LETTERA
APOSTOLICA
SANCTORUM
ALTRIX
DEL SOMMO PONTEFICE
PAPA GIOVANNI PAOLO II
PER IL XV CENTENARIO
DELLA NASCITA DI S.BENEDETTO
PATRONO D'EUROPA, MESSAGGERO DI PACE
Ai diletti figli, Vittore
Dammertz, abate primate dell'ordine di san Benedetto; Giacomo del Rio,
maggiore della congregazione degli eremiti camaldolesi di Montecorona;
Paolo Anania, abate generale della congregazione mechitarista di
Venezia; Sigardo Klainer, abate generale dell'ordine cistercense;
Ambrogio Southey, abate generale dell'ordine dei cistercensi riformati
(trappisti) nel XV centenario della nascita di san Benedetto abate.
Diletti figli, salute e
apostolica benedizione.
Nutrice di santi, la madre Chiesa
presenta ai suoi figli, come maestri di vita, coloro che, con uno
splendido esercizio di virtù, hanno seguito fedelmente Cristo, suo
sposo, affinché imitando il loro esempio, possano pervenire ad una
perfetta unione con Dio, pur tra le varie vicissitudini terrene, e
raggiungere così il proprio fine. Quegli eccellenti uomini e donne,
sebbene sottomessi nel corso della loro vita terrena alle particolari
situazioni del loro tempo, specialmente culturali, tuttavia hanno
fatto risplendere, con il loro modo di vivere e con la loro dottrina,
un aspetto particolare del mistero di Cristo che, oltrepassando i
limiti angusti del tempo, ancora oggi conserva la sua forza e il suo
vigore.
Celebrandosi ora solennemente il
XV centenario della nascita di san Benedetto, si presenta l'occasione
di ascoltare di nuovo il suo messaggio spirituale e sociale.
1. In ogni religione vi sono
sempre stati coloro che, «sforzandosi di venire incontro in vari modi
alla inquietudine del cuore umano» («Nostra Aetate», 1), sono stati
attratti in modo singolare verso l'assoluto e l'eterno. Tra questi,
per quanto riguarda il cristianesimo, eccellono i monaci, che già nel
secolo III e IV avevano istituito in alcune zone dell'oriente una
propria forma di vita, protesi a realizzare per ispirazione divina,
dietro l'esempio di Cristo «dedito alla contemplazione sul monte» («Lumen
Gentium», 46), o una vita solitaria e nascosta, o la dedizione al
servizio di Dio in una convivenza di carità fraterna.
Dall'oriente, poi, la disciplina
monastica penetrò in tutta la Chiesa e alimentò il salutare
proposito di altri che, conservando le forme della vita religiosa,
imitavano il Salvatore, «che annunciava alle turbe il regno di Dio e
convertiva a vita migliore i peccatori»(«Lumen Gentium», 46).
In un momento in cui, a causa di
questo spirituale fermento, la Chiesa cresceva, e intanto la civiltà
romana, ormai decrepita, decadeva - poco prima infatti era crollato
l'impero d'occidente -, verso l'anno 480 nasceva a Norcia san
Benedetto.
«Benedetto, che era tale per
grazia di Dio e non solo per nome, ebbe addirittura dagli anni della
fanciullezza il senno di un anziano»; «desideroso di piacere
soltanto a Dio» (S.Gregorii Magni «Dialogorum lib. II», Prolog.: PL
66,126), si mise in ascolto del Signore, che cercava il suo operaio (cfr.
S.Benedicti «Regula», Prolog., 1.14), e vincendo, con la giuda del
Vangelo, le esitazioni dell'animo sorte all'inizio, «attraverso
difficoltà e asprezze» (S.Benedicti «Regula», 58,8) si incamminò
«per la via stretta che porta alla vita» (cfr. Mt 7,14).
Conducendo vita solitaria in
diversi luoghi, e purificandosi attraverso la prova della tentazione,
giunse ad aprire completamente il suo cuore a Dio. Spinto poi
dall'amore divino, radunò altri uomini, con i quali, come padre,
intraprese «la scuola del servizio del Signore» (S.Benedicti «Regula»,
Prolog., 45). Così, con l'uso sapiente degli «strumenti delle buone
opere» (cfr. S.Benedicti «Regula», 4), congiunto con il senso del
dovere, egli e i suoi discepoli costituirono una piccola città
cristiana, «dove finalmente - come disse Paolo VI, predecessore
nostro di recente memoria - regni l'amore l'obbedienza, l'innocenza,
la libertà dalle cose e l'arte di bene usarle, il primato dello
spirito, la pace, in uma parola il Vangelo» (cfr. Pauli VI «Allocutio
in Archicoenobio Casinensi habita», die 24 oct. 1964: «Insegnamenti
di Paolo VI», II [1964] 604).
Portando a compimento tutto ciò
che di buono vi era nella tradizione ecclesiale dell'oriente e
dell'occidente, il santo di Norcia si elevò alla considerazione
dell'uomo nella sua totalità, e inculcò la sua dignità irripetibile
come persona.
Quando egli moriva nell'anno 547,
già erano state gettate le solide fondamenta della disciplina
monastica, la quale, specialmente dopo i sinodi dell'epoca carolingia,
divenne il monachesimo occidentale. Questo, poi, attraverso le abazie
e le altre case benedettine, diffuse per ogni dove, costituì la
struura della nuova Europa, dell'Europa, diciamo, alle cui «popolazioni
sparse dal Mediterraneo alla Scandinavia, dall'Irlanda alle pianure
della Polonia, egli principalmente e i suoi figli portarono con la
croce, con il libro e con l'aratro, la civiltà cristiana» (cfr.
Pauli VI «Pacis Nuntius»: AAS 56 [1964] 965).
2. E' nostro intendimento oggi
richiamare alla vostra mente tre caratteristiche fondamentali della
vita benedettina: e cioè l'orazione, il lavoro, e l'esercizio paterno
dell'autorità. E' utile per noi considerare in un più ampio quadro
teologico ed umano questi tre elementi - in quanto emergono dalla vita
e dal magistero di Benedetto, e principalmente dalla sua Regola -, per
poterli comprendere più profondamente.
La Regola benedettina, stando alle
parole del suo santo Autore, vuol essere «una regola minima per
principianti»; ma in realtà è un compendio molto ricco del Vangelo,
tradotto in un genere di vita non comune. Infatti, avendo davanti agli
occhi l'uomo e la sua sorte associata alla redenzione, essa propone
alcuni principi di dottrina, ma specialmente una forma di vita. E
sebbene tale metodo di vita sia proposto ai monaci - e per di più a
monaci del secolo VI - tuttavia esso contiene e irradia ammaestramenti
che riguardano anche il nostro tempo, e giovano a tutti quelli che
sono rinati nel battesimo e cresciuti nella fede; a tutti coloro che
per «l'inerzia della disobbedienza» si sono allontanati da Dio, e
ora con l'obbedienza non sempre facile, della fede, si sforzano di
tornare a lui (cfr. S.Benedicti «Regula», Prolog., 2).
La vita benedettina appare nella
Chiesa soprattutto come un'ardentissima ricerca di Dio, dalla quale,
in qualche modo, è necessario che sia contraddistinto il corso della
vita di ogni cristiano che tende alle «più alte vette di dottrina e
di virtù» (S.Benedicti «Regula», 73,9; cfr. «Lumen Gentium», 9;
«Unitatis Redintegratio», 2), finché arrivi alla patria celeste.
Cammino che san Benedetto percorre con animo sollecito e commosso ed
osserva, mostrando i non pochi impedimenti che lo rendono arduo, e i
pericoli che sembra esso lo precludano e rendano vani tutti gli
sforzi: poiché l'uomo è è schiavo di smodate cupidigie per le quali
ora si gonfia di vana presunzione, ora è atterrito da uno sgomento
che strema le forze (cfr. S.Benedicti «Regula», Prolog., 48).
Ma questa «via di vita» (cfr.
S.Benedicti «Regula», Prolog., 20) può essere percorsa soltanto a
determinate condizioni: cioè nella misura in cui si ama Cristo con
cuore indiviso, e si conserva una genuina umiltà. Allora il
cristiano, cosciente della sua infermità e della sua indigenza, entra
con l'aiuto di Dio nella vita spirituale, si libera da ciò che lo
appesantisce, contempla più chiaramente la sua natura autentica come
persona, e nelle profondità più intime della sua anima, scopre Dio
presente. L'amore quindi e l'umiltà si fondono e muovono l'uomo a
discendere, per poi ascendere più in alto. La nostra vita infatti è
una scala «che per l'umiltà del cuoreviene dal Signore drizzata
verso il cielo» (S.Benedicti «Regula», 7,8).
Orbene, una considerazione
limitata all'aspetto esteriore della vita monastica può ingenerare
l'opinione che il genere di vita benedettina favorisca soltanto
l'utilità propria del monaco che la professa e lo induca a facile
noncuranza degli altri, alienando perciò il suo animo dal senso
sociale e dai problemi reali dell'umanità. Purtroppo, la vita
condotta nella clausura monastica con la consuetudine dell'orazione,
nella solitudine e nel silenzio, viene valutata in tal modo anche da
taluni che appartengono alla comunità ecclesiale.
In realtà, invece, quando il
monaco raccoglie il suo spirito, o, come disse san Gregorio di san
Benedetto da Norcia, abita con se stesso e attende diligentementea se
stesso attraverso la purificazione dell'ascesi penitenziale, fa questo
anche per liberarsi dalla schiavitù della «volontà propria». Ma
questa attenzione dello spirito che uno dirige verso se stesso è solo
una condizione del tutto necessaria perché il suo animo si apra con
più sincero anelito verso Dio e i fratelli. Sotto l'impulso di questa
concezione benedettina della vita avviene che i singoli monaci vivano
in comunità, e questa diventi una sede di accoglienza.
San Benedetto percorre questa via
maestra attraverso la quale, nell'ambito della famiglia monastica, si
va a Dio. Ora, la convivenza monastica - chiamata dallo stesso santo
ambito singolare nel quale i cuori di coloro che vi fanno parte si
dilatano nell'esercizio della reciproca obbedienza - è mossa e
stimolata da veemente amore del prossimo, per il quale ciascuno è
spinto a dedicarsi al bene del fratello trascurando il proprio
vantaggio.
Quando l'uomo giorno per giorno si
adopera perché l'esigenza insopprimibile del raccoglimento interiore
e della modestia, e la partecipazione alla vita, altrettanto
insopprimibile, vengano equamente contemperate, cresce in lui la
capacità di attuarsi come persona autentica, che ha relazioni con gli
altri, soprattutto con Dio, che è «l'assolutamente altro».
Tuttavia, in questo modo di
stimare gli uomini e le realtà sociali, che è proprio di san
Benedetto e di tutta la tradizione che proviene da lui, le relazioni
non sono circoscritte alla sola comunità monastica. La clausura
separa invero il monaco dal secolo, e deve costituire contro ogni
vuota dissipazione una specie di barriera che non è lecito
oltrepassare. Ma questa non divide e non separa dall'amore; anzi,
questa difesa quasi apre lo spazio necessario a una più ampia libertà,
dove il monaco - ed in certo qual modo ogni uomo sollecito della sua
«piccola clausura» - viva e cresca nell'amore; dove apra il suo
cuore ai fratelli che desiderano condividere tutto ciò che egli
sperimenta nella sua unione con Dio; dove felicemente avviene, che
come rilevò sagacemente Paolo VI, che la sua sede sia «sempre più
frequentata come casa di pace e di orazione, dove gli uomini ritrovino
se stessi e Dio dentro di loro» (Pauli VI «Epistula ad Ioannem
Carmelum Card. Heenan, Archiepiscopum Vestmonasteriensem: «Insegnamenti
di Paolo VI», XIII [1975] 615). In altre parole, vi si deve
costrituire «la scuola del servizio del Signore», cioè «la
scuola... della virtù e della contemplazione, che scaturisce
abbondantemente da chiare e solide spiegazioni del Vangelo, della
dottrina tradizionale, del magistero della Chiesa» (Pauli VI «Epistula
ad Ioannem Carmelum Card. Heenan, Archiepiscopum Vestmonasteriensem:
«Insegnamenti di Paolo VI», XIII [1975] 616); così che il monaco
necessariamente raggiunga tutti i singoli, superando con la preghiera
ogni confine di spazio e limite di tempo. Per tutte queste condizioni,
il monaco di san Benedetto risulta fratello universale,
evangelizzatore, messaggero di pace e di amore.
3. Al tempo di san Benedetto la
comunità ecclesiale e la società umana mostravano molte somiglianze
con le condizioni attuali della vita umana. Gli sconvolgimenti della
cosa pubblica e l'incertezza del futuro, a causa di guerre incobemti o
già in atto, arrecavano mali che gettavano gli animi nel turbamento e
nell'angoscia: fino al punto da ritenere la vita priva di ogni certo e
valido significato.
Intanto nell'ambito della Chiesa
era in atto un'ardua e diuturna controversia per la quale uomini
ardenti, investigavano, in modo piuttosto animoso i misteri di Dio,
specialmente l'imperscrutabile verità della divinità del Figlio e
della sua genuina umanità. Tutte queste cose risuonavano come un'eco
nelle parole degne di eterna memoria di Leone Magno, successore del
beato Pietro e Vescovo di Roma.
San Benedetto, considerando
attentamente questo stato di cose, chiese a Dio ed alla viva
tradizione della Chiesa la luce e la via da seguire. La risoluzione da
lui presa, pertanto, può essere considerata il paradigma del dovere
cristiano nelle vicissitudini del pellegrinaggio terreno, anche se non
offre a tutti un metodo di vita concretamente determinato.
Gesù Cristo è il centro vitale,
assolutamente necessario, a cui tutte relatà e gli eventi devono
essere riferiti, perché possano acquistare un senso e una solida
consistenza. Richiamandosi a un pensiero di san Cipriano Vescovo di
Cartagine, Benedetto con forza e gravità afferma che assolutamente «nulla
deve essere anteposto all'amore di Cristo» (cfr. S.Benedicti «Regula»,
4,21; 72,11).
Negli uomini infatti e nelle reltà
terrene vi è una forza ed una importanza in quanto sono connessi con
Cristo; in questa luce devono essere considerati e stimati. Tutti
coloro che si trovano nel monastero - dal superiore (che è il padre,
l'abate) all'ospite ignoto e povero, dall'infermo al più piccolo dei
fratelli - significano la viva presenza di Cristo. Anche i beni del
monastero sono segni dell'amore di Dio verso le creature, o dell'amore
che conduce l'uomo verso Dio; addirittura, gli strumenti e le
attrezzature per il lavoro «vengono considerati come vasi sacri
dell'altare» (cfr. S.Benedicti «Regula», 31,10).
San Benedetto non propone una
certa visione teologica astratta, ma partendo dalla verità delle
cose, come è solito fare, inculca fortemente negli animi un modo di
pensare e di agire, per il quale la teologia è trasferita nel vivere
quotidiano. A lui non sta tanto a cuore di parlare delle verità di
Cristo, quanto di vivere con piena verità il mistero di Cristo e il
«cristocentrismo» che ne deriva.
E' necessario che la priorità da
attribuire alla visione soprannaturale delle vicissitudini quotidiane,
concordi con la verità dell'incarnazione: non è lecito all'uomo
fedele a Dio dimenticarsi di ciò che è umano; egli deve essere
fedele anche all'uomo. Perciò il dovere che dobbiamo assolvere, come
si usa dire, in senso «verticale», e che si traduce nella vita di
preghiera, è rettamente ordinato quando si armonizza strettamente con
gli impegni che provengono dalla considerazione «orizzontale» della
realtà, il più importante dei quali è il lavoro.
Nella convivenza monastica,
quindi, sotto la guida di colui che «come si sa per fede, fa nel
monastero le veci di Cristo» (S.Benedicti «Regula», 63,13; cfr.
2,2), san Benedetto indica la via da percorrere, via che si distingue
per la grande discrezione ed equilibrio. Questa via, che associa
solitudine e convivenza, preghiera e lavoro, deve essere percorsa
anche da ogni uomo del nostro tempo - pur contemperando questi
elementi in modo diverso secondo le condizioni di ognuno - perché
possa attuare fedelmente la sua vocazione.
4. L'amore vero ed assoluto verso
Cristo si manifesta in modo significativo nell'orazione, che è come
il cardine intorno al quale ruotano la giornata del monaco e tutta la
vita benedettina.
Ma il fondamento dell'orazione,
secondo la dottrina di san Benedetto, è riposto nel fatto che l'uomo
ascolti la parola: perché il Verbo incarnato, qui, oggi, ai singoli
uomini, viventi nella presente non ripetibile condizione; lo fa
attraverso le Scritture e la mediazione ministeriale della Chiesa;
cosa che nel monastero si esercita anche attraverso le parole del
padre e dei fratelli della comunità.
In una tale obbedienza di fede, la
parola di Dio è accolta con umiltà e con gioia, che derivano dalla
sua perenne novità che il tempo non diminuisce, ma anzi rende più
vivida e di giorno in giorno più avvincente. La parola di Dio,
pertanto, diviene fonte inesausta di orazione, poiché «Dio medesimo
parla all'anima, suggerendole al tempo stesso la risposta che il suo
cuore attende. Sarà una preghiera diffusa nei vari momenti della
giornata e alimentante, come polla sotterranea, le attività
quotidiane» (cfr. Pauli VI «Allocutio ad Benedectinas Antistitas»,
die 29 sept. 1976: «Insegnamenti di Paolo VI», XIV [1976] 771).
Cos', attraverso la meditazione
pacata e saporosa - che è una vera ruminazione spirituale - la parola
di Dio eccita nell'animo di coloro che sono dediti all'orazione quegli
acuti bagliori di luce che illuminano tutto il corso della giornata.
Per dirla brevemente, questa è «l'orazione del cuore», quella «breve
e pura orazione» (cfr. S.Benedicti «Regula», 20,4), per mezzo della
quale rispondiamo agli impulsi divini, e insieme sollecitiamo il
Signore a largirci il dono inesauribile della sua misericordia.
L'anima dunque attende ogni giorno
con amore alla parola di Dio, e la investiga con fervido impegno;
tutto ciò attraverso un'applicazione vitale, futto non di scienza
umana ma di una sapienza che ha in sé qualcosa di divino; cioè non
«per sapere di più», ma, se così sipuò dire, per «essere di più»,
per colloquiare con Dio, per rivolgere a lui la sua stessa parola, per
pensare quello che egli stesso pensa, in una parola, per vivere la sua
stessa vita.
Il fedele, ascoltando la parola di
Dio, è portato a capire il corso delle vicende e dei tempi che il
Signore nella sua provvidenza ha disposto per l'umana famiglia, così
che all'anima credente viene offerta una più ampia visione del più
disegno divino di salvezza. In questa visione di fede giungiamo anche
a percepire le opere mirabili di Dio con occhi aperti e «con orecchie
attentissime» (cfr. S.Benedicti «Regula», Prolog., 9). La luce
divinizzante della contemplazione eccita la fiamma, e sia il silenzio,
congiunp con lo stupore, sia i canti di esultazione, sia l'alacre
azione di grazia, donano a quella orazione un'indole particolare,
mediante la quale i monaci celebrano cantando le lodi del Signore ogni
giorno. Allora la preghiera diventa quasi la voce dell'intera
creazione e in qualche modo anticipa l'eccelso canto della celeste
Gerusalemme. La parola di Dio in questo pellegrinaggio terreno, ci fa
sentire tutta la vita come aperta allo sguardo di colui che dall'alto
vede ogni cosa. Così la preghiera rivolta al Padre, dà voce a quelli
che ormai non hanno più voce; e in essa in qulache modo risuonano le
gioie e le ansie, gli esiti favorevoli e le speranze deluse, e
l'attesa di tempi migliori.
San Benedetto è condotto,
particolarmente nella sacra liturgia, da questa parola di Dio, non
certo per ottenere che la comunità divenga soltanto un'assemblea che
celebra con ardore i misteri divini, e nel canto corale esprima la
comune esperienza attinta dallo Spirito; a lui infatti sta soprattutto
a cuore che l'animo risponda più intimamente alla parola divina
proclamata e cantata, e che «il nostro spirito concordi con la nostra
voce» (S.Benedicti «Regula», 19,7). Le sacre scritture, conosciute
e gustate in questo modo vitale, vengono lette con diletto quando allo
stesso tempo ci si dedica intensamente all'orazione. Per impulso
dell'amore, l'animo spesso si raccoglie davanti a Dio; nulla è
anteposto all'opera di Dio (cfr. S.Benedicti «Regula», 4,55.56;
43,3); la preghiera fatta nella liturgia viene trasferita nella vita,
e la stessa vita diventa preghiera. L'orazione, appena terminata la
liturgia, quasi da quegli ampi spazi si riverbera in un ambito più
ristretto e si prolunga nel raccoglimento e nel silenzio interiore.
Così avviene che uno preghi per conto suo, e la preghiera continuata
pervada le azioni e i momenti della giornata.
San Benedetto, amante della parola
di Dio, la legge non solo nelle sacre scritture, ma anche in quel
grande libro che è la natura. L'uomo, contemplando la bellezza del
creato, si commuove nel più intimo del suo animo, ed è portato ad
elevare la sua mente a colui che ne è la fonte e l'origine; e allo
stesso tempo è condotto a comportarsi quasi con riverenza verso la
natura, a porne in luce le bellezze, rispettandone la verità.
«Dove spira il silenzio, ivi
parla la preghiera» (cfr. Pauli VI «Allocutio ad Benedectinos
monachos», die 8 sept. 1971: «Insegnamenti di Paolo VI«, IX [1971]
756): nella solitudine infatti la preghiera si intensifica per una
certa ricchezza personale; e questo vale tanto per quella valle
incolta dell'Aniene nella quale Benedetto visse solo con Dio solo,
quanto per la città sovrabbondante di prodotti della tecnica, ma
alienante per gli animi, dove l'uomo del nostro tempo spesso resta
emarginato, abbandonato a se stesso. E' necessario che lo spirito
sperimenti un certo deserto, per poter condurre una vera vita
spirituale; poiché questo preserva da parole vane, facilita un
rapporto nuovo con Dio, con gli uomini e con le cose. Nel silenzio del
deserto, le relazioni che la persona intrattiene con gli altri vengono
ricondotte a ciò che è essenziale e primario, e acquistano una certa
austerità; così il cuore si purifica, e si riscopre la pratica
dell'orazione quotidiana che dall'intimo del cuore si eleva Dio. Tale
preghiera non si perde in molte parole, ma si eleva «nella purezza
del cuore pieno di fervore e nella compunzione delle lacrime» (cfr.
S.Benedicti «Regula», 20,3; 52,4).
5. Il volto dell'uomo spesso è
rigato da lacrime, che, non sempre sgorgando da sincera compunzione o
da gioia sovrabbondante, col loro prorompere spingono l'animo a
pregare; spesso infatti le lacrime vengono sparse per dolore e
angoscia da coloro che vedono calpestata la propria umana dignità e
che non riescono a conseguire ciò a cui giustamente aspirano, né a
ottenere un lavoro adeguato alle loro necessità e alle loro capacità.
Anche san Benedetto viveva in una
società sconvolta da ingiustizie, nella quale la persona spessissimo
era tenuta in nessun conto o stimata solo come una cosa; in quel
contesto sociale strutturato in vari ordini, i diseredati venivano
emarginati e considerati di condizione servile, i poveri sprofondavano
in una miseria sempre maggiore, i possidenti si arricchivano sempre più.
Quell'uomo egregio, invece, volle che la comunità monastica poggiasse
sul fondamento dei precetti del Vangelo. Egli restituisce l'uomo alla
sua integrità, da qualsiasi ordine sociale provenga; provvede alle
necessità di tutti secondo le norme di una sapiente giustizia
distributiva; ai singoli assegna uffici complementari e tra loro
saggaimente coordinati; ha cura delle infermità degli uni, senza
indulgere in alcun modo alla pigrizia; dà spazio all'operosità degli
altri affinché non si sentano coartati, ma stimolati ad esercitare le
loro energie migliori. In tal modo egli toglie il pretesto anche alla
pur leggera, e alle volte giusta, mormorazione, creando le condizioni
per la pace.
L'uomo, nella visione di san
Benedetto, non può essere considerato una macchina anonima da
sfruttare con l'unico intento di trarne i massimi profitti, affermando
che l'operaio non merita alcuna considerazione morale e denegandogli
la giusta mercede. Si deve infatti ricordare che in quel tempo il
lavoro era fatto ordinariamente da schiavi ai quali non si riconosceva
la dignità di persone umane. Ma san Benedetto ritiene il lavoro, per
qualsiasi motivo esercitato, parte essenziale della vita, e obbliga ad
esso ciascun monaco per dovere di coscienza. Il lavoro, poi, dovrà
essere sostenuto «per motivo di obbedienza e di espiazione» (Pii XII
«Fulgens Radiatur»: AAS 39 [1947] 154), giacché il dolore e il
sudore sono inseparabili da qualsiasi sforzo veramente efficace.
Questa fatica, pertanto, ha una forza redentrice in quanto purifica
l'uomo dal peccato, e inoltre nobilita sia le realtà che sono oggetto
dell'operosità umana, sia lo stesso ambiente nel quale essa si
svolge.
San Benedetto, trascorrendo una
vita terrena, nella quale il lavoro e l'orazione sono convenientemente
contemperati, e così inserendo felicemente il lavoro in una
prospettiva soprannaturale della vita stessa, aiuta l'uomo a
riconoscersi cooperatore di Dio e a diventarlo veramente, mentre la
sua personalità, esprimendosi in una operosità creatrice, viene
promossa nella sua totalità. Così l'azione umana diventa
contemplativa e la contemplazione acquista una virtù dinamica che ha
una sua importanza e illumina le finalità che essa si propone.
Ciò non viene fatto soltanto
perché si eviti l'ozio che ottunde lo spirito, ma anche e soprattutto
per rendere l'uomo come persona cosciente dei suoi doveri e diligente,
capace di crescere e di perfezionarsi nel loro compimento: perché dal
profondo del suo animo si rivelino energie forse ancora sopite, il cui
esercizio possa contribuire al bene comune, «affinché in tutto sia
glorificato Dio» (1Pt 4,11).
Con ciò il lavoro non è
alleggerito dal grave dispendio di energie, ma ad esso viene aggiunto
un nuovo impulso interiore. Il monaco infatti, non malgrado il lavoro
che compie, ma anzi attraverso il lavoro stesso, si congiunge a Dio,
poiché «mentre lavora con le mani o con la mente, si dirige sempre
continuamente a Cristo» (cfr. Pii XII «Fulgens Radiatur»: AAS 39
[1947] 147).
E così accade che il lavoro,
anche se umile e poco apprezzato, tuttavia arricchito di una certa
qual dignità, viene intrapreso e diventa parte vitale «di quella
ricerca somma ed esclusiva di Dio nella solitudine e nel silenzio, nel
lavoro umile e povero, per dare alla vita il significato di una
orazione continuata, di un "sacrificium laudis", insieme
celebrato, insieme consumato, nel respiro di una gaudiosa e fraterna
carità» (cfr. Pauli VI «Allocutio ad Benedectinas Antistitas», die
28 oct. 1966: «Insegnamenti di Paolo VI», IV [1966] 514).
L'Europa è divenuta terra
cristiana, specialmente perché i figli di san Benedetto hanno
comunicato ai nostri antenati una istruzione che abbracciava tutto,
insegnando appunto loro non solo le arti e il lavoro manuale, ma
anche, specialmente, per infondendo in loro lo spirito evangelico,
necessario per proteggere i tesori spirituali della persona umana.
Il paganesimo, che in quel tempo
da folte schiere di monaci missionari è stato trasformato in
cristianesimo, torna oggi a propagarsi sempre più nel mondo
occidentale, ponendosi come causa ed effetto di quella perduta maniera
di considerare il lavoro e la sua dignità.
Se Cristo non dà alla azione
umana alto e perpetuo significato, colui che lavora diviene schiavo -
nelle forma portate dai nuovi tempi - della sfrenata produzione che
cerca solo il guadagno. Al contrario, san Benedetto afferma la
necessità impellente di dare al lavoro un carattere spirituale,
dilatando i confini dell'operosità umana, così che questa si
preservi dall'esasperato esercizio della tecnica produttiva, e dalla
cupidigia del privato guadagno.
6. Nella compagine sociale, che si
è instaurata nei nostri tempi, e che qua e là acquista l'aspetto di
una «società senza padri», il santo di Norcia aiuta a ricuperare
quella dimensione primaria - forse troppo trascurata da quelli che
hanno autorità - che chiamiamo dimensione paterna.
San Benedetto tra i suoi monaci fa
le veci di Cristo, ed essi obbediscono a lui come al Signore, con i
sentimenti che lo stesso Salvatore aveva per il Padre. A questa
obbedienza-ascolto, propria dei figli, che in questo modo
contribuiscono a configurare la figura del padre, risponde la
penetrante considerazionemente che san Benedetto ha per tutti i
monaci, avendo riguardo alla loro persona nella sua totalità. Questa
attenzione lo stimola a curare diligentemente tutte le necessità
della comunità.
Colui che esercita l'autorità,
pur non trascurando nulla di ciò che attiene all'ordinamento della
famiglia monastica, né gli affari materiali, ha cura soprattutto
della condizione spirituale di ciascuna persona, poiché questa deve
essere preferita a tutte le cose terrene e transitorie.
Nella considerazione di quegli
elementi che nella vita terrena sono spirituali e fondamentali,
l'abate è illuminato dal contatto che ha assiduamente con la parola
di Dio, dalla quale attinge tesori nuovi e vecchi. A questa parola di
Dio, il padre del monastero dovrà intimamente conformarsi, così che
la sua azione divenga quasi un fermento della giustizia divina che si
sparge nella mente dei figli.
Nelle deliberazioni da tenersi
nell'ambito della comunità, san Benedetto concede piena autorità
all'abate; la sua decisione non potrà essere impugnata. Questo non
deriva dal fatto che l'autorità sia quasi stimata una dominazione
assoluta, poiché il padre prende consiglio da tutti i fratelli, e da
alcuni di loro in privato, senza alcun pregiudizio, nella persuasione
che anche nelle cose di grande importanza «spesso il Signore svela
quello che è meglio al più giovane» (S.Benedicti «Regula», 3,3)).
Nel colloquio fraterno, l'abate
ascolta le richieste di coloro che interpella perché accettino un
particolare ufficio; ma per il bene del singolo e della comunità deve
essere fermo nell'ingiungere cose che alle volte potrebbero anche
sembrare impossibili; a lui dovrà stare soprattutto a cuore la
promozione dei singoli, perché si sviluppino meglio, e tutta la
comunità ne tragga incremento e vigore.
Il fine primario che deve
prefiggersi il padre della comunità dovrà essere di aiutare i
fratelli e guidarli con saggezza, in modo che appaia chiaramente che
il primato è dato all'amore. Il padre, perciò, «faccia prevalere
sempre la misericordia sulla giustizia» (S.Benedicti «Regula»,
64,10; cfr. Gc 2,13), e cerchi più di farsi amare che temere, sapendo
che egli «deve pittosto giovare che comandare» (cfr.S.Benedicti «Regula»,
64,14.8).
Consapevole che dovrà render
conto di tutti coloro che gli sono stati affidati, l'abate ama i
fratelli; con essi e per essi, svolgendo il compito di buon pastore,
fa ciò che è più utile al bene di tutti, ciò che più conviene e
quello che giudica essere più salutare. «L'abate deve infatti
preoccuparsi intensamente e adoperarsi con ogni premura, accortezza e
zelo, per non perdere nessuna delle pecorelle che gli sono state
affidate... E imiti l'esempio del buon pastore, che lasciò le
novantanove pecorelle sui monti e andò a cercare l'unica che si era
smarrita, provando tanta compassione per la sua debolezza, da degnarsi
di porsela sulle sue sacre spalle e di riportarla così all'ovile» (S.Benedicti
«Regula», 27,5.8-9). Il padre della comunità che deve guidare le
anime, sappia che in questo ministero pastorale deve adattarsi alla
diversa indole,di molti (cfr. S.Benedicti «Regula», 2,31); si
conformi e si adatti ai singoli, affinché ad essi possa dare l'aiuto
sicuro e preciso di cui hanno bisogno; sia paziente verso tutti, non
tollerando tuttavia i peccati dei trasgressori; abbia in odio la
prevaricazione, ma sia privo di risentimento e di zelo inopportuno e
diriga i figli con magnanimità.
Questo modo di guidare gli altri
con autorità, rivela un ulteriore aspetto dell'ufficio del superiore:
parliamo della discrezione, che è misura ed equilibrio nellle
deliberazioni e nelle decisioni, affinché non sorgano inutili
mormorazioni. I singoli pertanto, se obbediscono con umiltà, non solo
sono aiutati a oltrepassare i limiti angusti di ciò che ritengono
utile per loro in quel momento, ma si elevano ad una più ampia
visione del bene e della vita sociale, cooperando per dovere di
coscienza e così raggiungendo quella libertà interiore che è
necessaria perché ognuno arrivi alla maturità personale.
Le cose dette dell'abate che
adempie il suo dovere come sapiente amministratore della casa del
Signore, (cfr. S.Benedicti «Regula», 64,5; 72,3-8), sono il
fondamento di una somma pace. Pace che è riposta nel fatto che i
fratelli si accettino benevolmente e grandemente si stimino l'un
l'altro, malgrado gli inevitabili difetti, e ciò permetta un modo del
tutto proprio di espressione della persona di ognuno.
Questa è la pace che deriva dal
fatto che i singoli, umilmente e con la coscienza di un dovere, si
obbligano con il legame di una tale società umana, dove la legge
dello Spirito prevale sulla legge della materia, dove si instaura un
giusto ordine, dove tutte le cose sono convenientemente disposte per
l'incremento del regno di Dio.
San Benedetto quest'anno è venuto
in qualche modo di nuovo a farci visita, mostrandoci i modi di
condurre la vita umana che si richiamano da vicino alla dottrina del
Vangelo. Un simile progetto non può trovare il nostro spirito
indifferente e neghittoso. Specialmente i suoi figli, fedeli
all'esempio e alle istituzioni del padre, sono chiamati a raccolta,
per dare viva testimonianza di una così eccelsa, e allo stesso tempo
sicura e determinata forma di vita. Questa testimonianza muoverà
anche i meno edotti e i duri di cuore, nell'animo dei quali le parole
non hanno più risonanza.
Il rinnovamento che ne deriverà,
potrà fare in modo che il mondo acquisti un nuovo volto, più
spirituale, più sincero, più umano. Tuttavia, colui che detiene
l'autorità, in qualsiasi gruppo sociale, e di qualsiasi grado essa
sia, dovrà sempre più promuovere e manifestare il dono della
paternità, la quale è la sola che possa riuscire a tenere legati gli
uomini con vincolo fraterno. Solo nella pace, infatti, essi
edificheranno il mondo, e costituiranno la società nella quale,
pregando e lavorando, l'uomo divenga cooperatore e interlocutore del
Dio unico.
Giova anche ricordare, in questa
occasione, che da Paolo VI nostro predecessore, san Benedetto è stato
dichiarato patrono d'Europa, la quale è nata dopo la caduta
dell'impero romano, da quella faticosa gestazione acui hanno
partecipato anche i monaci, conservandone gli ordinamenti di vita.
Questa silenziosa, costante, sapiente opera degli stessi monaci ebbe
il merito di conservare e trasmettere il patrimonio della cultura
antica ai popoli europei e a tutto il genere umano. Così lo «spirito
benedettino», come già dicemmo il primo gennaio di quest'anno, «è
totalmente contrario allo spirito di distruzione» (cfr. Ioannis Pauli
PP. II «Homilia Calendis Ianuariis, in Patriarchali Basilica Vaticana
habita». «Insegnamenti di Giovanni Paolo II», III,1 [1980] 5-6); e
quindi questo «padre dell'Europa» (Pauli VI «Pacis Nuntius». AAS
56 [1964] 965) esorta tutti gli interessati apromuovere vigorosamente
i beni che nutrono e nobilitano le menti, e a tener lontano con ogni
forza tutto ciò che è distruzione e sovversione di questi stessi
beni.
San Benedetto, come «annunciatore
di pace» (Pii XII «Homilia die 18 sept. 1974 habita»: AAS 39 [1974]
453), parla particolarmente alle genti d'Europa, intenteal salutare
progetto di costruire una loro unità. Una convivenza pacifica, da
ricercare con tutte le forze, si deve fondare soprattutto sulla
giustizia, sulla libertà autentica, sul mutuo consentimento, sul
fraterno aiuto - cose tutte che sono conformi agli insegnamenti del
Vangelo.
Questo santo protegga e favorisca
quindi i popoli di questo continente e l'umanità intera; e con la sua
preghiera allontani le gravissime calamità che possono essere portate
da armi funestissome e sommamente distruttive.
Queste cose si agitano nel nostro
cuore, mentre ci rivolgiamo, con il pensiero e con la preghiera, a
questo eccelso uomo, romano ed europeo, gloria della Chiesa.
A voi infine, diletti figli, e
alle famiglie monastiche che sono in qualunque modo sotto la vostra
giurisdizione, di cuore impartiamo la nostra apostolica benedizione,
segno della nostra paterna benevolenza.
Dato a Roma, da San Pietro, il
giorno 11 del mese di luglio, nella festa di san Benedetto abate,
nell'anno 1980, secondo del nostro Pontificato.