ministeri e dei servizi sotto la presidenza del Vescovo,
successore degli Apostoli [cfr. Conc. Ecum. Vat. II, Cost.
dogm. sulla Chiesa Lumen Gentium, 26; Cost. sulla sacra
Liturgia, Sacrosanctum concilium, 41; Decr. sull'ecumenismo
Unitatis Redintegratio, 15]. I primi concili sono una
testimonianza eloquente di questa perdurante unità nella
diversità [cfr. Giovanni Paolo II, Lett. A Concilio
Constantinopolitano I (25 marzo 1981), 2: AAS 73 (1981), 515;
Lett. ap. Duodecimum saeculum (4 dicembre 1987), 2 e 4: AAS 80
(1988), 242.243-244].
Ed anche quando si
rafforzarono certe incomprensioni dogmatiche - amplificate
spesso sotto l'influsso di fattori politici e culturali - che
già portavano a dolorose conseguenze nei rapporti fra le
Chiese, rimase vivo lo sforzo di invocare e promuovere l'unità
della Chiesa. Nel primo intreccio del dialogo ecumenico lo
Spirito Santo ci ha consentito di rinsaldarci nella fede
comune, perfetta continuazione del kerygma apostolico, e di
questo rendiamo grazie a Dio con tutto il cuore [cfr. Giovanni
Paolo II, Omelia in S. Pietro, alla presenza di Demetrio I,
Arcivescovo di Costantinopoli e Patriarca Ecumenico (6
dicembre 1987), 3: AAS 80 (1988), 713-714]. E se lentamente,
già nei primi secoli dell'era cristiana, sono andate sorgendo
contrapposizioni all'interno del corpo della Chiesa, non
possiamo dimenticare che per tutto il primo millennio perdura,
nonostante difficoltà, l'unità fra Roma e Costantinopoli.
Abbiamo sempre meglio appreso che a lacerare il tessuto
dell'unità non è stato tanto un episodio storico o una
semplice questione di preminenza, ma un progressivo
estraneamento, sicché l'altrui diversità non è più
percepita come ricchezza comune, ma come incompatibilità.
Anche quando il secondo millennio conosce un indurimento nella
polemica e nella divisione, quanto più cresce l'ignoranza
reciproca e il pregiudizio, non cessano tuttavia incontri
costruttivi fra capi di Chiese desiderosi di intensificare i
rapporti e di favorire gli scambi, così come non viene meno
l'opera santa di uomini e donne che, riconoscendo nella
contrapposizione un grave peccato ed essendo innamorati
dell'unità e della carità, hanno tentato in molti modi di
promuovere, con la preghiera, con lo studio e la riflessione,
con l'incontro aperto e cordiale, la ricerca della comunione [cfr.
ad esempio Anselmo di Havelberg, Dialoghi: PL 188,1139-1248].
E tutta quest'opera meritoria a confluire nella riflessione
del Concilio Vaticano II e a trovare come un emblema nella
abrogazione delle reciproche scomuniche del 1054 voluta dal
Papa Paolo VI e dal Patriarca ecumenico Atenagora I [cfr.
Tomos Agapis, Vatican-Phanar (1958-1970), Rome-Istanbul, 1971,
pp.278-295].
19. Il cammino della carità
conosce nuovi momenti di difficoltà in seguito ai recenti
avvenimenti che hanno coinvolto l'Europa centrale e orientale.
Fratelli cristiani che insieme avevano subito la persecuzione
si guardano con sospetto e timore nel momento in cui si aprono
prospettive e speranze di maggiore libertà: non è questo un
nuovo, grave rischio di peccato che dobbiamo tutti, con ogni
forza, tentare di vincere, se vogliamo che popoli in ricerca
possano più agevolmente trovare il Dio dell'amore, anziché
essere nuovamente scandalizzati dalle nostre lacerazioni e
contrapposizioni? Quando, in occasione del Venerdì Santo
1994, Sua Santità il Patriarca di Costantinopoli Bartolomeo I
fece dono alla Chiesa di Roma della sua meditazione sulla «Via
della Croce», ho voluto ricordare questa comunione nella
recente esperienza del martirio: «Noi siamo uniti in questi
martiri fra Roma, la "Montagna delle Croci" e le
Isole Soloviesy e tanti altri campi di sterminio. Noi siamo
uniti sullo sfondo dei martiri non possiamo non essere uniti»
[Discorso dopo la Via Crucis del Venerdi Santo (1· aprile
1994): AAS 87 (1995), 87].
E dunque urgente che si
prenda coscienza di questa gravissima responsabilità: oggi
possiamo cooperare per l'annuncio del Regno o divenire fautori
di nuove divisioni. Il Signore apra i nostri cuori, converta
le nostre menti e ci ispiri passi concreti, coraggiosi, capaci
se necessario di forzare luoghi comuni, facili rassegnazioni o
posizioni di stallo. Se chi vuol essere primo è chiamato a
farsi servo di tutti, allora dal coraggio di questa carità si
vedrà crescere il primato dell'amore. Prego il Signore perché
ispiri prima di tutto a me stesso ed ai Vescovi della Chiesa
cattolica gesti concreti a testimonianza di questa interiore
certezza. Lo chiede la natura più profonda della Chiesa. Ogni
volta che celebriamo l'Eucaristia, sacramento della comunione,
noi troviamo nel Corpo e nel Sangue condiviso il sacramento e
l'appello alla nostra unità [cfr. Messale Romano, solennità
del Santissimo Corpo e Sangue di Cristo, orazione sopra le
offerte; ibidem, preghiera eucaristica III; S. Basilio,
Anafora alessandrina, ed. E. Renaudot, Liturgiarum Orientalium
Collectio, I, Francoforte, 1847, p.68]. Come potremo essere
pienamente credibili se ci presentiamo divisi davanti
all'Eucaristia, se non siamo capaci di vivere la
partecipazione allo stesso Signore che siamo chiamati ad
annunciare al mondo? Di fronte alla reciproca esclusione
dall'Eucaristia sentiamo la nostra povertà e l'esigenza di
porre ogni sforzo affinché venga il giorno nel quale
parteciperemo insieme dello stesso pane e del medesimo calice
[cfr. Paolo VI, Messaggio ai Mechitaristi (8 settembre 1977):
Insegnamenti 15 (1977), 812]. Allora l'Eucaristia tornerà ad
essere pienamente percepita come profezia del Regno e
riecheggeranno con piena verità queste parole tratte da una
antichissima preghiera eucaristica: «Come questo pane
spezzato era sparso sui colli e raccolto divenne una cosa
sola, così la tua Chiesa si raccolga dai confini della terra
nel tuo regno» [Didachè, IX,4; Patres Apostolici, ed. F.X.
Funk, I,22].
Esperienze di unità
20. Ricorrenze di
particolare significato ci incoraggiano a rivolgere il nostro
pensiero, con affetto e riverenza, alle Chiese orientali.
Anzitutto, come si è detto, il centenario della Lettera
apostolica «Orientalium Dignitas». Da allora ha avuto inizio
un cammino che ha portato, tra l'altro, nel 1917, alla
creazione della Congregazione per le Chiese Orientali [cfr.
Motu proprio Dei providentis (1· maggio 1917): AAS 9 (1917),
529-531] e all'istituzione del Pontificio Istituto Orientale [cfr.
Motu proprio Orientis Catholici (15 ottobre 1917), l.c., 531
-533] ad opera del Papa Benedetto XV. In seguito, il 5 giugno
1960, fu istituito da Giovanni XXIII il Segretariato per la
promozione dell'unità dei Cristiani [cfr. Motu proprio
Superno Dei nutu (5 giugno 1960), 9: AAS 52 (1960), 435-436].
In tempi recenti, il 18 ottobre 1990, ho promulgato il Codice
dei Canoni delle Chiese Orientali [cfr. Cost. ap. Sacri
canones (18 ottobre 1990): AAS 82 (1990), 1033-1044], perché
fosse salvaguardata e promossa la specificità del patrimonio
orientale.
Sono questi i segni di un
atteggiamento che la Chiesa di Roma ha sempre sentito parte
integrante del mandato affidato da Gesù Cristo all'apostolo
Pietro: confermare i fratelli nella fede e nell'unità (cfr.
Lc 22,32). I tentativi del passato avevano i loro limiti
derivanti dalla mentalità dei tempi e dalla stessa
comprensione delle verità sulla Chiesa. Ma vorrei qui
riaffermare che questo impegno porta nella sua radice la
convinzione che Pietro (cfr. Mt 16,17-19) intende porsi al
servizio di una Chiesa unità nella carità. «Il compito di
Pietro è di cercare costantemente le vie che servono al
mantenimento dell'unità. Egli, dunque, non deve creare
ostacoli, ma cercare delle vie. Il che non è affatto in
contraddizione con il compito assegnatogli da Cristo di
"confermare i fratelli nella fede" (cfr. Lc 22,32).
Inoltre, è significativo che Cristo abbia pronunciato queste
parole proprio quando l'apostolo stava per rinnegarlo. Era
come se il Maestro stesso avesse voluto dirgli:
"Ricordati che sei debole, che anche tu hai bisogno di
un'incessante conversione. Puoi confermare gli altri in quanto
hai coscienza della tua debolezza. Ti do come compito la verità,
la grande verità di Dio destinata alla salvezza dell'uomo, ma
questa verità non può essere predicata e realizzata in alcun
altro modo che amando". E necessario, sempre, "veritatem
facere in caritate" - far verità nella carità (cfr. Ef
4,15)» [Giovanni Paolo II, Varcare la soglia della speranza,
Milano 1994, p. 168]. Oggi sappiamo che l'unità può essere
realizzata dall'amore di Dio solo se le Chiese lo vorranno
insieme, nel pieno rispetto delle singole tradizioni e della
necessaria autonomia. Sappiamo che questo può compiersi solo
a partire dall'amore di Chiese che si sentono chiamate a
manifestare sempre maggiormente l'unica Chiesa di Cristo, nata
da un solo battesimo e da una sola eucarestia, e che vogliono
essere sorelle [cfr. Conc. Ecum. Vat. II, Decr.
sull'ecumenismo Unitatis Redintegratio, 14]. Come ebbi modo di
dire, «è una la Chiesa di Cristo; se ci sono divisioni si
devono superare, ma la Chiesa è una, la Chiesa di Cristo fra
l'Oriente e l'Occidente non può essere che una, una e unità»
[Visita al Pont. Istituto Orientale, 12 dicembre 1993].
Certo, allo sguardo
odierno appare che una vera unione era possibile solo nel
pieno rispetto dell'altrui dignità, senza ritenere che il
complesso degli usi e consuetudini della Chiesa latina fosse
più completo o più adatto a mostrare la pienezza della retta
dottrina; ed ancora che tale unione doveva essere preceduta da
una coscienza di comunione che permeasse tutta la Chiesa e non
si limitasse ad un accordo tra vertici. Oggi siamo coscienti -
e lo si è più volte riaffermato - che l'unità si realizzerà
come e quando il Signore vorrà, e che essa richiederà
l'apporto della sensibilità e la creatività dell'amore,
forse anche andando oltre le forme già storicamente
sperimentate [cfr. Conc. Ecum. Vat. II, Decr. sulle Chiese
Orientali Cattoliche Orientalium Ecclesiarum, 30].
21. Le Chiese orientali
entrate nella piena comunione con questa Chiesa di Roma
vollero essere una manifestazione di tale sollecitudine,
espressa secondo il grado di maturazione della coscienza
ecclesiale in quel tempo [cfr. Giovanni Paolo II, Messaggio
Magnum Baptismi donum (14 febbraio 1988), 4: AAS 80 (1988),
991-992]. Entrando nella comunione cattolica, esse non
intendevano affatto rinnegare la fedeltà alla loro
tradizione, che hanno testimoniato nei secoli con eroismo e
spesso a prezzo del sangue. E se talvolta, nei loro rapporti
con le Chiese ortodosse, si sono verificati malintesi e aperte
contrapposizioni, tutti sappiamo di dover invocare
incessantemente la divina misericordia e un cuore nuovo capace
di riconciliazione, oltre ogni torto subito o inflitto.
Più volte si è ribadito
che la già realizzata unione piena delle Chiese orientali
cattoliche con la Chiesa di Roma non deve comportare per esse
una diminuzione nella coscienza della propria autenticità ed
originalità [cfr. Conc. Ecum. Vat. II, Decr. sulle Chiese
Orientali Cattoliche Orientalium Ecclesiarum, 24]. Qualora ciò
fosse avvenuto, il Concilio Vaticano II le ha esortate a
riscoprire in pieno la loro identità, avendo esse «il
diritto e il dovere di reggersi secondo le proprie discipline
particolari, poiché si raccomandano per veneranda antichità,
sono più corrispondenti ai costumi dei loro fedeli e più
adatte a provvedere al bene delle loro anime» [Ibidem, 5].
Queste Chiese recano nella loro carne una drammatica
lacerazione perché è impedita ancora una totale comunione
con le Chiese orientali ortodosse, con le quali pur
condividono il patrimonio dei loro padri. Una costante e
comune conversione è indispensabile perché esse procedano
risolutamente e con slancio in vista della reciproca
comprensione. E conversione è richiesta anche alla Chiesa
latina, perché rispetti e valorizzi in pieno la dignità
degli Orientali ed accolga con gratitudine i tesori spirituali
di cui le Chiese orientali cattoliche sono portatrici a
vantaggio dell'intera comunione cattolica [cfr. Conc. Ecum.
Vat. II, Decr. sull'ecumenismo Unitatis Redintegratio, 17;
Giovanni Paolo II, Discorso al Concistoro Straordinario, 13
giugno 1994]; mostri concretamente, molto più che in passato,
quanto stimi e ammiri l'Oriente cristiano e quanto essenziale
consideri l'apporto di esso perché sia pienamente vissuta
l'universalità della Chiesa.
Incontrarsi,
conoscersi, lavorare insieme
22. Ho vivo il desiderio
che le parole che San Paolo rivolgeva dall'Oriente ai fedeli
della Chiesa di Roma risuonino oggi sulle labbra dei cristiani
d'Occidente riguardo ai loro fratelli delle Chiese orientali:
«Anzitutto rendo grazie al mio Dio per mezzo di Gesù Cristo
riguardo a tutti voi, perché la fama della vostra fede si
espande in tutto il mondo» (Rm 1,8). E subito appresso
l'Apostolo delle genti dichiarava con entusiasmo il suo
proposito: «Ho un vivo desiderio di vedervi per comunicarvi
qualche dono spirituale perché ne siate fortificati, o
meglio, per rinfrancarmi con voi e tra voi mediante la fede
che abbiamo in comune, voi e io» (Rm 1,11-12). Ecco dunque
delineata mirabilmente la dinamica dell'incontro: la
conoscenza dei tesori di fede altrui - che ho cercato appena
di tratteggiare - produce spontaneamente lo stimolo per un
nuovo e più intimo incontro tra fratelli, che sia di vero e
sincero scambio reciproco. E uno stimolo che lo Spirito
suscita costantemente nella Chiesa e che si fa più insistente
proprio nei momenti di maggiore difficoltà.
23. Sono peraltro ben
cosciente che in questo momento alcune tensioni tra la Chiesa
di Roma ed alcune Chiese d'Oriente rendono più difficile il
cammino della stima reciproca in vista della comunione. Più
volte questa Sede di Roma si è sforzata di emanare direttive
che favoriscano il cammino comune di tutte le Chiese in un
momento così importante per la vita del mondo, soprattutto
nell'Europa Orientale, dove eventi storici drammatici hanno
impedito spesso alle Chiese orientali, in tempi recenti, di
realizzare in pienezza il mandato dell'evangelizzazione che
pure sentivano impellente [cfr. Giovanni Paolo II, Lettera ai
Vescovi del Continente europeo (31 maggio 1991): AAS 84
(1992), 163-168; inoltre «Les principes généraux et normes
pratiques pour coordonner l'évangélisation et l'engagement
oecuménique de l'Église catholique en Russie et dans les
autres Pays de la C.E.I.» (pubblicati dalla Pontificia
Commissione Pro Russia il 1· giugno 1992)].
Situazioni di maggiore
libertà offrono loro oggi rinnovate opportunità anche se i
mezzi a loro disposizione sono limitati a causa delle
difficoltà dei Paesi ove operano. Desidero affermare con
forza che le comunità d'Occidente sono pronte a favorire in
tutto - e non poche già operano in tal senso -
l'intensificazione di questo ministero di diaconia, mettendo a
disposizione di tali Chiese l'esperienza acquisita in anni di
più libero esercizio della carità. Guai a noi se
l'abbondanza dell'uno fosse causa dell'umiliazione dell'altro
o di sterili e scandalose competizioni. Da parte loro le
comunità d'Occidente si faranno un dovere anzitutto di
condividere, ove possibile, progetti di servizio con i
fratelli delle Chiese d'Oriente o di contribuire alla
realizzazione di quanto esse intraprendono al servizio dei
loro popoli e comunque mai ostenteranno, nei territori di
presenza comune, un atteggiamento che possa apparire
irrispettoso dei faticosi sforzi che le Chiese d'Oriente
intendono compiere, con tanto maggior merito quanto più
precarie sono le loro disponibilità.
Esprimere gesti di comune
carità, l'una verso l'altra ed insieme verso gli uomini che
si trovano in necessità, apparirà come un atto di immediata
eloquenza. Evitare questo o addirittura testimoniare il
contrario indurrà quanti ci osservano a credere che ogni
impegno di riavvicinamento fra le Chiese nella carità è solo
enunciazione astratta, senza convinzione e senza concretezza.
Sento fondamentale il
richiamo del Signore ad operare in ogni modo perché tutti i
credenti in Cristo testimonino insieme la propria fede,
soprattutto nei territori dove più consistente è la
convivenza fra figli della Chiesa cattolica - latini e
orientali - e figli delle Chiese ortodosse. Dopo il comune
martirio patito per Cristo sotto l'oppressione dei regimi
atei, è giunto il momento di soffrire, se necessario, per non
venire mai meno alla testimonianza della carità tra
cristiani, perché se anche dessimo il nostro corpo per essere
bruciato, ma non avessimo la carità, a nulla servirebbe (cfr.
1Cor 13,3). Dovremo pregare intensamente perché il Signore
intenerisca le nostre menti e i nostri cuori e ci doni la
pazienza e la mitezza.
24. Credo che un modo
importante per crescere nella comprensione reciproca e
nell'unità consista proprio nel migliorare la nostra
conoscenza gli uni degli altri. I figli della Chiesa cattolica
già conoscono le vie che la Santa Sede ha indicato perché
essi possano raggiungere tale scopo: conoscere la liturgia
delle Chiese d'Oriente [cfr. Congregazione per L'Educazione
Cattolica, Istr. In ecclesiasticam futurorum (3 giugno 1979),
48: En Vat 6, p. 1080]; approfondire la conoscenza delle
tradizioni spirituali dei Padri e dei Dottori dell'Oriente
cristiano [cfr. Congregazione per l'Educazione Cattolica, Istr.
Inspectis dierum (10 novembre 1989): AAS 82 (1990), 607-636];
prendere esempio dalle Chiese d'Oriente per l'inculturazione
del messaggio del Vangelo; combattere le tensioni fra Latini e
Orientali e stimolare il dialogo fra Cattolici e Ortodossi,
formare in istituzioni specializzate per l'Oriente cristiano
teologi, liturgisti, storici e canonisti che possano
diffondere, a loro volta, la conoscenza delle Chiese
d'Oriente; offrire nei seminari e nelle facoltà teologiche un
insegnamento adeguato su tali materie, soprattutto per i
futuri sacerdoti [cfr. Congregazione per L'Educazione
Cattolica, Lett. circ. En
égard au développement (6 gennaio 1987), 9-14: L'Osservatore
Romano, 16 aprile 1987, p. 6]. Sono
indicazioni sempre molto valide, sulle quali intendo insistere
con particolare forza.
25. Oltre alla conoscenza,
sento molto importante la frequentazione reciproca. Al
riguardo, auspico che un'opera particolare esercitino i
monasteri, proprio per il ruolo tutto speciale che riveste la
vita monastica all'interno delle Chiese e per i molti punti
che uniscono l'esperienza monastica, e quindi la sensibilità
spirituale, in Oriente e in Occidente. Un'altra forma di
incontro è costituita dall'accoglienza di docenti e studenti
ortodossi presso le Università Pontificie ed altre
istituzioni accademiche cattoliche. Continueremo a fare il
possibile perché tale accoglienza possa assumere proporzioni
maggiori. Dio benedica inoltre la nascita e lo sviluppo di
luoghi destinati proprio all'ospitalità dei nostri fratelli
d'Oriente, anche in questa città di Roma, che custodisce la
memoria vivente e comune dei corifei degli Apostoli e di tanti
martiri.
E importante che le
iniziative d'incontro e di scambio coinvolgano nel modo e
nelle forme più ampie le comunità ecclesiali: sappiamo ad
esempio quanto positive possano risultare iniziative di
contatto tra parrocchie, come «gemellate» per un reciproco
arricchimento culturale e spirituale, anche nell'esercizio
della carità.
Giudico molto
positivamente le iniziative di pellegrinaggi comuni sui luoghi
dove la santità si è espressa in modo particolare, nel
ricordo di uomini e donne che in ogni tempo hanno arricchito
la Chiesa del sacrificio della propria vita. In questa
direzione sarebbe poi un atto di grande significato il
pervenire al riconoscimento comune della santità di quei
cristiani che negli ultimi decenni, in particolare nei paesi
dell'Est europeo, hanno versato il sangue per l'unica fede in
Cristo.
26. Un pensiero
particolare va poi ai territori della diaspora dove vivono, in
ambito a maggioranza latina, molti fedeli delle Chiese
orientali che hanno lasciato le loro terre d'origine. Questi
luoghi, dove più facile è il contatto sereno all'interno di
una società pluralistica, potrebbero essere l'ambiente ideale
per migliorare e intensificare la collaborazione fra le Chiese
nella formazione dei futuri sacerdoti, nei progetti pastorali
e caritativi, anche a vantaggio delle terre d'origine degli
Orientali.
Agli Ordinari latini di
quei Paesi raccomando in modo particolare lo studio attento,
la piena comprensione e la fedele applicazione dei principi
enunciati da questa Sede sulla collaborazione ecumenica [cfr.
Pont. Consiglio per la Promozione dell'Unità dei Cristiani,
Directoire pour l'application des principes et des normes sur
l'Oecumenisme, V: AAS 85 (1993), 1096-1119] e sulla cura
pastorale dei fedeli delle Chiese orientali cattoliche,
soprattutto quando costoro sono sprovvisti di una propria
Gerarchia.
Invito i Gerarchi e il
clero orientale cattolico a collaborare strettamente con gli
Ordinari latini per una pastorale efficace che non sia
frammentaria, soprattutto quando la loro giurisdizione si
estende su territori molto vasti ove l'assenza di
collaborazione significa, in effetti, l'isolamento. I Gerarchi
orientali cattolici non trascureranno alcun mezzo per favorire
un clima di fraternità, di stima sincera e reciproca, e di
collaborazione con i loro fratelli delle Chiese alle quali non
ci unisce ancora una comunione piena, in particolare verso
coloro che appartengono alla medesima tradizione ecclesiale.
Laddove in Occidente non
vi fossero sacerdoti orientali per assistere i fedeli delle
Chiese orientali cattoliche, gli Ordinari latini ed i loro
collaboratori operino perché cresca in quei fedeli la
coscienza e la conoscenza della propria tradizione, ed essi
siano chiamati a cooperare attivamente, con il loro apporto
specifico, alla crescita della comunità cristiana.
27. Con riferimento al
monachesimo, in considerazione della sua importanza nel
cristianesimo d'Oriente, desideriamo che esso rifiorisca nelle
Chiese orientali cattoliche e siano incoraggiati quanti si
sentono chiamati a operare per questo rafforzamento [cfr.
Messaggio del Sinodo Generale Ordinario dei Vescovi, VII: «Appello
alle Religiose e Religiosi delle Chiese Orientali» (27
ottobre 1994): L 'Osservatore Romano, 29 ottobre 1994, p.7].
Esiste infatti un intrinseco legame fra la preghiera
liturgica, la tradizione spirituale e la vita monastica in
Oriente. Proprio per questo, anche per loro una ripresa ben
formata e motivata della vita monastica potrebbe significare
una vera fioritura ecclesiale. Ne si dovrà pensare che ciò
diminuisca l'efficacia del ministero pastorale, che anzi uscirà
corroborata da una così robusta spiritualità e ritroverà in
tal modo la sua collocazione ideale. Tale auspicio riguarda
anche i territori della diaspora orientale, ove la presenza di
monasteri orientali darebbe maggiore solidità alle Chiese
orientali in quei Paesi, offrendo inoltre un prezioso apporto
alla vita religiosa dei cristiani d'Occidente.
Camminare insieme
verso l'«Orientale Lumen»
28. Nel concludere questa
Lettera il mio pensiero va ai diletti fratelli i Patriarchi, i
Vescovi, i Sacerdoti e i Diaconi, i Monaci e le Monache, gli
uomini e le donne delle Chiese d'Oriente.
Sulla soglia del terzo
millennio noi tutti sentiamo giungere alle nostre Sedi il
grido degli uomini, schiacciati dal peso di minacce gravi
eppure forse persino a loro insaputa, desiderosi di conoscere
la storia d'amore voluta da Dio. Quegli uomini sentono che un
raggio di luce, se accolto, può ancora disperdere le tenebre
dall'orizzonte della tenerezza del Padre.
Maria, «Madre dell'astro
che non tramonta» [Horologion, Inno Akathistos alla
Santissima Madre di Dio, Ikos 5], «aurora del mistico giorno»
[Ibidem], «oriente del Sole di gloria» [Horologion, Compieta
della domenica (1· tono) nella liturgia bizantina], ci addita
l'Orientale Lumen.
Da Oriente ogni giorno
torna a sorgere il sole della speranza, la luce che
restituisce al genere umano la sua esistenza. Da Oriente,
secondo una bella immagine, tornerà il nostro Salvatore (cfr.
Mt 24,27).
Gli uomini e le donne
d'Oriente sono per noi segno del Signore che torna. Noi non
possiamo dimenticarli, non solo perché li amiamo come
fratelli e sorelle, redenti dallo stesso Signore, ma anche
perché la nostalgia santa dei secoli vissuti nella piena
comunione della fede e della carità ci urge, ci grida i
nostri peccati, le nostre reciproche incomprensioni: noi
abbiamo privato il mondo di una testimonianza comune che,
forse avrebbe potuto evitare tanti drammi se non addirittura
cambiare il senso della storia.
Noi sentiamo con dolore di
non potere ancora partecipare alla medesima Eucaristia. Ora
che il millennio si chiude e il nostro sguardo è tutto
rivolto al Sole che sorge, li ritroviamo con gratitudine sul
percorso del nostro sguardo e del nostro cuore.
L'eco del Vangelo, parola
che non delude, continua a risuonare con forza, indebolita
solo dalla nostra separazione: Cristo grida, ma l'uomo stenta
a sentire la sua voce perché noi non riusciamo a trasmettere
parole unanimi. Ascoltiamo insieme l'invocazione degli uomini
che vogliono udire intera la Parola di Dio. Le parole
dell'Occidente hanno bisogno delle parole dell'Oriente perché
la Parola di Dio manifesti sempre meglio le sue insondabili
ricchezze. Le nostre parole si incontreranno per sempre nella
Gerusalemme del cielo, ma invochiamo e vogliamo che quell'incontro
sia anticipato nella Santa Chiesa che ancora cammina verso la
pienezza del Regno.
Voglia Dio far breve il
tempo e lo spazio. Presto, molto presto Cristo, l'Orientale
Lumen, ci conceda di scoprire che in realtà, nonostante tanti
secoli di lontananza, eravamo vicinissimi, perché insieme,
forse senza saperlo, camminavamo verso l'unico Signore, e
quindi gli uni verso gli altri.
L'uomo del terzo millennio
possa godere di questa scoperta, finalmente raggiunto da una
parola concorde e per questo pienamente credibile, proclamata
da fratelli che si amano e si ringraziano per le ricchezze che
reciprocamente si donano. E così noi ci presenteremo a Dio
con le mani pure della riconciliazione e gli uomini del mondo
avranno una solida ragione in più per credere e per sperare.
Con questi voti imparto a
tutti la mia Benedizione.
Dal Vaticano, il 2
maggio, memoria di S. Atanasio, Vescovo e Dottore della
Chiesa, dell'anno 1995, decimosettimo di Pontificato.
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